Capitolo X.

Sulle tracce di Arrigo.#id___RefHeading___Toc6775_3524169435

Il secondo re di Gerusalemme, che fu Baldovino I, già principe di Edessa, non si trovava certamente, nell'estate del 1102, sopra un letto di rose.

Già dello stato di quel nuovo regno ho fatto un brevissimo cenno ai lettori, ed ora, per l'intelligenza dei casi che rimangono da raccontare, debbo rifarmi da capo.

Goffredo di Buglione, espugnata Gerusalemme e rotti gli Egiziani sulla pianura di Ramnula, aveva appeso alla parete del Santo Sepolcro la bandiera e la spada di Afdhal. I baroni che lo avevano seguito in Palestina, se ne tornavano la più parte alle castella d'Occidente. Tra essi i due Roberti, l'uno, duca di Normandia, l'altro, conte di Fiandra. Abbracciati per l'ultima volta i suoi compagni di fatiche e di gloria, il pio Goffredo li aveva accomiatati, non ritenendo con sè, per difendere la Palestina, che l'italiano Tancredi, con trecento uomini a cavallo e duemila fanti; in tutto tremila uomini o poco più, se si voglia considerare che ogni cavaliere armato in guerra aveva con sè quattro scudieri a cavallo, e questi cinque uomini si contavano per una lancia.

Il fratello Baldovino essendosi assicurato un picciolo regno in Edessa e Boemondo di Taranto un altro in Antiochia, Goffredo di Buglione aveva dovuto accettare la suprema autorità in Gerusalemme; ma non aveva già accettato le insegne e gli onori di re, ricusando, come dice la prefazione delle Assise di Gerusalemme, di porter corosne d'or là ou le roy des roys porta corosne d'épines, e contentandosi in quella vece del modesto titolo di barone e difensore del Santo Sepolcro.

Meno scrupoloso di lui si era addimostrato il Clero latino. Morto nell'ultima peste ad Antiochia il savio Ademaro, gli altri ecclesiastici erano saliti in orgoglio, usurpando le rendite e la giurisdizione del patriarca di Gerusalemme e accusando di scisma e d'eresia i Greci e i Cristiani d'Oriente; per modo che questi ultimi, Melchiti, Giacobiti, Nestoriani, i quali avevano adottato l'uso della lingua araba, oppressi dal ferreo giogo dei loro liberatori, si augurassero la tolleranza dei Califfi Fatimiti.

Damberto, arcivescovo di Pisa, condottiero d'una armata de' suoi concittadini in Sorìa, e molto addentro nei riposti disegni della Corte di Roma, era stato nominato senza contrasto capo temporale e spirituale della chiesa d'Oriente, e da lui Goffredo e Boemondo avevano ricevuto l'investitura dei nuovi possedimenti. Come se ciò non bastasse ancora, una quarta parte di Gerusalemme e d'Antiochia furono assegnate alla Chiesa. Il modesto prelato riserbò a sè ogni diritto casuale sul rimanente, ogni qual volta, o Goffredo morisse privo di figli, o la conquista del Cairo, o di Damasco, gli fruttasse un regno più grande.

Morto Goffredo nel 1100, gli succedette nel regno il fratel Baldovino, sotto cui si vennero espugnando le città della costa, e tra le prime Cesarea, il cui emiro, nostra conoscenza, accusavasi comunemente di aver propinato il veleno a Goffredo in un canestro di frutte, mandategli in dono. Se ciò fosse vero non saprei dirvi. L'emiro El Heddim è fuggito in Acco, ed ha portato il suo segreto con sè.

Ora, se a Baldovino I le armate di Genova, di Venezia e di Pisa, davano gli aiuti necessari per espugnare le città forti della spiaggia, il difetto di stabili milizie terrestri gli toglieva pur troppo di mantenere saldamente le fatte conquiste. Bene erano state trapiantate in Palestina le leggi e le costumanze feudali; ma i sostegni del feudalismo mancavano. Il numero dei vassalli obbligati al servizio militare, nelle tre grandi baronie di Galilea, di Sidone e di Giaffa, superava di poco i seicento cavalieri. Le chiese e le città somministravano intorno a cinquemila sergenti, o fantaccini che si voglia dire. In tutto, le forze militari del nuovo regno ascendevano a undicimila uomini; troppo povera cosa per difendere un reame ancora seminato di rocche in balìa degli emiri, e insidiato a settentrione e a mezzogiorno da Turchi e Saracini.

Si istituirono allora i cavalieri del Tempio e gli ospedalieri di San Giovanni, strana miscela di monachismo e di guerra, che l'ardore di religione fondò e che la ragione di Stato fu sollecita d'approvare. Arricchiti a breve andare per donazioni in gran copia (si conta che ottenessero fino a ventotto mila signorie), i cavalieri del Tempio ebbero modo di assoldare gran gente a piedi e a cavallo. Fu bene e fu male; bene perchè le difese di Palestina si accrebbero; male perchè la prosperità inorgoglì il sodalizio e lo trasse fuori di riga. Ma il bene e il male dei cavalieri del Tempio sono ugualmente fuori dalle ragioni e dai termini della mia storia modesta.

Come il re Baldovino accogliesse i Genovesi ho già detto, a proposito della seconda spedizione fatta da essi. Argomentate dunque come egli ricevesse la terza, nell'anno 1102 dalla fruttifera incarnazione. Constava essa di quaranta galee ed era comandata dai figliuoli dell'Embriaco; coi quali erano cavalieri genovesi in buon dato, parte già illustri per la prima impresa d'Antiochia e Gerusalemme e per la seconda di Assur e di Cesarea, parte nuovi all'appello della croce e infiammati dall'esempio degli altri. Tra i primi era il giovine Caffaro; tra i secondi un gentile scudiero, dai capegli biondi e dal volto angelico.

Che parea Gabriel che dicesse: ave.

Dopo avere preso terra a Giaffa, che era, come sapete, il porto più vicino a Gerusalemme e per conseguenza il suo vero scalo marittimo, i capi della spedizione, cioè a dire i due figli dell'Embriaco, Caffaro di Caschifellone e tutti i loro gentiluomini d'arrembata, si recarono alla città santa, con numeroso corteo, per ossequiare il re Baldovino, amico di Genova, e per sciogliere il voto al Santo Sepolcro.

Colà erano stati già preceduti dal grido delle opere loro. Imperocchè, dovete sapere che i nostri crociati della terza spedizione erano vogliosi di fare come i loro predecessori, e così di passata, rasentando la costa di Sorìa, dal porto di Laodicea verso Tiro, avevano espugnato due città, Accaron e Gibelletto, non senza grande effusione di sangue.

Baldovino andò co' suoi gentiluomini ad incontrare la nobile comitiva fino alla porta di Ebron, detta dagli Arabi Bab el Hallil, e, avuta la lettera dei consoli del comune di Genova, mostrò di farne gran conto.

— Mi è caro, — diss'egli, — che i Genovesi mi amino, e dimostrerò con certe prove quanto io sono ad essi riconoscente. Ho notato quanto valgano in guerra, e vedo ora che i figli non tralignano punto dai padri. La mia amicizia vi è assicurata, messeri; faccia il buon sire Iddio che io possa meritar sempre la vostra. —

Fatte queste nobili parole, l'accorto Baldovino volle i gentiluomini genovesi ospiti suoi nella reggia e usò loro ogni maniera di cortesie. Molto promise ai capi della spedizione, segnatamente se lo avessero aiutato ancora a sottomettere altre città della costa. Tortosa anzitutto gli stava a cuore, per la sua vicinanza ad Antiochia, poi Tripoli e Biblo, detta allora Gibello, da ultimo Tolemaide, e infine quanti scali marittimi erano ancora in balìa degli Emiri, dal golfo di Laiazza fino a quel di Larissa. Egli, in compenso di tanti servigi, avrebbe dato in perpetuo al comune di Genova una contrada nella santa città di Gerusalemme; ed una nello scalo di Giaffa, oltre la terza parte di tutte le entrate marittime dei porti di Assur, di Cesarea ed anco di Tolemaide, quando questa fosse presa dalle armi cristiane. E perchè Baldovino correva molto innanzi cogli ambiziosi disegni, prometteva anche la terza parte delle entrate marittime dell'Egitto, se mai gli accadesse di conquistare il Cairo (Babilonia, come dicevasi allora) mercè l'aiuto di Genova.

Del resto, entrando nella chiesa del Santo Sepolcro, il re Baldovino potè mostrare ai Genovesi qual fosse la sua gratitudine, e non di là da venire, additando loro il grand'arco dell'altar maggiore.

Caffaro di Caschifellone, il cavaliere letterato che ben conoscete, lesse la scritta latina che correva per tutta la curva dell'arco, segnata in lettere d'oro: «Præpotens Genuensium præsidium,» come a dire che la conquista del Santo Sepolcro non avesse più valida protezione che quella dei Genovesi.

Non è a dire come quella cortesia epigrafica piacesse ai figli di San Giorgio il valente. La lode consola, come quella che è un premio alle durate fatiche. Lo ha detto anche il poeta, mettendola di costa coll'amore di patria: Vincit amor patriæ, laudumque immensa cupido.

Baldovino, fatte le sue promesse al comune di Genova, volle mostrarsi liberale con tutti, e profferì partitamente ad ognuno l'opera sua.

— E voi, leggiadro scudiero? — diss'egli, volgendosi finalmente al biondo garzone che stava tutto umile in vista, a fianco di Ugo Embriaco. — Non posso io far nulla per voi?

— Sire, — rispose il giovine, vincendo a stento la sua commozione, — io vi chiederò una scorta per giungere fino al paese di Thaanach, che mi dicono essere a mezza via tra Gerusalemme e Tolemaide. A Cesarea, dove abbiamo toccato terra, mi hanno detto che in Thaanach si trova un ferito genovese.

— C'era diffatti, e voi me lo fate ricordare. Se non sapete il suo nome, potrò dirvelo io; è Arrigo da Carmandino, il valoroso Arrigo, il braccio destro di messere Guglielmo Embriaco.

— Sire, — disse il giovine, con voce da cui trapelava il turbamento dell'animo, — voi sapete....

— Lo so, e in modo abbastanza nuovo; — interruppe il re. — Me lo ha mandato a dire il fratello del soldano di Babilonia, mentre passava per la valle di Gerico, alle spalle del nostro piccolo reame. Egli stesso ha raccolto il vostro glorioso concittadino, gravemente ferito, entro le mura di Cesarea, e lo ha campato da morte. Ma che avete, mio bel giovane? Sareste per avventura un consanguineo di Arrigo?

— Sire, — entrò a dire sollecito Ugo Embriaco, che incominciava a pentirsi di aver consentito un travestimento, pericoloso anzi che no per una vezzosa fanciulla, — è appunto un consanguineo di Arrigo da Carmandino. Ma, di grazia, sire, se avete qualche nuova del nostro amico e compagno d'armi, che già piangevamo perduto, degnatevi di darcene ragguaglio, e aggiungerete un nuovo titolo alla nostra gratitudine. —

Baldovino raccontò allora tutto quello che aveva saputo dal messaggero dello Sciarif. E il suo racconto si accordava benissimo colle notizie che i suoi uditori avevano raccolte dal conte di Cesarea, il quale era stato informato, come potete argomentare, dal mercante giudeo. Senonchè, il conte, a cui poco importavano quei cenni, ne aveva ritenuto la minima parte; laddove il re Baldovino diceva assai più, e in parte chetava le angoscie, in parte le accresceva.

— Benedetto sia l'infedele che ha ceduto ad un sentimento di cavalleresca pietà — disse Caffaro di Caschifellone. — Potessimo almeno sapere il suo nome!

— Bar Ibn; — rispose il re; — Bar Ibn è il fratello del soldano di Babilonia.

— Bar Ibn! — ripetè un vecchio guerriero genovese, a cui quel nome non giungea nuovo. — Non sarebbe egli il Saracino che sotto le mura di Antiochia....

— Lui per l'appunto; — interruppe Baldovino, a cui tornava in mente la vecchia disfida; — e rimase debitore alla generosità di Arrigo della sua vita e della sua libertà.

— Sire, — ripigliò il biondo scudiero, riconducendo a' suoi principii il discorso, — mi concederete voi dunque la scorta?

— Questo io farò, messere, e di buon grado; — rispose Baldovino; — ma non già per Thaanach, nella valle di Jesrael, che Arrigo da Carmandino ha lasciata da parecchi mesi.

— Ah! — esclamò lo scudiero, che si sentiva venir meno.

— Coraggio! — bisbigliò Caffaro all'orecchio del giovane. — Il nostro amico è vivo e sano; è questo che importa, e a cui bisogna por mente.

— Pur troppo! — pensò Gandolfo del Moro, che, come potevate argomentare, era sempre il compagno inseparabile di messer Nicolao.

S'ha a dire per altro, a sua lode, che Gandolfo non avea più fatto cenno dell'amor suo, nè delle sue pretensioni alla mano della fanciulla degli Embriaci. Era tornato in Genova dalla impresa di Cesarea sperando che Arrigo fosse morto e che il tempo cancellasse l'immagine di lui nel cuore di Diana; ma la morte di Arrigo non si era potuta provare e il tempo non aveva saputo cancellar nulla. Che fare? Diana era stata in fil di vita; da ultimo aveva smarrita la ragione. Questo almeno pareva a lui, che non sapeva spiegarsi altrimenti gli atti e i propositi della bellissima tra le donne. Che dir poi di suo padre? Di suo padre che l'aveva secondata ne' suoi strani disegni? Che anche a lui avesse dato volta il cervello? Gandolfo del Moro non ci si raccapezzava, e già aveva rinunziato a cercarne l'intiero.

Però si era chiuso l'amor suo nel profondo dell'anima, lo aveva sigillato come la mistica fontana del Cantico de' Cantici. Che cosa avveniva là dentro dell'amor di Gandolfo? Si trasformava purificandosi, o si mutava in odio? L'una cosa e l'altra erano possibili del pari.

— Sì, Arrigo è vivo è sano; — proseguiva intanto il re Baldovino, che non poteva non udire le parole di Caffaro, altro amante senza speranza, ma di così nobil sentire che non lasciava dubitare un istante di lui. — Infatti, nel suo messaggio, che v'ho accennato poc'anzi, lo Sciarif mi aggiungeva com'egli andasse col suo prigioniero ed amico verso i confini d'Egitto.

— D'Egitto! — ripetè Ugo Embriaco, stupefatto. — E con quale intento?

— Questo non reputò necessario di dirmi; — rispose Baldovino; — ma questo ho potuto saper io, che debbo vigilare ogni giorno sulle cose del reame. La corona di Gerusalemme è grave a portare; — soggiunse il re, sospirando; — e Turchi da un lato ed Arabi dall'altro vogliono esser tenuti d'occhio senza posa. Ora sappiate, messeri, che Mostalì, il soldano di Babilonia, è morto da oltre un anno, lasciando erede un fanciullo. Bahr Ibn ebbe tardi l'annunzio di quella morte, lontano come era; ma certo, appena gli giunse la nuova, il suo primo pensiero dovette esser quello di tornare nel reame; donde lo teneva lontano la gelosia sospettosa del fratello, fomentata dalle calunnie del suo ambizioso visir. Almeno, è agevole di indovinarlo. E morto il fratello, poteva sperare Bahr Ibn che gli fosse più facile il ritorno? Io penso che no. Afdhal, che noi abbiamo sì fieramente colpito sul piano di Ramnula, è tuttavia potentissimo in Egitto. Del resto, — conchiuse Baldovino, — meglio così. Le discordie e le guerre loro dànno forza a noi, che coll'aiuto di nostro Signore muoveremo un giorno alla conquista di Babilonia. E nostro Signore mostrerà di volerci aiutare, se persuaderà ai nostri amici Genovesi di presentarsi colle loro navi invincibili alle foci del Nilo.

— Sire, io vi prego di credere che la cosa andrà in tutto secondo i vostri disegni; — rispose prontamente Ugo Embriaco. — Il Comune udrà la proposta e farà ogni poter suo per compiacervi. Ma torniamo, se non vi spiace, a Bahr Ibn. La sorte del nostro Arrigo sta grandemente a cuore a tutti noi, come al console Guglielmo Embriaco, mio padre.

— Ve lo credo facilmente. Troppo era amato il Carmandino da messere Guglielmo, il mio glorioso amico. Torniamo dunque allo Sciarif. I miei esploratori lo hanno seguitato fino alla metà del suo viaggio, che non fu trionfale, siccome egli sperava. Costeggiato sulla via destra il lago d'Asfalto, penetrò nella valle di Siddim, cercando di far gente tra quelle nomadi tribù del paese di Moab. Di là si volse a ponente, per le falde della montagna degli Amoriti, e da Sefat, ove rimase qualche tempo spiando il momento opportuno, mosse direttamente verso l'istmo egiziano. Ma Afdhal doveva essere informato delle sue mosse, e lo arrestò a Kattiè, disperdendo le sue bande raccogliticcie, prima che egli potesse, come aveva creduto, ottenere l'aiuto dell'emiro di Gaza. Se debbo credere alle ultime notizie dei nostri emissari, egli si aggira co' suoi fidi sul pianoro di Aroer, non disperando ancora d'impadronirsi di Gaza, che per amor suo si rivolterebbe all'Emiro, e volgendo sempre gli occhi bramosi all'Egitto, dove i partigiani non gli mancherebbero, ma dove manca in quella vece il coraggio di ribellarsi al dominio di Afdhal. Gli Egiziani son vili. Vi ricordate di Ramnula? Afdhal guidava contro di noi un esercito numeroso come quello di Sennacherib, di cui parlano le Sacre Carte. Ma, salvo i tremila Etiopi, che tennero saldo colle loro mazze di ferro, tutte quelle migliaia di cavalieri e di fantaccini si dileguarono al primo urto delle lancie cristiane. Fiacchi soldati e schiavi abbrutiti, non sanno voler fortemente; fanno voti per Bahr Ibn, e sopportano Afdhal.

— Sire, — domandò allora Gandolfo del Moro, — voi dicevate che lo Sciarif si trova ora....

— Nei dintorni di Aroer, a mezza strada fra il lago d'Asfalto e le mura di Gaza.

— E... — soggiunse timidamente Gandolfo, — a che distanza dalla costa?

— Quattro giornate, per un buon corridore.

— E come mai, così vicino al mare, il nostro Arrigo, non ha cercato di ritornarsene?

— Lo credete voi possibile? — disse Baldovino. — Gaza e Ascalona sono in balìa del nemico; e sebbene quegli Emiri si astengano gelosamente da ogni atto che possa dispiacere a noi, temendo da un giorno all'altro le nostre vendette, non credo che Arrigo da Carmandino possa fidarsi di costoro, per andare a chiedere ciò che essi del resto non potrebbero dargli, una nave per ritornarsene in patria. Ma questo, messeri, potrete far voi, che avete quaranta galere, armate di tutto punto.

— E lo faremo, per San Giorgio! — gridò Gandolfo del Moro.

Il biondo scudiero diede a Gandolfo del Moro un'occhiata, da cui trapelavano insieme diffidenza e stupore.

Gandolfo non vide quello sguardo; ma lo sentì, e fu pronto a soggiungere:

— Sì, Genovesi siamo anzi tutto, e il valore di Arrigo da Carmandino, è gloria della nostra terra. Quale de' suoi nemici, se pure egli potesse averne tra' suoi concittadini, non dimenticherebbe in questo giorno ogni privato rancore, non metterebbe volentieri a repentaglio la propria vita, e la propria libertà, per rivendicare la sua? Sire, voi dite saviamente che Arrigo deve esser libero, e che soltanto il modo gli manca, per ritornar sano e salvo tra' suoi. Bahr Ibn è un infedele, ma è principe e cavaliere, e non può avere dimenticato il debito di gratitudine che lo lega al nostro valoroso compagno d'armi. Resta che noi gli offriamo il modo di uscire dal deserto, andando in traccia di lui, per condurlo alla spiaggia del mare, o dentro i confini del vostro reame.

— Ben dite, messere; — rispose il re Baldovino.

— Orbene, — ripigliò Gandolfo del Moro, fermandosi all'ultima delle fatte proposte, — il pianoro di Aroer non è già troppo distante dai confini di Giudea?

— Essi giungono finora alle falde della montagna di Giuda; — disse di rimando Baldovino. — Bèrseba a ponente e Arad a levante sono le ultime terre del regno.

— Ottimamente, adunque! La vostra liberalità ci fornisce una scorta sicura per muovere di là in traccia del nostro concittadino?

Il re stette alquanto sovra pensiero, quasi meditasse il miglior modo di appagare i suoi ospiti ed alleati, ma veramente perchè studiava la forma più acconcia a togliere l'asprezza d'un rifiuto.

— Troppo numerosa vorrebbe essere la scorta, messeri; — diss'egli finalmente; — e forse basterebbero a mala pena i cavalieri della baronìa di Giaffa. Finora, il deserto di Giuda, che si stende da Tell Arad fino alle spelonche di Engaddi, è infestato da troppo frequenti scorrerie di Arabi ladroni, ed io non potrei consigliarvi nemmeno di avventurarvi con poca gente, mal pratica dei luoghi, oltre la valle di Ebron, nei dominii del nostro fedel barone Gerardo di Avennes.

— Lasciamo in disparte questo disegno; — rispose Gandolfo inchinandosi, con aria rassegnata; — messere Ugo Embriaco potrà muovere almeno coll'armata verso le acque di Gaza?

— Per far credere a quell'Emiro che noi vogliamo impadronirci della città, mentre poi troppo ci costerebbe il doverne custodire il possesso? — gridò Baldovino, a cui quest'altro disegno piaceva anche meno del primo. — Voi dimenticate, messer Gandolfo del Moro, che il nostro intento verso le contrade di mezzodì ha da essere quello di lasciare che i nostri nemici si indeboliscano da sè e non sospettino punto di noi; mentre invece dobbiamo volgere tutti i nostri sforzi a settentrione, dove la strada di Antiochia è meno sicura e dove abbiamo sempre negli occhi quel bruscolo molesto dell'isola di Arado, forte baluardo sul mare, che voi soli potrete ritogliere ai nemici di Cristo. —

Le ultime parole del re andavano più particolarmente rivolte ad Ugo Embriaco, il quale vi assentì con un cenno del capo. L'impresa di Arado, o Tortosa di Sorìa come diceasi in quel tempo, era già concertata tra i fratelli Embriaci e il re di Gerusalemme; nè Gandolfo del Moro poteva ignorarlo.

— E sia; — diss'egli, arrendendosi a quelle considerazioni di Baldovino; — ma poichè non dobbiamo neanche permettere che Arrigo da Carmandino, rimanga più oltre senza il conforto della patria, io stesso, io solo, se fa d'uopo, andrò in traccia di lui. Una galea, tolta al numeroso e forte naviglio di Genova, non farà troppo mancamento alla espugnazione di Tortosa, ed io ho fede che giungerà ancora in tempo per cogliere la sua parte d'allori. Una sola galea, nelle acque di Gaza — soggiunse egli poscia — non darà sospetto all'Emiro di quella terra, segnatamente se voi, sire, vi degnerete di darmi lettere vostre per lui, nelle quali sia chiaramente espresso l'intento del nostro viaggio.

— Questo è assai meglio; — rispose il re; — e sarà mia cura che possiate giungere, provveduto d'ogni più calda raccomandazione, all'Emiro di Gaza. Questi infedeli, non potendoci combattere validamente, ci si mostrano ossequiosi oltre ogni dire, e noi riceviamo spesso da loro donativi ed omaggi. Donde la necessità di rispondere alle loro cortesie, fino a tanto non si possa fare altrimenti. A questo proposito, messer Gandolfo, poichè io vi vedo così determinato all'impresa, vi pregherò di aiutarmi in certi maneggi, pei quali si conviene un più lungo discorso tra noi. Questa guerra tra il fatimita Bahr Ibn e il visir di Babilonia giova mirabilmente ai miei fini, non lo dimenticate.

— Intendo, sire; — disse di rimando Gandolfo; — io farò un viaggio e due servizi, sarò capo di una spedizione nel deserto di Cades e negoziatore tra i nuovi Amaleciti.

— Per l'appunto; — rispose Baldovino sorridendo, — e fate assegnamento sulla mia gratitudine, come io sulla vostra prudenza.

— Sire, farò di mostrarmi alla prova meritevole della vostra fiducia; — replicò Gandolfo, inchinandosi profondamente.

Così ebbe fine quella conversazione, che il biondo scudiero aveva ascoltata con molta ansietà.

Gandolfo del Moro, in tutto quel tempo, aveva con ogni studio evitato gli sguardi indagatori dello scudiero.

Poco stante, il re Baldovino accomiatava i suoi ospiti, lasciando libertà ad ognuno di andare dove più gli piacesse, e non trattenendo che Gandolfo del Moro, per dargli le sue istruzioni. E questi, che si sentiva di punto in bianco cresciuto tant'alto nella stima de' suoi compagni, si affrettò a seguire nelle sue stanze il re Baldovino.

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