Capitolo VI.

Che è tutto un miscuglio, come la minestra maritata di Anselmo.#id___RefHeading___Toc6759_3524169435

Fu venturoso il tragitto. Le galere genovesi giunsero alle patrie rive, e salutarono le tre torri del Castello la mattina del 24 dicembre 1099. Poco più sotto di quelle, sul culmine di un'altra torre, Arrigo da Carmandino, la mercè di quella seconda vista che aiuta gli amanti, scorse alcunchè di bianco, che gli fe' battere il cuore. Egli si rimaneva immobile, estatico, sul castello di poppa, cogli occhi intenti a quel bianco, allorchè sentì una mano posarsi dolcemente sulla sua spalla.

— Non pare anche a voi, Arrigo, che sia Diana, lassù? —

Così parlava Guglielmo; e Arrigo non gli rispose; ma si fe' rosso in volto come una brace, vedendo scoverto il segreto della sua contemplazione amorosa.

Il popolo salutò festante i reduci vincitori; il focolare domestico esultò di raccogliere a sè dintorno i suoi cari per la festa tradizionale di Ceppo. In molte case furono pianti e sospiri; ma la fede ha virtù di tergere le lagrime e di racconsolare i cuori, nella speranza d'un ricongiungimento che più non patisca offese dalla fortuna o dal tempo. E non erano martiri della fede, gli estinti? Non erano saliti al cielo colla palma del trionfo? Questo ed altro di somigliante disse il clero dai pergami, per modo che i superstiti si gloriarono dei caduti, e la città tutta quanta si rinfiammò ad altre imprese per l'anno vegnente.

Messere Guglielmo recava per l'appunto lettere di Goffredo Buglione e del patriarca Damberto ai consoli e al popolo tutto di Genova, nelle quali, narrata la espugnazione d'Antiochia e di Gerusalemme, era fatto invito ai Genovesi di accorrere in Terra Santa con più validi aiuti. Come fossero accolte dal popolo, argomenti il lettore, riconducendosi coll'animo a quei tempi e a quella novità d'imprese, in cui, tornaconto, religione e carità cittadina avevano la sua parte.

Nella assenza dei crociati, Genova s'era guasta colle discordie. Nobili di prosapia romana, uomini nuovi saliti a possanza consolare, altri venuti dal contado, quali investiti di feudi vescovili, quali di feudi imperiali, mal potevano durare in pace, ove un più grave negozio non fosse venuto a disviare le menti. Epperò, nel furiar delle parti, s'era dismesso il consolato; che era il terzo d'indole laica consentito alla città, poichè s'era liberata dalla intromissione del vescovo nelle cose civili. Amico Brusco, Moro di Piazzalunga, Guido di Rustico del Riso, Pagano della Volta, Ansaldo del Brasile, Bonomato del Molo, essendo usciti di carica, il comando era divenuto una res nullius, in preda ai più audaci, o ai più scaltri. Ma l'annunzio dei fortissimi fatti, scaldando tutti i cittadini di nobile entusiasmo, li ridusse prontamente a più fraterni consigli e i valentuomini sopradetti tornarono di buon grado in ufficio.

La nuova crociata fu bandita in città, senza mestieri di legati pontificii; nel giro di pochi dì, ottomila uomini, il fiore della gioventù genovese, pigliarono la croce, laonde fu mestieri allestire ventisette galere. Fu questo l'esercito, ma, poichè giungevano d'ogni parte pellegrini, desiderosi di accorrere in Terra Santa, alle galere si aggiunsero sei navi onerarie, le quali andassero di conserva con quella ragguardevole armata.

E non contenti di andare eglino stessi, i Genovesi spedirono le lettere gerosolimitane in volta per le città e castella di Lombardia, dove tutti gli animi si accesero di pari entusiasmo, e laici e chierici, il vescovo di Milano, il conte di Briandate, molti conti e marchesi e grand'oste con essi, andarono per la via di Costantinopoli, dove occorse loro ciò che vedremo più avanti.

In città fu un grande rimescolìo, un'ansia, un'ebbrezza universale, fino alle calende d'agosto del 1100. Sei mesi erano pur necessari a tanti apprestamenti di guerra; che anzi è da dire, l'operosità genovese, diventata proverbiale in processo di tempo, non aver mai fatto più cose in più breve spazio di tempo d'allora. Invero, tutti ardeano di fare, e tra i reduci dal conquisto di Gerusalemme e i rimasti a casa era una gara nobilissima di scriversi alla seconda impresa, e di aiutarla con ogni possa, perchè non patisse ritardo.

Chi si doleva di tanta furia era il povero Anselmo, costretto a rimaner tra le donnicciuole, a mondar nespole, siccome egli diceva, per cagione della ferita toccata sotto le mura d'Antiochia. Quella ferita, se i lettori rammentano, gli aveva lasciato un brutto sfregio dall'alto del fronte fino al basso della guancia, e in quella istessa maniera che gli dava ad ogni tratto molestia e gli impediva di tornare uomo valido in Soria, già fin da quella prima spedizione gli avea tolto di proseguire la guerra e di fare a Gerusalemme quel che aveva fatto ad Antiochia. Fin d'allora, curato e rappezzato alla meglio, egli era stato consigliato da messere Guglielmo, che molto lo amava, a tornarsene coi primo sandalo che salpasse dal porto di San Simeone alla volta di Genova; ma lui duro, incocciato a restare.

— Non mi volete uomo d'armi? — diceva. — Orbene, tenetemi come un servo, come un di quei cani senza nome, che seguono il campo, e un tantino più utile di quelle povere bestie, le quali non sanno far altro che leccar le scodelle ai vostri balestrieri, perchè io potrò almanco mutarmi in cuoco e dispensiere, ed ammannirvi quel po' di cibo, guadagnato con tanti disagi e stenti ogni giorno. —

Nè ci fu verso di smuoverlo; così volle, così rimase, consentendolo il suo gran capitano.

Ed era egli, il povero balestriere, che, dolorandogli il capo maledettamente per quello strappo non bene rammarginato ancora, si pigliava il carico della mensa frugale dell'Embriaco, in quei lunghi e fastidiosi giorni dello assedio di Sion. Bisognava vederlo, di costa alla tenda, con tutte quelle bende intorno alla fronte, che lo faceano parere da lunge un Saracino ribaldo, rattizzare il fuoco tra due grosse pietre innalzate a foggia e dignità di fornello, e invigilar lo schidione, e rimestare in un certo paiuolo fuligginoso i suoi orridi manicaretti, che agli affamati guerrieri avevano a parere le più ghiotte cose del mondo!

Ma spesso occorreva (tanto è vero che l'uomo si stucca, perfino dell'ottimo) che le dotte invenzioni d'Anselmo non ottenessero neanco una parola d'encomio e che i suoi dozzinanti si lasciassero andare a troppo fervide giaculatorie all'erbe, alle ortaglie, financo alla cicerbita e al terracrèpolo della memorata Liguria. Fu questa per giorni parecchi una spina al cuore del povero cuoco; ma come fare? dov'erano a trovarsi i camangiari, in quegli aridi campi della Terra Promessa?

Basta, l'uomo è per natura ingegnoso e la necessità suole aguzzare l'ingegno. Ora, Anselmo, a cui la necessità stringeva i fianchi, tanto si rigirò, tanto corse, che finalmente scovò il fatto suo. Dovunque fosse una pozza, un acquitrino, uno sgocciolo di rupe, anche a doverselo trovare con ore ed ore di cammino, il nostro balestriere correva, e raccattava erbucce d'ogni forma e sapore, le quali e' sceglieva con molta cura e saggiava, innanzi di metterle a mazzo. E un bel dì, tornati da sudare intorno a quelle torri di legno, che aveano a far breccia nelle mura dell'assediata città, i commensali di messere Guglielmo furono grandemente solleticati dalla vista e dalla fragranza d'un certo miscuglio a guazzo, che arieggiava la famosa minestra maritata, delizia dei figli di Giano, quando sono a casa, e loro eterno sospiro, quando il cieco caso, o la ferrea necessità, li tien lontani dalla cucina domestica.

Quella volta, le lodi al cuoco furono universali e solenni; il grido d'ammirazione e di giubilo poco mancò non si mutasse in Tedeum. E a chi dei lettori notasse i miei crociati di grossolani appetiti, risponderei che essi non erano da più, nè da meno degli eroi d'Omero, gente cavalleresca se altra fu mai, pratica dello Stige come del latte di Teti, o di Venere; uomini pei quali si scomodavano talvolta dai seggi celesti Iride messaggiera e Minerva pugnace, ma che pure amavano mangiare di tratto in tratto il loro quarto di bue, inaffiandolo con quattro o cinque sorsate di quello di Samo.

E pensate che anco il Buglione, il pro' Buglione, il pio Goffredo, non si sarà pasciuto neppur lui di rugiada! Io so, per esempio, che allorquando i commensali di messere Guglielmo già stavano seduti all'umile desco, e adoravano il grato fumo della minestra che venia scodellando Anselmo, il buon duca venne per caso a passare di là, e i nostri valorosi, con quella cortese entratura che è consentita dalla comunanza del vivere, lo trattennero e gli proffersero di partecipare al frugale banchetto.

Non poteva indugiarsi a lungo il duca, chè le necessità dell'alto ufficio lo chiamavano oltre; ma volendo pure usar cortesia a quel prode uomo dell'Embriaco, fe' sosta di pochi istanti, e dimandato di quella novità dei camangiari, e saputolo, si degnò di assaggiarne, soggiungendo nella sua lingua che la era una saporitissima cosa.

Argomentate l'allegrezza e in pari tempo la confusione del cuoco. Anch'egli volle dire la sua, in quella lingua che tutti, qual più, qual meno, masticavano allora nel campo crociato; ma non gli venne altro alle labbra se non questo: Le preux Bouillon!... le preux Bouillon!...

Hé bien, quoi d'étrange? — ripigliò il buon duca, percuotendo amorevolmente la spalla allo sfregiato balestriere. — Le preux Bouillon!... a tâtè de ta soupe, et, foi de chevalier, il la trouve excellente. —

Ciò detto, e tolto commiato da messere Guglielmo, inforcò prontamente l'arcione e via a galoppo, mentre Anselmo, che non capiva nella pelle, andava tuttavia ripetendo: le preux Bouillon! le preux Bouillon!

Dopo quel giorno, quando occorreva che i commensali dell'Embriaco volessero dal cuoco quel tale miscuglio innominato d'erbucce, non c'era che a dirgli: preux Bouillon! ed egli capiva senz'altro. Questa è, lettori, l'origine del preboggion, che io metto qui in vernacolo genovese, non essendoci nella lingua italiana il vocabolo corrispondente, a dinotare questa mala minestra di bietole, cappucci bislacchi, prezzemolo ed altri camangiari d'ogni generazione, mescolati col riso, ch'è un vero guazzabuglio; e ciò per l'appunto significa la parola preboggion, almeno in traslato.

Questa è l'origine, ho detto; ma badate, le mie parole non sono evangelio, e tutti, ahimè, siamo fallibili in questo povero mondo.

E adesso, dati gli spiccioli della prima spedizione dei Crociati genovesi, che già avevamo narrata in di grosso, ci asterremo dal raccontarvi la seconda, a cui si conviene altro storico, che non starà molto a giungere in scena.

Si aggiunga che il tempo stringe. Diana è già scesa dall'alto della torre, donde per la seconda volta ha veduto giungere a riva le galere della Croce; e Guglielmo Embriaco, questa volta vincitore di Cesarea, e senza aiuto d'altre braccia, all'infuori delle genovesi, scende a terra dinanzi alla porta di San Pietro, in capo al Mandracchio, tra gli evviva di tutto un popolo accalcato, sulla curva spiaggia, arrampicato su per le antenne delle navi, appollaiato sul ciglio delle mura.

L'ingresso in città volle il suo tempo. Egli non era agevole, con tutta quella ressa di popolo festante, condurre speditamente entro le mura ottomila uomini; chè tanti n'erano tornati incolumi da quella seconda impresa di Terra Santa. Messere Guglielmo, lasciata una parte dei marinai a custodia delle galere, pigliati con sè i maggiori e una scorta pei camelli, che doveano portare al vescovo la decima delle prede di guerra ed altri preziosi donativi alla chiesa e al comune, aveva dato licenza a tutti gli altri di sparpagliarsi a lor posta, e tornarsene ognuno alle case sue. Senonchè, nessuno aveva usato di quella liberalità del capitano, quantunque a tutti la famiglia premesse, e ognuno portasse con sè, spoglie opime della vittoria, due libbre di pepe e quarantotto soldi di pittavini (così detti perchè coniati nel Poitou, là dalle parti di Francia) che non erano una spregevol moneta, dacchè ogni soldo era d'oro e quarantotto di quei soldi facevano una libbra e due oncie di quel nobilissimo metallo.

Il bottino era stato lautissimo in Cesarea, come può rilevarsi dal conto di quelle ottomila parti, alle quali bisognerà aggiungere quelle dei comandanti, il quinto assegnato alle galere e la decima prelevata pel vescovo. Nè, se ottimi erano i pittavini, il pepe era da meno. Derrata preziosa oggidì, bene aveva ad essere preziosissima in quei tempi, chè essa era di tanto più rara, e la si mettea da pertutto, a conforto di più saldi palati che ora non siano in Europa.

A farla breve, i nostri crociati non avevano a lagnarsi della fortuna, e considerato il prezzo dell'oro in quel secolo, poteano anche consolarsi d'aver faticato un anno per la gloria. Nè quello era il tutto, dappoichè la presa di Cesarea ben altro aveva fruttato ai Genovesi; e ne faceva solenne testimonianza un camello, più gelosamente custodito degli altri, la cui soma, ravvolta in un drappo di Balsòra, dovea racchiudere alcun che di maraviglioso.

Ma di cotesta meraviglia lascieremo le primizie ai consoli e al vescovo Airaldo, i quali attendevano in pompa magna l'Embriaco; queglino alla porta Marina, insieme coi maggiorenti della città; questi, coi suoi diaconi, sotto il vestibolo della gran chiesa di San Lorenzo. La era una festa, una solennità, che mai la maggiore, nemmeno per l'arrivo delle ceneri del Battista, ottenute tre anni addietro, siccome ho raccontato. Epperò s'intenderà come i reduci soldati dell'Embriaco non avessero voluto saperne d'andarsene spartitamente alle case loro, e si fossero tenuti in ordinanza, per esser parte di quel trionfo massimo che Genova preparava ai suoi figli.

Ed era bello il vederli, abbronzati dal sole di Palestina, sfilare in lunghi drappelli rilucenti e sonanti dalla Porta Marina alla piazza che fu poscia dei Banchi, dinanzi all'antica chiesuola di San Pietro, in mezzo alla moltitudine che si accalcava plaudente sul loro passaggio, che irrompeva gridando da ogni via, che si affacciava dai veroni, che appariva dalle altane, che s'aggrappava ai comignoli dei tetti, pur di vedere, di salutare con un evviva i crociati genovesi. Viva San Giorgio! gridavano i soldati, rendendo al fortissimo barone, come lo si chiamava in quei tempi, l'onore delle loro vittorie; viva San Giorgio! e commossi dal plauso popolare, alzavano in aria, percuotevano l'una contro l'altra, le balestre, le lancie, le spade. Intanto le campane delle venti chiese di Genova (chè tante ne aveva allora edificate la pietà cittadina) suonavano confusamente a festa, ed era tutto uno scampanìo, un grido, un frastuono, in mezzo al quale non fu pur dato di udire la tromba del cintraco, che annunziava la presenza dei consoli sulla gradinata di San Pietro alla Porta.

Ma bene lo udì messere Guglielmo, che modesto in tanta gloria, e schermendosi come meglio poteva dalla ressa degli ammiratori, procedeva primo tra tutti, badando ad ogni cosa e ad ogni cosa provvedendo, giusta il debito di buon capitano. Giunto egli sulla piazza e veduti i consoli raunati sotto il vessillo del comune, corse loro incontro; essi del pari incontro a lui, chè non volevano esser vinti in cortesia, e tutti, l'un dopo l'altro, vollero stringerlo al seno e baciarlo su ambe le guancie, Amico Brusco, Mauro di Pizzalunga, Guido di Rustico del Riso, Pagano della Volta, Ansaldo del Brasile e Bonomato del Molo.

Indi, precedendo i consoli, e messere Guglielmo tra essi, la schiera s'inoltrò per la via dei Fabbri, donde, svoltata in Campetto, salì per la via degli Scudai, che metteva alla piazzetta di San Lorenzo. Fu colà un entusiasmo da non dirsi a parole; quei bravi artefici erano in visibilio; ritti sulle soglie delle loro botteghe, ammiravano quelle maglie, quelle targhe e quegli elmetti, opera loro, e applaudivano, e n'aveano ben donde. Di quelle armature che passavano dinanzi a loro, nessuna vedevasi sana; segno che il soldato avea fatto il debito suo, combattendo, e l'armatura del pari, poichè, con tutti quei danni, avea pur restituito incolume il suo possessore.

Qui raddoppiarono gli evviva a San Giorgio, che certo ebbe a sentirne il rimbombo dal cielo; e assai lungamente, imperocchè, per un'ora, se non forse di più, quelle grida echeggiarono. Nè poteva esser diverso, chè il corteggio era lungo oltremodo, non pure pel numero de' Crociati, ma eziandio delle loro salmerie e di quelle strane bestie gibbose che recavano la parte del bottino dovuta alla Chiesa. Gli ultimi erano tuttavia alla porta Marina, che già messere Guglielmo saliva la gradinata di San Lorenzo e sotto il vestibolo del tempio maggiore di Genova era accolto tra le braccia del vescovo Airaldo.

Qui sarebbe il caso di sciorinare un po' di erudizione ammuffita intorno alla prima fra le cattedrali italiane, che, sebbene non fosse ancora tanto ampia nè tanto vistosa come appare ai dì nostri, era già allora una cosa compiuta, coi suoi tre portali a sesto acuto, che sfondavano in mezzo a fasci di colonnette di marmi svariati, quali avvolte a spira, quali ritte a sembianza di pali, che salissero a sostenere un pergolato. Ma queste cose oramai le si leggono in tutte le guide, ed io me ne lavo le mani, da gran signore, nel catino di Cesarea, preziosissimo tra tutti i doni che Guglielmo Embriaco ha recato alla patria.

Vi ho detto per l'appunto di un certo cammello, la cui soma era coperta da un drappo di Balsòra. Il gran capitano aveva chiuso là dentro una scodella di smeraldo, trovata coll'altre ricchezze nel sacco di Cesarea, e creduta comunemente un avanzo del tesoro di Erode Ascalonita, quel tale che ordinò la memoranda strage degl'innocenti. Era voce che in quella scodella il Nazareno avesse mangiato l'agnello pasquale; la qual cosa, se vera, non si accorderebbe troppo col ritrovamento del prezioso cimelio in Cesarea e colla sua leggenda erodiana.

La vista di quella gemma smisurata fece inarcare le ciglia al buon vescovo, ai diaconi e ai consoli radunati sotto il vestibolo del tempio. Che si fa celia? Una meraviglia di smeraldo simile non si era mai veduta a Genova, nè altrove; e nessuno aveva presente il testo di Plinio, dove dice di smeraldi anco più grossi e più finamente lavorati, per toglier pregio a quel vaso, d'un bel verde trasparente, ottagono e largo almeno tre spanne. «Il quale nondimeno (è Monsignor Giustiniani che parla), se fosse quello dell'agnello pasquale di Cristo, la quale cosa io non nego nè affermo, ovvero che in esso da quell'evangelico Nicodemo fosse stato riposto al tempo della Passione il prezioso sangue del Salvator nostro, come pare, secondo alcuni, che si legga negli annali degli Inglesi, saria da preporre a tutti gli smeraldi etiam coadunati insieme, e a tutte l'altre gioie e tesori che mai si trovassero nel mondo.»

Ma basti di ciò. Il famoso smeraldo, rapito sul finire del secolo scorso dagli agenti dell'Impero francese, si ruppe in viaggio, e si dimostrò qual era veramente, un catino di vetro colorato. Ragione per cui i rapitori non fecero poi tante difficoltà a restituircelo.

La tarda scoperta non deve far ridere i nepoti irriverenti alle spalle di messere Guglielmo Embriaco e di tutti i suoi contemporanei, che credettero nella preziosità del sacro catino. Scemato il valore venale di questa reliquia, essa rimase (lo dirò coll'Alizeri) un meraviglioso esempio dell'antico magistero nella vetraria; e non iscade per nulla il pregio che gli è derivato dall'antichità e dalla storia.

— Richiama pure il tuo servo, o Signore, — esclamò il vescovo Airoldo, levando le palme al cielo, innanzi di abbracciare l'Embriaco, — perchè gli occhi miei hanno veduto il tuo nuovo trionfo.

— Padre mio, — rispose Guglielmo, — coll'aiuto di Dio i Genovesi compiranno altre laudabili imprese, e avranno mestieri perciò delle vostre benedizioni.

— Noi siamo impazienti, — soggiunse uno dei consoli, — di udire dalle vostre labbra, messere Guglielmo, il racconto della spedizione che ha fruttato tanta gloria e tante ricchezze alla patria.

— Non dalle mie, messer Pagano della Volta; — rispose l'Embriaco. — È qui tra i miei cavalieri un giovane, che sa molto di lettere, ed ha già scritto un cenno delle cose da noi operate; e voi dovete conoscerlo.

— Io? ditemi il suo nome, vi prego.

— Un vostro congiunto, nato da vostra sorella Giulia e da Rustico di Caschifellone. Caffaro, — proseguì messer Guglielmo, volgendosi alla brigata di gentiluomini che lo aveva seguito sotto il vestibolo, — mostrate a vostro zio, e agli altri onorandissimi consoli, che Genova avrà quind'innanzi uno storico delle sue gesta, e uscito dalle file dei suoi migliori soldati.

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