Molti dei miei lettori benevoli non conosceranno la città di Gaza che per un fatto, strano in verità, ma non sufficiente a dare un adeguato concetto della sua importanza topografica, voglio dire l'impresa di Sansone, che, colto una notte là dentro dai Filistei, i quali avevano chiuse le porte, diè di piglio alle imposte, le sollevò, insieme colla sbarra e le portò in ispalla, come se fossero il più lieve fascio di legna, sulla vetta del monte che è dirimpetto ad Ebron.
Gaza, la forte (poichè questo significa il suo nome nella lingua aramea), fu una delle più ragguardevoli città di Palestina, sul confine meridionale dei Cananei. Formava parte della tribù di Giuda, ma era caduta in potere de' Filistei, che la tennero fino ai tempi di Ezechia. La città era lontana venti stadii (oggi si direbbe tremila seicento metri) dalla spiaggia del mare, edificata sopra una eminenza di terreno e rafforzata da un muro massiccio, che sfidò lunga pezza le armi fortunate e i poderosi ingegni di Alessandro il Macedone. È vero bensì che Gaza la forte pagò i suoi quattro mesi di resistenza con una carneficina universale.
Tolomeo l'ebbe senza contrasto, ma dopo aver vinto Demetrio in battaglia, sotto le sue mura, uccidendogli cinquemila uomini e facendone prigioni ottomila. Antioco il Grande la distrusse, perchè stata fedele a Tolomeo Filopatore. Risorse poco dopo, e al tempo dei Maccabei resisteva virilmente all'assedio postole da Gionatan. Simone III, più fortunato, se ne impadronì, mise a fil di spada gli abitanti idolatri e ne rifece una città giudea.
Distrutta una seconda volta, e da Alessandro Janneo, che l'ebbe a tradimento dopo dodici mesi d'assedio e le uccise in un giorno di vendetta tutti i suoi cinquecento senatori, fu riedificata da Gabinio, proconsole romano nella Siria, e da Augusto donata, come una città greca, ad Erode. A vicenda cananea, giudea, filistea, greca, romana, Gaza la forte diventò mussulmana come tante altre sue sorelle di Palestina, ma restò fiera come prima per le sue mura saldamente girate intorno al colle, e per la sua Maiuma, o porto di mare, importantissimo scalo, quantunque di assai difficile approdo.
Al tempo di cui vi narro, la teneva l'emiro Mohammed el Kaddur, pel califfo fatimita d'Egitto, o più veramente pel suo visir Afdhal, e più ancora per sè, destreggiandosi come poteva tra i maneggi di Baldovino, i comandi di Afdhal e le tentazioni di Bahr Ibn.
L'arrivo della Caffara nella Maiuma di Gaza aveva insospettito l'emiro, che si recò immantinente verso la spiaggia con un fitto stuolo de' suoi cavalieri. Ma veduto di che si trattasse e letto il cortese messaggio di Baldovino, fu lieto che si offrisse una occasione così poco costosa di mostrare la sua benevolenza al re di Gerusalemme; e, fatte le più amorevoli accoglienze ai viaggiatori, diede loro una scorta, per andare, come disegnavano di fare, fino al deserto di Cades.
Colà infatti dicevano tutti che si trovasse Bahr Ibn, coi suoi seguaci, in troppo scarso numero per tentare da capo una spedizione in Egitto.
Lo scudiero, come potete argomentare, voleva seguire i suoi compagni di viaggio nella malagevole impresa. Caffaro di Caschifellone non avrebbe amato che la giovinezza di lui si cimentasse in quella fatica, e, peggio ancora, nei pericoli ond'era circondata. Almeno si fosse saputo con certezza in qual luogo era, e se stabilmente piantato, il protettore di Arrigo!
Nel dubbio, e perchè l'emiro Mohammed assicurava esser libera dai predoni tutta la pianura di Sèfela, fu convenuto che la carovana sarebbe andata fino al pozzo di Rehobot, donde poi solamente alcuni più destri e animosi si sarebbero spinti innanzi, verso le gole di Cades.
La sera stessa di quel giorno che i nostri viaggiatori erano entrati in Gaza, la carovana si pose in cammino verso il deserto.
Abd el Rhaman, il krebir, o condottiero della carovana, aveva detto con quell'accento pacato, quasi solenne, così comune tra gli Arabi:
— Se piace a Dio, o Franchi, io vi condurrò. Le vie, le conosco, così pure le sorgenti, e non vi accadrà di patire la sete. Infine, io rispondo d'ogni cosa, salvo degli eventi di Dio. —
Le carovane, queste armate del deserto (sapete già che il cammello ne è detto poeticamente la nave), non si avventurano mai senza una guida. Il deserto è un mare di sabbia, ed ha, come l'altro, i suoi marosi, le sue tempeste, i suoi frangenti. Ogni carovana obbedisce ciecamente al suo condottiero, che è sempre un uomo di provata onestà e di accortezza non comune. Il krebir dirige il suo corso guardando alle stelle; conosce per antica esperienza le vie, i pozzi, i pascoli, i luoghi pericolosi e il modo di evitarli; i capi tra cui si dovrà passare, per giungere alla meta; l'igiene a cui bisognerà conformarsi, i rimedii contro le malattie, le fratture, il morso dei serpenti e la puntura degli scorpioni. In quelle vaste solitudini, ove nulla sembra indicarvi il cammino, dove le sabbie sconvolte non serbano la traccia del viaggiatore, il krebir ha sempre mille partiti per trovar la sua via. Di nottetempo, se il cielo è fosco, solamente osservando una manata di erba o di terriccio sabbioso, che tasta col dito, o fiuta, od anche accosta alla lingua, egli indovina il luogo senza dare d'un quarto di miglio più a destra o a mancina.
Abd el Rhaman era uno strano vecchio. Il suo sguardo severo ma buono inspirava reverenza e la sua parola toccava il cuore. Ma se sotto la tenda la sua lingua era snodata e franca, quando era in cammino parlava breve, per via di sentenze, e le sue labbra non accennavano mai al sorriso. Era poi un pozzo di proverbi, una miniera di citazioni del Corano.
— Il Profeta ha detto, «non partite che in giovedì, e sempre accompagnati. Soli, un demone vi segue; in due, avete due demoni che vi tentano; in tre, siete custoditi contro i cattivi pensieri. Ma quando siete in tre, sceglietevi un capo.» —
Il capo della spedizione era Gandolfo del Moro. Caffaro aveva bensì fatto il proponimento di vigilare per tutti e su tutto; ma egli non poteva negare quella prova di fiducia a Gandolfo, che era stato il primo a disegnare l'impresa, e che, dopo tutto, si diportava severamente, come uomo che, entrato sulla buona via, mostrava la ferma risoluzione di perseverarvi.
Venti cammelli, coi loro cammellieri, formavano la scorta. Ogni cammello portava una misura di cuscussù e due misure di datteri, un otre di burro e due d'acqua, insieme con una secchia di cuoio per abbeverare il suo laborioso portatore, e cento altre cose necessarie del pari ad ogni lungo viaggio, dai grossi aghi per cucire i calzari, fino all'esca per accendere il fuoco. E siccome per un viaggio di quella fatta non bastava aver provveduto alla fame e alla sete, tutti gli uomini della scorta procedevano armati di scimitarra e di lancia. Caffaro aveva inoltre levato dalla galèa un drappello di arcadori genovesi, che dovevano essere il nerbo della difesa in ogni occorrenza.
Il pericolo di brutto incontro non era infatti lontano; niente più lontano, in quel deserto della Palestina, di quanto potesse esserlo in que' tempi ogni solitaria campagna, o strada maestra della Cristianità.
A mezza giornata di cammino dalle mura di Gaza regnava la solitudine. Tutta la contrada arida e brulla; qua e là soltanto collinette basse e petrose, coronate da pochi ciuffi di lentisco, rompevano la triste uniformità della pianura di sabbia.
Gli auspicii del viaggio erano stati buoni per gli uomini della scorta. Gli Arabi pongono molta attenzione a cotesto, ed hanno superstizioni in buon dato.
«Non prendere mai cammino (dicono essi) se la prima persona in cui t'imbatti nell'uscire di casa è una donna brutta, o vecchia, od altrimenti una schiava, se vedi un corvo che vola soletto e come smarrito per aria, se due uomini altercano sulla via, e l'un d'essi grida al compagno: Dio maledica tuo padre; perchè, quand'anco tu fossi straniero a costoro, la maledizione potrebbe ricadere sul tuo capo.
«Ma se i tuoi occhi sono rallegrati dalla vista di una giovine donna, o d'un bel cavaliere, o di un bel cavallo, se due corvi, il felice e la felice, volano insieme davanti a te; se augurii, parole o nomi di fausto presagio risuonano al tuo orecchio, prendi la via animoso; Dio, che veglia sopra i suoi servitori, li avverte sempre con un presagio, quando si mettono in cammino.»
Tuttavia, il krebir non si teneva dispensato dal seguire i dettami della prudenza. Al giungere della notte rizzava la sua tenda di cuoio sul capo dei Cristiani confidati alla sua tutela; disponeva intorno a essa i cavalli e i cammelli, e in giro a questi i suoi cammellieri, che dormivano ravvolti nei loro mantelli e coperte, listate di bianco e di nero.
Due guardiani, destinati a vicenda, vegliavano per tutti alla sicurezza del campo. Ed anche su loro vegliava Abd el Rhaman. Si sarebbe potuto dire che il vecchio krebir usasse dormire da un occhio solo. Infatti, d'ora in ora, si udiva la sua voce.
— Guardie, dormite?
— Vegliamo; — rispondevano i custodi.
— Iddio benedica il nostro viaggio; — soggiungeva il krebir.
E il silenzio tornava a regnare per un'ora sul campo.
La sera del quarto giorno di cammino, la carovana si attendava accanto al pozzo di Rehobot. Era un luogo celebre e santificato, per gli Arabi, dalla pietra sepolcrale di Sidì al Hadgì, un santo mussulmano, che aveva fatto in suo vivente trentatrè viaggi alla Mecca, alcuni dei quali come condottiero della carovana dei pellegrini, che ogni anno, formata da varii punti di Palestina, si recava alla tomba del Profeta. Il pozzo di Rehobot era una delle sue stazioni consuete, e la pietà dei credenti aveva voluto consacrarne il ricordo, innalzando una cappella nel luogo ove il santo pellegrino soleva piantare ogni anno la sua tenda.
Intorno al pozzo sorgevano alcune palme, e poco lungi si vedevano ruderi di antiche costruzioni. Quel luogo doveva essere stato un ritrovo di viandanti e di pastori fino dagli antichissimi tempi, come il pozzo, due giornate lontano da quello, «del Vivente che mi vede» ove Agar ebbe il colloquio coll'angelo, e Isacco pose la sua stabile dimora colla vaga figliuola di Batuele.
Colà i nostri viaggiatori trovarono un'altra carovana di Arabi, che da Sefat scendevano verso l'Egitto.
— Siate i benvenuti! — gridarono i primi occupanti. — Siamo poveri, ma daremo ogni cosa nostra agli invitati di Dio.
— Grazie; — rispose Abd el Rhaman. — Il Profeta ha detto: chi sarà generoso otterrà venti grazie dal cielo; la sapienza, una parola sicura, il timor di Dio, un cuor fiorito di contentezza; non odierà nessuno, non sarà orgoglioso, non geloso; la tristezza si allontanerà da lui, egli accoglierà tutti umanamente, sarà amato da tutti; tenuto in pregio, quand'anche fosse di oscuri natali; le sue ricchezze si accresceranno, la sua vita sarà benedetta; sarà paziente, discreto, sempre di buon animo e non farà stima veruna dei beni terrestri; se gli avverrà d'inciampare, Dio lo sosterrà, le sue colpe gli saranno perdonate, e finalmente Dio lo custodirà da ogni male, che possa cadere dal cielo, o sbucar dalla terra. —
Fatta questa intemerata, che i suoi correligionarii ascoltarono colla massima devozione, il vecchio krebir domandò:
— O uomini credenti in Dio, sapreste voi dirci dove si trovi lo Sciarif, il fratello del glorioso califfo del Cairo?
— Bahr Ibn? — chiesero gli altri alla lor volta. — Bahr Ibn, il signore del deserto?
— Sì, lui, il discendente del Profeta.
— Noi veniamo da Aroer, dove abbiano udito parlare di lui. Ma lo Sciarif ha abbandonato Aroer da un mese; egli ha volto i suoi passi a Kenat, sui confini del deserto di Zin.
— A Kenat, il castello del Dai al Kebir?
— Tu l'hai detto. —
Il vecchio Abd el Rhaman accolse l'annunzio con una smorfia, che non prometteva niente di buono ai suoi compagni di viaggio.
— Che cos'è questo Dai al Kebir? — domandò lo scudiero, a cui non sfuggiva un atto, un moto, del volto abbronzato di Abd el Rhaman.
— Il capo degli Assassini, — rispose il vecchio aggrottando le ciglia; — intendo parlare degli Assassini occidentali, che vogliono avere anche qui il loro Alamut, il loro nido d'avvoltoi. —
Il vocabolo Assassino non aveva ancora pe' Cristiani il suo brutto significato, o, per dire più veramente, non risvegliava ancora l'idea di sicario o di ladrone. I nostri viaggiatori non dovevano dunque indovinare la gravità dell'annunzio, che dalla cera brusca con cui lo aveva accolto il loro vecchio ed esperto condottiero.
Che cos'erano gli Assassini occidentali, di cui parlava Abd el Rhaman? Che cos'era il loro nido d'avvoltoi? Per farlo intendere ai lettori, che non hanno dimestichezza con queste diavolerie della storia, dovrò toccar brevemente degli Assassini orientali, e, quel che è peggio, incominciare dai parlar di tutt'altro; per esempio, del kief.
È questo un vocabolo intraducibile nelle lingue d'Europa. La siesta degli Spagnuoli non ci ha nulla a vedere; il «dolce far niente» degli Italiani non ne è che una pallida immagine. Non basta far niente e sentirne la dolcezza; è mestieri altresì di essere penetrati fino al midollo dal sentimento della propria inerzia. Il kief è il gaudio, la beatitudine paradisiaca del sentirsi annientato; è il non essere, introdotto, identificato, nella coscienza dell'essere.
Queste parranno stranezze, ma la colpa non è mia. Ora, per giungere al kief non c'è di meglio che il kief; il che sarà manifesto a chiunque sappia che in molti casi la lingua non ha che un vocabolo per esprimere l'effetto e la causa. È kief ogni sostanza capace di produrre lo stupore dell'ebrezza; e kief per eccellenza è l'ascisce, erba nel senso generico, ma, nel caso concreto, lo stelo del canape indiano, nella sua parte più tenera, cioè a dire le ultime foglie, i fiori e la semente; tutta roba che si può fumare disseccata, o mangiare indolcita con zucchero e burro, o bere disciolta in una infusione, tra due sorsate di caffè e due boccate di fumo del vostro narghilè. Scusate, lettori, vi parlo come se foste altrettanti discendenti d'Ismaele.
L'uso dell'ascisce era conosciuto in Oriente da tempi immemorabili. — «Lascia il vino in disparte: — cantano i poeti arabi; — prendi in sua vece la coppa di Haider, la coppa che esala l'odore dell'ambra e che brilla del verde sfolgoreggiante dello smeraldo.»
Ciò premesso, per non averci a tornar su, veniamo agli Asciscin, che avrete già capito esser tutt'uno cogli Assassini. Sullo scorcio del decimo secolo si formò in Oriente questa setta religiosa e politica, che osò arrogarsi il diritto di pronunziare l'anatema contro i suoi avversarii, rincalzando la sua riprovazione coll'omicidio. Gli orrendi settari ebbero il nome dall'ascisce di cui s'inebriavano gl'iniziati, i fed á vi, che avrò l'onore di farvi conoscere più intimamente tra poco.
Quali erano le ragioni storiche della sètta? In quattro parole mi sbrigo. Poichè Abdallà ebbe fondata in Egitto la dinastia dei Fatimiti, discendenti da un Ismaele, settimo imano nella linea di Alì, che era stato il marito di Fatima, la bella figliuola di Maometto, si chiamarono Ismaeliti tutti i partigiani che negavano formalmente la legittimità dei Califfi ortodossi e che erano devoti alla stirpe di Alì, considerando che il potere sovrumano di Maometto fosse in quella rimasto celato. Questo arcano potere doveva manifestarsi nella persona d'un Messia, la cui apparizione dipendeva da certi eventi. La nuova dottrina, dopo avere scosso la Persia e la Siria, propagata in tutte le terre mussulmane da accorti missionarii, avea posto il suo centro al Cairo, nella grande scuola conosciuta sotto il nome di Dar el Hakmet, o casa della sapienza, coll'intento palese di sostenere i diritti dei califfi Fatimiti al dominio universale, e di affrettare la distruzione dei califfi Abassidi di Bagdad come usurpatori.
La sètta aveva un capo supremo, Dai el Dvat, ossia direttore dei missionarii, e una dottrina segreta, a cui si giungeva per iniziazioni successive; lungo i gradi superiori della gerarchia. Avvenne che uno di que' dais, chiamato Hassan Ben Deba Homairi, parendogli troppo lento e timido il progredir della sètta, immaginasse di stabilirne l'impero con una vasta cospirazione e coll'assassinio. In gran favore al Cairo, potente nella scuola, propenso alle idee persiane circa la nessuna importanza degli atti esteriori, Hassan ammetteva che i concetti capaci di ingenerare la convinzione personale avessero anche il diritto di armare la mano dell'uomo convinto; che la guerra, fondata sul consenso delle moltitudini, era più incomoda, più malagevole e più micidiale dell'uccisione proditoria, la quale non richiede altro, fuorchè un braccio devoto ed audace.
Così trionfava la legge del pugnale. Per svolgere più liberamente il suo codice nuovo. Hassan nel 1090 s'impadronì con inganno del castello di Ilhaamut, o il nido d'avoltoi, così chiamato per la sua eminente postura non lungi da Casvin, nelle montagne di Rudbar; ne fece una cittadella inespugnabile, dove educava i suoi sicarii, e da dove egli fulminava la morte a' suoi nemici, a mano a mano che li avea condannati. Solo e chiuso nelle sue stanze, lo Sceik el Gebal (vecchio della montagna) non uscì che due volte nei trentacinque anni del suo spaventoso regno, di là trasmettendo i suoi cenni a tre grandi priori (Dai al Kebirs) che comandavano in suo nome, a Gebal, nel Kuhistan e nella Siria, e guidando, con mente fredda e sicura, il pugnale dei fedàvi. Questi, il cui nome significa «coloro che si sacrificano» erano giovinetti comperati o rapiti nei teneri anni, educati a non avere altro Dio che il vecchio della montagna, altra volontà che la sua, pronti ad ogni sbaraglio, agguerriti in ogni maniera di prove.
Si leggono nella storia delle crociate meravigliosi racconti intorno al fanatismo di quei sicarii. Il conte di Sciampagna, visitando un giorno il castello di Alamut, vide due uomini ad un semplice comando del padrone precipitarsi dall'alto di una torre, per dare a lui, come straniero, un giusto concetto della disciplina che regnava colà. Infiammati questi giovani mercè la predicazione, si addormentavano con un beveraggio ed erano portati a risvegliarsi in un giardino di delizie. Ma qui, lettori, se permettete, dò la parola al più veridico dei narratori, le cui storie meravigliose parvero fino ai dì nostri un romanzo.
«Il Veglio aveva fatto fare tra due montagne in una valle il più bel giardino e il più grande del mondo; quivi avea tutt'i frutti e li più belli palagi del mondo, tutti dipinti a oro e a bestie e ad uccelli. Quivi era condotti; per tale veniva acqua, per tale miele e per tale vino. Quivi era donzelli e donzelle, gli più belli del mondo e che meglio sapevano cantare, suonare e ballare. E faceva lo Veglio credere a costoro che quello era il paradiso... perchè Maometto disse che chi andasse in paradiso avrebbe di belle femmine tante quante volesse, e quivi troverebbe fiumi di latte, di miele e di vino. I Saracini di quella contrada credevano veramente che quello fosse il paradiso. E in questo giardino non entrava se non colui che il Veglio volea fare assassino.
«All'entrata del giardino il Veglio aveva un castello sì forte, che non temeva niun uomo del mondo. Il Veglio teneva in sua corte tutti giovani di dodici anni, che gli paressero da diventare prodi uomini. Quando il Veglio ne faceva mettere nel giardino a quattro, a dieci, a venti, faceva loro dar bere oppio; e quelli dormivano bene tre dì. E facevali portare nel giardino e al tempo li faceva svegliare. Quando i giovani si svegliavano, e si trovavano là entro, e vedevano tutte queste cose, veramente si credevano essere in paradiso. E queste donzelle sempre stavano con loro in canti e in grandi sollazzi; donde egli avevano sì quello che volevano, che mai per lo volere non si sarebbono partiti.
«Il Veglio tiene bella corte e ricca, e fa credere a quelli della Montagna che così sia com'io vi ho detto. E quando egli vuol mandare alcuno di que' giovani in qualche luogo, fa dar loro un beveraggio per cui dormono, e li fa recare fuor del giardino nel suo palazzo.
«Quando e' si svegliano e si trovano quivi, molto si maravigliano, e sono assai tristi, perchè si trovano fuori del paradiso. Eglino se ne vanno dinanzi al Veglio, credendo che sia un gran profeta, e inginocchiansi.
«Egli domanda loro: donde venite?
«Rispondono: dal paradiso: e gli contano quello che v'hanno veduto dentro, e hanno gran voglia di tornarvi.
«E quando il Veglio vuol fare uccidere alcuna persona, egli fa torre quello lo quale sia più vigoroso, e fagli uccidere cui egli vuole; e coloro lo fanno volentieri, per ritornare nel paradiso.
«Se scampano, ritornano al loro signore: se sono presi, vogliono morire, credendo ritornare al paradiso.
«E quando il Veglio vuol far uccidere alcun uomo, egli prende il giovane e dice: va, fa' tal cosa, e questo ti fo perchè ti voglio far ritornare al paradiso. E gli Assassini vanno, fannolo molto volontieri.
«E in questa maniera non campa niun uomo dinanzi al Veglio della Montagna, a cui egli la vuol fare. E sì, vi dico, che più re gli fanno tributo per quella paura.»
Adesso, lettori umanissimi, chiuderemo i viaggi di Marco Polo, per dir brevemente dell'altro. Era l'ascisce quell'oppiato con cui i capi dell'infame sètta annebbiavano l'intelletto dei loro sicarii, riducendoli in quello stato di stupida obbedienza, che li rendeva così terribili ai principi d'Asia e d'Europa. Questi esecutori dei feroci comandi, che erano i giovani Fedàvi, andavano vestiti di bianco, con berrette e cinture rosse, e armati di acute daghe; ma usavano ogni foggia di travestimento, allorchè erano mandati a qualche impresa difficile.
Tra per forza d'armi e d'inganni, gli Assassini s'impadronirono in breve di molte castella e luoghi muniti della Persia. Il soldano Malek Scià li assalì, i dottori della legge li scomunicarono; ma i Fedàvi spargevano morti segrete fra i nemici dell'ordine; il ministro del sultano, Nizam-u-Malk, fu colpito di stilo; il suo signore morì poco dopo, improvvisamente, e di veleno, come ne corse il sospetto.
Di là si sparsero nella Siria. Al tempo di cui narro, Abus Wefa, Dai al Kebir d'Occidente, doveva passare dal castello di Kanat fino alle montagne presso Tripoli (Tripoli di Palestina, intendiamoci), stringer trattati coi Turchi, che gli cedettero alcuni distretti, e perfino col re di Gerusalemme, Baldovino II, essendo auspice e mediatore al trattato Ugo de' Pagani, un gran maestro dei Templarii!
Capite che roba? Per fortuna, di questo non abbiamo a trattar noi. Siamo nel 1102; Hassan, il terribile Sceik al Gebal, è nella sua rocca persiana di Alamut, dove camperà ancora ventidue anni. Abu Wefa, il gran priore di Palestina, è tuttavia a Kanat, donde negozia e congiura con Afdal, l'usurpatore, e con Bahr Ibn, il pretendente al trono d'Egitto, coi Sultani Selgiucidi, coi reali di Gerusalemme, con tutti, pur di estendere il suo dominio nella Terra Santa, intorno al nuovo regno della Croce; disposto insomma ad allearsi con uno dei tanti, per vincere gli altri, e tradir tutti ad un modo. Era la politica del tempo; è pur troppo la politica di tutti i tempi.
I nostri viaggiatori, brevemente informati di ciò che sapeva Abd el Rhaman intorno a questi Assassini, tennero consiglio tra loro. Lo scudiero voleva che si andasse tutti ugualmente, perchè gli Assassini, se erano davvero gli amici dello Sciarif e se questi si era avvicinato al loro castello, non dovevano incuter timore; e infine perchè non erano ladroni, nè usavano andare attorno in così gran numero, da spaventare una schiera di gente risoluta.
Ma prevalse il consiglio di Gandolfo, che si avesse a dividere la gente in due schiere. La prima e la più numerosa, coi cammelli e una parte degli arcadori, sarebbe rimasta in attesa al pozzo di Rehobot; egli, con una mano di uomini volenterosi e una guida araba, si sarebbe spinto innanzi per le gole di Cades, alla ricerca di Bahr Ibn. Un campo numeroso, come doveva essere quello dello Sciarif, non poteva mica nascondersi così facilmente in quei luoghi, nè viverci in guisa che se ne avessero a perder le tracce.
Caffaro di Caschifellone aveva assentito al parere di Gandolfo. E voltosi al biondo scudiero, gli aveva detto:
— Rimarrò dunque io, per vegliare su voi.
— No, no; andate, messere; — rispose lo scudiero, con accento supplichevole, che non dava modo di resistergli; — andate anche voi con messere Gandolfo.
— Ma voi? lasciarvi qui senza un amico?.... —
Lo scudiero crollò la testa, in atto di chi persiste nella sua deliberazione e non ammette argomentazioni in contrario.
— Abd el Rhaman è un brav'uomo; diss'egli; — e non mancherà alla sua fede. —
Il vecchio condottiero, udendo quelle parole, si fece avanti, e, postosi una mano sul petto, disse con accento solenne:
— Quando una carovana è in viaggio, essa è in balìa del Krebir. Ma questi ne è mallevadore dinanzi alla legge e deve premunirla contro tutti gli eventi che non procedono da Dio. Egli paga il prezzo del sangue per tutti i viaggiatori che per sua colpa muoiono, si sbandano, sono uccisi, o scompaiono; egli è severamente punito se la carovana viene a patire per mancanza d'acqua, o se egli non ha saputo difenderla contro i ladroni del deserto. L'Emiro di Gaza ha una parola sicura, e un braccio lungo, che saprebbe cogliermi dovunque, se io mancassi al mio debito. Ma io ti giuro, o cavaliere, ti giuro per la barba venerabile del Profeta, che io veglierò sul capo del giovinetto, come gli angeli Moahibbat sul capo del figlio di Abd el Mettaleb, donde nacque Maometto, il nostro signore. Se io vengo meno al mio giuramento, possa colui che è sollecito nel fare i conti, mandarmi in un batter d'occhio sul ponte al Sirat, che è più stretto d'un capello e più affilato del taglio d'una spada, e piombare nello Hawigat, che è il peggiore tra tutti i gironi d'inferno, come quello che è destinato agli ipocriti. —
Nelle loro frequenti relazioni di guerra e di pace coi Saracini, i Crociati avevano imparato a tenere in pregio cosiffatti giuramenti. Epperciò il nostro amico Caffaro di Caschifellone si acquetò facilmente alle promesse del vecchio. Strinse la mano al biondo scudiero, che gli augurò dal profondo del cuore un sollecito ritorno, e partì.
Gandolfo del Moro era già balzato in sella, e dieci animosi arcadori, seguiti da due cammelli, colle provvigioni necessarie al viaggio, tenevano dietro al guidatore, scelto da Abd el Rhaman tra i migliori della sua scorta.