Capitolo VII.

La presentazione del primo annalista di Genova.#id___RefHeading___Toc6763_3524169435

Le parole di messer Guglielmo Embriaco fecero inventar rosso come una fravola il viso d'un giovane, a mala pena ventenne, che era nella sua comitiva. Consideriamolo un tratto, mentre gli occhi di tutti gli astanti sono rivolti su di lui.

Il giovane vestiva come tutti gli uomini d'arme del suo tempo: camicia di maglia d'acciaio, che scendeva fino al ginocchio, e cappuccio, anch'esso di maglia, arrovesciato sugli omeri, perchè non aveva elmo, ma in quella vece una semplice berretta d'ormesino rosso, donde uscivano in lucide anella i capegli biondi, incoronando un viso più allungato che tondeggiante, ma così fresco e gentile, che sarebbe parso di fanciulla, se le guancie e il labbro superiore, coi primi peli morbidi ond'erano ornati, non avessero fatto alla bella prima una testimonianza contraria. Del resto, lo si poteva credere un guerriero, che avesse vergogna di mostrarsi tale in mezzo a tante facce d'uomini prodi, abbronzate dal sole dei campi di battaglia e fatte ruvide dalla vita sul mare, alla spruzzaglia dei marosi e al fischio dei venti; perchè, come l'elmo era messo da banda, così anche la maglia si teneva nascosta sotto una tunica di lana bianca, ornata sul petto di una modesta croce vermiglia.

All'invito di messer Guglielmo, accolto da lui come fosse un comando, il giovane uscì fuori dal gruppo, andando alla volta dei consoli.

Pagano si mosse incontro a lui e lo baciò su ambedue le guance; indi, tenendolo stretto fra le sue braccia e guardandolo amorevolmente negli occhi, gli disse:

— Eccoti qui, ragazzo mio! Sei partito fanciullo e torni uomo. Sarà felice tua madre, quando ti vedrà salir l'erta di Caschifellone!

— Ah, non sono a Genova, i miei? — chiese il giovane, leggermente turbato dalle ultime parole di suo zio.

— No, sono in Polcevera. Il castellano ha gli obblighi del suo ufficio, che passano avanti a ogni cosa.

— È giusto; — disse il crociato. — Partirò dunque subito, se voi e messere Guglielmo me ne date licenza.

— Pare che ti rincresca; di' su! — gli susurrò nell'orecchio lo zio. — Avresti per avventura qualche bel viso di donna da rivedere?

— Zio!

— Eh, non ti far rosso, via! Che cosa ci sarebbe di male?

— Sì, ho per l'appunto da vedere... qualcheduno; — rispose il giovine tutto confuso.

— Qualcheduna, vorrai dire.

— E sia, qualcheduna, ma non per me. Ho una imbasciata da fare.

— Fàlla prima e poi corri da' tuoi.

— Poterlo! — mormorò il giovane. — Non conosco la donna a cui debbo parlare.

— Che cosa mi narri tu ora?

— Storia pretta, mio zio.

— A proposito di storia, non dimentichiamo che ci hai da leggere quella delle vostre prodezze in Terra Santa; — ripigliò Pagano della Volta, alzando la voce, poichè i suoi colleghi di consolato si erano avvicinati per stringere la mano al suo valoroso nipote.

— A voi dunque, messer Caffaro di Caschifellone; — disse il console Amico Brusco, uno dei sette figli di Guido Spinola e perciò fratello dell'Embriaco; — leggete il racconto delle imprese a cui avete partecipato. Il santissimo Airaldo ve ne prega, e i consoli tutti, per mia bocca, ugualmente.

— Qui? — balbettò il giovane, facendosi piccin piccino nella sua cotta di maglia.

— E perchè no? — disse un altro personaggio, grave all'aspetto, che era il diacono Sallustio, consigliere del vescovo. — Tutto quanto voi narrerete, messer Caffaro, è gloria della croce, ed è ragione che si ascolti nella casa di Dio. —

Un mormorio di approvazione accolse le parole del vecchio Sallustio. La cosa non dee recare meraviglia ai lettori, se ricorderanno che il duomo di San Lorenzo, essendo una cosa medesima col Comune, era appunto il luogo da ciò. Diventato secolare il governo, i consoli, tuttochè non fossero più gli scabini del vescovo, in ossequio alla sua venerata autorità usavano amministrare la giustizia e tenere i parlamenti sotto il vestibolo del tempio.

Colà, all'ombra della graticola di marmo, su cui era raffigurato il martire Lorenzo, si facevano adunque i decreti consolari, si ricevevano gli atti di cittadinanza e di vassallaggio di principi e popoli, si davano le investiture, si manomettevano i servi, si pubblicavano le leggi a suon di tromba dal cintraco, si deliberavano le imprese, si bandivano le guerre, si conchiudevano le paci, si stringevano le alleanze, si celebravano le vittorie.

Aggiungerò che il Duomo di San Lorenzo era compreso in ogni trattato, che i feudatarii e i vassalli giuravano fedeltà ed obbedienza ad esso, e che in ogni disposizione testamentaria dovevasi rammentar la sua fabbrica. Fu insomma il monumento più glorioso del nuovo Comune, ordinato sugli avanzi della curia romana e della barbarie feudale, e durò a lungo come il palladio della libertà genovese. Le sue case contigue e le sue torri, se occupate, davano il dominio di tutto lo Stato agli occupatori; e i Ghibellini più d'una volta minacciarono d'appiccarvi il fuoco. Ma forse prevalse la reverenza ad un miracolo dell'arte italiana, prevalse quel culto della forma, che s'infiltra a poco a poco negli animi più rozzi, nec sinit esse feros.

Il giovane Caffaro, così caldamente pregato dai maggiorenti della città, pose mano al suo cartolaro; e alla presenza del vescovo, dei consoli e dei capitani, lesse la sua narrazione, semplice, disadorna, ma veritiera e scevra di tutte quelle esagerazioni che la pedissequa cura degli esemplari antichi doveva ficcare nel latino di quattro secoli dopo.

È questo un dirvi chiaro che il racconto del giovine gentiluomo era dettato in quella lingua, giusta il costume d'allora. E perchè riesca chiara anche la narrazione dei fatti, io vi compendierò lo scritto in volgare, avvertendo che questa, se Dio vuole, sarà l'ultima indigestione di storia che farete per colpa mia.

Si torna indietro fino al capitolo sesto, dove ho già detto delle ventisette galere partite nel 1100 per la seconda spedizione di Terra Santa, con sei navi cariche di pellegrini d'ogni nazione. Giunti nel porto di Laodicea, città della Siria e soggetta ad Alessio imperatore di Costantinopoli, vi si trattennero per tutta la seguente invernata. Morto era il pio Buglione di peste, nel mese di giugno, non essendo vissuto che un anno nell'amministrazione del regno di Gerusalemme. Ed essendo ridotto in ischiavitù Boemondo, figlio a Roberto Guiscardo, duca di Puglia, que' paesi, conquistati con tanta fatica ai Saracini, erano abbandonati in balìa di sè stessi. Li ebbero in tutela i Genovesi, che si può dire capitassero davvero in buon punto; e d'accordo col vescovo Maurizio, legato del Papa, mandarono a Baldovino, fratello dell'estinto Goffredo e a Tancredi, cugino di Boemondo, perchè assumessero, quegli, la corona di Gerusalemme, questi il principato di Antiochia. Consentì Baldovino, a patto che i Genovesi lo aiutassero. E così avvenne che, cavalcando alla volta di Sion, incontrati tremila Saracini, nel distretto di Bairut, li ruppe e procedette senz'altro contrasto fino a Gerusalemme.

Arrideva la fortuna ai Genovesi. Nella quaresima dello stesso anno 1101 partivano essi di Laodicea, colle galere, le navi e tutto l'esercito, costeggiando le città marittime infino a Caiffa, anticamente denominata Porfiria, che era de' Cristiani. Colà, per un violento fortunale, tirarono le galere in terra; il che tolse loro di potersi misurare, come avrebbero voluto, coll'armata del Soldano d'Egitto, forte di quaranta vele, che, sbattuta dal vento impetuoso, passò davanti alla costa, andando fino al porto di Ascalona.

Messer Guglielmo Embriaco rammentava ancora il primo incontro avuto cogli Egiziani, e volendo ricattarsi della perdita di due galere, che ho già raccontato ai lettori, fece quella medesima notte prendere il mare ad una parte dei suoi legni, per dar caccia al nemico. Ma fu tanta la rabbia del mare, che, giunti alle viste dei Saracini e già disposti a far arme in coperta, ne furono separati senz'altra speranza, e l'armata nemica ebbe campo a salvarsi.

— Sarà per un'altra volta! — disse l'Embriaco. E celebrata nelle acque di Porfiria la festa della domenica delle Palme, navigò verso Joppe; nella quale città gli venne incontro il re Baldovino colle bandiere spiegate e salutò l'armata e l'esercito con alto suono di trombe.

Colà, tirate in secco le navi, si sbarcarono i cavalieri e le ciurme. Baldovino volle i suoi Genovesi a Gerusalemme, dove entrarono, per la seconda volta il mercoledì santo, e dove, poi ch'ebbero digiunato tutto il giorno e la notte sopra il sabato, si recarono a visitare il Santo Sepolcro, aspettando che dal cielo, come era fama, si facesse scorgere in quel dì il lume di Cristo; fuoco miracoloso «disceso visibilmente dal cielo, il quale si vedeva accendere tutte le lampade che sogliono stare appese intorno al sepolcro.»

Ma per tutto quel giorno, nè la notte appresso, il santo lume non si mostrò, quantunque tutti lo dimandassero con lagrime, sospiri e Kirie eleison a perdita di fiato. Il patriarca Damberto, già vescovo di Pisa, li esortò allora a recarsi tutti nel tempio di Salomone, imperocchè Dio aveva promesso di consentire ogni dono a chi lo supplicasse con mondo cuore sull'ingresso del tempio. Andarono, a piedi scalzi, divotamente pregando, visitarono il tempio, chiedendo l'aspettato miracolo, a conforto della pietosa curiosità, indi ritornarono al Santo Sepolcro. L'accenditore era pronto e i nostri buoni antenati ebbero la grazia. Il vescovo Maurizio e il patriarca Damberto furono i primi, come era giusto, a veder scendere il lume in due lampade, che sogliono stare nell'ultima camera del Santo Sepolcro. «E diffusa la voce per la città, poichè la maggior parte erano andati a desinare, subito ognuno corse al tempio del Santo Sepolcro, e in quella meridiana luce furono vedute essere accese le sedici lampade che erano di fuori intorno al Santo Sepolcro, l'una dopo l'altra; e si vedevano a modo d'un fumo affogato ed ardente, che veniva dal cielo, ed ascendeva per l'acqua e per l'olio insino allo stoppino della lampada, e facevalo scintillare tre volte, e restava il lucignolo acceso.»

Non sono io che racconto; è Caffaro giovinetto e pieno di fede.

Dopo ciò, andarono i Genovesi alla visita dei santi luoghi. Videro il Giordano e tornarono a Joppe; con Baldovino deliberarono la espugnazione di Tiro (Assur, dicevano allora), e la condussero a buon fine in tre giorni. Poscia, nel mese di maggio andarono le galere coll'esercito all'assedio di Cesarea, detta anticamente Torre di Stratone, poi Cesarea, in onore di Cesare Augusto, da Erode che la riedificò, in ultimo Flavia da Vespasiano, che la fece colonia romana. Tirati i legni alla riva, i Genovesi occuparono di primo impeto il paese e stettero accampati nei giardini e negli orti insino alle mura della città. Intanto, colla usata diligenza, si diedero a fabbricare castella di legname ed altre macchine, per condurre innanzi l'assedio.

Impensieriti da quella vista, i Saracini mandarono due messaggieri, con parole di pace.

— La vostra legge, o Cristiani, non proibisce ella di uccidere uomini fatti a somiglianza di Dio, e di pigliare la roba d'altri? E nondimeno, voi, che siete maestri e dottori della legge cristiana, comandate alle vostre genti di uccider noi e di usurpare la roba nostra! —

Così cavillavano i Saracini. Ma udite come rispondesse di trionfo il patriarca.

— Noi non vogliamo già usurpare l'altrui, ma ricuperare la terra che fu dell'apostolo San Pietro e che appartiene a noi, come suoi vicarii e successori. Per quanto è dell'uccidere, Dio vuole che sia fatta vendetta, col coltello e colla spada, di chi fa contro alla sua legge. Lo ha detto il profeta: «A me si appartiene la vendetta, ed io sarò il pagatore; a me si appartiene far piaga e sanarla, e non è chi possa campare dalle mie mani.» E perciò brevemente vi diciamo che abbiate a restituire la città, e sarannovi salvate le persone e le robe; se no, Iddio vi ferirà col suo coltello, e sarete morti giustamente. —

Recata questa intimazione in città, si riconobbe che con simili avvocati non c'era a far altro. Il Cadì, capo civile della terra, avrebbe voluto arrendersi, per salvare le robe. Ma per contro, l'Emiro, che era il comandante militare, gridò che innanzi di render la terra voleva si provassero le spade dei suoi uomini con quelle dei Genovesi, sperando egli di far partire questi ultimi dall'assedio, e con loro grande vergogna. E prevalse, com'era naturale, il consiglio dell'Emiro.

Udita questa risoluzione, che gli parve arrogante oltre ogni credere, il patriarca arringò l'esercito.

— «Venerdì prossimo, che è il giorno della Passione, la mattina per tempo, dopo che ciascuno di voi avrà comunicato e ricevuto il corpo e il sangue del Signore, senza castella e senza macchina alcuna, con le sole scale delle galere, salirete sulle mura; e se avrete fede che, non per virtù vostra, ma per grazia di Dio dobbiate aver vittoria della città, io vi annunzio e profetizzo che, prima dell'ora di sesta, Dio onnipotente darà in vostra mano la città, gli uomini, le ricchezze ed ogni altra cosa che essa contiene.» —

Parlava l'entusiasmo, non l'arte, e molto meno il senno militare. Ma per allora non era il caso di aver contraria opinione. Guglielmo Embriaco, pensandoci su quel tanto che può correre dal lampo al tuono, accettò l'invito del Pisano, ma a patto di essere il primo a tentare l'impresa, forse per non assistere allo sbaraglio de' suoi, se falliva. Il vescovo aveva a mala pena finito di parlare, che egli secondò con infiammate esortazioni l'audace proposito, facendo giurare l'esercito che lo avrebbe immantinente seguito all'assalto.

— Con voi, capitano, alla morte e alla gloria! — gridò Arrigo da Carmandino, a cui fecero eco tutti i suoi generosi compagni.

— Orbene, andate alle galere, spiccate le scale di fuori banda e venite. Nessun invito ha da essere tenuto più prontamente di questo, che ci ha fatto il patriarca Damberto. —

Corsero le ciurme; tolsero le scale dai bandinetti, e via di corsa, a braccia tese, fino a' piè delle mura, circondati da numeroso stuolo di cavalieri. Guglielmo Embriaco, Testa di maglio, era il primo di tutti. Armato di corazza, di lancia e di spada, pose il piede sulla prima scala che fu accostata al muro, e si inerpicò veloce di piuolo in piuolo, senza pure munirsi di scudo, contro le frecce, i sassi e la rena infuocata, che gli avventavano sopra i nemici. L'elmo di ferro, e più la fortuna, schermì l'animoso condottiero, che giunse ad afferrare la merlata, mentre la scala, non potendo sostenere il gran numero di coloro che seguivano, si rompeva, facendo cadere quei volenterosi nel fosso.

— Sire Iddio! — gridò il Carmandino, rizzandosi a stento sulle ginocchia. — L'ho detto io, che si saliva in troppi!

— Vi siete fatto male, Arrigo? — chiese una voce accanto a lui.

— Chi siete? Ah, il giovine Caffaro! Bravo, eravate dei primi anche voi? Non è nulla, vedete; un po' di stordimento e nient'altro. Animo, su, a quell'altra scala! Purchè giungiamo in tempo, e non accada disgrazia al capitano, che deve esser rimasto solo lassù. —

Era proprio mestieri che volassero al soccorso. Trovatosi solo ed incolume sul parapetto, Guglielmo Embriaco pregò Iddio che si degnasse di aiutarlo; siccome era uomo da poter fare due cose ad un tempo, menò attorno la lancia, atterrando i primi che gli capitarono sotto. Una torre sorgeva lì presso, e l'Embriaco vi corse a riparo. Ma appunto allora ne usciva un Saracino, che gli si avvinghiò al petto, tentando, se gli veniva fatto, di soverchiarlo. Era una bisogna difficile assai, e alle prime strette che diede l'Embriaco per svincolarsi da lui, il Saracino ebbe a domandargli mercè. Gittata la lancia, inutile in quel frangente, messere Guglielmo aveva afferrato il nemico per un braccio, e così forte, che a quell'altro parve di esser còlto da una tanaglia di ferro.

— Signore, te ne prego; — gridò egli allora con accento compassionevole; — lasciami andare e sarà meglio per te.

— In che modo? — chiese l'Embriaco, che non coglieva il senso di quella esortazione.

— Perchè i miei compagni verranno a liberarmi, o a vendicarmi: — rispose il Saracino; — e tu non farai in tempo ad entrar nella torre.

— Ragioni diritto! — esclamò Guglielmo. — Va dunque, e trova un altro che ti perdoni la vita, come io te la perdono. —

Così dicendo, lentò la stretta, sicchè il nemico potè sfuggirgli di mano. E corse, non dubitate, come se avesse le ali alla calcagna, e temesse lì per lì un mutamento di proposito.

L'Embriaco già pensava a tutt'altro. La torre non era alta ed egli poteva sperare di giungere in pochi istanti alla sommità, donde avrebbe potuto vedere più largo spazio di mura. Incontanente vi entrò, salì in furia i due piani che mettevano alla piattaforma, e assicuratosi che nessuno dei difensori aveva ancora potuto seguirlo lassù, si fece al ballatoio, per guardare dalla parte del fosso, come volgessero le sorti della battaglia.

Poco lunge di là si combatteva aspramente. Un manipolo di cavalieri aveva afferrato il ciglio delle mura e vi si teneva saldo, quantunque i Saracini facessero ogni sforzo per ricacciarlo indietro. Messer Guglielmo intese allora perchè lo avessero lasciato libero lui, occupati com'erano a respingere i nuovi e più numerosi assalitori.

— Su, Genova, su! in nome di san Giorgio! — gridò egli allora, levando la spada e facendola balenare davanti agli occhi de' suoi, che avevano appoggiate le altre scale alla muraglia. — La città è nostra!

— Guglielmo Testa di maglio! Testa di maglio è padrone delle mura! — gridarono mille voci dal basso. — Animo, alla scalata! —

E infiammati così dalle loro stesse parole come dalla vista del capo, fecero impeto su per una ventina di scale ad un tempo. Tutte quelle file d'uomini, erette e minacciose come i serpenti di Tenedo sulla spiaggia di Troia, strisciarono lungo le mura, le involsero sotto un tessuto di lucide scaglie, che erano le loro targhe scintillanti al sole, ed afferrata la cima, si riversarono dentro, quasi senza combattere. Fu male che la città avesse una doppia cinta di mura, perchè pochi ardirono di resistere laggiù, parendo a tutti più facile di custodire utilmente un cerchio più stretto. Così ragionava la prudenza negli uni, la paura negli altri.

Con quello sforzo simultaneo da molte parti, i Genovesi penetrarono in Cesarea, ma senza giungere in tempo per entrare nella seconda cinta, alle spalle dei difensori. Le vie strette e tortuose avevano impedito ai valorosi di raccapezzarsi alla lesta e di inseguire in numero sufficiente il nemico. Bene tentarono l'impresa i primi arrivati, ma senza pro, e la scortese saracinesca si chiuse con grande frastuono davanti agli audaci, mentre solo alcuni di loro, che si potrebbero chiamare i temerarii, erano riusciti ad entrare, proprio alle calcagna dei fuggenti.

Caffaro rimase nel numero degli audaci, fuor della cinta, ai piedi della saracinesca, che era stata calata in quel punto. La fortuna lo aveva assistito; eppure egli si dolse amaramente di non esser giunto prima, perchè tra gli animosi che lo precedevano, e che avevano pagata così caramente la gloria d'essere andati avanti a tutti gli altri, c'era l'amico suo, il suo compagno di scalata, Arrigo da Carmandino.

Povero Arrigo! Certo egli presentiva una disgrazia, quel giorno; poichè nel salir sulle mura, mentre erano a poca distanza dalla merlata, rivolgendosi a Caffaro, che gli si stringeva al fianco, mettendo il piede sui piuolo abbandonato da lui, gli aveva detto:

Amico, ve ne prego, se io muoio, dite a madonna Diana che ho pensato a lei nell'ultim'ora, e che l'anima mia, con licenza di nostro Signore, a cui mi raccomando, andrà a dirle tutto l'amore ch'io le ho portato vivendo. —

E Caffaro gli aveva risposto:

— Amico mio, che pensieri son questi? Per l'onor vostro e di Genova, come pel trionfo della croce, vivrete.

— E sia; accetto l'augurio; ma voi dovete promettermi...

— Tutto quel che vi piace io prometto; — interruppe Caffaro.

— Grazie; — ripigliò il Carmandino, respirando. — Ed ora, torniamo uomini! —

Il resto è noto. Pochi momenti dopo erano giunti sulle mura e avevano fatto prodigi di valore. L'Embriaco, calato dalla torre, donde aveva chiamato la sua gente all'assalto, si fece sollecito a collegarli, a mano a mano che balzavano dentro, per piantarsi saldamente sul baluardo conquistato. Frattanto Arrigo da Carmandino, trascorrendo animoso ad inseguire i fuggenti, era stato côlto, come ho detto, entro la seconda cinta di mura.

Quando lo seppe Gandolfo del Moro, sempre fido seguace di messer Nicolao e suo consigliere malaugurato, il cuore gli diede un balzo per allegrezza.

— Ah, fosse morto! — pensò. — Di solito, questi cani infedeli non perdonano la vita ai prigioni. Madonna Diana, o ch'io m'inganno a partito, o questa le vendica tutte, e messere Arrigo il bello avrà finito di vogarmi sul remo. —

Guglielmo Embriaco udì dalle labbra del giovine Caffaro la mala sorte del suo prode aiutante, ma non ebbe tempo a rammaricarsene. Già, io porto opinione che gli uomini d'allora piangessero poco, e lo argomento da ciò, che molte altre cose non facevano essi, per le quali noi siamo venuti a mano a mano in così fastidiosa eccellenza; verbigrazia il parlare. Per contro, operavano molto; laonde, se la retorica ci ha perso, la storia ci ha guadagnato un tanto. Ne siano ringraziati gli Dei.

Desideroso più che mai di operare, l'Embriaco andava girando con occhio scrutatore intorno alla seconda cinta di mura, donde gli apparivano i nemici preparati ad una resistenza feroce. Già un primo tentativo di scalata era stato respinto, tra perchè gli assalitori erano in pochi e perchè messer Guglielmo non c'era, ad incuorarli colla voce, ad infiammarli coll'esempio. Anche i Saracini respiravano più liberamente, quando non avevano davanti agli occhi quel capitano dalla fulva capigliatura e dallo sguardo leonino, che essi ravvisavano così facilmente, anche da lunge, alle membra poderose e al corto mantello bianco, segnato dalla croce vermiglia che gli svolazzava a guisa di clamide romana sulla corazza di ferro.

Così correndo intorno alle mura, il valoroso Testa di maglio aveva veduto il fatto suo, e imbattutosi in Ugo suo figlio, mentre Caffaro gli veniva raccontando il triste caso di Arrigo da Carmandino, mostrò di non avere inutilmente speso il suo tempo.

— Non temete! — diss'egli, conchiudendo il suo dialogo col giovine Caffaro. — Se non l'hanno ucciso, vedremo di liberarlo, e ben presto. Guardate là, verso tramontana, come vanno salendo le mura? La collina non è alta, nè ripida l'ascesa; voi, del resto, con una cinquantina di uomini risoluti che condurrete da quella parte là, non dovete subito andar sotto al muro, ma girare alle falde dell'eminenza, fino a tanto non avrete veduto una macchia d'olivi, donde meglio coperti giungere al colmo. Lassù, proprio accanto al muro, è una vecchia palma, i cui rami pendono a dirittura sul parapetto; e voi, senza che vi dica altro, figliuoli miei....

— Non dubitate, messer Guglielmo; — interruppe Caffaro di Caschifellone, — abbiamo inteso. Si cala di là sulle mura di Cesarea, come volevano fare i Greci dal cavallo di legno sulle mura di Troia.

— Bene! — ripigliò il capitano sorridendo. — Ma badate di tenervi nascosti nella macchia fino a tanto non vi sarete assicurati che il parapetto sia sguernito di custodi. Ad ottenervi questo, ci penso io. Andate. —

I giovani non se lo fecero dire due volte, poichè tanto all'uno quanto all'altro premeva di giungere, se pure fosse stato possibile, in aiuto ad Arrigo da Carmandino. Frattanto l'Embriaco volgeva alla parte più bassa del muro, e, raccolto colà il nerbo dei suoi, faceva grandi apparecchi alla vista dei nemici. Tutte le scale che avevano servito per superare il primo ostacolo alla espugnazione della città, furono immantinente portate davanti al secondo, e quasi tutte concentrate in un punto; della qual cosa molti Saracini si sbigottirono, altri presero argomento a sperare.

— Ci assalgono in troppi da un lato solo; — diceva l'Emiro, il comandante della terra; — noi non correremo dunque il pericolo di sparpagliare le nostre forze e saremo pronti a respingerli.

— E poi, signore, — chiese timidamente il Cadì, anziano della città, — che farai tu?

— E poi, con una vigorosa sortita compiremo l'opera nostra, incalzandoli fino alla spiaggia e buttandoli in mare, prima che abbiano tempo a salir sulle navi. —

Il Cadì non aveva una fede così grande nelle sorti della difesa. Uomo di legge e non dedito alle armi, era alieno così dalle speranze come dai bellici ardori del suo collega. Per altro, non ardì ripeter parola, e si allontanò dalle mura, per recarsi alla Moschea maggiore dove erano radunati i vecchi, le donne e i fanciulli, ad implorare la misericordia di Allà.

I Cristiani, frattanto, appoggiate le scale, muovevano all'assalto, sostenuti da dugento scelti arcadori, che con tiri aggiustati si studiavano di ferire quanti Saracini si affacciassero alla merlata.

Famosi erano allora gli arcadori di Liguria, e grandemente ricercati d'allora in poi presso tutti gli eserciti della Cristianità. La loro valentia del resto era nota anche in tempi più antichi, ed aveva giovato moltissimo ai Cartaginesi, nelle loro guerre con Roma. La ragione di questa eccellenza nelle armi da trarre non era difficile a trovarsi. Un popolo che non aveva quasi agricoltura, come quello che pativa difetto di suolo, dovea trarre il sostentamento dalla pesca e dalla caccia, e diventare perciò marinaio e arcadore.

Alte grida si levarono da ambe le parti. San Giorgio e Maometto si contendevano il trionfo. Ora mentre i Saracini più ferocemente combattevano, e colle rotelle imbracciate sulla merlata, paravano la pioggia dei dardi adoprandosi valorosamente a ricacciare gli assalitori, un urlo di terrore si udì sulle mura e lo scompiglio si manifestò nelle file, arrestando ogni virtù di difesa.

Messer Guglielmo indovinò subitamente che cosa fosse avvenuto. Ed egli stesso si mosse allora al secondo assalto, che non fu così validamente respinto come il primo. Pochi erano rimasti, fedeli al debito loro, per sostenere il buon nome delle armi musulmane; la più parte dei difensori fuggivano, si sparpagliavano a caso per le vie tortuose della città, tosto inseguiti, rincorsi come fiere dai soverchianti Cristiani.

Anche i lettori avranno indovinato il perchè di quella fuga precipitosa. Il nemico era penetrato nella seconda cinta, per una via donde non lo aspettava nessuno. Inerpicatisi sull'albero di palma, Ugo Embriaco e Caffaro di Caschifellone, avevano insegnata la strada ai cinquanta animosi che si erano scelti a compagni. Di là, correndo al basso colle spade sguainate, erano piombati alle spalle dei difensori, in mezzo a cui fecero strage grandissima. Omero potrebbe qui rimettere a nuovo il suo famoso paragone del re dei deserti, balzato d'improvviso in mezzo alla mandria. Io non sono Omero, e colla scusa bell'e pronta che le similitudini piacciono poco ai moderni, mi ristringo a dire che i Saracini, senza indugiarsi a noverare i nuovi assalitori e temendo che una metà dell'esercito genovese fosse già loro alle calcagni, non sostennero l'urto, fuggirono, di qua, di là, ciecamente, parte gittando le armi, parte stringendole nei pugni convulsi, senza aver più l'ardimento di usarle e di vender cara la vita.

Incalzati colle spade nelle reni, lasciando a centinaia i morti lungo le vie, corsero a rifugio verso la Moschea maggiore. Ma le porte erano chiuse. I mercatanti, le donne, i vecchi, i fanciulli, stavano raccolti là dentro, implorando la misericordia del Profeta, aspettando trepidanti la pietà dei vincitori.

— Siamo uomini al pari di voi; — gridava il Cadì dall'alto di un minareto, sventolando la bianca fascia del suo turbante in segno di chieder pace. — Non uccidete chi non può più resistere! Perdonate agli inermi! —

I consigli di misericordia rimasero inascoltati fino a tanto ci furono Saracini armati intorno alla Moschea. I Genovesi rammentavano troppo le minacce spavalde dell'Emiro, e giustamente pensavano che, se avessero dovuto dar essi indietro, non uno di loro si sarebbe salvato dalla rabbia dei vincitori. E poi (chi nol sa?) il sangue inebria e il ferire ha la sua voluttà, che travolge i sensi del soldato più umano.

Giunse finalmente il Patriarca, misto di sacerdote e di guerriero, che quei tempi comportavano e di cui si ebbe esempio anche in secoli a noi più vicini. Invitato da messere Guglielmo, a cui pareva inutile oramai quella strage, Damberto ordinò che si concedesse la vita a quanti erano chiusi nel tempio, tanto più che non si trattava di armati, ma di paurosi mercatanti e di femmine imbelli, intorno a cui si stringevano vecchi cadenti e fanciulli.

Quella turba si arrese, come è facile argomentare, alla prima intimazione. Il Cadì già ne aveva fatto la profferta ai vincitori. Era intorno all'ora di sesta, quando si spalancarono le porte della moschea, e Guglielmo Embriaco vi entrò, seguito dal patriarca Damberto, brandendo la spada dalla lama, per modo da far credere che portasse in mostra la croce.

Il fiero prelato ebbe dunque ragione, colla sua profezia. Ma il savio capitano, tratti in disparte Caffaro di Caschifellone, ed Ugo, strinse loro amorevolmente la mano, ringraziandoli di averne aiutato l'adempimento, colla pronta esecuzione del suo stratagemma.

Queste le prodezze dei Genovesi nella espugnazione di Cesarea. Per metter fine al racconto, bisognerà aggiungere che, alcuni giorni appresso, il legato del Papa e il patriarca Damberto, «dopo le debite purificazioni e consuete cerimonie, consacrarono la moschea maggiore in onore di San Pietro, e un'altra (per far piacere ai Genovesi) in onore di San Lorenzo; e così fu tornata la città al servizio di Cristo.»

E l'armata e l'esercito si ridussero a Solino; sulla spiaggia di San Parlerio divisero la preda, e cavata fuori la decima del vescovo Airaldo e il quinto delle galere, si fece la distribuzione del resto per ottomila uomini, ciascuno dei quali ricevette le due libbre di pepe, e i quarantotto soldi del Poitou, che ho detto più sopra, ragguagliandone la somma ad una libbra e due once d'oro. Donde, come potete immaginare, grande allegrezza nel campo.

Così ebbe fine il racconto del giovine Caffaro. Il quale, s'intende, modesto com'era, non disse nulla di sè; quantunque, avendo in pratica l'Eneide, si sarebbe potuto servire del «quorum pars magna fui» e senza far torto a nessuno.

Il vescovo Airaldo, i consoli e tutti i capi delle compagne (che cosa fossero le compagne dirò poi al lettore) avevano udito con ammirazione il racconto, volgendo spesso gli occhi da lui al valoroso Embriaco, che stava pensoso, a fronte china, come uomo che volesse sottrarsi alla sua gloria, o riandasse colla mente i fatti trascorsi, a mano a mano che erano narrati.

Messer Guglielmo era triste. Fino a quel punto aveva posto l'animo negli obblighi suoi di capitano; allora, finalmente, poteva ricordarsi di essere padre e di non aver liete novelle per la sua bella figliuola.

La fine di Arrigo da Carmandino aveva compreso di mestizia ogni cuore.

— Ma proprio non sarà dato di sapere in qual modo Genova ha perduto questo generoso suo figlio? — chiese Pagano della Volta. — E il suo cadavere, almeno?

— Non fu trovato; — rispose il giovine Caffaro. — Gandolfo del Moro afferma bensì di averlo riconosciuto in alcuni avanzi umani, mezzo abbrustoliti dal bitume ardente. —

Raccapricciarono gli astanti, e tutti gli sguardi si rivolsero allora a Gandolfo del Moro.

Il torvo amico di Nicolao si fece avanti d'un passo, e senza pure alzar gli occhi a guardare i consoli, aggiunse:

— Pur troppo! Vorrei che così non fosse finito un tant'uomo. Una cosa sola desidero, cioè di essermi ingannato. —

Per altro, è delle moltitudini di non concedere troppo larga parte ai rammarichi, segnatamente dove il danno dei pochi si confonde nel benefizio dei più. La vittoria ha una aureola che offusca ogni cosa d'intorno a sè. Ed anche Arrigo da Carmandino, il bel cavaliere, sospiro di tante donne gentili, invidia di tanti prodi uomini, orgoglio della sua terra natale, ebbe, in un senso fugace di pietà, in una parola di rimpianto, tutto quello che potesse aspettarsi dai sopravvissuti un estinto.

— Messer Caffaro di Caschifellone, — disse Amico Brusco, il fratel dell'Embriaco, — voi avete fatto opera egregia, raccogliendo la storia della nobilissima impresa. Il comune di Genova incomincia bene, ed io, conoscendo il valore di tutti i suoi cittadini, son certo che non si fermerà così presto sulla via della gloria. È dunque giusto che abbia trovato, in voi prode guerriero, il suo storico. —

Sallustio, il venerabile segretario di Airaldo, soggiunse:

— Gravissimi istorici ebbe Roma, e certo essa ripete da questi la somma ventura di veder tramandato alla posterità più lontana il grido delle sue gesta. Procurate voi, messer Caffaro, uguale fortuna al comune di Genova. —

Il giovine annalista si inchinò tacitamente all'invito cortese, che doveva riuscire un vaticinio per lui. A quelle lodi non era da rispondere con parole; che, anco umilissime, sarebbero sempre, dopo il paragone del vecchio segretario, sembrate a lui non abbastanza modeste.

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