LIBRO TERZO. Della Commedia presso gli Italiani.

1. Derivazione della letteratura italiana dalla latina. – Nessuna nazione al mondo può, come l’Italia, vantare una doppia letteratura sì ricca e feconda d’ogni genere di composizioni, nè noverare tanti bei secoli di coltura intellettuale e civile, quanti ne conta la patria nostra, che dal primo muoversi dei Romani alle lettere ed al sapere fino ai dì nostri mantenne vivo il sacro fuoco della sapienza e delle arti, e ne diffuse ampiamente alle altre nazioni la luce ed il calore; destinata, come già in antico la Grecia, ad essere modello e maestra de’ popoli nel dirozzare le menti ed educare i cuori, e finalmente cadere oppressa dalla forza materiale straniera, pur sempre col genio e colle lettere vincendo ed assoggettando intellettualmente il vincitore.

L’antica letteratura romana per essere a noi di tempo così rimota, ed in una lingua che per le subìte vicissitudini si cambiò fino a trasmutarsi quasi intieramente, non è per questo meno nostra nè meno nazionale, anzi ell’è quella per cui anche di presente, in tanta abbondanza di cognizioni e di progressi scientifici presso le altre nazioni, l’Italia tiene ancora nel mondo letterario la prima sede ed a tutti fornisce norme e modelli. Egli è adunque un errore il riguardare gli antichi scrittori della classica latinità come stranieri perchè da noi divisi e lontani per sì gran numero di secoli, o reputarli del pari comuni a tutte le nazioni, perchè Roma dominò una volta tutto il mondo e fu centro di un solo universale impero; conciossiachè essi furono, come noi, Italiani, nati sotto questo bel cielo ed inspirati dalle tepide ed odorate aure dei nostri colli perpetuamente verdeggianti, e dalle moltiformi bellezze che su di questa terra fortunata sparse a larga mano il Creatore; l’eco della lor voce ci risuona ancora all’orecchio, e gl’immortali loro volumi a noi rimangono come domestico retaggio e patrimonio di famiglia. Anzi sostanzialmente non è la nostra letteratura diversa dalla latina, se non come una accidentale trasformazione di essa, che si limita semplicemente all’estrinseca forma, non alterandone la sostanza, poichè vi alita dentro sempre lo stesso spirito ed il medesimo genio la informa; e solo un pregiudizio, che ci porti all’idolatria della forma, può impedirci di ravvisare una stessa ed ugual forza di concepire, p. e., in Livio e nel Guicciardini, in Virgilio ed in Dante, in Cesare e nel Macchiavello; nè parmi che si debba riguardare ne’ nostri una quasi imitazione più o meno servile di modelli estranei; sì invece la natura e l’indole italica medesima, che negli uni e negli altri opera i medesimi effetti, e trovar quindi una più intrinseca ragione della somiglianza che passa tra questi e quelli, che non sia quella di dire: i moderni hanno copiato gli antichi, come un pittore p. e. copia un quadro di Raffaello; ma piuttosto i moderni hanno somiglianza cogli antichi come il figliuolo ritrae in sè le fattezze del padre; onde tal somiglianza è fondata più che nell’arte, nella natura. Egli è vero che i classici esemplari latini servirono anche estrinsecamente di regola e di norma a’ nostri scrittori per non declinare dal giusto e dal retto sentimento del bello, e furono come un correttivo degli ingegni a volte troppo facili ad innovare, ed allontanarsi dal buon gusto; ma non è meno vero, che gli Italiani non avrebbero potuto fare altrimenti, anche volendo, e che il genio latino perpetuo fra noi operò in molta parte indipendentemente dai classici modelli. Il che mi pare evidentemente provato da questo, che gli stranieri, i quali pure ebbero alle mani gli stessi esemplari, per istudio che vi facessero, non arrivarono ad investirsi del loro spirito, di che anche sotto le forme classiche lasciarono trasparire il genio e l’indole loro nazionale dalla italica ben diversa; sicchè, p. e., mentre la nostra drammatica in generale mantiene quell’antica semplicità e spigliatezza, aggirandosi pur quaggiù tra gli uomini, nè oltrepassando i confini del verisimile; presso altri popoli riuscì complicata e ponderosa, e diè nel nebuloso, nell’esagerato, nel soprannaturale.

Materia a belle e vantaggiose considerazioni fornirebbe lo studio comparativo degli antichi co’ moderni scrittori italici, e l’accurata investigazione degli accidentali cambiamenti e variazioni dello spirito latino che a guisa di luce, rimanendo uno in sè, in varii sbattimenti e rifrazioni, come attraverso ad un prisma nei varii ingegni rompendosi, suscita diverse viste e colori; onde meglio risalterebbe, per valermi delle belle espressioni dantesche (Par., XXIX, 142), l’eccelso e la larghezza di questo genio e valor, poscia che tanti – Speculi fatti s’ha, in che si spezza, – Uno manendo in sè come davanti: se non che questo è alieno dal proposito della mia trattazione.

2. Cenni storici sulla decadenza della lingua latina sino agli albori della letteratura nuova. – La letteratura latina, passato il secolo d’Augusto, piegò tantosto alla decadenza dalla forma primitiva, e si può dire che fin d’allora s’apparecchiasse per tante vicende e mutazioni a rivestir la seconda, la quale non fu perfetta che lunga serie di secoli dopo. Diuturno adunque fu lo stato di trasformazione che abbraccia quasi tutto il periodo del medio evo, e lungo e faticoso il lavoro di essa nel quasi generale riposo e torpore degli ingegni, i quali poco a poco e lentamente maturarono il parto, come la terra che nella stagione invernale, mostrandosi esternamente morta ed inerte, nel suo seno con attività maravigliosa macera e feconda i semi, digerisce e dispone i succhi, gli umori vitali comparte, ed apparecchia la florida e lussureggiante vegetazione della primavera. Così per un inverno lungo ed apparentemente sterile, ma in realtà per l’avvenire fecondo, preparavasi l’Italia, e per rispetto alla politica e per rispetto alle lettere ed alle arti, alla vita nuova.

Posciachè, come dice Dante (Par., VI, 1), Costantin l’aquila volse – Contra il corso del ciel ch’ella seguìo – Dietro all’antico che Lavina tolse, allentatisi i legami di unità tra le varie parti dell’Italia, si snaturò il pubblico spirito, e s’intiepidì l’amor patrio. La grande e spaventosa corruttela ingeneratasi sotto il reggimento di capi inetti e viziosi, nè per anco riparata dalla nuova religione, che pur allora imporporata di sangue usciva dalle cripte e dalle catacombe a respirare alquanto dalle persecuzioni, oltre gli spiriti aveva anche i corpi resi imbecilli ed eunuchi, e, «Roma, dice il Botta, non generava più, perchè esauste le sue sorgenti vitali dai piaceri soverchi ed infami; le provincie non producevano meglio, perchè si abbandonavano per istanziare nella capitale, e perchè il vizio si era quivi pure annidato. Roma viveva, ma in mezzo ad una generazione di leziosi e di codardi» (St. de’ popoli it., I, 3).

Dopo Traiano avevano già avuto fine le romane conquiste, e le forze italiane ristagnavano nella mollizie, come in un corpo sfibrato ed infermo il sangue che si corrompe. Teodosio si può dire l’ultimo generale romano, e dopo lui le legioni più che alla guerra furono atte all’assassinio. Così il colosso romano era presso alla totale rovina, anelata preda dei barbari che gli diedero l’ultimo crollo. Non che le lettere e le arti avessero cultori in tanta depravazione, mancavano le braccia all’agricoltura, perchè le provincie per le anzidette ragioni si spopolavano, ed Aureliano era costretto a mandare in Liguria ed in Toscana degli schiavi barbari, come Valentiniano e Frigerido generale di Graziano cercavano di popolare le sponde del Po con prigionieri presi nella guerra germanica, ed i paesi di Parma, Reggio e Modena con Goti, Unni e Rugi. Piacenza, Parma e Bologna, prima fiorentissime città, mostravano, come attesta S. Ambrogio, un aspetto misero e desolante di completa rovina, e più che altro erano, per usar l’espressione del santo vescovo, cadaveri di città. Roma invece divenuta come lo scolo d’ogni bruttura, ridondava di abitanti immersi nell’ozio e nel vizio; sciami di giullari, d’istrioni, di ballerine, di eunuchi, gentame di provinciali senza numero accorsi a logorare l’altrui, i quali passavano il tempo nelle pubbliche piazze, nei teatri, nel circo e nei lupanari; tanto che ai tempi di Onorio, temendosi la carestia, s’intimò ai forestieri di sgombrare la città, ma la legge applicossi iniquamente col dar bando ai pochi letterati ed artisti, e permettere di restare a’ tremila e più ballerine col numeroso loro corteggio. Di che i letterati erano avviliti e depressi, e perciò radi e per lo più stranieri: Claudiano venuto di Grecia, Macrobio di Egitto, e tra i molti scrittori ecclesiastici il solo Ambrogio italiano, e pure nato anch’egli nelle Gallie. La giurisprudenza, come quella che è più necessaria agli usi ed ai bisogni comuni della vita, e fornisce una professione lucrosa, mantenevasi ancora in fiore e contava di molti studiosi specialmente nella scuola di Roma; senonchè questi, adescati ed impeciati, per dir così, dalla spaventosa corruzione, non se ne poteano più staccare per tornarne alle case loro, sì riempiendo la città d’inutili ciarlieri che la legge dovette provvedere, e con apposita sanzione costringerli al ritorno.

Così si estinguevano i lumi dell’ingegno ed oscuravasi la gloria delle lettere, o meglio ritraevansi queste tra pochi cultori e depositarii, lasciando il mondo romano al buio incamminarsi a nuovo stato di barbarie. Vennero poscia i barbari e compierono l’opera di dissolvimento cominciata ed a buon punto condotta dalla corruzione interna, finchè non isparve del tutto ogni traccia della prisca grandezza. Il secolo V segna l’epoca delle invasioni. Comincia Alarico con 400 mila Goti, ed è vinto ancora da Stilicone che l’obbliga ad uscire d’Italia; ma questi n’ha dall’imperatore per mercede il supplizio e la morte; Alarico ritorna, di Roma passa in Calabria ed è già necessario venir coi Goti a patti trattati. Quindi a pochi anni succede il flagello di Dio, Attila cogli Unni (452); poi Genserico coi Vandali (455); poi Odoacre cogli Eruli ed i Turingi (475), che imprigiona Augustolo in cui termina per l’Occidente la imperial dignità: finalmente Teodorico (488) apparecchiasi alla conquista d’Italia, e vinto Odoacre, vi si stabilisce lasciando successori fino alle spedizioni di Belisario e di Narsete, quando con Totila ultimo loro re spira nel 553 la dominazione dei Goti; per dar luogo poco tempo appresso (568) a quella più lunga e regolata dei Longobardi condotti da Alboino, la quale si stende fino al 774, e cade con Desiderio sotto le armi di Carlo Magno e dei Franchi. Al tempo della dominazione gota e longobarda accadde una maggior fusione dei barbari cogli Italiani, onde, oltre al modificarsi le usanze ed i costumi, anche la lingua subì non piccole alterazioni, necessitata come fu ad ammettere parole straniere e piegarsi al bisogno di convivere e comunicare con essi. I Goti sotto il regno di Teodorico, il quale, come dice il Giannone, ebbe meritamente fama di giustizia, di umanità, di fede e di tutte le altre più pregiabili e nobili virtù, migliorarono i romani costumi, ed informando col loro esempio i popoli a sobrietà e temperanza, sanarono le vetuste ed infistolite piaghe d’Italia, onde l’eloquente Salviano esclamava: Quae Romani polluerunt fornicatione, mundant Barbari castitate . . . impudicitiam nos diligimus, Gothi execrantur; puritatem nos fugimus, illi amant; e Grozio citato dallo stesso Giannone, potè dire: Planeque si quis cultissimi clementissimique imperii formam conspicere voluerit, ego legendas censeam regum Ostrogothorum epistolas, quas Cassiodorus collectas edidit.

Sotto la loro dominazione fiorirono alcun poco le lettere cominciando a trovare alquanto favore e protezione, e celebri sono i nomi di Simmaco, di Cassiodoro e di Boezio, chiamato da Dante (Par., X, 125): L’anima santa che il mondo fallace – Fa manifesto a chi di lei ben ode. In somma, dice il Botta (op. c., c. 13), tutti gli scrittori convengono in questo, che per la sapienza ed abilità di Teodorico, Roma, l’Italia e le altre parti occidentali uscissero dall’infievolimento ed in più felice stato si componessero; nè meno a lui andassero obbligate d’essere franche dalle invasioni dei barbari, che da tanti anni orribilmente le devastavano. La dominazione longobarda in quella vece non fa alle lettere favorevole, nè di quel tempo possediamo scrittura alcuna di pregio, anzi, se ne eccettui forse lo storiografo Paolo Diacono, non s’incontra uomo di lettere; conciossiachè i Longobardi in perpetua guerra co’ Greci, co’ Germani e co’ Franchi, e malsicuri del fatto loro, badavano pure a difendersi e premunirsi da sorprese ed assalti, ed assodare colla legislazione la recente potenza, senza che l’indole di tal gente più all’utile volta che al bello ed al piacevole, adoperava che e’ coltivassero la giurisprudenza, del resto nulla curando, e per valermi delle parole del Botta, in iscambio d’un Triboniano e di un Papiniano avrebbono di leggieri donato mille Virgilii e mille Orazii.

In questa trascuranza e per così dire esilio delle lettere e delle muse, si sarebbero, non che altro, irreparabilmente perduti e dimenticati del tutto (e moltissimi incontrarono sorte siffatta) i capolavori dell’antichità classica greca e latina, se le monacali istituzioni sorte in Occidente tra il quarto e quinto secolo non li avessero dalla rovina salvati coll’offrir loro ne’ conventi e monasteri un asilo, e quasi non dissi un santuario. Allora i conventi, dice il Botta (op. cit., parte II, c. 1°), erano le sole conserve di libri; queste conserve non potevano formarsi se non là dove era permanente unione di uomini: i soldati per nulla si dilettavano della lettura, e tutti intendevano alla guerra; i magistrati occupati nella giurisprudenza, alieni la più parte dalla letteratura, non ammucchiavano libri: i monaci all’incontro, dovendosi nei primi tempi della loro esistenza travagliare sulla controversia per difendersi dalle offese dei pagani e degli eretici, furono stretti ad ornarsi lo spirito, epperò a formare biblioteche. Nè soltanto conservavano i libri, ma pazientemente il tempo dispensando tra l’orazione e le opere manuali, lavoravano indefessi a copiar codici e moltiplicarli quanto fosse possibile, abbellendoli anche ed ornandoli colle arti del disegno e con preziose miniature.

Maggior impulso ebbero le lettere da Carlo Magno, che non solamente diè favore a’ letterati chiamandone in corte i più celebri, tra cui Teodolfo e Paolo Diacono; ma egli stesso applicò agli studii e dal grammatico Pietro diacono pisano apprese i rudimenti delle lettere; col celebre Alcuino monaco inglese attese alle scienze più sublimi, e specialmente alla da lui diletta astronomia, e di Paolino patriarca di Aquileia, sapientissimo uomo, seppe saviamente valersi. Ciò non ostante se avevano cultori le scienze teologiche e religiose, la giurisprudenza, la filosofia ed anche la grammatica, le belle lettere e la poesia, sia per la piccola importanza loro attribuita, sia per essere la lingua rozza ed informe, nè per anco acconcia a piegarsi a quella grazia e gentilezza di stile che formano la bellezza d’una scrittura, ben poco sì svilupparono, ed i pochi versi di quell’età tengono ancora, direbbe Dante (Inf., XV, 65), del monte e del macigno, come le prose latine offrono un aspetto contorto, ispido e quasi selvaggio. In questa maniera maturavasi negli italici ingegni il gran parto della nostra poesia, che già adulto, perfetto e pieno della vigoria di gioventù uscir doveva in luce qualche secolo dopo per mezzo dell’Alighieri..

3. Nullità della drammatica nell’età di mezzo. – Per tutto questo tempo non rimane vestigio di poesia drammatica nè di teatrali rappresentazioni, tuttavia dalle leggi sancite contro gli istrioni si scorge che anche allora dovevano essere in uso certe farse composte di parole, di atti e gesti sconci ed osceni, rimasugli e memorie degli antichi pantomimi. Difatti, secondo il codice romano, gli istrioni erano riguardati come incapaci ad obbligarsi (Novell. 51), dichiarati infami (L. Si fratres cod. ex quibus causis infamia irrogat, C, Lib. II, cap. xii), e secondo il diritto canonico (Can. Definimus, 4 quaest., 5) un istrione non poteva nè accusare, nè chiamare in giudizio. Le stesse pene rinnovò Carlo Magno con un decreto dell’anno 789, ed i concilii di Tours, di Reims, di Chalons-sur-Saône, tenuti l’anno 813, vietarono ai vescovi, preti ed ecclesiastici di assistere agli spettacoli teatrali, pena la sospensione e la penitenza canonica; la qual disposizione fu avvalorata e confermata con un decreto dell’anno stesso da Carlo Magno. Ciò dimostra che c’erano spettacoli, i quali probabilmente non consistevano che in gesti e scede, che offendevano il pudore; e forse facevansi sulle piazze a modo dei ciarlatani dei nostri giorni, e coloro che li rappresentavano, più che comici, erano giullari.

4. Principii e rapido sviluppo della lingua e lettera-tura italiana nei secoli XIII e XIV. – La comune sentenza dei dotti e degli eruditi porta che non prima del cominciar della seconda metà del decimoterzo secolo, nella favella nostra volgare, che allora pigliava forma e stato, siasi composto in poesia, e che a questo tempo debbansi riferire gli antichissimi rimatori italiani, i quali tolsero ad imitare i rinomati trovatori provenzali, che per le corti dei principi, di città in città andavano cantando le loro poesie composte in lingua romanza; ma vetuste pergamene nel 1832 scoperte in Oristano e note sotto il nome di pergamene d’Arborea, e due codici dalla Sicilia spediti a Siena ed a Firenze, riconosciuti autentici dai più dotti antiquariarii e paleografi, quali sono il Martini, il Milanesi, il Vesme, il Dawis, il Pergebour, il Tischendorff, portano la poetica nostra letteratura un secolo avanti il tempo volgarmente assegnatole, cioè nei primi decennii del decimosecondo secolo e distruggono l’opinione che la Sicilia e le corti di Enzo e di Federigo II sieno state la culla dell’italiana poesia; conciossiachè contengono versi di un Gherardo fiorentino, di un Lanfranco di Bolasco genovese che sotto Gherardo studiò a Firenze, d’un Aldobrando da Siena, e d’un Bruno de Thoro cagliaritano, i quali tutti fiorirono poetando nella prima metà del duodecimo secolo, e probabilmente non furono soli. Le poesie di questi antichi raccolte dal Martini e dal Vesme, secondo lo stesso Vesme quasi tutte, anche per pregio di lingua, oltrepassano la maggior parte di quelle del secolo seguente, e rivelano come già bastantemente fosse colta e diffusa la lingua volgare.

Il decimoterzo secolo segna già un ampio sviluppo dell’italiana letteratura ed un consolidarsi e pigliar piede della volgar favella: moltissimi sono i poeti di quest’età, e se non pochi si trovano disadorni e goffi, come Jacopo da Lentino e Guittone ripresi dall’Alighieri, ce ne ha pur molti gentili e graziosi, come Guido Guinicelli appellato da Dante padre suo e degli altri suoi migliori che mai rime d’amore usar dolci e leggiadre (Purg., XXVI, 97), e Fra Jacopone da Todi, la cui canzone alla Vergine può ben reggere al paragone di quella tanto celebre di Francesco Petrarca.

Ma il cominciare del secolo decimoquarto fu sì luminoso per poesia, che alla gloria d’una nazione potrebbe bastare solo; allora sorse . . . . . Colui che fuore – Trasse le nuove rime cominciando – Donne ch’avete intelletto d’amore (Purg., XXIV, 49); e la volgare poesia fu recata al più alto segno di perfezione; anzi in Dante, come in Omero la greca, si compendia e si assomma l’italiana letteratura, poichè, per valermi d’una sua espressione (Purg., XXXIII), nel gran poema dantesco è legato in un volume ciò che per gli altri poeti si squaderna. All’Alighieri tenne dietro immediatamente il Petrarca, il poeta delle anime gentili, ch’infinita provvidenza ed arte – Mostrò nel suo mirabil magistero ed in rime sparse mandò tal suono, che quanto duri la signoria d’amore in terra, vivrà ripetendosi di bocca in bocca, ed all’infinito manderà il suo eco. A questi due s’aggiunge terzo Giovanni Boccaccio, maestro e principe della prosa italiana, per opera del quale le semplici ed incolte prose del Malespini, del Novellino, e degli altri antichi riceverono regolarità, ornamento, eleganza e maestà dignitosa. Così in tripartito raggio a noi rifulge la prima gloria delle nostre lettere, e l’Italia fu allora in mezzo al mondo come un fuoco ch’emisperio di tenebre vincìa . Altri molti emularono questi grandi, e l’auree loro scritture sono e debbon essere oggetto dei nostri studii e della nostra imitazione, poichè per noi il decimoquarto è il secol d’oro.

5. Preludii alla drammatica nella rappresentazione dei Misteri. – L’epopea e la lirica ebbero allora tali cultori, come si è detto, che tolsero altrui speranza di poterli non che superare e vincere, pur arrivarli; ma la drammatica, si rimase sterile e muta; anzi si direbbe per siffatto modo essersi smarrito il concetto della commedia, che Dante diè questo titolo al suo poema epico, per la sola ragione, come dice egli stesso, che comincia male, cioè coll’inferno, e termina felicemente cioè col paradiso, ed è dettato nella favella volgare, in cui anche le femminette comunicano: Nam si ad materiam respiciamus, a principio horribilis et foetida est quia infernus; in fine prospera, desiderabilis, et grata, quia paradisus; si ad modum loquendi, remissus est modus et humilis, quia locutio vulgaris, in qua et mulierculae communicant. Et sic patet quare comoedia dicitur . Erano tuttavia in uso certe sacre rappresentazioni dette Misteri, che durarono poi parecchi secoli in appresso e facevansi nelle chiese e nei monasteri in occasioni di feste e solennità religiose; ma, come dice il Tiraboschi, o fosse che esse in allora altro non fossero che scene mute, o fosse che gli attori ragionasser tra loro come veniva lor sulla bocca, o fosse finalmente che niuno allor si prendesse pensiero di conservar ai posteri cotali poesie, è certo, che dopo la decadenza della letteratura fino al secolo decimoquarto non abbiamo alcuna sorta di poesia drammatica composta in Italia, che sia fino a noi pervenuta. Nonostante questo, Domenico Maria Manni credette di ravvisare in alcune leggende toscane di santi, che vanno unite colle vite dei SS. Padri volgarizzate nel buon secolo, la materia onde si traevano tali sacre rappresentazioni, le quali per conseguenza ci potrebbero somministrare alcuna generale idea del come fossero composti questi drammi. Ecco come ne discorre in una delle prefazioni alle medesime vite: «Sovra alcuna di queste vite toscane, io son di parere, per qualche confronto venutomi fatto, che fossero lavorate talune di quelle poesie che gli antichi nostri appellavano rappresentazioni. E ben rappresentazioni si trovano nella maggior parte de’ racconti che pubblichiamo qui noi, come di S. Maria Maddalena, di S. Margherita, di S. Eufrasia, di S. Eustachio, di S. Giovan Gualberto, di S. Dorotea, di S. Onofrio, di S. Francesco, di S. Alessio, di S. Domitilla, dell’Ascensione, dello Spirito Santo, riferite da Francesco Cionacci nelle note sopra le rime sacre di Lorenzo de’ Medici; le quali rappresentazioni solevansi in certi tempi dell’anno in alcune chiese recitare con pompa di lumi e di macchine, come fra le altre fu fatto di quella dello Spirito Santo, per cui avvenne l’anno 1470 l’incendio della chiesa vecchia di S. Spirito di nostra patria». Tali drammi furono usati anche in Francia, dove son conosciuti sotto il nome di Comédie sainte, ed avversati e proibiti dal clero, venivano, dice nell’Enciclopedia il cavalier di Jancourt, favoriti e protetti dalla corte; onde, durante il regno di Carlo VI, si formarono confraternite sotto il titolo della Passione di Cristo, le quali componevano e rappresentavano siffatte commedie divise in atti e scene regolari, a cui con grande piacere assistevano i re ed i principi, e lo stesso Francesco I, sì celebre nelle istorie, se ne dilettava assaissimo, tanto che a siffatte confraternite confermò ed accrebbe i privilegi e le esenzioni.

Tali adunque furono gli esordii della commedia italiana, ed i Misteri si potrebbero in qualche modo paragonare alle Atellane dei Latini: poichè, come queste, durarono a fianco del dramma regolare ed artifizioso imitato da Plauto e da Terenzio, e ne tolsero, senza cambiare la sostanza e l’indole loro particolare, la forma e l’andamento artistico, e tutto ciò che poteva loro giovare a perfezione. Nel decimosesto secolo diventarono vere commedie, ed ebber nodo ed intreccio, nè mancarono, come si può vedere in alcune del Cecchi, di mordace dicacità specialmente contro il clero. Moltissime ne compose il Cecchi uomo spirituale e devoto massime in vecchiaia, quando, come dice egli stesso: Fatto vecchio e pentito degli errori – Commessi in ciò, si va per compiacervi, – Consumando la carta, inchiostro e tempo – In queste cose da monache, e bastali – Per premio delle sue fatiche deboli – Ch’ e’ si preghi per lui il Signore Dio – Ch’ e’ lo conosca almanco in su quest’ultimo Della vita . Nondimeno tante erano le richieste, che annoiato, nel prologo della rappresentazione di Tobia prega gli spettatori a biasimarlo e levargli il credito, perchè per cotal verso, dice, pensa ei di liberarsi dalla molta – Molestia che gli danno e frati e monache – Perch’egli impiastri lor delle commedie. Onde si può raccogliere non avere in tutto ragione il Quadrio, quando degli antichi drammi sacri stabilisce assolutamente così (vol. 3, lib. I, dist. 1, c. 4): «Niun’osservazione nè regola in questi componimenti pur si teneva, nè quanto all’unità dell’azione, nè quanto alla durazione del tempo, nè quanto all’identità del luogo, nè quanto ad altro che dalla buona tragica sia richiesto»: poichè se questo può dirsi del decimoterzo e del decimoquarto secolo, non e altresì vero dei due secoli seguenti, in cui, come si è detto, i Misteri coll’introduzione del dramma latino si perfezionarono e adattaronsi alle regole dell’arte. Ma il secolo decimosesto come nel fare, così ancora nel dire licenzioso, misteri e commedie insozzò con oscenità da non dirsi, e sacro e profano mise in un fascio con leggerezza non meno audace che ridicola, e lo stesso Cecchi, sebbene fondasse del suo chiese e monasteri e tutto si fosse dato all’anima ed alle devozioni, secondo l’andazzo comune le sacre rappresentazioni mescolò d’intrecci amorosi, di motti volgari, di parole sconcie, come si può vedere per esempio nel Samaritano e nella Morte del re Acab.

6. Altro preludio: le Novelle. – Ora ritornando indietro al secolo decimoquarto, onde presi le mosse, quantunque, come ho detto, tutta la drammatica si riducesse a questi Misteri, era tuttavia in fiore un altro genere di composizioni a quella assai vicino, e che, a così dire, le preparò il terreno e le fornì ampia materia allo scherzo, porgendole ancora la ingenua e schietta grazia del dialogo: ciò sono le novelle. Le novelle furono racconti talora veri, talora finti, e sempre dallo scrittore abbelliti con acconcie e verosimili finzioni. Ad eccezione di alcune serie e talvolta patetiche, tutte le altre dirette ad eccitare il riso e passar la malinconia, hanno spiritosissimi intrecci, piacevoli motti, incontri comici, dialoghi vivaci, e formerebbero la più grata lettura quando fossero insieme una lettura onesta. I due più grandi e celebri novellieri di questo tempo sono il Boccaccio ed il Sacchetti, amendue pieni di brio e ricchi d’invenzione e di facezie, ma l’uno grave, posato ed a fatica moventesi nel viluppo e nello strascico della toga romana, l’altro schietto, lindo, semplice, popolare; quegli nella narrazione eloquente, nella descrizione abbondante ed efficace; questi tutto azione, brio, movimento; quegli pittore a larghi e lunghi tratti di pennello; questi a tocchi forti, risentiti ed espressivi; amendue del resto egualmente inverecondi e disonesti.

Le novelle adunque furono, come a dire, il tessuto delle commedie, il quale poscia coll’aiuto e coll’imitazione dell’arte latina di Plauto e di Terenzio fu lavorato e condotto ad essere di vero dramma. Di fatti in alcune commedie tu senti il sapore della novella e ne intravvedi sotto la forma drammatica la sostanza e l’intreccio; nè più d’una novella dialogizzata si è, p. e., la graziosa farsa di Frate Alberigo del Macchiavello, anzi la stessa Mandragola non è che un’ingenosa novella tratta dalla forma narrativa e ridotta alla dialogica. L’Ariosto stesso, che in tutto si tenne all’imitazione latina, dalle novelle trasse vantaggiosi partiti alle sue commedie; così nella Lena, Flavio nella scena 7a dell’atto III è nascosto da Corbolo e Pacifico dentro una botte per sottrarlo alla vista del vecchio Fazio; ma mentre egli trovasi quivi rinchiuso, viene nella scena 9a Giuliano, il padrone della botte, a ritorla; nella scena 3a dell’atto IV si litiga per questo fatto tra Pacifico e Giuliano; finalmente compromessa in Fazio la questione, in casa costui viene spinta la botte con dentro Flavio, il quale per questa impensata avventura giunge ad ottenere l’intento de’ suoi desiderii. Ora chi, abbia letto il Decamerone sovviensi incontanente d’una novella in tutto simile a queste scene, ed io non dubito, tanta è la somiglianza, che l’Ariosto non se ne sia a questo luogo giovato. Anche nel Decamerone, nov. 2a della giornata 7a, Peronella fa entrare in un doglio o botte Giannello Strigniario per nasconderlo al marito, che allora entra in casa appunto per vender quel doglio ad un tale che e’ conduce seco; onde Peronella ricorre ad un pronto ripiego, che riuscitole a bene, dà un esito felice a quell’intricato viluppo. Ed ancora, cred’io, dall’inganno della Ciutazza ordito da quella monna Piccarda del Boccaccio al proposto di Fiesole nella nov. 4a della giornata ottava, il Bibbiena trasse le scene 2a, 3a e 13a dell’atto III della Calandra, in cui un inganno simile e con simile esito è teso da Fessenio a quel vecchio barbogio di Calandro; e dal Boccaccio e dal Bibbiena insieme tolse, rendendole migliori e più ridicole, il Lasca le scene 3a, 4a, 9a e 10a dell’atto III e la 9a dell’atto IV della Pinzochera, dove Gerozzo vecchio è condotto in simili panie dal furbo di Giannino suo servo, e poscia ritrovato da madonna Albiera sua moglie, n’è vituperato e n’ha il malanno. Dalla nov. 8a della giornata 7a altresì imitò il Bibbiena l’astuzia usata da monna Sismonda per purgarsi di ciò che il marito le apponeva in presenza dei fratelli e l’applicò alla sua Fulvi nella scena 4a e 8a dell’atto V: – ed in generale non è difficile, chi legga la Calandra, trovarvi di molti riscontri col Decamerone, ed anche frasi, motti e locuzioni intiere. Il medesimo si può vedere nel Frate Alberigo del Macchiavello. Ma lasciando pure quanto i comici poterono trarre dalle novelle per l’ordito e la materia dei loro drammi, egli è certo che dai novellieri, e specialmente dal Sacchetti, tolsero di molto quanto allo stile ed alla forma del dialogo, cui trovarono già in essi ben tracciato e disegnato, e con pochi cambiamenti acconcio alle comiche rappresentazioni. Io recherò qui un brano d’una novella del Sacchetti, nella quale si potrà vedere tutta la forza, la rapidità, il brio del dialogo comico: egli racconta in essa come per molte ragioni confondesse la stoltizia di Fazio da Pisa astrologo, e lo stringesse con interrogazioni così (Nov., 151): «. . . . Onde io gli dissi: Fazio, tu se’ grandissimo astronomaco, ma in presenza di costoro riprendimi a ragione. Qual’è più agevole a sapere o le cose passate o quelle che debbono avvenire? Dice Fazio: O chi nol sa! che bene è smemorato chi non sa le cose che ha veduto adrieto. E io dissi: Or veggiamo come tu sai le passate che sono così agevoli. Deh! dimmi quello che tu facesti in cotal dì, or fa un anno. E Fazio pensa. E io seguo: Or dimmi quello che facesti or fa sei messi? E quelli smemora. Rechiamla a somma: che tempo fu, or fa tre mesi? E quelli pensa, guata, come uno stralunato. E io dico: Non guatare; ove fosti tu già fa due mesi a quest’ora? E quelli si viene avvolgendo. E io il piglio per lo mantello e dico: Sta fermo, guardami un poco: qual naviglio ci giunse già fa un mese? o quale si partì? Eccoti costui quasi un uomo balordo. Ed io allora dico: Che guati? Mangiasti tu in casa tua o in casa d’altrui, oggi fa quindici dì? E quelli dice: Aspetta un poco. E io dico: Che aspetta? io non voglio aspettare. Che facevi tu, oggi fa otto dì, a quest’ora? E quelli: Dammi un poco di rispitto. Che rispitto si de’ dare a chi sa ciò che dee venire? Che mangiasti tu il quarto dì passato? E quelli dice: Io tel dirò. Oh! che nol di’? E quelli dicea: Tu hai gran fretta. E io rispondea: Che fretta? Di’ tosto, di’ tosto. Che mangiasti jermattina? Oh che nol di’? E quelli quasi al tutto ammutoloe. Veggendolo così smarrito, e io lo piglio per lo mantello e dico Diece per uno ti metto, che tu non sai se tu se’ desto, o se tu sogni. E quelli allora risponde: Alle guagnele che ben mi starei, se io non sapessi che io non dormo. E io ti dico che tu non lo sai, e non lo potresti mai provare. Come no? Oh non so io che io son desto? E io rispondo: Sì ti pare a te, e anche a colui che sogna, par così. Or bene, dice il Pisano, tu hai troppi sillogismi per lo capo. Io non so che sillogismi. Io ti dico le cose naturali e vere ma tu vai drieto al vento di Mongibello; e io ti voglio domandare d’una cosa: Mangiastu mai nespole? E il Pisano dice: Sì, mille volte. O tanto meglio! Quanti noccioli ha la nespola? E quelli risponde: Non so io, ch’io non vi misi mai cura. E se questo non sai, ch’è sì grossa cosa, come saprai mai le cose del cielo? Or va più oltre, diss’io. Quanti anni sei tu stato nella casa dove tu stai? Colui disse: Sonvi stato sei anni e mesi. Quante volte al dì hai salito e sceso la scala tua? Quando quattro, quando sei e quando otto. Or mi di’: quanti scaglioni ha ella? Dice il Pisano: Io te la do per vinta. E io gli rispondo: Tu di’ ben vero che io l’ho vinta per ragione; e che tu e molti altri astronomachi con vostre fantasie volete astrologare e indovinare, e tutti siete più poveri che la cota; e io ho sempre udito a dire: chi fosse indovino, sarebbe ricco. Or guarda bello indovino che tu se’, e come la ricchezza è con teco».

Molti altri luoghi e del Sacchetti e del Boccaccio si potrebbero, se la brevità il consentisse, citare, in cui ha tutto il movimento, la venustà, la grazia del linguaggio comico, e i motti, le facezie, i sali abbondano, quanto in alcuna vera commedia. Così si dispose ed apparecchiò e la materia e la forma della commedia un secolo e mezzo innanzi ch’ella nascesse, ed è appunto per questa diuturna maturazione, che venne poi in luce diligentemente elaborata e quasi perfetta, conciossiachè quanto più è lento e difficile il processo, tanto più l’effetto è sicuro e l’esito buono e felice.

7. Il quattrocento. Prime commedie italiane. – Il decimoquarto secolo fu per l’Italia un secolo di genii veramente creatori, ed un glorioso inizio d’una letteratura e d’una lingua, che pur allora dalle bocche del popolo passava negli scritti dei letterati e dei dotti; ma il decimoquinto soffocò coll’erudizione il nuovo genio e spinse di bel nuovo indietro le lettere volgari, come cosa disutile ed inelegante. Già il Petrarca aveva dato l’esempio col ricercare per le biblioteche i classici modelli della latinità da lungo tempo dimenticati, in questo aiutato dal Boccaccio, non meno di lui investigatore infaticabile di libri e di codici; e ricopiandoli diffonderli e farli conoscere e studiare; onde i quattrocentisti applicarono del tutto al latino, ed a scapito dei moderni fecero rivivere gli antichi per quasi tutto il secolo; se non che verso la fine di esso e il cominciar del cinquecento si ridestarono l’amore ed il culto della toscana favella, a cui piegaronsi i latinisti medesimi, come il Poliziano, il quale greco, latino e toscano scrisse con pari facilità, e pur non scadendo nè le latine, nè le greche lettere, risorsero le italiane ed ebbero il massimo incremento. A questo rinascere della lingua volgare contribuì moltissimo il card. Pietro Bembo amante di essa studiosissimo, il quale e coll’esempio e co’ dialoghi sulla volgar lingua intese e riuscì a distruggere il pregiudizio comune ancora fra i letterati, che la toscana favella non fosse atta a trattare con dignità e con eleganza soggetti gravi ed argomenti serii; onde noi dobbiamo avergli grazia e merito d’aver dato alle lettere nostre un impulso che più non s’indebolì, nè venne meno. Per queste ragioni adunque è manifesto che il quattrocento non potè produrre nè commedia nè altro dramma qualsiasi italiano, prima dell’Orfeo del Poliziano; e la Fabula di Cefalo di Niccolò da Correggio, citata da taluni come di questo secolo, fu composta circa l’anno 1486, cioè dopo l’Orfeo, e verso la fine del secolo. Del resto la era quella una favola senza metodo e senza artifizio, poichè nel prologo l’autore stesso si protesta non esser la sua nè tragedia nè commedia: Non vi do già questo per commedia; – Chè in tutto non si osserva il modo loro; – Nè voglio la crediate tragedia, – Sebben de Ninfe gli vedreti il coro. – Fabula o istoria qual ella se sia, – Io ve la dono e non per precio d’oro.

Il medesimo si ha da dire della Floriana, commedia in terza rima e intessuta di altri metri, cui Luigi Riccoboni vorrebbe riferire al principio del 1400, ma che, sebbene, come dice Scipione Maffei, nell’edizione seconda del 1526 si dica commedia antica, non può essere posta innanzi all’Orfeo, e quindi cade anch’essa negli ultimi anni del secolo decimoquinto: il che si conferma dal Tiraboschi, il quale contro l’avviso del Quadrio la reputa d’assai posteriore. Molto meno fondato, secondo lo stesso Tiraboschi, si è quello che il Quadrio sulla fede d’altri scrittori dice, cioè, che Giovanna di Fiore da Fabbriano al principio del secolo decimoquinto scrivesse due commedie in versi italiani intitolata l’una: Le fatiche amorose, l’altra La fede, e che un Ferdinando Silva cremonese per le nozze di Bianca Maria Visconti con Francesco Sforza componesse in italiano e facesse rappresentare un’altra commedia intitolata L’amante fedele; poichè non ve n’ha memoria in scrittori di quei tempi, e quelli che dal Quadrio si allegano non sono così autorevoli, che basti la loro parola a farne fede sicura. Quello poi che il Bumaldi narra di tragedie volgari composte circa l’anno 1250 da Fabbrizio bolognese non si può in alcun modo ammettere, poichè è chiaro il Bumaldi essere stato indotto in errore da un luogo male da lui inteso del volgare eloquio di Dante, ov’è detto (lib. II, c. 22) che Guido Ghislieri e Fabbrizio bolognesi cominciarono ad usare nel genere tragico del verso settenario: Verumtamen quosdam ab eptasyllabo tragice incoepisse invenimus, videlicet Guidonem de Ghisileriis et Fabricium bononienses; ma Dante, come ognun sa, e come osserva il p. Affó, per tragico intendeva semplicemente stile sublime nella stessa guisa che elegiaco chiamò lo stile umile e basso, e comico lo stile mezzano; le quali denominazioni spiega egli stesso dicendo (ib., c. 3): Deinde in his quae dicenda occurrunt, debemus discretione potiri, utrum tragice, sive comice, sive elegiace sint canenda. Per tragoediam superiorem stilum intelligimus, per comoediam inferiorem, per elegiam stilum intelligimus miserorum. Senza che parlando altrove dell’idioma bolognese cita Fabbrizio con altri non tragici, ma lirici cantori, Guido Guinicelli, Guido Ghislieri ed Onesto, e ne riporta questo verso, che chiaramente appare essere di una canzone: Lo mio lontano gire (ib., lib. I, cap. 15).

Niun vero dramma dunque precede l’Orfeo del Poliziano, se si eccettuano le informi rappresentazioni dei misteri, come si è detto, una delle quali abbiamo in questo tempo composta da Giuliano Dati fiorentino che viveva circa l’anno 1443 ed intitolata: La rappresentazione del Nostro Signor Gesù Cristo, la quale si rappresenta nel Colliseo di Roma il venerdì santo con la SS. Resurrezione istoriata. Feo Belcari, scrittore in prosa purgatissimo, autore dell’elegante Vita del b. Giovanni Colombini e del volgarizzamento del Prato spirituale, nato in Firenze l’anno 1410, e morto il 1484 compose in ottava rima l’Abramo e l’Isacco, che si rappresentò, come dice il Mazzucchelli, per la prima volta nella chiesa di S. Maria Maddalena in Firenze l’anno 1449. Più tardi abbiamo quella di Barlaam e Josafat di Bernardo Pulci, ed un’altra della sua moglie Antonia, e quella dei Ss. Giovanni e Paolo di Lorenzo de’ Medici; come anche la Conversione di Santa Maria Maddalena ed i Miracoli di S. Geminiano di Antonio Alamanni. Pietro Napoli Signorelli ricorda pure e descrive certe farse ridicole buffonesche composte da Piero Antonio Caracciolo, le quali in questo secolo, sotto il regno di Ferdinando I, furono in Napoli rappresentate.

8. Drammi latini in Italia. – Ma quantunque non si componessero commedie e tragedie in volgare, se ne componeva tuttavia in latino; ed Albertino Mussato scrisse la tragedia Ezzelino; Secco Polentone la commedia Lusus ebriorum, tradotta poscia in italiano e intitolata la Catinia; Gregorio Corraro patrizio veneto, morto nel 1464 di soli 18 anni, compose una tragedia intitolata Progne, tradotta e data per sua in seguito dal Domenichi; Leonbattista Alberti stese in prosa latina una commedia detta Philodoxeos, che per lungo tempo fu stimata opera di antico scrittore; Ugolino da Parma, di cui un’antica orazione di anonimo recitata l’anno 1437 dice: Comoedias edidit ornatas, dulces et jucundissimas, scrisse la Philogenia in prosa latina, con stile, dice il Tiraboschi, simile a quello dell’Alberti che sente alquanto di quel de’ comici antichi. Una tragedia in versi jambici dedicata al duca Borso, la quale tratta delle vicende del celebre capitano Jacopo Piccinino, arrestato nel 1464 e fatto morire da Ferdinando re di Napoli, intitolata De captivitate ducis Jacobi, fu di questo tempo composta da un Laudivio, dal Maffei creduto veronese, ma che fu da Vezzano nella Lunigiana, grosso paese poco distante da Sarzana, come si vede da una lettera del card. Jacopo Ammanati, nella quale vien così nominato: Laudivius Vezanensis Lunensis Eques Hierosolymitanus; e secondo il p. Oldoino nel suo Ateneo Li gustico appartenne alla famiglia Zacchia; ed in un’elegia a lui indirizzata è lodato come valoroso poeta: Laudivi celebres inter numerande poetas – Quos sacra Cyrrhei nutriit unda lacus, sebbene il Pontano lo biasimi come uomo vanaglorioso, pieno di se stesso e poeta da nulla: inanissimi simul hominis, et ineptissimi poëtae. In un epigramma latino di Girolamo Bologni è lodato come primo scrittore di tragedia Tommaso da Prato trevigiano, che una ne compose sopra la passione di Cristo:

Nemo Sophocleos ausus tentare cothurnos
Colchica per proprios detulit acta pedes:

Divinam sobolem crudeli caede peremptam
Tu canis et Iudae Pontificumque nefas;

ed un’altra sullo stesso soggetto di Bernardino da Campagna è ricordata dal Maffei. L’uso di scriver latino i componimenti drammatici si mantenne ancora per qualche tempo nel secolo seguente, poichè il famoso Pier Paolo Vergerio negli anni di gioventù compose una commedia latina intitolata: Paulus; comoedia ad juvenum mores instituendos . Nè solamente si componevano tragedie e commedie dagli scrittori d’allora, ma rappresentavansi ancora le antiche commedie di Plauto e di Terenzio, preponendovi elegantissimi prologhi lavorati dai più valenti latinisti del tempo, come il Poliziano, il quale a richiesta di Paolo Comparino ne stese uno bellissimo sul far di Plauto per i Menecmi, che si può leggere nell’epistola 15a del libro VII diretta allo stesso Comparino. Difatti Marc’Antonio Sabellico nella vita di Pomponio Leti dà a questo celebre letterato la lode di aver fatto rivivere in Roma i drammi antichi ed aperto l’adito ai moderni, cosa in questa città non prima veduta: Pari studio veterem spectandi consuetudinem desuetae civitati restituit, primorum Antistitum atriis pro theatro usus, in quibus Plauti, Terentii, recentiorum etiam quaedam agerentur fabulae; anzi nello stesso palazzo pontificio alla presenza del papa si rappresentò l’anno 1484 un dramma intorno alla vita di Costantino, come attesta Jacopo Volterrano nel diario pubblicato dal Muratori: Bacchanalium die qui carnisprivium nuncupatur, acta est historia Constantini Caesaris in Pontificis atrio, ubi Cardinales in Curiam venientes ab equis descendunt. Pontifex e superioribus fenestris laetus spectavit. Huic scenae praefectus erat Genuensis quidam Constantinopoli natus et educatus, et in Pontificis familiam ascitus. Hic cum Constantini personam sustineret, ex eo die imperatoris nomen accipiens, usque ad mortem illud honorifice detulit.

9. I teatri. – Essendo tutti questi drammi composti in latino, e perciò non intesi se non dai letterati, si rappresentavano non in teatri pubblici, ma nelle corti dei principi, la quale usanza durò ancora nel secolo seguente in modo che tutta la classica commedia del decimoquinto e del decimosesto secolo fu cortigiana. Si fabbricavano i teatri ora posticci, ora stabili con lusso e con pompa quando maggiori, quando minori, secondo le occasioni. In Roma furono splendide e magnifiche le rappresentazioni fatte per ordine del card. Riario quando in questa città passò Eleonora di Aragona che andava sposa l’anno 1473 al duca di Ferrara Ercole I: e l’Infessura nel Diario presso il Muratori ne dice così: «Lo cardinale di Santo Sisto, detto frate Pietro, nel detto tempo fece coprire la piazza de’ Santi Apostoli et fece certi tavolati intorno alla detta piazza con panni di arazzo et tavole a modo d’una loggia e corritore; et anche sopra lo porticale di detta chiesa fece un’altra bella loggia tutta ornata, et in quei tavolati fu fatta per li Fiorentini la festa di Santo... (il nome del santo non è espresso). E dopo lo martedì fu fatta l’altra devozione, del Corpo di Cristo, et nello martedì fu fatta l’altra di S. Giovanni Battista». Al medesimo cardinale è diretta una lettera di Sulpizio da Veroli, citata dal Tiraboschi, dalla quale si conosce quanta fosse la magnificenza di questo prelato nelle cose teatrali. Eccone un passo: Tu enim primus Tragoediae, quam nos iuventutem excitandi gratia et agere et cantare primi hoc aevo docuimus (nam eius actionem iam multis saeculis Roma non viderat); in medio foro pulpitum ad quinque pedum altitudinem erectum pulcherrime exornasti: eamdemque, postquam in Hadriani mole Divo Innocentio spectante est acta, rursus intra tuos penates, tamquam in media Circi cavea, toto consessu umbraculis tecto, admisso populo et pluribus tui ordinis spectatoribus honorifce excepisti. Tu etiam primus picturatae scenae faciem, quum Pomponiani Comoediam agerent, nostro saeculo ostendisti. Quare a te quoque Theatrum novum tota Urbs magnis votis expectat; videt enim liberalitatem ingenii tui, qua ut uti possis, Deus et fortuna concessit. Lo stesso cardinale in casa sua fece innalzare un teatro per la rappresentazione di un dramma riguardante la presa e l’espugnazione di Granata, composto dal cesenate Carlo Verardi in occasione che si festeggiò in Roma la vittoria che dei Mori riportò il re Ferdinando di Spagna, dalla quale s’ebbe il titolo di Cattolico. Il dramma era latino ed in prosa, e venne dal Verardi con un’epistola dedicato al Riario. L’esempio di Roma fu fecondo ed ebbe in molti luoghi imitatori, che cominciarono a procurare teatrali rappresentazioni ed erigere nelle corti e nei palazzi ricchi ed eleganti teatri; ma tutti in pompa e magnificenza sorpassò Ercole I duca di Ferrara, la qual città fu, come si vedrà, la culla della drammatica volgare. L’antico diario ferrarese edito dal Muratori e citato dal Tiraboschi fa spesso menzione di tali spettacoli teatrali; ed il primo che accenni si è quello del 25 gennaio 1486: «Il duca Ercole da Este fece fare una festa in lo suo cortile, et fu una facezia di Plauto che si chiama il Menechmio . Erano due fratelli che si assomigliavano, che non si conoscevano l’uno dall’altro; e fu fatto suso uno tribunale di legname con case cinque merlade, con una finestra et uscio per ciascuna; poi venne una fusta di verso le caneve et cusine et traversò il cortile con dieci persone dentro, con remi et vela del naturale, et qui si attrovonno li fratelli l’uno con l’altro, li quali erano stati gran tempo che non s’avevano visti; et la spesa di dicta festa venne più di ducati 1000». Indi segue a narrare come a gennaio dell’anno seguente fu fatta un’altra facezia di Plauto chiamata Cefalo; e poi di nuovo «di notte la festa di Amfitrione e di Sosia con un paradiso con stelle ed altre robe che fu una bella cosa; ma non si potè finire, perchè cominciò a piovere et bisognò lasciar stare a hore cinque di notte et doveva durare fino alle nove, et ghe era il Marchese di Mantua et messer Hannibale de’ Bentivogli fiolo di messer Zoanne de’ Bentivogli di Bologna con una grande compagnia, li quali erano venuti a trovare la sposa fiola del duca Hercole: per dicto messer Hannibale». E così molte altre feste teatrali con sfoggiati apparecchi furono nei seguenti anni date e da Ercole e da Alfonso. Anche Ludovico Sforza, duca di Milano, a favorire le lettere ed i letterati fece aprire in Milano un teatro, come dimostra un epigramma a lui indirizzato da un poeta di quel tempo, Landino Corti, che è riportato dal Tiraboschi. Su questi teatri principeschi adunque si rappresentavano drammi latini, e principalmente in Ferrara mettevansi sulla scena Plauto e Terenzio, come si è veduto testè, e come anche attesta il Bembo, che alcuna fiata vi si trovò presente, in una lettera ad Angelo Gabrielli: Non fuit tanti comitiis, et foro interesse, ut ludis nostris careres: tres fabulae actae sunt per hos dies, Plautinae duae, Trinummus et Poenulus, et una Terentii Eunuchus, quae quidem ita placuit, ut etiam secundo et tertio sit relata . È da osservare per altro che molte di queste commedie rappresentate in Ferrara erano voltate in volgare da diversi e dallo stesso duca Ercole, che tradusse i Menechmi; ed il Cefalo ricordato sopra dal diario ferrarese si è quello di Niccolò da Correggio, del quale ho già innanzi fatto menzione, e che non è, come afferma il diario, una traduzione di Plauto, ma una specie di dramma pastorale, rozzo ed informe, secondo che si è già osservato.

10. L’Orfeo del Poliziano. – Il primo dramma veramente italiano fu l’Orfeo di Angelo Poliziano, del quale io non dovrei parlare, come di quello che pende piuttosto al tragico, se non fosse che da esso ha principio la storia della drammatica nostra, ed è la prima composizione teatrale non tradotta dall’antico, che in verità meriti tal nome.

Chi fosse Angelo Poliziano non è uom che l’ignori; celebre latinista, valente grecista, nelle cose sue volgari pieno di grazia ingenua e di fiorita eleganza. Giovinetto di quattordici o quindici anni, egli compose le stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici, e tosto da quella potente famiglia fu ricevuto in grazia, ed a Lorenzo il Magnifico fino alla morte fu carissimo. Fanciullo ancora, come scrive egli stesso ad Antonio Zeno, tradusse dal greco in eleganti versi latini l’Amor fuggitivo di Mosco: Amorem fugitivum, quem pene puer adhuc e graeco in latinum converti, non sententiis modo, sed numeris etiam servatis ac lineamentis pene omnibus, cupienti flagitantique diu tibi mitto tandem . Quanto poi valesse nella poesia volgare ce lo attestano le preziose sue rime, e l’elogio che ne fece il celebre Giovanni Pico, il quale a Dante ed al Petrarca lo agguaglia: Rythmis praeterea Hetruscis Franciscum Petrarcam et Dantem elegantia et vi poetica, nec scriptura tantum sed pictura earum rerum quas exprimit, facile aequavit : ed Antonio Camelli, detto il Pistoia, citato dall’Affó nella prefazione alla sua stampa dell’Orfeo, di lui così cantò in un sonetto:

Chi dice in versi ben, che sia toscano?
Di’ tu in vulgare? in vulgare e in latino,
Laurenzio bene, e il suo figliuol Pierino;
Ma in tutti e due val più il Poliziano.

Ora il cardinale di Mantova, creato legato del Papa in Bologna, a Mantova sua patria, di cui anche era vescovo, volle recarsi traendo seco una grande comitiva di amici e di contigiani, fra cui si trovavano Galeotto e Giovanni Pica della Mirandola ed il Poliziano stesso. Ciò avveniva, secondo la congettura del Bettinelli, approvata e ricevuta dall’Affó l’anno 1472, onde il Poliziano contava appena diciott’anni, e nove, o tutt’al più undici, Giovanni Pico. Quivi il Poliziano a requisizione del cardinale che aveva destinata una festa teatrale, in due giorni fra tumulti e disturbi compose l’Orfeo, che da cortigiani ed amici fu rappresentato con approvazione ed applausi di tutti gli spettatori. Ma il Poliziano dopo la rappresentazione non se ne diede altra cura e come parto informe all’usanza dei Lacedemoni l’avrebbe spento, secondo che scrive egli stesso al Canale, se gli amici suoi e specialmente il detto Carlo Canale, cameriere del cardinale di Mantova, a cui era sommamente piaciuto, non lo avessero mantenuto in vita e più tardi fatto pubblicare. Ecco la citata lettera del Poliziano al Canale, che erroneamente fu creduta una dedica premessa all’edizione dell’Orfeo, mentre non è altro che una lettera privata di raccomandazione, come fece osservare il p. Ireneo Affó: «Angelo Poliziano a messer Carlo Canale, salute. – Solevano i Lacedemoni, umanissimo messer Carlo, quando alcun loro figliuolo nascea o di qualche membro impedito o delle forze debile, quello esponere subitamente, nè permettere che in vita fosse riservato, giudicando tale stirpe indegna di Lacedemonia. Così desideravo ancor io che la fabula di Orfeo, la quale a requisizione del nostro reverendissimo Cardinale Mantuano, in tempo di duo giorni, intra continui tumulti, in stilo vulgare, perchè dagli spettatori fusse meglio intesa, aveva composta, fosse disubito non altrimenti che esso Orfeo lacerato; cognoscendo questa mia figliuola essere di qualità da fare piuttosto al suo padre vergogna che onore, e piuttosto atta a dargli malinconia che allegrezza. Ma vedendo che voi ed alcuni altri, troppo di me amanti, contro alla mia volontà in vita la ritenete, conviene ancora a me avere più rispetto all’amore paterno e alla volontà vostra che al mio ragionevole instituto. Avete però una giusta escusazione della volontà vostra, perchè essendo così nata sotto lo auspicio di sì clemente signore, merita di essere esenta dalla comune legge. Viva dunque, poichè a voi così piace; ma ben vi protesto che tale pietà è una espressa crudeltà; e di questo mio giudizio desidero ne sia questa epistola testimonio. E voi che sapete la necessità della mia obbedienzia e l’angustia del tempo, vi priego che colla vostra autorità resistiate a qualunque volesse la imperfezione di tale figliuola al padreattribuire. Vale» – Così un manoscritto dell’Orfeo certamente autentico e corretto rimase nelle mani del Canale, ma molti altri ne correvano accozzati alla peggio e confusamente dagli attori stessi che ne ritenevano a memoria alcuni brani, di che la prima edizione, seguita poi man mano da altre, uscita ai 9 d’agosto del 1494, quarantasei soli giorni prima che il Poliziano morisse, e per conseguenza non riveduta nè corretta da lui, riuscì un imbratto senza distinzione d’atti e di scene, e sì alieno dall’osservanza d’ogni legge teatrale, che tra le altre sconvenienze, come nota il Tiraboschi, Orfeo veniva fuori a cantare un’ode saffica latina in lode del cardinal Gonzaga. Così venne stampato più e più volte questo lavoro a carico del povero autore morto, che vi faceva la più meschina e la più trista figura del mondo; finchè il p. Ireneo Affó nella biblioteca del suo convento di Santo Spirito in Reggio scoperse un vetusto codice miscellaneo, ch’era appartenuto al p. Giambattista Cattaneo, nel quale fra varie rime di autori diversi contenevasi l’Orfeo del Poliziano col titolo di tragedia, ed accuratamente distinto in cinque atti, premessovi a modo di prologo l’argomento che la divisione in atti annunzia espressamente: «Or stia ciascuno a tutti gli atti intento – Che cinque sono e questo è l’argomento». Il quale codice, confrontato con un altro altresì antico del signor Buonafede Vitali di Busseto, si trovò perfettamente convenire, eccettuata la divisione in atti, che in quest’ultimo mancava. Onde l’Affó pose mano a pubblicarlo, arricchendolo ed illustrandolo di critiche osservazioni erudite ed assennate; e grazie alle sue cure e fatiche possiamo leggere l’Orfeo quale fu dettato dall’autore ed ammirarne l’artistica struttura, la purità della lingua, l’eleganza e la gentilezza dello stile. Nel modo pertanto che dall’Affó venne pubblicato può all’Orfeo convenirsi il titolo di tragedia, conciossiachè il soggetto appartenga al genere tragico, ed il nodo dell’azione si risolva in un fine funesto che è l’uccisione di Orfeo fatta dalle Menadi, la quale non si rappresenta sulla scena conforme alla regola di Orazio, ma è annunziata da una Menade; e la tragedia si termina con un coro di queste Menadi ebbre e baccanale, che è una vera gemma ed un modello di stile ditirambico da meritare di essere qui recato:

Coro di Menadi (Atto V, sc. ult.).

Ciascun segua, o Bacco, te – Bacco Bacco oè oè.
Di corimbi e di verd’edere – Cinto il capo abbiam così.

Per servirti a tuo richiedere, – Festeggiando notte e dì,
Ognun beva, Bacco è qui – E lasciate bere a me.

Ciascun segua, ecc.
Io ho vòto già il mio corno; – Porgi quel cantàro in quà.

Questo monte gira intorno, – O il cervello a cerchio va,
Ognun corra in quà e in là – Come vede fare a me.

Ciascun segua, ecc.
Io mi moro già di sonno, – Sono io ebbro, o sì o no?

Più star dritti i piè non ponno; – Voi siet’ebbre ch’io lo so.
Ognun faccia com’io fo: – Ognun succe come me.

Ciascun segua, ecc.
Ognun gridi: Bacco, Bacco, – E pur cacci del vin giù,

Poi col sonno farem fiacco; – Bevi tu e tu e tu.
Io non posso ballar più. – Ognun gridi: oè oè.

Ciascun segua, o Bacco, te; – Bacco, Bacco, oé oè.

L’Orfeo fu al modo degli antichi Greci dal Poliziano intrammezzato di cori lirici, tra i quali ottiene certamente la palma quello delle Driadi nell’atto II, in cui queste ninfe piangono la morte della bella Euridice sposa di Orfeo, chè una serpe la morse al piè nel dito, ed essa come succisa rosa, o come colto giglio, al prato langue.

Ad alcuni, leggendo questo dramma, parrà strano chiamarlo tragedia, ed è certo che bene si discosta dall’indole della vera e perfetta tragedia quale fu presso i Greci e quale negli ultimi tempi risorse in Francia ed in Italia, pur tuttavia, come scriveva il Tiraboschi in una lettera dei 19 aprile 1715 al p. Affó, il titolo di tragedia non gli disconviene in tutto, e quantunque non sia una tragedia di Racine o di Corneille, ha nondimeno qualche idea di tragedia, ed assai più diritto a tal nome che non il poema di Dante a quello di commedia. Lo stesso Tiraboschi in un’altra lettera al medesimo conviene, come si è veduto, che l’Orfeo sia non solo il primo dramma italiano diviso in atti, ma assolutamente il primo tra gli scritti in nostra lingua, ragione per cui, sebbene al mio proposito non s’appartenesse, n’ho voluto dare questi pochi cenni, i quali basteranno, nè io vi aggiungerò altro chè, per valermi di un’espressione dantesca: a sè ritorce tutta la mia cura – Quella materia ond’io son fatto scriba (Par., X, 26).

11. Il cinquecento. – Il decimosesto secolo segna l’epoca al risorgimento della vera commedia in Italia, come d’ogni altro genere di composizioni, poichè niuna età fu al pari di questo fortunatissimo secolo quanto alle lettere ed alle arti feconda di tanti e sì nobili scrittori veramente italiani; onde se il decimoquarto fu il secolo della creazione della nostra letteratura, ed a ragion appellasi aureo, il decimosesto ne fu del perfezionamento e del massimo incremento, dopo il quale essa volse tantosto al declivio, e precipitò; e se non aureo anch’esso, dovrebbesi chiamare d’argento; conciossiachè, sebbene niuno abbia aggiunto in tutto la perfezione dei tre grandi maestri Dante, Petrarca e Boccaccio, tuttavia non meno eccellenti ed ammirabili furono l’Ariosto, il Macchiavello, il Guicciardini ed altri moltissimi. Ma quello che più distingue il secolo decimosesto si è l’eguale coltura ed il simultaneo fiorire delle tre letterature greca, latina ed italiana, le quali in bel nesso congiunte ornarono i più eletti ingegni e furono, si può dire, a tutti gli studiosi egualmente famigliari; frutto questo della grande erudizione e dei diuturni studi del secolo precedente. La cognizione profonda delle due antiche letterature, delle quali l’una è in tutto, l’altra in parte ancor essa italiana, potè moltissimo sulla nostra, dandole quell’avviamento e quell’indirizzo che sono consentanei alle invariabili norme dell’arte e del bello; quantunque, come ho già detto sul principio di questa terza parte del mio scritto, l’avere i nostri seguite le traccie dei Greci e principalmente dei Latini, non debbasi unicamente attribuire all’imitazione esterna, ma forse più alla medesimezza del genio e dell’indole, che in una nazione radicalmente non si mutano per volger di secoli e succedersi di vicende, anzi durano sempre identici sotto forme diverse, e all’occasione producono e dànno fuori i medesimi effetti.

12. La commedia italiana nel 500. – Da questo segue che la commedia italiana dovette ricalcare le traccie della nuova greca e della latina, non scostandosi dal modello degli antichi maestri, e così fu infatti; purchè per imitazione non s’intenda il copiare o tradurre, ma il comporre ed inventare, seguendo tuttavia le regole e le leggi fissate dall’esempio degli antichi, i quali, per consenso e confessione di tutti, arrivarono la perfezione dell’arte, ed altrui col fatto la insegnarono. Alcuni, considerando le commedie del cinquecento come imitazione delle latine, e dell’imitazione forse foggiandosi uno strano e falso, concetto, le riguardano come ciarpami e vecchiumi noiosi e stucchevoli, e mentre ammirano e lodano le moderne disegnate sul modello francese, disprezzano le antiche, e non che altro, non le stimano degne pur d’essere lette. Io non voglio torre il pregio alle moderne, delle quali non è proposito mio di parlare, che anzi riconosco ed ammiro quelle di Carlo Goldoni, che sì grande, innovazione recarono nel teatro italiano, e dier luogo ad una nuova scuola d’imitatori non sempre felici; ma non posso consentire che le antiche sieno prive di merito, conciossiachè, a mio parere, l’abbiano anzi tutto, e quanto a lingua, e stile, e quanto all’arte alle moderne entrino a pezza innanzi. L’imitazione, chi ben l’intende, non nuoce, ma giova, poichè non è altro che un tenersi nella via sicura ed approvata dall’universale, che conduce al buono e al bello, mentre lo scostarsi da tutti e lasciar libero il freno all’ingegno, e la fantasia sbrigliata vagare a posta sua in cerca di nuove ed immaginarie bellezze è vizio che corrompe e deprava le lettere ed il buon gusto. Nell’ordine dei fatti si danno nuove scoperte, e quindi tali progressi che distruggono quasi del tutto le dottrine e le teorie precedenti che li riguardano; ma nell’ordine delle idee, trattandosi della bellezza che è eterna ed immutabile, ed agli intelletti umani sempre rifulse e rifulge degli stessi splendori, tali innovazioni e progressi sono impossibili, e se si può dare una manifestazione più ampia e più vasta di essa ed anche sotto qualche aspetto diverso (e ciò, mi pare, in tal materia è appunto il progresso), non è però che si alteri, si muti, si trasformi l’idea stessa della bellezza, conciossiachè qui valga l’adagio filosofico della scuola: Plus aut minus non mutat speciem; che se si tenti di mutarla e di crearne una nuova e fittizia, si dà nell’esagerato, nel falso, nel ridicolo, come intervenne agli scrittori del XVII secolo in generale ed al cav. Marino in particolare, le scritture dei quali oggi ci fanno ridere. Carlo Botta a questa manìa d’innovare allontanandosi dagli antichi modelli attribuisce con ragione il decadere delle lettere nel seicento in Italia e discorre quindi egregiamente dell’imitazione nei seguenti termini: «Le italiane lettere avevano fatto una grande mutazione (nel secolo XVII). I Lucani ed i Seneca erano succeduti ai Virgilii ed ai Ciceroni, fatale malattia del genere umano, che siccome nella parte fisica s’infastidisce dei cibi di sapore schietto e temperato, ed è obbligato ad andare agli acrimoniosi venuti dalle due Indie così nella parte morale gli vengono in brieve a schifo i candori delle grazie naturali, e dà nell’affettato, nello sforzato, nello spremuto ai lambicchi. Ciò deriva parte da superbia, parte da sterilità, che la natura labile e corriva dal consueto all’inconsueto secondano. Gli ingegni, a cui Quegli da cui ogni ben procede, è stato benigno del dono dell’invenzione, si sdegnano per lo più di calcare le vestigia dei precessori e vanno in cerca di novità. Ma siccome uno è il bello ed uno il buono, così si sviano, ed invece di dar in luce parti graziosi e sinceri, generano mostri. Come uno è il sole, così una è la bellezza nelle arti belle. La bellezza trovata dai Greci in Atene, dai Romani in Roma, dagli Italiani in Firenze ed in quasi tutte le città d’Italia, non è già artifiziale, ma bensì portata dalle leggi stesse della nostra natura; ella è così perchè noi siamo così. Perlochè non solo brutta ma vana e snaturata cosa fanno coloro che sotto pretesto di novità la vogliono cambiare per sostituirgliene un’altra. Possono bensì distruggere, cioè fare che non si senta più nè più s’apprezzi il bello, ma trovarne un altro, no mai; questo è un mondo nuovo che non esiste, nè v’è America in ciò. Chi fu mai più ricco d’ingegno del Marini? Certo nessuno. Ma divenuto superbo pel sentimento del proprio valore, sdegnò l’amabile candore di Sofocle, d’Anacreonte, di Virgilio, di Dante, del Tasso, e fatto insolente cercò nuove strade per trovare novità. Ma a’ dì nostri, come sempre, chi non sa discernere, leggendolo, quel che è oro in lui da quello che è orpello? E l’oro è precisamente ciò che vi è di conforme ai buoni antichi esempi, l’orpello ciò che è nuovo e suo. Erra chi crede che la novità non possa più rinvenirsi nella natìa bellezza, perciocchè immenso, anzi infinito è il regno di lei, e chi taccia l’imitazione di servilità è pazzo snaturato ed ingrato. L’imitare non è già fare esattamente ciò che gli altri hanno fatto e nulla più, ma seguitare quelle regole del comporre umano che sono dalla stessa natura dell’uomo dettate. Certo, sarebbe novità che uno camminasse colle mani e portasse gli orciuoli coi piedi. Ma chi cammina così? Nessuno, perchè il camminare è proprio dei piedi, e il portare delle mani. Per questo s’han da dannare l’uno e l’altro perchè sono imitazione? Il non imitare in questo sarebbe un rompersi il collo, come il non imitare il retto sistema nei parti dell’ingegno è dare nel difforme. L’imitazione non consiste nel trattare i medesimi soggetti e nemmen nel dar loro i medesimi aspetti, ma nel comporre conforme a quelle regole immutabili, che non sono altro che necessità derivanti dalla stessa natura nostra. Questi gelsi son pur gelsi, ed uno è così, l’altro così, ma tutti hanno la forma generale del gelso. Tale è anche la legge delle piante che sorgono dall’umano ingegno. L’imitare è lo stesso che dire che tutti gli uomini ragionevoli seguitano la ragione, e se per non imitare e far novità e’ bisogna diventar matto, io mi rimetto. Infatti confesso che i matti non imitano nessuno e sono per mia fè molto originali. Alcuni cercano in quelle cose l’America e l’America non c’è; e’ sono Colombi che navigano alla ventura per ispazi vuoti. Forse nell’imitazione come l’abbiamo descritta, e che altro non è che una conformità con la natura nostra, tale quale Dio l’ha fatta, manca la varietà, manca la novità? Certo, mai no. Mettiamo che Raffaello abbia pinto un solo quadro, quello della Trasfigurazione, per esempio. Sarebbero forse da dannarsi altri pittori, dei quali l’uno avrebbe pinto la Sacra Famiglia, l’altro la Santa Cecilia, un terzo il Trionfo di Galatea, un quarto la Madonna della Seggiola, tali quali li pinse Raffaello, sarebbero, dico, da dannarsi, perchè avrebbero imitato il fare del grande Urbinate? Non è forse diverso lo stile del Domenichino da quello di Raffaello, quel di Tiziano da quello del Domenichino, quel del Corregio da quello di tutti loro, e così via d’ogni altro? Eppure pinsero tutti colla medesima idea, secondo il medesimo tipo della bellezza, rappresentando non la natura deforme, ma la natura abbellita. Il più bel pregio, il più bel vanto dell’umano ingegno, quello che principalmente dalle bestie ci distingue, è appunto quello di aver trovato il tipo della natura abbellita in ogni genere di composizione ingenua di lettere ed arti; e v’è chi vuole risommergersi nel lezzo! Quelle differenze, quelle varietà possono andare fino all’infinito. Male adunque argomenta chi pretende non esservi varietà, non novità nell’imitazione, la quale non si dice che, consista nell’imitare un sol uomo, nè nel porre i piedi dov’ei li pose, ma nel ritrarre sempre la bellezza statuita dalla natura, e nel battere la medesima strada, che già altri condusse ai sublimi poggi, cui il mondo ammira».

Ora, se universalmente si ammette essere stati maestri e modelli della commedia i Greci, con Menandro e Filemone, i Latini con Plauto e Terenzio, non veggo perchè s’abbiano da riprendere o disprezzare i comici nostri del cinquecento, i quali si attennero al loro esempio e lavorarono sopra lo stesso tipo i loro drammi, imitando nel senso che testè si è dichiarato. Nè si può dire con verità e giustizia che abbiano copiato, od anche solo seguito servilmente con pedestre imitazione i classici modelli; conciossiachè chi voglia pure leggerne quì e quà qualche brano, s’accorgerà bentosto e di leggieri che non ne hanno tolto se non il tessuto generale, e la maniera di svolgere, di condurre e terminare il dramma (in che consiste, come si è veduto, la vera imitazione), ma che nel resto lavorarono di proprio capo e lasciando alla fantasia ed all’invenzione amplissimo campo, seppero vagarvi e diportarvisi piacevolmente, senza declinar mai dalle leggi generali dell’arte imposte dal decoro e dagli antichi esempi. La Calandra del Bibbiena, la Clizia del Macchiavello sono imitazioni, quella dei Menecmi, questa della Casina di Plauto, ma chi oserà affermare, non avere queste commedie il pregio dell’originalità nell’imitazione stessa, e non essere da sè belli, compiuti e graziosissimi drammi? Oltrecchè molti comici del cinquecento non trassero i soggetti dalle commedie latine, ma ritenendo di queste il metodo e l’artifizio, ne crearono dei nuovi e li seppero acconciamente maneggiare, come il Macchiavello la Mandragola, l’Ariosto la Lena, la Scolastica, il Negromante, il Cocchi il Donzello, il Servigiale ed altre moltissime, ed il Lasca si può dire tutte le sue, che sono pur graziosissime e piene delle più schiette grazie natìe. In quelle stesse poi che del tutto imitarono dagli antichi maestri, a mio giudizio, e di chi vorrà senza passione ed idee preconcette leggere ed esaminare, riuscirono di gran lunga superiori e nella vena del ridicolo e nella facilità e nel brio della scena e del dialogo, e nel creare quelle che chiamano situazioni comiche, e nella copia e vivacità dei sali e dei motti; il qual vantaggio dei nostri sugli antichi in gran parte devesi anche attribuire alla lingua toscana della latina molto più ricca, pieghevole, piena di partiti, di tragetti, d’idiotismi, e, Proteo novello, atta a rivestire forme svariatissime, efficaci ed eleganti. Di questo chi abbia gusto e discernimento può agevolmente convincersi, confrontando attentamente gli uni cogli altri e leggendo per via d’esempio il Trinummo di Plauto e la Dote del Cecchi da quello imitata.

13. Saggi e confronti. – La brevità del mio libro non mi permette di far confronti, tuttavia vo’ recare qualche scena dell’uno e dell’altro, poichè quantunque sieno un po’ lunghette, serviranno se non altro a ricreare alquanto l’animo del lettore che abbia avuto la benigna e paziente sofferenza di seguirmi fino a questo punto. Piglierò la scena prima dell’atto III della Mostellaria di Plauto in cui il servo Tranione con sue favole di spiriti e di fantasime cerca di allontanare dalla casa il padrone Teuropide arrivato da lungo viaggio in quel punto, affinchè non colga dentro alla sprovvista il figliuolo a far gazzarra; e per essere più agevolmente inteso, lascierò il testo latino, valendomi invece della traduzione in vivente linguaggio toscano fatta da Temistocle Gradi, sebbene il recare il volgarizzamento in cui Plauto riceve la grazia e pieghevolezza fiorentina, che gli manca nel rozzo suo latino, tolga alquanto alla perfezione ed all’esattezza del confronto; ma chi il voglia può ricorrere da sè al testo e pigliarlo come sta.

ATTO TERZO – Scena I.
Europide e Tranione.

Teur. (da sè) Tante grazie, o Nettuno, che ora mi hai lasciato venire via vivo da te. Ma se da ora innanzi tu saprai ch’io mi sia messo in mare quanto è largo un piede, fammi subito senza riguardi quello che mi volevi fare dianzi. Tutto quello che avevo da fidarti te l’ho fidato; da oggi in su alla larga fra noi.
Tran. (da sè) Oh! tu l’hai fatta grossa, o Nettuno, che ti sei lasciato sfuggire un’occasione così buona!
Teur. (come sopra) Dopo tre anni torno a casa dall’Egitto, e credo che arriverò desiderato dalla famiglia.
Tran. (c. s.) Tanto più desiderato chi fosse venuto colla nuova che ieri eri cascato morto.
Teur. (c. s., accorgendosi della porta chiusa) Ma che vuol dir questo? Così di giorno chiusa la porta? Busserò: O di casa? c’è nessuno che apra?
Tran. Chi è che si è avvicinato alla porta di casa?
Teur. (da sè) Eppure quest’uomo è il mio servo Tranione.
Tran. O padrone Teuropide, ben trovato io ti do il mi rallegro, che ti trovo in buona salute. Sei stato sempre bene?
Teur. Sempre come mi vedi.
Tran. Ci ho tanto piacere.
Teur. Ma voi altri che mi fate, siete ammattiti?
Tran. Perchè?
Teur. Così a passeggiar fuori! a guardar la casa non c’è un’anima, nè chi apra, nè chi risponda, dal bussar ho quasi rotta l’imposta.
Tran. Meschino! hai tu forse toccato qui? (accennando la casa).
Teur. Perchè non ci avevo a toccare? Anzi da picchi ho quasi rotta la porta, t’ho detto.
Tran. Ci hai toccato?
Teur. Toccato, ti dico, e bussato.
Tran. Ahi!
Teur. Che c’è? come avevo a fare a bussare senza toccare?
Tran. Tu l’hai fatta!
Teur. Che affare è egli?
Tran. L’indegna scelleraggine, il male che hai fatto non si può dire.
Teur. Ma perchè? o con che novità mi vieni a un tratto?
Tran. Affeddeddio gli hai morti.
Teur. E chi?
Tran. Tutti i tuoi.
Teur. Magari! ma morto te col tuo augurio!
Tran. E io invece ho paura che l’abbia a pagar tu e cotest’altra gente (accenna a quelli del seguito di Teuropide).
Teur. Ma che hai?
Tran. Fuggi per carità, allontanati da questa casa. Vien qua, qua più vicino a me, tocca la terra con una mano: e animo! di’ a tutta quella gente che si scosti.
Teur. Scostatevi.
Tran. Badate di non fregarla neppure, la casa, e toccate la terra voi altri ancora.
Teur. Ma di grazia, perchè non s’entra qua?
Tran. Perchè da sette mesi che ne siamo venuti via noi, nessuno ha più messo piede in questa casa.
Teur. Ma perchè? parla.
Tran. Allucia intorno; un tratto ci fosse chi chiappasse a volo le nostre parole.
Teur. Siamo bene al sicuro.
Tran. Rimira dell’altro.
Teur. Non c’è nessuno; via, parla una volta.
Tran. Un misfatto di sangue ci fu commesso.
Teur. Che vuol dire? non intendo.
Tran. Ti dico che anticamente, una volta, tempo già fu, ci commisero un misfatto di sangue; e noi l’abbiamo scoperto proprio ora.
Teur. E qual è questo misfatto, o chi lo fece? sentiamo.
Tran. Un tale, forse quello stesso che ti vendè questa casa, avendo raccettato un forestiero, lo prese, e l’ammazzò.
Teur. L’ammazzò?
Tran. Poi gli levò i quattrini, e lo sotterrò proprio qui nella casa.
Teur. O come siete venuti in sospetto di questo fatto?
Tran. Te lo dirò, ascolta. Una volta che il tuo figliuolo era stato a cena fuori, tornato a casa, ce n’andammo tutti a letto, e ci addormentammo. Io a caso m’ero dimenticato di spengere la lucerna, quand’egli a un tratto caccia un urlo che mai.
Teur. Egli chi? il mio figliuolo?
Tran. Zitto, zitto; sta’ e senti. E dice che nel sonno gli s’era fatto davanti quel morto.
Teur. Dunque proprio nel sonno?
Tran. Già, ma sta a sentir ora. E dice che ’l morto gli aveva parlato in questa conformità.....
Teur. Nel sonno eh?
Tran. Sta a vedere che glielo avrà detto desto, uno che fu ammazzato sessant’anni fa. Alle volte tu mi dai in ciampanelle, Teuropide.
Teur. Non fiato.
Tran. Ma ecco quel che gli disse il morto: Io sono Diaponzio, forestiero d’oltre mare. Abito qui; questa è l’abitazione destinata a me; poichè essendo stato privato di vita innanzi tempo, l’Orco non mi volle ricevere nell’inferno. Sotto il velo dell’ospitalità fui tradito, il mio ospite mi uccise qui, e scellerato per amor del denaro, qui pure in questa casa mi sotterrò senza onore di sepoltura. Ora tu vattene di qui: questa casa è scellerata, l’abitarvi è empia cosa. Se t’avessi a dire gli spiriti, che qui ci fa, un anno mi basterebbe appena.
Teur. Sta, sta.
Tran. Per carità che è stato?
Teur. Del rumore alla porta.
Tran. A questa hanno bussato? Non m’è restato sangue nelle vene. I morti mi chiamano vivo vivo all’inferno. (fra sè) Son rovinato! coloro là oggi mi vogliono rompere l’incantesimo. Ho una paura ladra che questo vecchio m’abbia a scoprire.
Teur. Che borbotti fra te?
Tran. Scostati dalla porta: fuggi per carità.
Teur. Perchè ho a fuggire?
Tran. Non fuggi ancora?
Teur. Io non ho paura di niente: sono in pace coi morti. (Una voce di dentro) O Tranione!
Tran. (sotto voce presso la porta) Non mi chiamare, sei matto? (forte) Io non ho fatto niente: non sono stato io che ho bussato a codesta porta.
Teur. In grazia che c’è costà? Perchè parli in disparte?
Tran. Bada di non aprir bocca, sai (presso la porta a chi è dentro).
Teur. Ma che hai che sei inquieto, Tranione? A chi dici coteste parole?
Tran. Di’, avevi chiamato tu? Il ciel mi vede se non ho creduto che quel morto si lamentasse perchè avevo bussato alla porta. E tu stai ancora costì, nè fai quel che dico?
Teur. Che ho a fare?
Tran. Bada di voltarti indietro, incappucciati e fuggi.
Teur. O perchè non fuggi tu ancora?
Tran. Lasciami stare, so io quel che ho a fare.
Teur. Toh! o che è ora? perchè spiritavi tanto?
Tran. Non ti curar di me, ti dico: a me ci penso io. Tu, come hai principiato, fuggi con quanto n’hai nelle gambe e invoca Ercole.
Teur. Ercole t’invoco.
Tran. (da sè) E così io, ma perchè, o vecchio, ti mandi oggi un bell’accidente. Dei immortali, aiutatemi voi; che diavolo di pasticcio ho rimpasticciato oggi?

Ecco ora la corrispondente del Cecchi nella Dote. Filippo arrivato testò da un lungo viaggio s’avvia alla casa, che a sua insaputa fu venduta dal figliuolo diluviatore, ed il Moro servo per levarlo di quivi gli dà ad intender di spiriti e di folletti.

ATTO QUARTO – Scena II.
Filippo vecchio, Moro servo.

Fil. Ringraziato sia Dio ch’i’ son condotto dopo tanti travagli a casa sano; o dolce patria, o cara patria, com’è soave il goderti! o casa mia, io ti riveggo pure!
Mo. (da sè) Questa mi potre’ forse riuscire.
Fil. O Dio! gli è già passato l’anno ch’io mi partii: come saranno allegri i miei del mio ritorno!
Mo. (da sè) Allegri come se la saetta desse loro addosso; ma lasciami accostar, ch’e’ non picchiasse.
Fil. È questo ’l Moro? si è; Moro.
Mo. Chi mi....? chiamaste voi, gentiluomo?
Fil. Io, sì, non mi conosci tu?
Mo. I’ posso avervi veduto altra volta, ma non vi raffiguro.
Fil. Filippo Ravignani.
Mo. Dove è?
Fil. Son io però così trasfigurato che tu non mi raffiguri?
Mo. Voi siete desso?
Fil. Io son desso, sì.
Mo. Siete voi vivo o morto?
Fil. Se’ tu pazzo? che cosa è morto?
Mo. E’ ci fu pur detto che voi eravate morto.
Fil. E non lo sapeva bene chi ve lo disse, i’ son pur qui, Dio grazia.
Mo. O padron mio dabbene! o padron mio buono! i’ non posso tener le lagrime per l’allegrezza; voi siete così a piede?
Fil. I’ tolsi in Bologna duo cavalli di rimeno, e gli ho passando lasciati al pagliaiuolo di chi gl’erano in borgo S. Lorenzo.
Mo. E dove siete voi stato, padron mio?
Fil. O l’è cosa che vuol agio a contarla; che è di Federigo?
Mo. Bene.
Fil. E della Camilla?
Mo. Benissimo: è fatta grande.
Fil. Dov’è Federigo?
Mo. In villa.
Fil. Orsù, apri l’uscio di casa.
Mo. Oimè, padrone! e’ non v’è stata conta la disgrazia?
Fil. Che disgrazia? Dio m’aiuti.
Mo. Voi non la sapete?
Fil. Poich’ i’ sono in Firenze, io non ho parlato a persona che m’abbi conto disgrazia.
Mo. Ferma costì tu, posa cotesta valigia più qua, discostati da cotesto uscio.
Fil. Che cosa è stata, Moro?
Mo. Udite: venite più qua, ancor un altro poco.
Fil. Ecc’egli pericolo di peste?
Mo. Eimè! e’ ci è peggio: i’ non vorrei esser sentito da persona, chè ’l male che non ha riparo è ben tenerlo nascose; deh! andiancene qua in chiesa e sederete.
Fil. I’ sto ben qui i’, di’ presto.
Mo. Ell’è cosa lunga, fate a mio modo; qui ci potrebbe passar di quelli che vi conoscerebbono; farannovi motto e sturberannoci.
Fil. Non mi poss’io turar così, s’io vedrò persona? cavami tu di questo affanno, e escine.
Mo. O come siam noi stati poichè voi vi partisti! i’ vi so dire, che noi siam stati per fare quasi del resto.
Fil. Così vuol’ ell’ire?
Mo. Il povero Federigo è stato per morirsi tra pel male e pel dolore; e vi so dire che gli è valuto l’aver da sè.
Fil. Oh Dio! e non ci può aver boccon del netto.
Mo. Che ho io a dire, e non v’è stato detto nulla?
Fil. Se lo sapessi, credi ch’io stessi a disagio per saperlo da te?
Mo. Ah! vedi che ingegno ha questo giovane, la cosa è pure stata cheta, com’e’ voleva; o che figliuolo avete voi dabbene! Voi non fusti partitovi d’un mese, ch’egli fu detto che voi eravate morto in mare, e che la nave e ciò che voi vi avevate era ito in fondo.
Fil. E fu quasi per essere l’uno e l’altro.
Mo. (da sè) Malanno aggia quel quasi. (a Fil.) E’ se ne prese tanto dolore, che e’ se ne pose nel letto e n’ebbe una tirata di più che tre mesi, cred’io, e i medici lo feciono spacciato; pur la Dio grazia e’ guarì, ma spese un mondo.
Fil. Credolo.
Mo. E’ mi sa male che voi stiate qui in piedi, un par vostro.
Fil. La voglia di saper le mie disgrazie non mi faceva avveder di disagio; ma non hai tu la chiave di casa?
Mo. Messer no, e’ l’ha Federigo.
Fil. I’ non son già per istar fuori tutto il dì: Grillo, va costì dopo ’l canto per un magnano.
Mo. Non andar no; non udite voi che in casa non si può più nè stare, nè entrare?
Fil. Che vuol dire?
Mo. La disgrazia nostra.
Fil. Che? v’è egli rovinato i palchi?
Mo. Nulla, dite più piano.
Fil. O perchè dunque non si può entrarvi?
Mo. Ell’è piena di spiriti.
Fil. Come? di spiriti?
Mo. Oimè! dite più piano che non si scuopra quel che sino a ora è stato segreto; deh andiamcene qua, padron di grazia.
Fil. I’ sto ben qui; di’ su di questi spiriti.
Mo. (da sè) S’io aggiro costui, i’ son d’assai. (a Fil.) Sappiate, padron mio, che in questa casa è stato mort’uno.
Fil. E chi ce l’ha morto?
Mo. Colui da chi voi la comperasti.
Fil. E che ne sai tu?
Mo. Dirovvelo: Federigo vostro era guarito di pochi dì di quel male ch’io vi dicevo adesso, quando una notte io lo sento che e’ grida a testa; io corro in camera sua; e lo trovo nel mezzo dello spazzo mezzo morto, e dice che dormendo venne uno alla volta sua, e si gli disse: Quanto mi vuo’ tu tener sotterra in questa casa?
Fil. E’ doveva aver bevuto troppo; dissi ben io che cosa è spiriti; va pel magnano tu.
Mo. Non andare; di grazia udite il resto.
Fil. Orsù di’ su; questi fanciullacci, se sentano andar una gatta per casa, pensan ch’e’ sia uno spirito.
Mo. O Dio volesse che la cosa si fosse ferma qui.
Fil. Seguita, seguita.
Mo. Dubitò Federigo che non fosse qualcuno che gli volesse far la festa, e fece cercare la camera e tutte le stanze di casa; non trovato nulla ce n’andiamo a dormire; ivi a un pezzo e Federigo fa il medesimo verso; io corro là, e mentre ch’io li domando, che avete voi? e mi sento dare un guancione, ch’io balzai di qui colà.
Fil. Dovevi aver bevuto tanto, che ’l vino vi faceva girare.
Mo. Voi volete pur vostre burle; questa tresca fu ogni notte, e sentivasi per casa spesso spesso rumori, come batter porte e finestre, rompere mura, tramutar casse, battere spade insieme, rompere e cose simili, che per Dio hanno avuto a farmi spiritare. Federigo per vedere donde questa cosa proviene, prese parere col suo confessore, il quale vi venne, e arrecò pur di segreto mille reliquie; ma sì! acqua a mulino. Di poi feciono cercare tutta la casa per vedere se ci si trovano queste benedette ossa di questo morto, e tra le altre cavorno giù nella volta dinanzi più di tre braccia addentro di terreno.
Fil. Oimè! i’ son morto! e che vi trovasti?
Mo. Nulla.
Fil. Giù nella volta dinanzi sotterra non vi trovasti nulla?
Mo. Nulla, messer no.
Fil. Chiaro?
Mo. È certo.
Fil. Nè pentole di terra?
Mo. Nè pentole, nè testi.
Fil. (da sè) O sciagurato a me! io ho fatto del resto.
Mo. (da sè) La va bene, e’ comincia a dar fede a questa favola.
Fil. E avevate voi per un caso simile a rivolgere sottosopra tutta la casa?
Mo. Voi dite un caso simile? per Dio se voi avessi sentite le diavolerie che si sentivano in questa casa, e’ vi sarebbe paruto un caso che portassi il prezzo scoprire il tetto, non che cavar nella volta.
Fil. Chi v’aiutò cavare?
Mo. Un operaio che noi togliemmo.
Fil. Egli arà forse trovato qualcosa e portatala via.
Mo. Sì e’ n’arà portato un testio o uno stinco d’un morto!
Fil. I’ so quel ch’io mi dico; non mi aver per pazzo: voi non vi avevate a fidar di persona, e far da voi, se pur voi avevate tanta paura del mal che Dio vi dia.
Mo. O noi vi stemmo sempre un di noi seco.
Fil. E non trovasti nulla e andasti tanto a fondo?
Mo. Andammo e non trovammo.
Fil. Oimè! e’ miei danari son iti via.
Mo. Ora tra per il mal fresco e per queste paure e per questi disagi Federigo ridette giù del capo; chiama medici, dàgli acqua, dàgli imbrogli, e’ se n’andò quasi amara valde. E perchè in questa casa non c’era ordine a stare, Manno ci condusse tutti in casa sua, e qui serrò bene, cavatone prima ogni miglior ornamento, e così s’è stata e si sta vota.
Fil. E volle Manno, che questa casa restasse sola?
Mo. Chi volevate voi che ci restasse agli scherzi di quel diavolo?
Fil. E’ m’ha servito da amico!
Mo. Voi avete il torto, perdonatemi, chè Manno ha fatto ogni diligenzia.
Fil. Eh! il so, o Dio che rovina!
Mo. Pur dopo una lunga tirata Federigo si sollevò dal male, ma rimase mezzo spiritaticcio, tanto che e’ medici lo consigliorno che e’ se n’andasse in villa a pigliar aria, e così e’ v’andò e stavvisi, e gli ha giovato, ma non però quant’ella arebbe fatto a un altro, che non fosse della condizione che lui. Io vi prometto, prestatemene fede, che a quel giovane è doluto tanto lo spendìo, che e’ vedeva che si faceva grande, che e’ s’agghiadava dentro; e se non ch’io l’ho confortato sempre a non ci pensare (dicendoli che gli uomini fanno la roba, e non la roba gli uomini, e ch’ella era fatta per spenderla a’ bisogni, però attendesse a guarire, che guarito egli se la potrebbe racquistare, e così lo cavavo di quella fantasia) e’ sarebbe impazzato: o Dio! i’ non vidi mai un giovane a prezzar più la roba di lui.
Fil. Egli ha a chi somigliare; ma non soleva però essere sua usanza.
Mo. Be’ i’ vi so dire che e’ s’è fatto; poichè e’ seppe d’aver a fare, egli diventò più stretto d’un gallo.
Fil. Adunque la casa è vôta del tutto? le robe dove sono?
Mo. In casa Manno, e in villa quelle che sono avanzate.
Fil. E la chiave di questa casa similmente è in villa?
Mo. Messer sì, e’ l’ha Federigo in villa.
Fil. Or su, su to’ coteste robe tu.
Mo. Dove volete voi andare? in villa?
Fil. Andrommi a posare in casa Manno, tu intanto andrai a dire a Federigo com’io son tornato.
Mo. (da sè) Manno sta qui, i’ son morto! (a Fil.) O padrone, io non mi ricordavo di dirvelo, e sono stato per farvi avere una gita a diletto: Manno non è in Firenze, chè se n’andò questa state in villa a San Casciano con la brigata, e non è ancor tornato in Firenze.
Fil. Come? o la bottega ch’e’ faceva?
Mo. Guidala il suo nipote. Il meglio che voi possiate fare, secondo me, è l’andarvene costì in villa vostra, v’è il vostro figliuolo, sarete in casa vostra, potrete riposarvi anco comodo, e non avete a saper grado a amico, nè a parente: chè sapete che oggidì non si può dar loro tantino di disagio, ch’e’ fanno ceffo: a bell’agio voi potrete pensare di pigliar una casa a pigione.
Fil. I’ vo tornarmi in casa mia; io non ho tanta paura; così fosse a ordine, come io starei stasera.
Mo. Il temporale vi darà consiglio: per ora, potendo, adagiatevi in casa vostra.
Fil. Tu hai ben detto.
Mo. S’i’ fossi in voi, io me n’andrei più sconosciuto che fosse possibile, nè vorrei far motto per ora a persona, acciocchè qualcuno non dicesse: Perchè non se ne va egli in casa sua qui in Firenze? che io non vorrei che questa casa si acquistasse questo nome di esser piena di spiriti: ch’io vorrei non la potendo liberare, poterla dar via.
Fil. Che? venderla? i’ non la vo vendere, poichè Dio me l’ha salvata, i’ la guarrò ben io; e poi non credi tu, che si sappi per Firenze il tutto?
Mo. Messer no, non si sa nulla, perchè Manno e Federigo ci hanno usato una diligenzia estrema.
Fil. Può essere, ma i’ non lo credo: pur questo non n’importa; se non altro, io anderò turato, perchè i’ non vo far motto a persona in quest’abito.
Mo. Voi siate savio e prudente.
Fil. Orsù andiam tu, e tu Moro?
Mo. Io ho che fare ancora un pezzo in Firenze; se non vi accade..... Oimè, andate via, ecco brigate.
Fil. I’ non vo dire a persona ch’i’ sia tornato.

Vediamo ora di Plauto nel Trinummo l’altra scena, in cui un sicofante o parabolano travestito è mandato con denari e con una lettera finta, come se venisse dal padre Carmide, che è fuori in lontani paesi, al figliuolo Lesbonico; intanto ch’egli cerca della casa e della persona a cui recapitar la lettera, s’imbatte nel vero Carmide arrivato allora allora, e senza conoscerlo entra con lui a ragionare.

ATTO QUARTO – Scena II.
Il Parabolano e Carmide.

Par. Alla commedia d’oggi io ve metter nome: «Le tre monete», perchè appunto per tre monete oggi ho fissato l’opera mia d’azzeccagarbugli. Io ora arrivo di Seleucia, di Macedonia, d’Asia e di Arabia, paesi co’ quali nè gli occhi miei, nè i miei piedi hanno avuto mai che fare. O vedete un po’ a che razza di pasticci la miseria riduce un povero diavolo. Perchè io ora per amore di quelle tre monete son costretto a dire d’aver ricevuto queste lettere da un uomo che non so che uomo sia, nè l’ho mai veduto, nè conosciuto, e non so neppure se sia nato davvero.
Car. Cappiterina costui di certo è di razza funghesca; e’ si nasconde tutto sotto l’ capo; alla faccia e’ par uno di Schiavonia; e poi venire con quell’abbigliamento!
Par. L’uomo che mi fissò, quando m’ebbe fissato, mi menò a casa, mi disse quel che mi voleva dire, e prima ch’io mi mettessi al lavoro, m’istruì e mi ammaestrò com’io dovevo regolarmi in tutto e per tutto; ora poi se vi farò un po’ di giunta, quel mio appaltatore ci avrà un tanto di trappole in groppa. Quel che sa fare il denaro! io eccomi qui tutto imbanderato, co’ ciondoli e fronzoli che quell’amico mi ha messo addosso, e che a tutto suo rischio ha preso a nolo dal trovarobe del teatro. E ora s’io gli potrò trappolare questa vestitura, me ne ’ngegnerò; a questo modo avrà ragione di dire ch’io sono davvero un bel trappolone.
Car. Quanto più lo squadro, tanto meno mi persuade la grinta di quell’uomo. S’egli non è o un tagliaborse, o un di quelli che non hanno paura la notte, tu m’ha’ a dir becco. Osserva questi luoghi, si guarda ’ntorno ’ntorno e piglia l’odor della casa: io credo che vada speculando qui oltre per poi venire a far preda; e però mi cresce la voglia di vedere quel che mesti; ed eccomi al lavoro.
Par. Questi sono i luoghi che m’indicò quel mio appaltatore, e intorno a quella casa bisogna ch’io tenda le mie trappole. Intanto busserò.
Car. Costui va diritto a casa mia: sta a vedere che sta notte appena arrivato mi toccherà a far sentinella.
Par. Aprite oh! o di casa: chi ci sta a far la guardia alla porta?
Car. Che cerchi, o giovanotto? che vuoi? che picchi a fare?
Par. Oh vecchio, quando fu fatto il censo, resi al censore buon conto. Io cerco da queste parti dove stia un certo giovine per nome Lesbonico, e poi un altro co’ capelli bianchi giusto come te, che per quanto m’ha detto quel tale, che mi dette queste lettere, si chiama Callicle.
Car. (da sè) Costui cerca il mio figliuolo Lesbonico, e il mio amico Callicle, al quale raccomandai i miei figli e miei beni.
Par. Se tu sai dove questa gente stanno di casa, dimmelo, nonno.
Car. A che fare li cerchi? E tu chi sei? di dove sei? da dove arrivi?
Par. Tu domandi di molte cose a un tratto, e non so quale sbrigare prima delle altre; se tu mi farai una domanda per volta e con pace, ti farò sapere e il mio nome, e i fatti miei, e i miei viaggi.
Car. Farò come vuoi; andiamo, prima di tutto il tuo nome.
Par. Tu principii chiedendo un gran che.
Car. Perchè mai?
Par. Perchè se tu ti facessi innanzi giorno a recitare il principio del mio nome, e’ sarebbe mezza notte innanzi tu fossi dappiedi.
Car. A come tu dici, e’ bisognerebbe aver fatto provvista di viveri.
Par. Ma ce n’ho pur un altro tantino come un quartuccio.
Car. E qual è cotesto altro nome?
Par. Quest’altro nome è Malaman; ed è quello di tutti i giorni.
Car. Mi par un nome di lingua furfantina; come chi dicesse che tu hai le mani ladre. (da sè) Costui è un gargone matricolato. (al Par.) Dimmi una cosa, ragazzo.
Par. Che c’è?
Car. Quelle due persone che tu cerchi che t’hanno a dare?
Par. Il padre di quel Lesbonico (perchè il vecchio è mio amico) mi dette queste lettere.
Car. (da sè) Ce l’ho preso caldo caldo. E’ dice ch’io gli ho dato due lettere: lo menerò a spasso come un signore.
Par. Se tu mi dai retta seguiterò a darti le informazioni come ho principiato.
Car. Ti sto a sentire.
Par. Questa lettera mi disse ch’io la consegnassi al suo figliuol Lesbonico, e quest’altra al suo amico Callicle.
Car. (da sè) O mira; a sentire le pastocchie di lui, mi salta il capriccio di farne anche me. (al Par.) Dov’era quel vecchio?
Par. Faceva bene i suoi interessi.
Car. Ma dove?
Par. In Seleucia.
Car. E coteste lettere le ricevesti proprio da lui?
Par. Egli stesso me le messe in mano colle sue mani.
Car. Di che aspetto è quell’uomo?
Par. È un pezzo di fante più alto di te un braccio e mezzo.
Car. (da sè) Mira il pasticcio, se quando son lontano dovento più grande di quando son presente! E tu hai conosciuto quell’uomo?
Par. Che domanda ridicola! O per il solito si mangiava insieme.
Car. E che nome ha?
Par. Nome d’uomo di garbo.
Car. Avrei piacere a sentirlo.
Par. Ha nome... nome... nome... Oh! poveretto me.
Car. Che affare è egli?
Par. Senza avvedermene, il suo nome m’è andato giù per la gola pur ora.
Car. Non mi piacciono le persone che tengon chiusi fra i denti gli amici.
Par. Ma ora, anche ora l’avevo proprio qui sulla punta della lingua.
Car. (da sè) A tempo oggi son venuto per rompergli l’incantesimo.
Par. (da sè) Oh poveretto me son colto sul fatto!
Car. E ora? il nome t’è rivenuto in su?
Par. (da sè) Io non ho faccia di guardare nè in cielo nè in terra.
Car. O tu l’avresti a conoscer bene quell’uomo!
Par. Come me; ma avviene spesso che uno si metta a cercare quel che ha fra le mani, o sotto gli occhi. Me lo rammenterò ripensando alle lettere. È un nome che principia col C.
Car. Callia.
Par. No.
Car. Callippo.
Par. Nemmeno.
Car. Callidemide.
Par. Neppure.
Car. Callinico.
Par. Nemmanco.
Car. Forse Callimaco.
Par. Non ti riesce, e poi non m’importa un corno; mi basta di ricordarmene per me.
Car. Ma giù di qui de’ Lesbonici ce n’è di molti, e se tu non dirai ’l nome del padre io non ti posso insegnare le persone che cerchi. Su che modello sarebbe questo nome? Vediamo se si potesse raccappezzare per via d’indovinala-grillo.
Par. Sarebbe sul modello di Car.
Car. Carete? Caricle? o piuttosto Carmide?
Par. Eccolo; è questo: che gli pigli un accidente!
Car. Te l’ho già detto dianzi, a un amico tu dovresti augurargli del bene, anzichè imprecargli.
Par. Non c’è stato rimpiattato abbastanza fra le labbra e i denti quel poltrone?
Car. Non parlar male d’un amico lontano.
Par. O perchè dunque quel moccolone si nascondeva da me?
Car. Se tu l’avessi chiamato a nome, t’avrebbe risposto. Ma ora dov’è?
Par. Io lo lasciai a Radama nell’isola di Cecrope.
Car. (da sè) Ma si può dare uno scimunito più di me, che vo a cercare dov’io mi sia. Ma questo non porta niente guasto al mio affare. (al Par.) Di’ un po’: rispondimi a quel che ti domando. Da che parti sei stato?
Par. In parti d’una maraviglia maravigliosa.
Car. Se non ti dispiace, avrei piacere a saperlo.
Par.

Anzi ho una voglia maladetta di dirtelo. Prima di tutto fummo portati nel Ponto, in quelle terre dell’Arabia.

Car. Oè! che c’è anche nel Ponto l’Arabia?

Par. La c’è sicuro; no quella che ci fa l’incenso, ma quella che ci fa l’assenzio e il regamo.
Car. (da sè) Costui è un gargone, proprio di soprammano; e son più sciocco io, che gli domando di dove vengo; cosa ch’io so, ed egli no. Ma lo fo, perchè ho piacere a vedere come da ultimo ne caverà i piedi. Ma dimmi, e po’ dopo dove andasti di lì?
Par. Dammi retta, e te lo dico: s’andò alla sorgente d’un fiume, che scaturisce dal cielo, di sotto al trono di Giove.
Car. Di sotto al trono di Giove?
Par. Sicuro; già.
Car. Dal cielo?
Par. Anzi dal mezzo mezzo.
Car. Alla larga! Perfino in cielo narpicasti?
Par. E come! fummo portati sempre all’insù del fiume dentro un barchetto.
Car. Vedesti anche Giove?
Par. Gli altri Dei ci dissero ch’egli era ito in villa a cavare il mangiare a’ servi. Po’ dopo...
Car. Po’ dopo non vo’ che tu ne dica più.
Par. Se ti do noia, mi cheto subito.
Car. Perchè uno che di terra è narpicato in cielo, bisogna dire ch’e’ non sia niente di buono.
Par. Ti lascio, perchè veggo che tu lo desideri. Ma insegnami quelle persone che cerco, e alle quali bisogna che porti queste lettere.
Car. Ma dimmi, se ora per accidente tu vedessi Carmide in persona quello che dici t’ha dato coteste lettere, lo conosceresti tu?
Par. Tu non mi crederai tanto bestia, da non poter riconoscere uno col quale ho vissuto insieme. E poi avrebbe a essere tanto scimunito anche lui, che mi fidò da mille Filippi per portarli al suo figliuolo e all’amico Callicle, al quale avea raccomandato i suoi affari? Tanto scimunito da fidarmi questa somma, se non ci fossimo conosciuti più che bene?
Car. (da sè) Ora sì che voglio trappolare questo trappolone, e veder se gli posso levar di sotto questi mille Filippi, ch’ha detto gli ho dato io. E io avrei a fidare una somma a uno che non so chi sia, e che da quando lo detti a balia lo rivedo ora? A uno a cui si trattasse anche della vita, non fiderei nemmeno un quattrin bacato? Bisogna dargli un assalto con arte. (al Par.) O Malaman, da’ retta; ti vo’ dire una parolina sola.
Par. Anche mille.
Car. Gli hai tu addosso que’ quattrini, che avesti da Carmide?
Par. Tutti fino a uno, com’egli li contò di su’ mano in sul banco.
Car. E gli avesti proprio da Carmide?
Par. Pensa! un tratto me gli avesse dati il su’ nonno o’ l suo bisnonno, che son fra que’ più.
Car. Ragazzo! a me que’ quattrini.
Par. Che quattrini?
Car. Quelli che tu ha’ detto d’avere avuto da me.
Par. Avuto da te?
Car. Appunto.
Par. E chi se’ tu?
Car. Quello che ti detti i mille Filippi; Carmide.
Par. Per questi Filippi almeno tu non se’ lui, nè lui sara’ mai per tutt’oggi. Va’ là, ninnolone, che tu avresti trovato ciccia pe’ tuoi denti.
Car. Carmide son io.
Par. Invano tu sei; i’ non porto quattrini. Furbo ’l mi’ uomo! tu gli tireresti a volo. Appena ho detto che portavo de’ quattrini, tu se’ doventato Carmide; ma innanzi tu non eri lui. Tu la fai a vòto. E però come ti sei incarmidato, e così scarmidati.
Car. E chi son io dunque, se non son chi sono?
Par. Che m’importa a me di cotesto? Per conto mio tu hai a esser chi ti pare, mi basta tu non sia chi non pare a me. Dianzi tu non eri chi eri; e ora se’ doventato chi non eri.
Car. Andiamo, tira via.
Par. Che tira via
Car. Rendimi i quattrini.
Par. Tu vagelli, buon vecchio.
Car. Tu ha’ detto che Carmide t’ha dato de’ quattrini.
Par. Già; scritti.
Car. Ladro, va via, va via subito da queste parti, innanzi ch’io t’abbia a far cardare come va.
Par. Perchè?
Car. Perchè quel Carmide che tu hai finto, e che dicevi t’avea dato le lettere, son io.
Par. Per carità, lui tu sei?
Car. Son io sicuro.
Par. Ma proprio tu se’ lui?
Car. Ti dico di sì.
Par. Lui tu?
Car. Lui già; lui Carmide, io.
Par. Dunque proprio lui?
Car. Luissimo. E escimi dinanzi.
Par. E io ti dico che, giacchè sei arrivato davvero, tu sarai frustato per ordine mio e de’ nuovi edili.
Car. Come? mi maltratti anche?
Par. E di più giacchè arrivi in buona salute, ti venga un canchero, se m’importava niente che tu avessi rotto il collo prima. Io per questo negozio ho avuto di be’ quattrini; a te, un corno che ti sbudelli. Del resto, o tu sia tu, o tu non sia tu, non me ne curo una maladetta. E ora anderò da quel tal di tale, che m’ha dato le tre monete, e gli farò sapere che e’ l’ha perse. Dunque me ne vo’; un accidente a vita e addio; che tutti gli Dei s’accordino a darti il ben venuto con una cancherena.

Vediamo ora la corrispondente del Cecchi nella Dote, in cui un travestito che fa l’uffizio del parabolano di Plauto, e fingesi mandato da Filippo Ravignani, s’incontra con Filippo stesso, il quale giunto testè da lungo viaggio, trovando la casa chiusa, nè prestando fede alle pastocchie degli spiriti caricategli dal Moro, ne viene con un magnano per sforzar la porta.

ATTO QUARTO – Scena VII.
Magnano – Filippo – Travestito.

Ma. A du?
Fil. Qui dico; e’ non sarebbe ben di me, s’io non mi chiarissi, i’ vo’veder se questi spiriti m’hanno a manicare.
Tra. (da sè) O ecco di quà uno che mi leggerà le lettere.
Fil. Questo è l’uscio, apri, guarda, ch’io credo che vi sia la stanghetta.
Ma. I’ non ghe vojo avrír mo.
Fil. Per che causa?
Ma. E che avi a far vu de questa casa?
Fil. È mia.
Ma. Non è vostra, no, el ghe sta un giovan tan mala persona, ch’i’ mi vojo impazzar sege.
Fil. Egli è mio figliuolo.
Ma. No è vostro fiolo, no no.
Fil. Maisì; eh! vien qua, aprilo, dico.
Ma. Che te par essere a baccan an? al corpo della Maddalena, che mi vien voja de darti un ganascion da far scucciar i denti: non odi, ch’io non ghe vojo avrire?
Tra. (da sè) Che fo? affrontolo io ancora?
Fil. O asino manigoldo, che ti fiacchi...
Tra. Deh gentiluomo, leggetemi a chi va questa.
Fil. Deh non mi dar fastidio.
Tra. Perdonatemi, ma ell’è cortesia legger una lettera.
Fil. Orsù dà qua. (legge) Al suo amato figliuolo Federigo di Filippo Ravegnani in Firenze. Chi è questo che scrive di figliuolo al mio figliuolo? sarà un frate ch’ogni cosa s’approprian, come loro.
Tra. E questa come dice?
Fil. Domino Manno Benizii amico carissimo in Firenze; d’onde vengano?
Tra. Oh di discosto, d’Andrinopoli.
Fil. Da chi, se lecito è il saperlo?
Tra. Dal padre di quel giovane a chi va questa.
Fil. Come da suo padre? tu erri.
Tra. Potrebb’essere, non è questa quella che dice Federigo?
Fil. Questa è dessa.
Tra. Adunque non erro io.
Fil. (da sè) Che cosa è questa? i’ son oggi lo Dio de’ casi strani. E dove si trov’egli il padre di costui?
Tra. In Andrinopoli.
Fil. E che vi fa?
Tra. Quel che vi fanno gli altri mercatanti; fa la roba, per poter tornar poi a Firenze a far la conscienza.
Fil. Dimmi, avesti tu queste lettere da lui in Andrinopoli?
Tra. Da Filippo Ravignani proprio l’ebbi in Andrinopoli
Fil. E conoscilo tu?
Tra. Come! che son stato seco in quella terra quattro anni o poco più?
Fil. O come può esser questo, che un anno fa e’ si partì di qui, e andò in Inghilterra?
Tra. E d’Inghilterra si partì poi, e andò in Andrinopoli.
Fil. Affè sì! che le sono in un paese medesimo.
Tra. O che v’è egli però dall’uno all’altro?
Fil. Più che non è di qui in Inghilterra.
Tra. Se egli andò di qui in Inghilterra, e condussevisi, che voi sapete, egli s’è poi, che voi non sapete, condotto in Andrinopoli; non sapete voi che il mondo è tondo? e che da un luogo a un altro la via è piana tutta, eccetto l’erte e le chine?
Fil. I’ so che tu debbi essere ubbriaco: o sì tu non mi vuoi dire il vero, donde queste lettere vengano.
Tra. Elle vengono da lui, se voi volete, ed anco se non volete; datemi le mie lettere.
Fil. Aspetta; io voglio intenderla bene, perchè Filippo è mio amico.
Tra. E però indirizzatemi, ch’io gnene faccia buono servizio.
Fil. Che statura è la sua?
Tra. D’uomo cred’io; che so io, che cosa si vuol dir statura?
Fil. Vo’ dire se gli è grande, piccolo? grasso, magro?
Tra. (da sè) Costui ne vuol saper troppo.
Fil. (da sè) Che trappola fia questa? (al Trav.) tu non rispondi?
Tra. I’ ero adesso nell’altro mondo; egli è un grasso.
Fil. Come grasso?
Tra. Messer sì, compresso, con buona pancia.
Fil. Be’, tu non lo conosci.
Tra. Perchè non lo conosch’io?
Fil. Perchè gli è magro, secco al possibile.
Tra. Arder poss’egli! Oh parv’egli sì gran fatto che in duoi o tre anni che e’ debbe essere che voi non lo vedeste, e’ sia ingrassato?
Fil. Come duoi o tre anni?
Tra. Sta bene! la mi par quella del come, quando o perchè: fate conto s’io lo conosco, e bastivi questa a farvi finir tutte le maraviglie. E’ m’ha dato tremila ducati d’oro, ch’io gli arrechi qua a questo suo amico, perchè e’ mariti con essi una figliuola, che ci ha grande: parv’egli ch’io sia suo amico?
Fil. Come, tremila ducati, e chi te gli ha dati?
Tra. O voi fingete, o voi siete semplice; non l’udite? Filippo Ravignani, padre di questo giovane; e sette.
Fil. Se tu vedessi questo Filippo, crederesti tu riconoscerlo?
Tra. O i’ non mi maraviglio che voi siate sì magro, a quanti impacci voi vi date de’ fatti del compagno.
Fil. I’ mi do impaccio de’ miei, che tu se’ un tristo e un ladroncello, a dire d’aver avuto lettere da uno, che tu non lo vedesti mai: e menti per la gola, ribaldo.
Tra. Vecchio, sapete voi quel ch’i’ vi ho da dire? non entriamo ne’ criminali; che voi potresti trovare quel che voi andate cercando; e rendetemi le mie lettere, che per Dio, per Dio!...
Fil. I’ non te le vo’ rendere; chè ’l padre di costui, da chi tu di’ d’averle avute, son io. Io son Filippo Ravignani, intendila? e m’hai tolto questi tremila ducati ch’io avevo sotterrati.
Tra. Eh andate a parlar la notte di befana, rimbambito.
Fil. Rimbambito io eh? ha’ tu avuto da me quelle lettere?
Tra. A dirvi il vero io voglio aver rispetto all’età e al luogo dove io sono: i’ non vi conosco, non ho avuto da voi lettere, non ho vostri danari, non vi vidi mai più, ed anco ora non mi curavo di vedervi, non siate voi però sì bella creatura: date qua le mie lettere.
Fil. I’ non te le vo’rendere.
Tra. Ficcatevele dietro; non sono in tempera da combattere con fantasime.
Fil. I’ me ne voglio ire agli Otto, ladroncello.
Tra. Andatevene alle forche.
Fil. Vien qua. Sì! e’ m’ha pagato di calcagna. Povero a me! che cosa è questa? questa fiata certo qualche trappola è tesa a’ mie’ tremila ducati: e non ci è però altri che Manno che li sappia; benchè questo aver cavato nella volta mi ha rovinato. Costui dice d’averli seco: se fussino i miei, a che fare arrecarli a Manno? e se e’ non sono, perchè dice egli ch’io gnene ho dati?

Lettor mio, messo t’ho innanzi, omai per te ti ciba : ma da queste due scene e dagli altri e più ampi confronti, che ogni studioso può fare da sè, deponendo ogni pregiudizio bevuto forse nelle scuole od in certi libri pedanteschi che insegnano ad apprezzare soltanto l’antico, parmi si possa ragionevolmente conchiudere, la commedia presso gli Italiani nel decimosesto secolo aver fatto un gran passo verso la perfezione, e forse aggiuntala, od almeno almeno non esser quelle nostre da posporre alle latine di Plauto e di Terenzio. Il che d’altra parte mi sembra conforme alla natura stessa delle cose: conciossiachè, quando in un genere qualunque i cultori di esso osservino fedelmente le leggi e le regole poste dagli antichi, e pur dai primi esemplari non divagando, cerchino tuttavia di supplirne le mancanze, correggerne i difetti, perfezionarne il buono ed il bello, senza nè alterare, nè trasfigurare il disegno e il colorito primitivi ed originali, gli ultimi lavori di quel tal genere debbano essere più compiuti e più perfetti, certo almeno non inferiori ai primi; nella guisa che i frutti d’una pianta, la quale è già arrivata al pieno sviluppo della sua vita, ed abbondante di succhi ben lavorati e digesti lussureggia d’una vegetazione rigogliosa e feconda, sebbene dai primaticci non disformi quanto alla natura ed alla sostanza, sono tuttavia e più appariscenti alla vista, ed al gusto più saporiti e più delicati.

14. Pregi della commedia cinquecentista. – Per queste ragioni io non intendo e il severo giudizio che dei comici cinquecentisti portarono parecchi dotti stranieri, e la negligenza e trascuranza in cui furono dai nostri lasciati come se fosser borra e marame. A sentire il Marmontel, il La Harpe ed altri francesi, l’antica commedia italiana parrebbe non essere che una farsaccia invereconda di Arlecchini, di Pantaloni, di Scaramuzze, di Rosaure e Colombine; e peggio ancora, se tu leggi lo Schlegel, il quale, con una sicumera che basterebbe ad un Aristarco, sentenzia in questi termini: «La commedia italiana non offerse in sul principio che una servile imitazione degli antichi; e li autori, dopo che si furono contentati di trasportar nella loro lingua le commedie di Plauto e di Terenzio, senza aver riguardo alle differenze degli usi e de’ costumi, si abbandonarono alle più strane stravaganze della loro immaginazione. Si posseggono delle commedie composte dall’Ariosto in prosa, e dal Macchiavello in versi sciolti chiamati sdruccioli. Uomini di questa fatta non potevano produr nulla che fosse interamente indegno di essi; ma pure l’Ariosto s’appropriò così alla cieca le idee degli antichi, che non potè lasciarci alcuna dipintura di costumi in cui sia verità e vita. Il Macchiavello non commise questo errore, se non quando volle copiar Plauto nella sua Clizia». Secondo lui poi l’intreccio della Mandragola, sarebbe rozzamente ordito, e non produrrebbe alcun effetto drammatico, ed in generale alle commedie del cinquecento non converrebbe altra lode, che di stimarle quali mimi, cioè a dire quali imitazioni spiritose della vita comune, e degli idiomi popolareschi. A sentirne delle siffatte vien quasi la voglia di sospettare, che lo Schlegel non abbia letto nessuno dei drammi, di cui parla, e siasi per avventura fidato a chi prima di lui n’avesse ragionato senza leggerli neanch’egli; poichè è ben strana cosa il sentir dire che il Macchiavello scrisse commedie in versi sdruccioli, mentre non è chi ignori, la Mandragola, la Clizia, quell’altra senza nome che potrebbesi chiamar Frate Alberigo, e perfino la versione dell’Andria di Terenzio essere in schietta prosa, e la commedia in versi senza titolo, la quale per altro viene da molti reputata apocrifa, non essere per nulla in versi sdruccioli, come può vedere chi apra pure il libro, e getti lo sguardo sopra qualche pagina di esso; e strana parimenti l’affermare che l’Ariosto compose commedie in prosa, senz’altro aggiungere, conciossiachè le vere commedie di Messer Ludovico, a cui pose mano da adulto ed applicò di proposito, sieno tutte in versi sdruccioli, giacchè la Cassaria ed i Suppositi in prosa non furono che sbozzi e primi tentativi fatti da lui nell’età dell’adolescenza, rifatti poi più tardi in versi; in guisa che non si possono considerare come le sole sue commedie, tacendo affatto delle altre. Quanto al tassarle d’imitazioni servili, mi pare d’averne già detto tanto che basti a rispondere; ma che l’Ariosto seguisse gli antichi alla cieca senza aver riguardo alla differenza degli usi e de’ costumi, è falso, se si eccettui la Cassaria, di cui la scena, appunto perchè la commedia segue in tutto e sempre l’antico, si finge in Metellino, per quella in prosa, e per quella in versi, in Sibari, laddove tutte le altre, appunto perchè non sono imitazioni servili tanto da non distinguere tra usi e costumi, suppongono la scena in Ferrara, come i Suppositi in versi ed in prosa, la Lena, e la Scolastica, ed in Cremona, come il Negromante. Che poi le commedie dell’Ariosto, non contengano alcuna pittura di costumi, in cui sia verità e vita, lo creda il giudeo Apella e chi non l’abbia lette e studiate, poichè per contrario sono un vero quadro dei costumi di quel tempo fedele e spresso al vivo, in cui, non che esser cosa rimorta, tutte le figure, per dir così, hanno atto, movimento, spirito, e vita, di tal maniera che non smentiscono per nulla l’indole del festivo e vivacissimo autor del Furioso, e dell’arguto e caustico scrittor delle satire. Quanto al Macchiavello lo stesso Schlegel è costretto a confessare più sotto, la Mandragola farci anche troppo fedelmente conoscere i costumi di Firenze, ed alcune vicende simili a quelle che si trovano nelle novelle del Boccaccio, esservi chiarissimamente esposte in un dialogo vivissimo ed ardito; quantunque per non so qual pregiudizio le neghi, od a malo stento appena appena le conceda il nome di opera teatrale.

Della trascuratezza in cui oggidì sono dagli Italiani tenute le commedie del cinquecento, io non trovo miglior ragione, che l’esser volti gl’ingegni, già è buon tempo, all’imitazione degli stranieri, e dominati da un cotale spirito di romanticismo, per cui nauseano ed hanno in fastidio tuttochè sappia nulla nulla di classico. Oltrecchè l’essere queste commedie quasi tutte scritte nel graziosissimo volgar fiorentino, ricche di motti, di proverbii, di idiotismi proprii di quel popolo, e non intesi nè gustati fuor di Toscana che dai letterati, e da chi ci abbia fatto su qualche studio apposito, ed alcun poco accurato, è causa che dalla maggior parte non sieno lette, nè tampoco udite ricordare; tanto più che alcuni a questo volgare diedero e dànno tuttavia biasimo e mala voce; e da molti pur troppo sono ciecamente abbracciate le strane dottrine a questo proposito del Perticari e del Monti, uomini valenti per vero, ma in questo non certo da lodare, molto meno da seguire. Nè io vorrei già per questo, che le commedie dei nostri classici fossero a’ dì nostri rappresentate su’ teatri, poichè oltre alla moralità, che nol consente, e di cui dirò dopo, non sarebbero più gustate, avvezzi come sono i moderni ad altri sapori, non so se più squisiti e delicati anche in punto morale, nè il popolo che interviene agli spettacoli sarebbe atto a conoscere ed apprezzare commedie esatte alle regole dell’arte, piene di sottili accorgimenti e di finissimi artifizii, il cui ridicolo, quantunque vivissimo, è nondimeno, quasi direi, così riposto, che non muoverebbe al riso se non il dotto ed il letterato. Pure non veggo come su questi modelli non si possa riformar la commedia, e ritornarla ad essere un vero componimento letterario che meriti di vivere immortale, ed il quale o letto sia o rappresentato, piaccia e diletti. Un ingegno poderoso e di buoni studi nutrito potrebbe, mi pare, tessere commedie su questi modelli, togliendone gli intrecci ed adattandoli ai cambiati tempi e costumanze, spogliandoli delle disonestà che li deturpano, e soprattutto usandone la lingua e lo stile con quelle variazioni dall’odierno favellar toscano volute, che io credo sien poche, e ritraendone la festiva facilità ed il grazioso brio del dialogo, il saporito scherzo, e l’arguto motteggio: in questa maniera, a mio credere, s’avrebbe un vero divertimento letterario, come si ebbe nel XVI secolo, quando i letterati componevano drammi che alla presenza di letterati venivano altresì rappresentati. Un altro vantaggio di non picciol rilievo si potrebbe trarre ancora da queste commedie, e sarebbe di proporle nelle scuole ai giovani come modello di stile e di lingua; non dico tutte, nè tutte intiere, che ciò nuocerebbe per altra parte, ma una scelta giudiziosa fatta da persona intelligente e di buon gusto, che l’arricchisse di illustrazioni e di note. E siffatto studio a me parrebbe arrecare di molti vantaggi, poichè i giovani studiosi, se dalla lettura degli storici, dei moralisti, e degli altri scrittori, che vanno, a così dire, per la maggiore, possono formarsi uno scrivere bello, elegante, e quasi aggiustato colle seste, difficilmente riusciranno ad infondervi il soffio della vita, e dargli spirito e movimento, di che i loro scritti saranno come un dipinto esatto di disegno, e bello ed appariscente di colorito, a cui tuttavia manca espressione e vita, e quell’atto per cui a chi lo vede pare che parli e si muova. Ora il modo di vivificare lo stile, col dargli quel movimento e quella rapidità che mette la cosa in atto, e la scolpisce, secondo me si ha da prendere dagli scrittori comici, che sono tutto brio e tutta vita, e nelle opere loro si deve apprendere il segreto di esprimere per siffatto modo le cose, che al lettore paia non leggerle, ma vederle. Ho già altrove (p. 74) citato un passo di Quintiliano in cui è detto nulla esser più atto a formare un eloquente oratore che la lettura e lo studio dei comici, ed anche notai che il Grisostomo leggeva assiduamente Aristofane; onde questo mio pensiero non è nuovo, nè una fantasia, e ridotto alla pratica non dubito che produrrebbe buonissimo effetto, ed otterrebbe un esito felice.

15. Carattere della commedia italiana. – Ritornando ora alla commedia, è da dire, che nel XVI secolo, sebbene durasse ancora l’uso di rappresentar commedie latine, come erasi fatto nel secolo precedente, poichè anche dopo la metà di esso troviamo che il Card. Ippolito d’Este il giovane fece da alcuni nobili giovani rappresentare il Formione di Terenzio, per cui compose il Mureto quel suo elegantissimo prologo che tuttora abbiamo tra le sue poesie; tuttavia pigliava campo la commedia italiana, e ad una con dotti cultori trovava favoreggiatori potenti nei principi e nei pontefici. Come si è detto, gli autori di essa camminarono sulle traccie dei Latini, e seppero avvedutamente ed acconciamente imitarli. Tutte le commedie di questo tempo per conseguenza hanno un intreccio amoroso che in cinque atti si svolge, e si termina per l’ordinario con uno o più matrimonii che seguono dopo un ritrovamento od una ricognizione; ed i personaggi del dramma sono sempre tolti dall’infima o media classe della società, non v’intervenendo mai, secondo l’antiche leggi e costumanze della commedia, grandi signori, nè personaggi d’alto affare. Ho detto, che per l’ordinario si termina col matrimonio, poichè non sempre il dramma si risolve a questo fine, e assai commedie abbiamo, l’azione e l’intreccio delle quali è una serie di fatti bizzarri e ridicoli, di astuzie e di furberie piacevolissime insieme collegate con naturalezza e verisimiglianza, e tendenti ad un fine qualunque, come per es. la Mandragola e il Frate Alberigo del Macchiavello, l’Assiuolo del Cecchi, ed altre non poche. Quelle che hanno a fondamento dell’azione le supposizioni e le ricognizioni, potrebbero ad alcuno parere fuor del verisimile, poichè tra noi questi fatti non sogliono accadere, e difficilmente, per es., si ritrova una fanciulla, che molti anni innanzi s’era perduta, o pianta morta; tuttavia conviene osservare che a quel tempo nè inverisimili nè infrequenti potevano essere cotali casi; conciossiachè chi legga le istorie vedrà quanto l’Italia fosse in quel secolo, in cui accadde il sacco di Roma e l’assedio di Firenze, turbata e scovolta, e come gli abitatori delle città, ad evitare le ire dei nemici vincitori e salvare la vita dandosi alla fuga, agevolmente non che la roba potessero anco perdere le persone. Per citare un esempio; chi può dire quanti Sanesi abbandonarono la patria dopo la caduta della loro repubblica, ed anzi che piegarsi al duca Cosimo, mangiarono di buon grado il pane dell’esilio? Ora in tali trambusti e sconvolgimenti nulla di più facile che qualche bambino o fosse ad altri affidato, o si andasse smarrito, o preso da’ soldati, che poi reputavasi morto, ed in progresso di tempo per strane combinazioni venisse ritrovato. Il modo della ricognizione è altresì adattato alle costumanze del tempo, conciossiachè usava di porre ai bambini medaglie, collane, anella e brevi, vale a dire polizze di carta o pergamena su cui superstiziosamente scrivevansi orazioni, scongiuri, e simili zacchere, che credeansi efficaci contro le operazioni del demonio e le arti magiche delle fate e degli stregoni; e da questi contrassegni avveniva poi che smarriti fossero ritrovati e riconosciuti. Tutto ciò dimostra, che a voler rettamente giudicare gli scrittori e le opere loro conviene recarsi col pensiero in mezzo a quella società in cui eglino vissero, e studiarne attentamente la storia, della quale una buona parte, vale a dire quella che riguarda la vita domestica, i costumi e le usanze popolari, ci viene somministrata non dal Guicciardini, non dal Macchiavello, non dal Varchi ed altri storici, ma dalle commedie stesse e dalle novelle, le quali sotto questo rispetto, come dipinture della vita d’allora, hanno un merito ed una importanza singolari; conciossiachè esse ci rivelino come pensassero ed operassero in que’ tempi gli uomini, quali fossero le passioni dominanti, quali i vizi e le virtù, come si accordassero insieme religione e scorretto vivere, scrupoli per una parte, licenza per l’altra; insomma trasportandoci in mezzo a quella società, ce la fanno partitamente e distintamente conoscere. Le storie d’ordinario trattano dei vizi e delle virtù dei grandi, ma non scendono al popolo minuto, e ben di rado c’informano esattamente dello spirito intimo e vero d’una società; chi lo voglia conoscere ha da ricorrere alle novelle ed alle commedie contemporanee, a questi quasi quadri di famiglia, in cui tale spirito è fedelmente ritratto e delineato, e troverà di che appagarsi. Infatti in nessun scrittore è sì al vivo e con tanta verità rappresentata la vita dei fiorentini, i loro usi, la loro coltura, quanto nelle novelle del Lasca e del Firenzuola, nelle commedie del Macchiavello, del Cecchi, del Lasca e di altri, i quali, sebbene trattassero l’arte antica, e non uscissero dall’imitazione latina, seppero tuttavia, checchè altri ne dica, nei loro drammi ricopiare i costumi, il pensare, il credere del loro tempo, ed alla commedia antica dare aspetto e aria di volto moderno, con verità che istruisce, e con brio e vivacità che incantano.

Un altro pregio di tali commedie si è quello della lingua pura e schietta, e dell’uso di essa natio ed elegante, poichè per questo rispetto sono una miniera ricchissima ed inesausta, a cui deve pure ricorrere chi la lingua toscana voglia bene apprendere, e formarsi uno stile facile, limpido, chiaro, espressivo ed efficace: onde, quantunque alcuni appuntino la lingua dei comici fiorentini, e se ne facciano anche beffe schernendo gli amatori e cultori di essa, tuttavia, per quanto ne pare a me, essa non tralascia per questo di essere bella e buona, ed acconciamente usata, di far bella prova, senza che veggo che l’ebbero ed hanno in pregio quanti letterati di senno e di buon gusto fiorirono di questi tempi in Italia ed anche di presente onorano la patria nostra, tra’ quali primo fu il P. A. Cesari, il quale non pure la difese in un suo ragionamento contro censori che cercavano di tôrle credito nel giornale dell’italiana letteratura di Padova, sì ancora elegantemente la usò nel volgarizzamento delle commedie di Terenzio, poi Alessandro Manzoni, N. Tommaseo, Augusto Conti, Enrico Bindi, Pietro Fanfani, che le commedie del Lasca accuratamente ristampò ed illustrò, Ferdinando Ranalli, che dettò aurei ammaestramenti intesi a ricondurci alla cognizione ed imitazione de’ nostri antichi scrittori, e quanti amano e coltivano la buona e purgata lingua e lo scrivere castigato ed elegante. L’Accademia della Crusca ricevette nel suo catalogo i comici del cinquecento e le parole, le frasi, i motti, i proverbi di essi ammise nel vocabolario, accuratamente e quasi religiosamente spogliandoli, sebbene alla diligenza dei primi compilatori sieno sfuggiti moltissimi modi di dire e detti proverbiali efficacissimi, i quali a un dizionario completo, che debba servire all’intelligenza di tutti i classici, non meno che di guida e direzione allo scrivere, non possono e non debbono mancare.

Noterò ancora che queste commedie non hanno, come dai moderni si vuole, uno scopo morale, nè sono per nulla dirette a migliorare i costumi, avvegnachè informate al concetto degli antichi, tendono unicamente a ricreare e rallegrare l’animo degli spettatori con fantasie ed invenzioni bizzarre e ridicole, il che pare a me sia il vero fine della commedia, come già ho dimostrato nella prima parte del presente lavoro, non mi essendo avviso che approdi nulla al miglioramento degli uomini lo sciorinar precetti di morale sul teatro, o dimostrar premiata la virtù, punito il vizio. Lo scopo morale, secondo me, è e devesi ricercare nell’arte stessa del bello, senza pretendere d’insegnare o di correggere: poichè ogni cosa bella di sua natura è morale senz’altro, ed infonde col sentimento del bello eziandio quello del buono, per l’intimo nesso che congiunge queste due forme dell’essere; ed un bel quadro, a mo’ di dire, sebbene non insegni nulla, produce sempre un’azione moralizzatrice e civilizzatrice. Onde con quale ragione avvertiva Francesco De-Sanctis, già da me citato a questo proposito: «Volete voi una ricetta perchè, senza stillarvi il cervello, conseguiate lo scopo morale? È semplicissima: non ve ne date pensiero: siate artisti; ubbidite all’arte. Credete dunque che l’arte sia in sè cosa immorale, sì che bisogni sovrapporle uno scopo morale?».

Il metro usato in questi drammi fu l’endecasillabo, cui l’Ariosto e Francesco D’Ambra nei Bernardi e nella Cofanaria fecero sempre sdrucciolo a costo anche di spezzar la parola, e trasportarne una metà al capoverso seguente, come per esempio:..... «perchè Abbondio – È nel saltar fuori di casa venutoli scontrato; – al qual, come potea, summaria – Mente..... ha contato ogni cosa»; e di valersi d’altre licenze poetiche. Lo sdrucciolo, per quanto ne sento io, mi pare convenga più d’ogni altro metro alla commedia, come quello che più d’ogni altro ritiene il suono del giambico latino, e come questo è forte, vibrato, e natus rebus agendis, come del giambico dice Orazio; altri poi adoperarono l’endecassillabo piano, mescolandolo, come fe’ il Cecchi, di sdruccioli; ma tutti composero versi sì umili e bassi da avvicinarsi quasi del tutto alla prosa, ad imitazione dei comici latini. Moltissime commedie poi del resto sono in prosa, come quelle del Macchiavello, una eccettuata, che probabilmente non è sua, molte del Cecchi, tutte quelle del Lasca, ecc., e dimostrano così col fatto il verso non essere necessario ed essenziale alla commedia, anzi meglio avvenirsele la prosa, come quella che in tutto imita il linguaggio famigliare.

Il ridicolo talora diffuso in tutta la commedia, talora ristretto e quasi dissi condensato in un solo o due personaggi, gli è sempre, come si suol dire, di vena, schietto, brioso, facile, spontaneo, e non è se non leggendo che uno può formarsene una giusta idea ed un vero concetto. Chi è che non rida del Messer Nicia del Macchiavello, del Calandro del Bibbiena, del Messer Rovina del Firenzuola, del Gerozzo del Lasca, i caratteri dei quali, sebbene esagerati, mostransi pur così veri e copiati proprio dalla natura? E il motteggio, lo scherzo, la burla, le risposte piene di sale e di spirito non fioriscono forse lì per lì con spontaneità e naturalezza maravigliose? gl’incontri fortuiti, gli scambi, le situazioni comiche non sono maestrevolmente condotte in guisa da produrre il miglior effetto e le più grate e piacevoli sorprese? Io per me non so se in questo si possa far meglio; so di certo che niuno in tal destrezza d’arte e d’ingegno li arrivò poi, di che le moderne commedie a petto di quelle riescono, se non m’inganno, fredde. Se non che grave difetto che vizia tutte le commedie del secolo XVI, e fa che le si debbano chiudere nelle biblioteche, e per quanto è possibile allontanarle dagli occhi della gioventù, si è l’immorale disonestà, e l’oscena e sfacciata violazione di tutte le leggi imposte dal pudore. Non v’ha, si può dire, scherzo, non motto, non frizzo, che non peschi nel brago, non intreccio che non sia sudicio di disonesti amori e di sozze praticaccie, il tutto condito col linguaggio più licenzioso che adoperar si possa. E giunse, dice il Tiraboschi, a tal segno la licenza che anche Giglio Gregorio Giraldi non si potè contenere di non biasimarla altamente: «At nunc, dice egli, mihi apud vos secreto liceat exclamare: o tempora! o mores! Iterum obscena omnis scena revocata est; passim fabulae aguntur, et quas propter turpitudinem christianorum omnium consensus expulerat, eiecerat, exterminaverat, eorum, si Deo placet, praesules, atque ipsi nostri antistites, nedum principes, in medium revocant, et publice actitari procurant. Quin et famosum histrionis nomen jam sacerdotes ipsi et sacris initiati sibi ambitiose asciscunt, ut inde sacerdotiis locupletati honestentur». A chi conosce per le istorie la deplorabile corruzione dei costumi che nel decimosesto secolo invase come lue venefica tutte le classi della società, niuna esclusa, e principalmente le Corti, scolo e sentina d’ogni bruttura; a chi sappia come la religione non fosse più per molti che una vana e superstiziosa mostra, la qual bene sapevasi comporre e adattare collo sfogo libero di passioni da essa vietate, e come non si curasse neppure di coprire la disonestà coll’esteriore decenza; non recherà meraviglia che le commedie, cortigiane quali erano, dovessero avere per prima condizione a piacere ed essere applaudite, la più larga e sconfinata licenza in fatto di costumi. Quindi è che anche uomini pii e d’intemerata vita, quali si legge fossero il Cecchi ed il Lasca, per secondare il genio ed il gusto del tempo, dovettero insozzare bruttamente la scena. E poichè il clero, deviando dal suo instituto, porgeva al popolo tali scandali che i buoni ne lagrimavano, i bellumori ne ridevano e componevanne novelle, ed i cattivi ne trassero materia di scindere il popolo Cristiano colla famosa Riforma di Lutero, i comici, mescolando sacro e profano, ad aguzzar l’appetito degli spettatori e rallegrar le brigate, vi introducevano non di rado persone di chiesa a farci la più trista e disonesta figura; anzi del Frate Timoteo del Macchiavello si rideva saporitamente perfino nel palazzo del Vaticano; Francesco d’Ambra sbottoneggiava frizzi arroventati contro i preti; e Ludovico Ariosto mordeva motteggiando lo stesso Leone X, e gli rinfacciava le indulgenze.

Firenze, dato alle fiamme il grande Savonarola restauratore non meno della libertà che della morale, ricaduta per opera di Clemente VII e di Carlo V nelle mani dei Medici, vedeva rinascere le orgie carnascialesche del cantor dei beoni Lorenzo il Magnifico; coll’infame duca Alessandro ripigliavano mano e la tirannide ed il mal costume, e la nuova corte Medicea rimase famosa per le atrocità di Cosimo, gli intrighi di Isabella, la crudeltà di Giordano Orsino, che la scannò, le lascivie di Francesco, e gli scandali di Bianca Capello. La colta e gentile Firenze, doviziosa di poeti, di artisti, di dotti, perduto colla libertà l’onestà e il riserbo, era tale addivenuta da meritare più che in altro tempo l’acerbo rimprovero fattole dall’Alighieri col paragonarla alla Barbagia di Sardegna:

Chè la Barbagia di Sardigna assai
Nelle femmine sue è più pudica,
Che la Barbagia, dov’io la lasciai.

Qual meraviglia adunque che e novellieri e comici si valessero d’una licenza più che fescennina, e violassero senza rispetto alcuno con scede e sconcezze invereconde la santità del pudore e del costume, ed anche stendessero la mano sacrilega sulla religione e sui più augusti misteri, facendo d’ogni erba un fascio, e d’ogni lana un peso? Ed è strana e mirabil cosa, come, secondo ho già avvertito, tali turpitudini stomachevoli si conciliassero con una pietà, che forse del tutto non era finta, e come, per esempio, lo scrittor della Mandragola predicasse poi la sera in una confraternita di secolari battenti, eccitando alla penitenza i confratelli con fervorosi sermoni da disgradarne un solitario della Tebaide; tanta è la contraddizione che domina l’uomo, e sì inesplicabile è cotesto mistero del cuore umano, in cui bene e male s’avvicendano, e talvolta mostruosamente si collegano e si acconciano insieme!

Altri difetti rispetto all’arte io non saprei trovare se non in alcuni pochi comici, i quali non seppero allargarsi abbastanza dall’imitazione antica, e diedero per conseguenza in improprietà ed in inverosimiglianze, mettendo fuori gli schiavi, quali erano presso gli antichi, i ruffiani, e che so io; ed anzichè imitare tradussero, poco di proprio aggiungendo. Di tali difetti sentono, per es., la Cassaria, commedia giovanile di Ludovico Ariosto, che segue pedestremente le costumanze antiche; la Suocera di Benedetto Varchi, che è poco più d’una letteral versione dell’Ecira di Terenzio; l’Aridosia di Lorenzino dei Medici, che con poche aggiunte di suo e della Mustellaria di Plauto, copiò gli Adelfi di Terenzio, e v’introdusse quel Ruffo lenone all’antica. Le altre sono, come ho già avvertito, tali imitazioni da reggere e sostenere, se non altro, il paragone degli originali.

16. I Comici del Cinquecento. – Ora venendo a discorrere in particolare dei principali autori comici del XVI secolo, premetterò col Tiraboschi che all’Accademia sanese dei Rozzi devesi principalmente il vanto di aver promossa la comica teatral poesia, poichè, come leggesi nella storia di questa Accademia, Leone X ogni anno faceali venire in Roma, e nelle stanze sue private godeva di sentire le piacevoli loro farse, alcune delle quali vennero altresì rappresentate alla presenza dell’imperatore Carlo V. Molte infatti sono le commedie e degli Accademici e di altri sanesi, parte stampate, parte inedite, in modo che, come dice il Tiraboschi, non vi è forse città, che al par di questa possa vantare un sì gran numero di scrittori comici; ma pressochè niuno di questi rimase alla posterità conosciuto e celebre, anzi, secondo il Tiraboschi stesso, si può ragionevolmente dubitare se a’ loro componimenti convenga il nome di commedie, o non siano piuttosto sbozzi e scherzi comici lontani ancora da quella perfezione che si ammira nelle posteriori.

I due primi che componessero vere commedie furono Ludovico Ariosto e il cardinale Dovizio da Bibbiena, dei quali è da discorrere partitamente.

17. L’Ariosto. – Educato alla Corte di Ferrara, dove, come s’è veduto, fin dal secolo precedente usavansi gli spettacoli teatrali, ebbe campo di studiare i modelli latini, ch’egli vedeva rappresentarsi quando tradotti in volgare, quando nel testo originale; di che ben tosto innamoratosene, s’invogliò d’imitarli. L’indole sua allegra e festiva, qual si rivela nel Furioso, ed il genio satirico ed argutissimo che mostrasi nelle sue satire rendevanlo atto ad un tal genere di composizione, e gli assicuravano felice riuscita. Una sol cosa mancavagli a farlo comico perfetto, ed era l’uso schietto e natìo della toscana favella, che egli lombardo non riuscì mai a possedere pienamente, e molto meno a maneggiare colla grazia e colla facilità dei comici fiorentini, sebbene vi ponesse sommo studio e vi durasse grandissima fatica. Egli stesso confessa di non aver potuto sì dimenticare il proprio idioma, che tratto tratto non apparisse il lombardo di sotto al toscano:

Mo’ se non vi parrà d’udire il proprio
E consueto idioma del suo popolo
Avete da pensar ch’alcun vocabolo
Passando udì a Bologna, dove è studio,
Il qual gli piacque e lo tenne a memoria:
A Firenze ed a Siena poi diede opera,
E per tutta Toscana a l’eleganzia
Quanto potè più; ma in sì breve termine
Tanto appreso non ha, che la pronunzia
Lombarda possa totalmente ascondere.

Ancor giovinetto egli compose due commedie in prosa, la Cassaria ed i Suppositi, attenendosi nella prima strettamente all’imitazione latina, a scapito, come si è detto, della verosimiglianza; nella seconda allargandosi maggiormente e con più libertà dai modelli, e seguitando il genio suo originale con assai vantaggio sulla prima. Queste due commedie sono le uniche opere in prosa provate autentiche dell’Ariosto, poichè l’Erbolato , che pure è steso con proprietà e leggiadria di dettato, come alcuni suppongono, fu a lui falsamente attribuito; e tuttavia basterebbero a dimostrare che egli con egual perizia e facilità avrebbe, come la poesia, così trattata la sciolta orazione, se ad essa di proposito avesse applicato; poichè, sebbene questa nelle suddette commedie mostrisi alquanto dura e restia, e priva di quella venustà, che adorna i suoi versi, per prima prova di giovane scrittore è ottimo lavoro, e promette di molto; senzachè nulla ci si potrebbe censurare quanto all’impasto, per dir così, dello stile, ed alla maniera generale di esprimere e di fraseggiare. La Cassaria piglia il nome da una cassa di drappi e di broccati, cui il giovane Erofilo sottrae al padre per pagare a Lucramo il prezzo della sua e dell’amica di Caridoro: i Suppositi da questo, che Erostrato muta la sua condizione di studente col servitore Dulippo, e per tale acconciatosi in Casa Damone affine di essere colla costui figliuola Polimnesta, ha per rivale il vecchio dottor Cleandro; dopo varii casi i suppositi son riconosciuti; scopresi il vero Erostrato, e trovasi Dulippo esser figliuolo di Cleandro, onde col matrimonio de’ due giovani, e con soddisfazione del vecchio Cleandro che rinunzia alle nozze per aver rinvenuto un erede nel figliuolo, termina allegramente la commedia. L’intreccio, quantunque modellato sull’esempio antico, è tuttavia ben posto e sviluppato; ma la scena non mostra ancora quella snellezza e quel brio, che, dalla maggior maestria dell’autore ricevettero poi queste stesse commedie in versi, e le altre composte in età matura. Nondimeno rappresentate nella corte di Ferrara fecero ottima prova, e piacquero talmente, che alcuni sottrattele all’Ariosto, contro suo grado le pubblicarono, come si vede da una lettera di lui, pubblicata dal Baruffaldi tra i documenti aggiunti alla Vita del poeta, diretta al principe Guidobaldo Feltrio della Rovere, che nell’inverno del 1532 l’aveva richiesto d’una commedia non più recitata, nella quale lettera dice così: «Sappia V. E. che io non mi trovo aver fatto se non quattro commedie, delle quali due, i Suppositi e la Cassaria, rubatemi dalli recitatori, già vent’anni che furo rappresentate in Ferrara, andaro con mia grandissima displicenzia in stampa; poi son circa tre anni che ripigliai la Cassaria, e la mutai quasi tutta, e rifeci di nuovo, e l’ampliai nella forma,, che ’l signor Marco Pio ne mandò copia a V. E.», ecc.. Essendo stati questi due drammi, secondo il Barotti, composti intorno all’anno 1498, l’Ariosto si dimostra essere il creatore della commedia italiana, nè si può più dire assolutamente che la prima vera commedia in Italia sia stata la Calandra del Bibbiena, quando ciò non s’intenda della sola Toscana, quantunque anche quivi, secondo il Tiraboschi, essa sia stata preceduta da quelle del Macchiavello, le quali, secondo lui, vennero parimente composte circa l’anno 1498. L’Ariosto poi in progresso di tempo tra le molteplici occupazioni ond’era premuto, non abbandonò la comica Musa; e perfezionatosi principalmente nella cognizione della lingua toscana, come si è detto innanzi, rifecesi sulle prime prove avendo osservato per quasi un doppio spazio di tempo il precetto di Orazio, che alla correzione d’un lavoro impone di metter mano dopo nove anni: «Si quid tamen olim scripseris..... nonum prematur in annum – Membranis intus positis: delere licebit – Quod non edideris: nescit vox missa reverti», onde ricompose in versi la Cassaria ed i Suppositi ampliandoli, e dando loro miglior impasto e più venusta forma. Scrisse poi in seguito la Lena, il Negromante, ed un’altra, che intitolasi la Scolastica, ma che egli più propriamente nella citata lettera chiama gli Studenti, cui tuttavia distratto dalle molte brighe di corte, come dice egli stesso, non potè terminare, e lasciò imperfetta alla fine della scena terza dell’atto V; di che venne supplita poi nel resto dal fratel suo Gabriele, come anche si vede dai due prologhi che le son premessi, l’uno di esso Gabriele, l’altro di Virginio Ariosto. In queste tre commedie egli tolse a trattare soggetti del suo tempo, e, pur non abbandonando l’imitazione dell’antico, seppe essere originale, e dar loro una tinta di novità ben intesa ed aggradevole; onde appena è che tu scorga nel Negromante l’idea fondamentale e prima del dramma essere tolta dall’Ecira di Terenzio, tanto sono maestrevolmente cambiate le circostanze, i caratteri, i personaggi. Quanto studio e diligenza, massime a ritrar la natura, egli ponesse nel comporre le commedie, si scorge da un aneddoto raccontato dal Baruffaldi nella Vita di lui; che essendo un giorno ripreso e garrito dal padre per non so che fallo, soffrì la correzione in silenzio, e senza arrecare discolpa; del che avendo di lì a poco ragionamento con Gabriele suo minor fratello (presso del quale bravamente purgossi), e pressandolo questi a dire perchè mai usata avesse col padre tanta moderazione, Ludovico rispose, che in quel frattempo egli era corso colla fantasia ad una scena della sua Cassaria, intorno alla quale stava allora lavorando; e mentre appunto il padre l’ammoniva, egli studiavasi di trasportare dal vero al finto i tratti di quella scena, che è la 2a dell’atto V. Nondimeno, soggiunge il Baruffaldi: Io con alcuni sono d’avviso, che tanto l’idea di quella scena, quanto il carattere di qualche personaggio nella commedia introdotto debbansi dire piuttosto una studiata imitazione dell’Andria di Terenzio, che un improvviso pensiero nato dall’incontro col padre. Ad ogni modo egli è certo che e’ lavorava colla più esatta e diligente accuratezza, impiegandoci tempo non poco, e tuttavia si peritava di dar fuori i suoi drammi, nè tenevasi sicuro del fatto suo, onde a papa Leone X, che desiderava una commedia, il giorno 16 gennaio 1520, mandandogli il Negromante, rispose nel modo seguente «Avendomi Galasso mio fratello a’ dì passati fatto intendere che V. S. averia piacere che io le mandassi una mia commedia ch’io avea tra le mani; io che già molti giorni l’avevo messa da parte quasi con animo di non finirla più, perchè veramente non mi succedea secondo il desiderio mio, sono stato alquanto in dubbio, s’io mi dovea scusare di non l’aver finita, e che per recitarla questo carnevale mi restava poco tempo di finirla (e questo pel timore del giudizio di questi uomini dotti di Roma, e, più degli altri, di quello di Vostra Santità, che molto ben si conoscerà dove ella pecca, e non mi sarà admessa la escusa di averla fatta in fretta); o se pure io la dovevo finire al meglio che io potea, e mandarla, e far buono animo e conto che quello che conoscevo io, nessun altro avesse a conoscere..... Così l’ho ritolta subito in mano; e tanto ha in me potuto l’essermi stata da parte di Vostra Santità richiesta, che quello che in dieci anni, che già mi nacque il primo argomento, non ho potuto, ho poi in due giorni o tre condutto a fine, ma non che però mi satisfaccia a punto, e che non ci siano delle parti che mi facciano tremare l’animo, pensando a qual giudizio la si debba appresentare. Pure, quale ella si sia, a Vostra Santità insieme con me medesimo dono. S’Ella la giudicherà degna della sua udienza, la mia commedia avrà miglior avventura, ch’io non le spero; s’anco sarà riputata altrimenti, prendasene quel trastullo almeno che delle composizioni del Baraballe già si soleva prendere ecc.».

L’Ariosto dalle commedie forse più che dal Furioso, ebbe lodi ed applausi; il duca Alfonso fece per esse erigere nella sua Corte un teatro stabile secondo il disegno dato dallo stesso Ariosto, e le nobili persone della città gareggiavano a farne gli attori, tra cui lo stesso principe Don Francesco figliuolo del duca recitò il prologo della Lena nel 1528; il qual prologo forse fu il primo che abbiamo alle stampe di questa commedia, poichè il secondo, che il poeta compose dopo di aver ampliata la Lena di due scene sulla fine, è un continuato osceno equivoco sulla parola coda da non potersi supporre secondo alcuni pronunziato da un giovane principe; sebbene chi conosca le cortigiane usanze d’allora non se ne debba far poi, posto il caso, grande maraviglia. Lo stesso duca era così geloso delle composizioni del suo poeta, che non permetteva fossero rappresentate prima altrove che in Ferrara, come vedesi dalla lettera al Della Rovere, in cui l’Ariosto scrive: «Gli è vero che già molt’anni ne principiai un’altra (commedia), la quale io nomino i Studenti, ma per molte occupazioni non l’ho mai finita; e quando io l’avessi finita, non la potrei difendere, che il Signor Duca mio patron, ed il Signor don Ercole non me la facessino prima recitare in Ferrara, ch’io ne dessi copia altrove».

La fama delle sue commedie spargevasi altresì al di fuori. Già si è veduto dalle due lettere citate, che da papa Leone e dal principe Della Rovere gliene venivano fatte richieste; da un’altra del 6 giugno 1519 sappiamo che anche il Marchese di Mantova gliene aveva domandato, ed egli gli mandò la Cassaria; in breve fu tenuto comico perfetto, e tutti gli scrittori di commedie del XVI secolo lo riguardarono come maestro. Virginio nel prologo della Scolastica, esprimendo il comune sentimento, lo proclamava già unico al mondo a’ suoi tempi; il Cecchi nel prologo dei Rivali ne aggrandiva l’elogio con dire: E ’l divino Ariosto..... a chi cedono – Greci e Latini e Toscan, tutti i comici; e Pietro Aretino ne deplorava la morte nel prologo della Cortigiana, facendo domandare ad uno degli interlocutori se questa commedia fosse dell’Ariosto, e rispondere all’altro: «Oimè, che l’Ariosto se n’è ito in cielo, poichè non aveva più bisogno di gloria in terra..... Gran danno ha il mondo di un tanto uomo, che oltre alle sue virtudi era la stessa bontà». E quantunque le lodi dell’infame Aretino possan supporsi adulazioni in ricambio di quella vile dall’Ariosto a lui fatta nel Furioso, dove scrisse: Ecco il flagello – De’ principi, il divin Pietro Aretino , non di meno, avendo la morte del poeta, come ogni ritegno al biasimo, così tolto via ogni allettamento all’elogio, si possono pigliar per veraci e sincere.

Egli è certo che nella comica poesia grande è il merito dell’Ariosto, perchè fu il primo a tentar questo genere nella volgar lingua, e dar fuori drammi che meritassero questo nome; e sebbene talvolta vi s’incontrino monologhi di soverchio lunghi, e scene alquanto languide, tuttavia in generale le sue commedie offrono bell’intreccio, freschezza di tinte e di colorito, forza e nerbo di espressione, brevità e vivezza di dialogo, scherzo e motteggio, spesso osceno, ma sempre facile e naturale. Un carattere particolare di esse si è una cotal libertà aristofanesca di mordere e censurare i principi ed i magistrati, che ci rivela l’acre e pungente scrittor delle satire, delle quali ti richiama non di rado a mente qualche brano. Per esempio nella Cassaria, atto IV, scena 2a, per bocca di Crisobolo scaglia due frizzi arroventati contro la pigrizia e la indolenza dei magistrati, che non son mai a ordine per dare udienza, e render ragione a chi li cerca:

Se a quest’ora andassimo
Al Capitano, so che v’anderessimo
Indarno; o che ci farebbe rispondere,
Che volesse cenare; o ci direbbono
Che per occupazioni d’importanza
Si fosse ritirato. Io so benissimo
L’usanze di costor che ci governano;
Che quando in ozio son soli, o che perdono
Il tempo a scacchi, o sia a tarocco, o a tavole,
O le più volte a flusso e a sanzo, mostrano
Allora d’esser più occupati: pongono
All’uscio un servidor per intromettere
Li giocatori e li ruffiani, e spingere
Li onesti cittadini indietro e gli uomini
Virtuosi.

Il qual passo ti porta col pensiero a quell’altro della Satira 1a, v. 76 e seguenti:

Signor, dirò (non s’usa più fratello,
Poichè la vile adulazion spagnuola
Messe la signoria fino in bordello),

Signor (se fosse ben mozzo da spuola),
Dirò, fate, per Dio, che monsignore
Reverendissimo oda una parola.

Agora non si puede ed es mejore,
Che vos torneis a la magnana. Almeno,
Fate ch’ei sappia ch’io son qui di fuore.

Risponde, ch’el padron non vuol gli sieno
Fatte imbasciate, se venisse Pietro,
Pavol, Giovanni, e il mastro Nazzareno.

Ma se fin dove col pensier penetro,
Avessi a penetrarvi occhi lincei,
O i muri trasparesser come vetro,

Forse occupati in casa li vedrei,
Che giustissima causa di celarsi
Avrian dal sol, non che dagli occhi miei.

E basti questo per un esempio; ma si potrà ancor vedere, chi voglia, con quanta libertà sia composto il prologo per la rappresentazione da farsi in Roma del Negromante, onde si scorgerà altresì quanto Leone X fosse ai poeti benigno ed indulgente. Chiuderò questi miei cenni intorno alle commedie dell’Ariosto con quello che ne dice il Polidori: «Tutti quasi i caratteri, allorchè sono nostri, ossia non tolti (come per lo più i giovani ed i servi) dal teatro greco e latino, hanno in sè verità inemendabile, sicchè paiono ricopiati in presenza della vivente natura. Guardate, non che altro, quelle figure, come i pittori dicono, sfumate delle poche matrone e fantesche, dell’unico frate domenicano; poi l’altre più espresse del giovane Camillo, e di quel Bartolo, che della tradita amicizia cerca scusa nell’amore soverchio verso il figliuolo. Sono composti di elementi diversi, ma tuttavia non repugnanti, e perciò veritieri, quelli di Lucramo nella Cassaria, di Jachelino nel Negromante; semplicissimo, e, al mio credere, sopra tutti perfetto quel della Lena nella commedia di questo nome. Peccato che a una tal donna non si facesse la sua parte nella vena inesauribile delle bugie, che tutta intiera al servo Corbolo vien prodigata! Quanto allo stile, troppo ad ognuno è sensibile quella spontaneità di verso elegantissima, e sempre intesa a nascondere il suo proprio artifizio; quel fraseggiare sì eletto, e pur lontano egualmente dall’idiotaggine e dalla rettorica; per il che molte volte ci nacque in cuore il desiderio che gli Italiani mai non avessero abbandonato la forma metrica nelle loro teatrali composizioni. E dove pur venga il giorno che si ravveggano del già commesso errore, come di chi nella scultura lasciasse i marmi per le cere colorate e pei drappi, non avrebbero miglior modello da proporsi di queste cinque commedie; felici prove d’un intelletto per più rispetti prodigioso; capilavori d’un arte, che se allora potè dirsi fanciulla, non mancherà forse chi voglia oggidì chiamarla decrepita». Ed ora, prima di uscir da Ferrara, dirò, che su questo teatro medesimo furono probabilmente, come dice il Tiraboschi, recitate le tre commedie di Ercole Bentivoglio: il Geloso, i Fantasmi e i Romiti, colle quali egli intese di gareggiar coll’Ariosto, e, secondo il Tiraboschi stesso, fu di lui più felice per aver sostituito al verso sdrucciolo, l’endecasillabo piano; nel che tuttavia io non troverei materia di lode, poichè, come ho detto di sopra, lo sdrucciolo, per l’affinità e somiglianza di suono che tiene col giambico latino, s’avviene meglio del piano alla commedia.

18. Il Bibbiena. – La prima perfetta commedia in prosa vulgare che da scrittori toscani fosse composta, come il Quadrio afferma, si è la Calandra di Bern. Dovizi da Bibbiena.

Di quest’uomo maraviglioso per essersi innalzato dal più umile ad uno dei più alti stati della società coll’ingegno che ebbe fecondissimo e pieghevolissimo, scrisse a lungo e con grande accuratezza la vita il canonico Bandini in un libro intitolato: Il Bibbiena, o sia il ministro di stato, pubblicato in Livorno l’anno 1798. Nato di oscura famiglia nel 1470 in Bibbiena terra del Casentino, trovò mediante la piacevolezza dei modi e del conversare il modo di entrare nella casa dei Medici, che allora col Magnifico Lorenzo era salita al colmo della potenza in Firenze, dove la repubblica oggimai non esisteva che di nome. In quella corte, come gli accorgimenti e le coperte vie della politica di Lorenzo, l’arti del quale non furon leonine, ma di volpe, direbbe Dante, così ancora apprese le umane lettere e la poesia, a cui portavalo l’ingegno suo vivace atto a ricevere e sentir potentemente le varie forme del bello, per mezzo dello stesso Lorenzo che poeta e letterato aveva nella sua corte raccolto il fiore dei dotti e degli artisti, a cui mostravasi largo di protezione e di favori. Quivi il Bibbiena contrasse amicizia e famigliarità col cardinale Giovanni dei Medici figlio di Lorenzo, e tanto gli si mantenne fedele, che lo seguitò e servì nell’esilio, allorchè, dopo la morte del Magnifico, per opera del Savonarola ricostituitasi la repubblica, la famiglia Medici venne sbandeggiata; ed in Roma dopo la morte di Giulio II seppe nel conclave per tal modo destreggiarsi, ed avvolpacchiare i cardinali, anche col rappresentar il suo padrone affetto di malattia segreta dover per poco durare nel pontificato, che il Medici in età di soli 37 anni venne col nome di Leone X eletto papa. Il Bibbiena venne tantosto dal novello pontefice creato tesoriere dello stato, e nel 1513 cardinale. Carissimo sempre a Leone non meno per l’allegra e festiva indole, che per l’avveduto e sicuro maneggio della politica, fu da lui adoprato in varie importanti legazioni, e nel 1518 mandato in Francia ambasciatore al re Francesco I, dove si sparse voce, ed il Bandini la sparsa voce accolse, che dimentico dei beneficii del suo signore, contro di lui congiurasse, e ricevesse dal re Francesco la fede di essere promosso al pontificato. Fatto sta che tornato in Roma in breve si morì nell’anno 1520 avvelenato, come credette egli stesso nella sua infermità, in una coppia d’uova, e come oltre il Giovio dice il Grassi, il quale nel suo Diario riferisce, che sparatosi il cadavere di lui, si rinvennero nei visceri le traccie del veleno. Fra le rime, gli opuscoli e le lettere del Bibbiena, le quali appena vivono nel catalogo che ne stese il Bandini, rimase meritamente celebre la Calandra commedia in prosa. Sembra che egli la componesse l’anno 1514 in occasione della dimora che fece in Roma la Marchesa di Mantova Isabella d’Este Gonzaga, la quale, come riferisce il Tiraboschi sull’autorità di alcune lettere inedite del conte Baldassar Castiglione vedute in Mantova dal Bettinelli, trovossi a Roma in quest’anno, sebbene, come dice il Tiraboschi stesso, di questa sua andata non trovisi presso altri memoria. La rappresentazione si fece sontuosa nel palazzo Vaticano, e vi assistette ed applaudì anche Leone, come il Giovio racconta nella vita di questo pontefice: Accesserat et Bibienae Cardinalis ingenium, cum ad arduas res tractandas peracre, tum maxinze ad movendos iocos accomodatum. Poëticae enim et Etruscae linguae studiosus comoedias multo sale multisque facetiis refertas componebat, ingenuos iuvenes ad histrioynicam hortabatur, et scenas in Vaticano spatiosis in conclavibus, instituebat. Propterea cum forte Calandram comoediam a mollibus argutisque leporibus periucundam in gratiam Isabellae Mantuani principis uxoris per nobiles comoedos agere statuisset, precibus impetravit ut ipse Pontifex e conspicuo loco despectaret. Erat etiam Bibiena mirus artifex hominibus aetate vel professione gravibus ad insaniam impellendis, quo genere hominum Pontifex alleo flagranter oblectabatur, ut laudando ac mira eis persuadendo, donandoque, plures ex stolidis stultissimos et maxime ridiculos efficere consuevisset. Questa rappresentazione fu decorata di scenari ed apparati ricchi e magnificentissimi dal celebre pittor sanese Baldassarre Peruzzi, de’ quali il Vasari nella costui vita ci lasciò la seguente descrizione, che io recherò, poichè oltre al lavorio del pittore, si tocca altresì alcuna cosa dell’origine della commedia volgare: «Quando si recitò al detto papa Leone la Calandra, commedia del cardinale di Bibbiena, fece Baldassarre l’apparato e la prospettiva che non fu manco bella, anzi più assai che quella che aveva altra volta fatto, come si è detto di sopra, ed in queste siffatte opere meritò tanto più lode, quanto per un gran pezzo addietro l’uso delle commedie e conseguentemente delle scene e prospettive era stato dismesso, facendosi in quella vece feste e rappresentazioni; ed o prima o poi che si recitasse la detta Calandra, la quale fu delle prime commedie volgari che si vedesse o recitasse, basta che Baldassarre fece al tempo di Leone X due scene che furon maravigliose, ed apersono la via a coloro, che ne hanno poi fatto a’ tempi nostri. Nè si può immaginare come egli in tanta strettezza di sito, accomodasse tante strade, tanti palazzi e tante bizzarrie di tempii, di logge, e d’andari di cornici così ben fatte, che parevano non finte, ma verissime, e la piazza non una cosa dipinta e piccola, ma vera e grandissima. Ordinò egli similmente le lumiere, i lumi di dentro che servono alla prospettiva, e tutte l’altre cose che facevano di bisogno, con molto giudizio, essendosi, come ho detto, quasi perduto del tutto l’uso delle commedie, la quale maniera di spettacolo avanza, per mio credere, quando ha tutte le sue appartenenze, qualunque altro quanto si voglia magnifico e sontuoso». Altre rappresentazioni della stessa commedia si fecero poi in Mantova, in Urbino e perfino in Francia a Lione nel 1548, dove la regina Caterina dei Medici la fe’ recitare, innanzi al re Enrico II e distribuì agli attori italiani 800 doppie in dono. Nell’anno 1521 fu poi in Siena publicata colle stampe di Michele di Bart. Fiorentino ad istanza di Giovanni d’Alessandro, e negli anni seguenti in Roma, in Firenze, in Venezia, ed altrove, dimodochè in breve se ne moltiplicarono le edizioni.

L’intreccio della Calandra è tolto in radice dai Menecmi di Plauto, ma ammodernato, abbellito, e reso più sostenuto insieme e più ridicolo in quanto che i casi e le avventure comiche che in Plauto nascono dalla perfetta somiglianza di due fratelli, nel Bibbiena vengono dal somigliarsi d’un fratello e d’una sorella, il che altresì porse all’autore materia di essere più inverecondo nei fatti, e più salace nelle parole. Per la qual cosa nel prologo e’ la chiama non antica, ma moderna: «Che antica non sia, dispiacer non vi debbe, se di sano gusto vi trovate» e lepidamente risponde a chi lo appuntasse d’aver rubato a Plauto: «Se fia chi dica, l’autore essere gran ladro di Plauto, lasciamo stare che a Plauto staria molto bene l’essere rubato per tenere il moccicone le cose sue senz’una chiave, e senza una custodia al mondo; ma l’autore giura alla Croce di Dio che non gli ha furato questo (facendo uno scoppio colle dita), e vuole stare a paragone. E che ciò sia vero, dice, che si cerchi quanto ha Plauto, e troverassi che niente gli manca di quello che aver suole. E se così è, a Plauto non è stato rubato nulla del suo; però non sia chi per ladro imputi l’autore. E se pure alcuno ostinato ciò ardisse, sia pregato almeno di non vituperarlo, accusandolo al bargello, ma vada a dirlo secretamente nell’orecchio a Plauto». Dell’averla poi scritta in prosa adduce nello stesso prologo questa validissima ragione: «Rappresentandovi la commedia cose familiarmente fatte e dette, non è parso all’autore usare il verso, considerato che e’ si parla in prosa con parole sciolte, e non legate». Il titolo di Calandra le viene da un certo vecchio scimunito che ha per moglie l’astuta giovane Fulvia, e cerca miglior pane che di grano, nomato Calandro dal Calandrino famoso del Boccaccio, perchè come questi è ingannato dagli amici, e fatto per essi trovare con la Niccolosa a monna Tessa, che gli disse poi una rilevata villania, e corsegli con l’unghie nel viso, e tutto gliele graffiò, e presolo per li capelli, et in qua et in là lo tirò ; così quegli menato alla mazza da Fessenio servo, chiuso prima in un forziero (atto III°, sc. 2a), vien poi da Fulvia côlto con la scanfarda di Sofilla, e vituperato (atto III°, sc. 13). A questo Calandro addossò il Bibbiena pressochè tutta la parte ridicola, ed il fece con gusto e con avvedutezza in guisa da porgere a tutta la commedia come per riflesso una tinta generale chiara ed allegra; se non che forse calcò alquanto la mano sopra di questo personaggio, ed esagerandone la semplicità e la scimunitaggine uscì alquanto dal vero e dal naturale, cosa che, per esempio, non intervenne, come si vedrà, al Macchiavello, rispetto, al suo Messer Nicia.

L’arte di condurre le scene nel Bibbiena non mostra ancora quella perfezione che in alcuni comici posteriori si ravvisa, e quantunque proceda con assai brio e movimento, manca tuttavia di quella schietta lindura e semplicità, che s’incontrano nel Macchiavello, nel Cecchi, e nel Lasca; e talora, a così dire, inciampa, e va innanzi per le lunghe in modo da annoiare; come, per esempio, lunga e stucchevole riesce la 2a dell’atto primo tra Polinico precettore Lidio e Fessenio, nella quale Polinico, personaggio introdotto, si direbbe, oziosamente, sciorina lunghi e sazievoli precetti di morale, senza uno scopo, per quanto ne sento io, evidente e necessario. La locuzione, che pure è leggiadra e piena di grazia natia, è ancor lontana dalla venustà e dall’atticismo fiorentino onde si abbellirono le posteriori commedie e che danno alla scena un atteggiamento vivo e spirante. Nondimeno, riguardata nell’insieme, è un lavoro, che si può dire compiuto, o quasi perfetto, da porsi, come dice il Gravina, tra le principali commedie italiane; ed è certamente falso il giudizio del Giraldi, che la dichiarò affatto senz’arte.

A dare un breve saggio della maestria del Bibbiena nell’uso della lingua e dello stile, ne recherò qua una scena, scegliendola tra le poche che non offendono il costume ed il pudore. In essa il servo Fessenio insegna al gocciolone di Calandro come si debba morire per esser collocato in un forziero, e portato in luogo che gli piacerà:

ATTO SECONDO – Scena IX.
Fessenio e Calandro.

Fess. . . . . . Contentiti il ciel, padrone.
Cal. E te, Fessenio mio: è in ordine il forziero?
Fess. Tutto: e vi starai dentro senza snodarti pure un capello, perchè bene vi ti acconci dentro.
Cal. Meglio del mondo. Ma dimmi una cosa ch’io non so.
Fess. Che?
Cal. Avrò io a stare nel forziero desto, o addormentato?
Fess. O salatissimo questo! come? desto, o addormentato? Ma non sai tu che su’ cavalli si sta desto, nelle strade si cammina, alla tavola si mangia, nelle panche si siede, nei letti si dorme, e nei forzieri si muore?
Cal. Come! si muore?
Fess. Si muore, sì; perchè?
Cal. Cagna! l’è mala cosa.
Fess. Moristi tu mai?
Cal. No, ch’io sappia.
Fess. Come sai adunque che l’è mala cosa, se tu mai non moristi?
Cal. E tu se’ mai morto?
Fess. Oh oh oh oh, mille millanta, che tutta notte canta.
Cal. È gran pena?
Fess. Come il dormire.
Cal. Ho a morir io?
Fess. Sì, andando nel forziero.
Cal. E chi morrà me?
Fess. Ti morrai da te stesso.
Cal. E come si fa a morire?
Fess. Il morir è una favola; poichè nol sai, son contento a dirti il modo.
Cal. Deh sì; di’ su.
Fess. Si chiude gli occhi, si tiene le mani cortese, si torce le braccia, stassi fermo fermo, cheto cheto, non si vede, non si sente cosa ch’altri si faccia o si dica.
Cal. Intendo: ma il fatto sta, come si fa poi a rivivere?
Fess. Questo è bene uno dei più profondi segreti che abbia tutto il mondo, e quasi nessuno il sa; e sii certo, che ad altri nol direi giammai, ma a te son contento dirlo. Ma vedi per tua fè, Calandro mio, che ad altra persona del mondo tu non lo palesi mai.
Cal. Io ti giuro, ch’io non lo dirò ad alcuno, e che, se tu vuoi, non lo dirò a me stesso.
Fess. Ah, ah, a te stesso son io ben contento che tu il dica, ma solo ad un orecchio, all’altro non già.
Cal. Or insegnamelo.
Fess. Tu sai, Calandro, che altra differenzia non è dal vivo al morto, se non in quanto il morto non si muove mai, e il vivo sì; e però quando tu faccia com’io ti dirò, sempre risusciterai.
Cal. Di’ su.
Fess. Col viso tutto alzato al cielo si sputa in su, poi con tutta la persona si dà una scossa, così; poi si apre gli occhi, si parla, e si muove i membri: allora la morte si va con Dio, e l’uomo ritorna vivo. E sta sicuro, Calandro mio, che chi fa questo, non è mai morto. Or puoi tu ben dire d’avere così bel segreto, quanto sia in tutto l’Universo, e in Maremma.
Cal. Certo io l’ho ben caro; e or saprò morire e vivere a mia posta.
Fess. (Madesì, padron buaccio!)
Cal. Farò tutto benissimo.
Fess. Credolo.
Cal. Vuo’ tu veder se io so ben fare, ch’io pruovi un poco?
Fess. Ah, ah, non sarà male; ma guarda a farlo bene.
Cal. Tu ’l vedrai. Or guarda: eccomi (si stende in terra).
Fess. Torci la bocca..., più ancora..., torci bene..., per l’altro verso..., più basso... Oh, oh.... or muori a posta tua. Oh, bene, che cosa è a far con savi; chi avria mai imparato a morir sì bene, come ha fatto questo valente uomo, il quale muore di fuora eccellentemente? Se così bene di dentro muore, non sentirà cosa ch’io gli faccia, e conoscerollo a questo. Zas: bene, Zas: benissimo, Zas: ottimo. Calandro, o Calandro, Calandro!
Cal. Io son morto, io son morto.
Fess. Diventa vivo, diventa vivo: su, su, che alla fè tu muori galantemente. Sputa in su.
Cal. Oh, oh, uh, oh, oh, uh, uh. Certo gran male hai fatto a rivivermi.
Fess. Perchè?
Cal. Cominciavo a veder l’altro mondo di là.
Fess. Tu lo vedrai bene a tuo agio nel forziero.
Cal. Mi par mill’anni.

19. Macchiavello. – Uno dei genii più potenti che abbia avuto l’Italia, si è senza dubbio Niccolò Macchiavello, scrittore profondo ed elegantissimo di storie, acuto filosofo e politico sommo.

Di questi suoi pregi a me qui non tocca parlare, debito mio essendo di riguardarlo soltanto come scrittore di commedie; e come tale non esito punto a collocarlo in capo a tutti gli altri; conciossiachè niuno quanto lui seppe ritrarre i costumi di Firenze a quelle stagioni, nè con tanta poesia abbellirli, ed avvivarli nella lettera morta con tanto spirito. Reca maraviglia come un uomo, immerso, si può dire, del continuo nelle più gravi e serie occupazioni di Stato, conservasse quella gaiezza e vivacità d’animo, quella spensierata allegria motteggevole che non solo si riscontra nelle opere sue giocose, ma diffonde altresì nelle serie una cotal trasparenza e chiarezza alle idee ed una cotal grazia ed urbanità all’espressione, che fanno di lui uno de’ primi prosatori ch’abbia l’Italia. Egli amava le allegre brigate, i giuochi e gli scherzi; sia stando in Firenze, dove per una bizzarra compagnia compose que’ capitoli o statuti spiritosi e ridicoli, che vanno tra le sue opere; sia stando in villa, dove non isdegnava di mescolarsi colla gentuccia, come scrive egli stesso in una lettera umoristica a Francesco Vettori: «Mangiato che ho, ritorno nell’osteria; qui è l’oste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, due fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dì giuocando a cricca, a tric-trac, e dove nascono mille contese e mille dispetti di parole ingiuriose, ed il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Così rinvolto in questa viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse.» Nè nella angustia ed oscurità del carcere smentì il suo carattere, poichè abbiamo di lui due sonetti berneschi composti in prigione, de’ quali uno è il seguente:

I’ ho, Giuliano, in gamba un paio di geti,
Con sei tratti di corda in su le spalle;
L’altre miserie mie non vo’ contalle,
Perchè così sì trattano i poeti!

Menan pidocchi queste parieti
Grossi e paffuti, che paion farfalle;
Nè fu mai tanto puzzo in Roncisvalle,
Nè in Sardegna fra quelli arboreti,

Come nel mio sì delicato ostello,
Con un, rumor, che proprio par che in terra
Fulmini Giove, e tutto Mongibello.

L’un s’incatena, e l’altro si disferra
Con batter toppe, chiavi e chiavistelli!
Grida un altro che troppo alto è da terra!

Quel che mi fè più guerra
Fu che, dormendo presso all’Aurora,
Cantando, sentii dire: per voi s’ora.

Or vadano in malora;
Purchè vostra pietà ver me si voglia,
Buon padre; e questi rei lacciuol ne scioglia.

Non è chi non conosca la piacevol sua novella di Belfagor arcidiavolo, nella quale, a screditar le mogli, dà loro tale virtù ripulsiva per l’essere fastidiose, da far fuggire perfino i diavoli; i canti carnascialeschi ed altre operette spiritosissime. Che più? nella descrizione stessa della peste di Firenze, scherza, ride, colla satira morde. Uno spirito siffatto, da una parte sottile indagatore del vero, dall’altra ricchissimo di fantasia, era senza dubbio atto alla commedia, e nel vero meglio d’altri ci riuscì. Egli conobbe perfettamente la società in cui vivea, e la seppe sì fedelmente e vivamente ritrarre, che la Mandragola, la Clizia, la commedia in prosa senza nome, sono, non che altro, preziosi monumenti storici. La Mandragola è una creazione del tutto originale, e rappresenta un caso quant’altro mai ridicolo, ma verisimile, e facilissimo ad avvenire in tempi d’ignoranza e di superstizione, conciossiachè Messer Nicia, Frate Timoteo, Ligurio, sieno caratteri verissimi a quel tempo, ed espressi con tutta la naturalezza immaginabile. Il Calandro del Bibbiena, il Messer Rovina del Firenzuola sono due scimuniti rappresentati con tinte di soverchio cariche ed esagerate, che fanno ridere, ma si scorgono in pari tempo fuor della natura e del vero; laddove il Messer Nicia è uno di que’ non rari dottori che studiarono in sul Buezio leggi assai , parla latino, e si crede da molto, mentre è aggirato ed ingannato nel modo più fino e più sottile; per la qual cosa offre un carattere vero e naturale, cui il lettore può riscontrar più o meno facilmente in persone che abbia realmente conosciute. Madonna Lucrezia è uno di quei caratteri delicatissimi e quasi sfumati, cui l’autore esprime con pochi e semplici tratti, dandogli rilievo e risalto, nel che è il sommo dell’arte, coll’opposto degli altri, come un pittore valente accresce l’effetto del chiaro nel suo quadro, senza altrimenti toccarlo, col solo accrescerne e addoppiarne le ombre intorno. L’intreccio della commedia corre lindo e disinvolto, ma eminentemente immorale si scioglie in un tranquillo adulterio: il dialogo sostenuto e pieno di vita, i caratteri bene espressi e conservati. Mandragola s’intitola questa commedia da una pozione di quest’erba che a quel scioccone di Messer Nicia si dà ad intendere essere prodigiosa e fecondatrice, e da cui dipende, si può dire, il nodo dell’azione. L’argomento è con elegante brevità espresso nel prologo: La favola Mandragola si chiama: – La cagion voi vedrete – Nel recitarla, com’io m’indovino. – Non è ’l componitor di molta fama: – Pur se voi non ridete, – Egli è contento di pagarvi el vino. Un amante meschino, – Un dottor poco astuto, – Un frate mal vissuto, – Un parassito di malizia el cucco, – Fien questo giorno il vostro badalucco.

La Mandragola, come la Calandra, nel secolo degli umanisti fu in Roma rappresentata al Vaticano, presente Leone X, e dinanzi a lui, che in Roma poteva non meno che in Firenze, il Macchiavello colla solita sua libertà osava dire nel prologo: «Come in ogni parte – Del mondo, ove il sì suona, – Non istima persona; – Ancor che facci el sergieri a colui, – Che può portar miglior mantel di lui».

Il soggetto della Clizia è tolto dalla Casina di Plauto, ma così acconciamente adattato alla vita ed ai costumi dei Fiorentini, che a fatica vi si discerne l’imitazione. In essa si rappresenta un caso avvenuto nelle domestiche pareti d’una famiglia di ricchi mercatanti. Nicomaco, vecchio rimbambito per amore, ma accorto nel condurre l’intrigo, è rivale del figliuolo Cleandro, e con secondi fini vuol maritar la Clizia, fanciulla che tenea in casa senza conoscerne i genitori, con Pirro suo fido, mentre la moglie Sofronia ed il figliuolo Cleandro la vorrebber dare ad Eustachio. Favorito dalla sorte, ottiene l’intento; ma, scopertosi l’ordito della sua trama, da Sofronia gli è fatto trovare, per valermi d’una sua espressione, il riscontro delle mezzine di santa Maria Impruneta, ed è per siffatto modo schernito, che ne rimane per sempre vituperato: nella fine si trova il padre di Clizia essere un gentiluomo napoletano per nome Ramondo, e la commedia si conchiude colle nozze di Clizia con Cleandro. Lepida è sopra ogni altra la 2a scena dell’atto V, nella quale Nicomaco narra a Damone la sciagura intervenutagli, e com’ebbe dalla moglie una buona castigatoia, che gli tolse il ruzzo degli innamorazzamenti. Anche questa commedia, come la Mandragola, è condotta con arte somma, con schietta e natìa semplicità di stile; ma è del pari disonesta, quantunque l’autore nel prologo la voglia scusare con una difesa del genere di quella cui il Boccaccio pose nella Conclusione del Decamerone.

La commedia in prosa senza nome, in cui il protagonista è un giovane monaco detto Frate Alberigo è una novella sceneggiata in tre atti con grazia e con leggiadria. Ma indegna al tutto del Macchiavello si è quella in versi parimente senza nome, se pure è sua, poichè da molti critici è respinta e riguardata come falsamente a lui attribuita.

Affinchè il lettore, che non le ha vedute, abbia anche qui un saggio, più che d’altro, dello stile di queste commedie, per quanto la brevità e la decenza mel consentono, recherò due piccole scene, tratta l’una dalla Mandragola, l’altra dalla Clizia. Nella prima sono introdotti a discorrere il dottore Messer Nicia e il furbaccio parassito Ligurio; nella seconda Sofronia con verità e vivezza dipinge i costumi di Nicomaco

ATTO PRIMO – Scena II.
M. Nicia e Ligurio.

Nicia. Io credo che e’ tua consigli sien buoni, e parla’ne iersera con la donna. Disse che mi risponderebbe oggi; ma, a dirti il vero, non ci vo di buone gambe (ai bagni).
Lig. Perchè?
Nicia. Perch’io mi spicco mal volentieri da bomba. Di poi avere a travasare moglie, fante, masserizie, la non mi quadra. Oltra di questo, io parlai iersera a parecchi medici; l’uno dice ch’io vada a San Filippo, l’altro alla Porretta, l’altro alla Villa: e’ mi parvono parecchi uccellacci; e, a dirti il vero, questi dottori di medicina non sanno quello che si pescano.
Lig. E’ vi debbe dare briga quel che voi diceste prima, perchè voi non sete uso a perdere la cupola di veduta.
Nicia. Tu erri. Quando io ero più giovane, io son stato molto randagio; e non si fece mai la fiera a Prato, ch’io non v’andassi; e non ci è castel veruno all’intorno, dove io non sia stato; e ti vo’ dire più là, io son stato a Pisa e Livorno. Oh vah!
Lig. Voi dovete avere veduta la Carrucola di Pisa.
Nicia. Tu vuoi dire la Verrucola.
Lig. Ah! sì, la Verrucola. A Livorno vedeste voi il mare?
Nicia. Ben sai ch’io il vidi.
Lig. Quanto è egli maggior che Arno?
Nicia. Che Arno? Egli è per quattro volte, per più di sei, per più di sette, mi farai dire; e’ non si vede se non acqua, acqua, acqua.
Lig. Io mi maraviglio adunque, avendo voi pisciato in tante neve, che facciate tanta difficultà d’andar a bagno.
Nicia. Tu hai la bocca piena di latte; e ti pare a te una favola avere a sgominare tutta la casa! Pure io ho tanta voglia d’aver figliuoli, ch’io son per fare ogni cosa. Ma parlane un poco tu con questi maestri; vedi dove e’ mi consigliassino ch’io andassi ed io sarò intanto con la donna, e ritroverenci.
Lig. Voi dite bene.

ATTO SECONDO – Scena IV.
Sofronia sola.

Chi conobbe Nicomaco un anno fa, e lo pratica ora, ne debbe restare maravigliato considerando la gran mutazione ch’egli ha fatto. Perchè soleva essere un uomo grave, risoluto, rispettivo: dispensava il tempo suo onorevolmente. E’ si levava di mattina di buon’ora, udiva la sua messa, provedeva al vitto del giorno: di poi se egli aveva faccenda in piazza, in mercato, a’ magistrati, e’ la faceva; quando che no, o e’ si riduceva con qualche cittadino tra ragionamenti onorevoli, o e’ si ritirava in casa nello scrittoio, dove egli ragguagliava sue scritture, riordinava suoi conti. Di poi piacevolmente con la sua brigata desinava; e desinato ragionava con il figliuolo, ammonivalo, davagli a conoscere gli uomini, e con qualche esempio antico e moderno gl’insegnava vivere. Andava di poi fuori; consumava tutto il giorno o in faccende o in diporti gravi ed onesti. Venuta la sera, sempre l’avemaria lo trovava in casa. Stavasi un poco con esso noi al fuoco, s’egli era di verno; di poi se n’entrava nello scrittoio a rivedere le faccende sue: alle tre ore si cenava allegramente. Questo ordine della sua vita era un esempio a tutti gli altri di casa, e ciascuno si vergognava non lo imitare: e così andavano le cose ordinate e liete. Ma dipoi che gli entrò questa fantasia di costei, le faccende sue si stracurano, e’ poderi si guastano, e’ traffichi rovinano: grida sempre e non sa di che; entra ed esce di casa ogni dì mille volte, senza sapere quello si vadi facendo; non torna mai a ora che si possa cenare o desinare a tempo: se tu gli parli, e’ non ti risponde, o e’ ti risponde non a proposito. I servi, vedendo questo, si fanno beffe di lui, e ’l figliuolo ha posto giù la riverenzia; ognuno fa a suo modo, et infine niuno dubita di fare quello che vede fare a lui. In modo che io dubito, se Iddio non ci rimedia, che questa povera casa non rovini. Io voglio pure andare alla messa, e raccomandarmi a Dio quanto io posso. Io veggio Eustachio e Pirro che si bisticciano. Be’ mariti che si apparecchiano a Clizia!

L’Ariosto, il Bibbiena, il Macchiavello, che si possono considerare come i tre creatori e maestri della commedia italiana, ebbero in questo medesimo secolo imitatori in gran numero, i quali attenendosi alla loro maniera di imitare i comici latini, ci lasciarono di molti bei lavori. Io farò menzione soltanto dei principali, perchè assai ve n’ha, di cui le opere appena si ricordano dagli eruditi, e che inutile sarebbe far prova di richiamarle in vita.

20. Il Cecchi. – Gio. M. Cecchi notaio fiorentino, nato nel 1518, e morto, come si ha da un ricordo scritto dal suo figliuolo Baccio, nel 1587 in età di 69 anni, attese tutta la non breve sua vita a comporre commedie, farse, sacre rappresentazioni, delle quali tutte tesse un lungo catalogo il citato suo figlio, e molte per buona ventura ci arrivarono sane ed intiere. A solido studio dei comici latini ed italiani, a felice e fecondo ingegno, il Cecchi ebbe congiunta una massima facilità di scrivere, per la quale non impiegò mai più di dieci giorni a comporre una commedia, come dice egli stesso nel prologo delle Maschere: «Ch’e’ non fe’ mai alcuna – Che vi mettesse più di dieci giorni»: le Maschere stesse compose «in tanto tempo – Quant’ha da Santo Stefano a Calen’di – Gennaio, nei quali giorni egli è, mercè – Del freddo grande, e del non si sentire – Molto ben, ritornato a fare – Un’arte tralasciata». E le Cedole scrisse in quattro giorni: «Tra tanto il grillo salta – A questo nostro primo in testa e in quattro giorni compon questa commedia e dàllaci». Questa sua facilità e prontezza di scrivere si manifesta in tutte le sue commedie, che sono veramente, come si suol dire, di vena, e scorrono limpide e veloci come l’acqua di copioso ruscello. L’invenzione spontanea e naturale, l’intreccio bene annodato e sostenuto, i caratteri vivi e ridicoli, la stile eminentemente comico sia in verso sia in prosa, il più puro e schietto atticismo della lingua, l’abbondanza dei sali e delle facezie, sono questi i pregi delle commedie Cecchiane, che principalmente dagli amatori della graziosa lingua fiorentina tengonsi per preziosi gioielli. Alcune sono imitazioni delle latine, come la Dote del Trinummus di Plauto, la Moglie dei Menecmi, gli Incantesimi della Cistellaria, la Sctiava del Mercator, i Dissimili degli Adelfi di Terenzio; ma tali imitazioni, da non temere, come si avvertì parlando in generale delle nostre commedie, il paragone degli originali, onde furono tolte, ed appropriate agli usi mutati e ai diversi tempi. Altre trattano, come la Mandragola del Macchiavello e la Lena dell’Ariosto, avventure strane e bizzarre del suo tempo, tra le quali la più comica e la più ridicola si è forse l’Assiuolo.

Il Cecchi devesi pure riguardare come il primo scrittore di farse, delle quali occupossi con passione; anzi nel prologo della Romanesca scritta nel 1585 ne fece la difesa paragonando la farsa «alla più piacevole e più accomodata forosozza, e la più dolce che si trovi al mondo»; ed a chi ne l’appuntasse, perchè non fu usata dagli antichi, nè Aristotile fece di essa parola, risponde accortamente e piacevolmente: «Che se gli antichi non l’usaron, l’usano – Li moderni che vogliono: e se il padre – Di quei che sanno non disse di lei, – O ella non era al tempo suo, o forse – Era in que’ libri che si son perduti. – E’ non diss’anco nè de’ fogli, nè – Della stampa, e dell’uso della bussola, – Sono cose però da non l’usare – Perchè non ne trattò quell’omaccione?»

Oltre le scene che del Cecchi ho di già altrove citate, mi piace qui recarne un’altra tolta dall’Assiuolo, scelta anche essa non fra le più belle, ma fra le più oneste; in essa Messer Ambrogio, vecchio innamorato, rivela ad un balordo di servitore le sue intenzioni, e lo dispone ed ammaestra ad accompagnarlo in un certo luogo la notte, e, dove bisognasse, difenderlo.

ATTO TERZO – Scena V.
Messer Ambrogio e Giannella sull’uscio.

Amb. Giannella, Giannella, dove diavol ti se’ tu fitto?
Gian. Messere, messere, i’ ero ito a riporre il bastone (col quale aveva appoggiato due tentennate al padrone senza conoscerlo).
Amb. Vien qua, discostati da cotesta porta, tu mi vi pari confitto suso.
Gian. I’ fo, perchè voi dite che io non me ne parta mai.
Amb. Giannella, tu sai ch’io ti vo’ bene, e ch’i’ t’ho detto più volte, che s’io muoio, con lingua io ti farò del bene; e così s’io vivo tanto o quanto, e ch’i’ stia sano, io ho oppenione di farti un gran valentuomo.
Gian. I’ mi pasco di queste vostre buone promesse.
Amb. E perchè i’ so che tu sai (e se tu non lo sai, io te lo dico, acciocchè tu lo impari), che così come omnis labor optat praemium, così omne praemium praesupponit laborem.....
Gian. Ambrogio, voi sapete ch’io non sono tanto in giù nel saltero che voi m’insegnate, che io abbia trovato questa cosa di pregnun e di lavoro, che voi dite; però ditemi, di grazia, ciò che voi volete da me; ma non me lo dite nè greco, nè in ebraico, che voi mi faresti impazzar tosto tosto.
Amb. Orsù, io sono contento; perchè la ragion vuole che all’uom grosso gli si dia del macco.
Gian. O cotesto sì; del macco torrò io più volentieri, ch’esser pregno.
Amb. Quello ch’io voglio inferire è questo, che avendo tu da me tante buone promesse, tu debbi ancora tu durare fatica per me, e metterti a pericolo.
Gian. A pericolo? io andrei per amor vostro di notte sopra un cimitero, e durerei fatica per sei facchini.
Amb. E volendoti io bene, siccome io ti voglio?
Gian. E i’ ne voglio a voi in fe’ di Cristo; e sebbene stassera i’ v’ho voluto bastonare, io lo faceva per il bene ch’io vi volevo, e perch’io non credevo che vo’ fussi voi.
Amb. Lasciam ir quel ch’è stato, parliamo di quello ch’ha da venire: e’ mi occorre stasera servirmi dell’opra tua; ma vedi, e’ bisogna che tu abbi un cuor come un lione.
Gian. Hass’egli a dar a persona?
Amb. No, e forse che sì: io ti dirò, Giannella; ma vedi, fa che non te ne venisse parlato con persona.
Gian. Non dubitate, i’ sarò più mutolo ch’un pescie.
Amb. I’ ho avuto stasera la posta da una gentildonna di questa terra, e vomm’ire da lei da due ore di notte in là; e perch’io v’ho qualche sospetto, i’ ti vo’ menar meco, acciò, bisognando, tu m’aiuti.
Gian. A che v’ho io a aiutare?
Amb. Non odi? a difendermi s’io fossi assaltato; e perch’io non vo’ che noi siam conosciuti, io ho pensato che noi ci travestiamo, che ho comodità benissimo, e co’ nostri stocchi sotto andiamo a fare il lavoro.
Gian. Ho a fare il lavoro anch’io?
Amb. No...., tu rimarrai all’uscio, e starai avvertito com’io ti chiamo d’aiutarmi.
Gian. Il caso è s’io sentirò.
Amb. I’ ti chiamerò forte.
Gian. Canchero! me non chiamate voi, che noi potremmo essere conosciuti tutti a duoi, e andarne al bargello ripiegati, ripiegati; fate piuttosto un cenno.
Amb. Tu hai buon accorgimento: sarà molto meglio fare un cenno. Orsù s’io ti vorrò, io dirò: alò, chià, chià; o vuoi ch’io fischi?
Gian. Non me ne piace nessuno di cotesti, perchè sentendosi ad ogni ora di notte per Pisa cotesti cenni, potrei torvi in cambio, e far qualche pazzia.
Amb. Aspetta; i’ ti dirò come si diceva nel 23 la notte per Firenze: Chies aglià?
Gian. Che? gli è troppo sofistico, oh non lo terrebbe a mente un abbaco; non fa per me no, ma fate così; volendo ch’io venga, fate tre volte Chiù.
Amb. O cotesto è un cenno da assiuoli.
Gian. Che importa a voi? egli è un cotale, che lo intenderò io benissimo; sia poi da barbagianni.
Amb. Orsù, e Chiù sia.
Gian. Ma padrone, che dirà madonna Oretta vostra se la vi vede andar fuori la notte? che non solete a fatica di dì uscir di casa?
Amb. A tutto ho pensato. Io le dirò che la Signoria del Commessario abbia mandato per me, per negoziare una faccenda, della quale s’abbia ancora stanotte a mandare la resoluzione a sua Eccellenza Illustrissima.
Gian. Il fatto è, se la lo crederà.
Amb. Io gliene acconcierò bene in modo, che la ne sarà capace.
Gian. Eh male, se la vi vede travestito.
Amb. Tu sei più tondo che l’O di Giotto. Credi tu ch’io m’imbacuchi, che la mi vegga? Ella si rimarrà su in sala con la sorella; e noi facendo vista di badare a tôrre certe scritture, ci travestiremo giù nello scrittoio terreno.
Gian. E che ci metteremo indosso?
Amb. Manca! se non altro due pittocchi ch’io feci già a duo mie’ paggetti, quando io andai podestà di Forlimpopoli. Andiamo a cena, che l’un’ora debb’essere sonata.
Gian. Empiam pur bene la pancia, acciocchè, avendosi a morire, e’ si muoia a corpo pieno.
Amb. I’ non mi voglio avviluppare; perchè avendomi a esercitare, i’ voglio esser destro, e consiglio te a fare il medesimo.
Gian. Eh io non mi esercito mai bene se io non ho il corpo tirato come un fondo di tamburo.
Amb. Andiamne, che tu l’empia, acciocchè avendo tu a essere valente, per questo non resti.

Il Cecchi introdusse anche nelle sue commedie il linguaggio dell’infima plebe in bocca di zanaiuoli, facchini, artieri, ecc., nel che fu imitato da Francesco d’Ambra, dal Lasca e da altri felicemente, servendo questo a dare maggior varietà alla commedia, ed eccitare di più il riso, come quello che meglio si presta ai motti ed alle facezie se non sempre urbane, certo sempre scintillanti di spirito e di vita. Nel Samaritano alla fantesca Marta fece parlare il fiorentino quale a’ suoi tempi lo parlavano in Firenze i Lanzi di Carlo V, frastagliato, coi verbi all’infinito, colle desinenze in e; e nella incoronazione del re Saul usò con grazia il dialetto del contado; per esempio nella scena 7a dell’atto III in cui parlano Mambri contadino, il suo figliuolo, ed il parasito Zambri:

Mam.

Che ne dii? che ti par più bella o questa

Città, o la villa nostra? Figl. Ve’ ci sono

Tante capanne da fieno! oh ve’ ve’

Che lavori enno quei? Mam. Quai? Figl. Que’ costumi

Che stanno così in fuor. Mam. Sassi che s’usano

Tra’ cittadini. Figl. Di ch’enno fatti? Mam.

Di Pietra. Figl. Oh! son bianchi; che? v’è su la neve?

Mam. No. Figl. Ch’è ricotta? Mam. No, ch’e’ son di marmo.
Figl.

Che cosa è il marmo? farina? Mam. No, decimo,

Non odi? sasso. Zamb. (Costui ha condotto

Il figliuolo a città per scozzonarlo).

Figl. E qua’ cotai sì lunghi ch’enno? Mam. Torri.
Figl.

Che se ne fa lo stollo? Mam. Eh! caponcello,

E’ vi stann’entro i cittadini. Figl. E’ stanno

Quinamonte lassù come cornacchie?

Mam.

Ben sai, sì. Figl. Deh! comperatene una,

E portiancela a casa. Zambr. (E’ sarà bene

Che io l’affronti) Oh buon giorno Mambri.

Mam.

E anche voi. Figl. Oh ve’ che peccia! che

V’è i drento quell’uom? voi mi parete

La Biondina che fe’ il boccino. Mam. Sta

Cheto, ribaldo, s’io ti piglio... Zamb. O non gli

Dar già per questo. Buon fanciul, qui dentro

È un bambino, ch’io mangiai, che andava

Girando per le vie. Mam. Odi tu? Figl. Babbo,

Andianne a casa nostra: qui si mangiano

Le genti, non ci vo’ più stare, ecc.

21. Il Lasca. – Non inferiore al Cecchi nello spirito comico, nell’atticismo della lingua, e nella grazia e pieghevolezza dello stile fu Antonfr. Grazzini conosciuto sotto il nome accademico di Lasca. Fondatore dell’Accademia degli Umidi, ne venne in breve escluso dalla fazione formatasi in essa degli Aramei così detti dall’affermare che facevano, la lingua italiana essere derivata dall’antica che parlavasi in Siria nel paese di Aram; ond’egli concepì l’idea d’un’altra, cui con Lionardo Salviati fondò, intitolandola della Crusca, intesa a sceverare in materia di lingua collo staccio e col buratto dalla crusca il fior di farina. Dotato il Lasca dalla natura di mente sottile ed arguta, di fantasia ricca e vivace, facile al frizzo, ed allo scherzo, amante studioso del Berni, cui dava il titolo di dabbene e gentile, ed in un suo sonetto, preposto alla prima edizione delle costui rime da lui procurata, chiamavalo: Maestro e padre del burlesco stile, non poteva non riuscire un comico eccellente insieme ed elegante scrittore. L’opere sue ciò dimostrano col fatto, chè oltre alle stanze in dispregio delle sberrettate, la guerra dei mostri, ed altre graziose poesie, non è chi non abbia saporosamente gustate le squisite sue cene, nelle quali, colla lingua e collo stile del Boccaccio, ma con maggior brio e snellezza, raccontò piacevoli e graziose novellette. Al suo tempo, oltre le commedie de’ sommi di cui si è fatto menzione, ne correvano altre in gran numero, goffe e servili imitazioni delle latine, nelle quali comparivano continuo i soliti caratteri di vecchi avari, di giovani rotti e scostumati, di cortigiane, di schiavi e di ruffiani all’antica, ed i soliti intrecci di supposizioni e di ritrovamenti, cose tutte che mal s’avvenivano allo stato ed alle condizioni della società di allora; onde il Lasca se ne infastidì, le prese a sdegno, e posesi in animo di dare un altro avviamento alla commedia, e rinnovare il teatro italiano, mantenendosi pur sempre, come fece, nelle regole dell’arte fissate dagli antichi, e nella imitazione intesa nel vero suo senso. Nel prologo agli uomini della Gelosia così esclama contro l’andazzo comune dei comici: «A dirne il vero, è gran cosa, gran maraviglia, anzi grandissimo miracolo, che di quante commedie nuove dallo assedio in quà, o pubblicamente, o privatamente si sono recitate in Firenze, in tutte quante intervengano ritruovi, tutte finiscano in ritrovamenti, la qual cosa è tanto venuta a noia e in fastidio ai popoli, che come sentano nell’argomento dire, che nella presa d’alcuna città, o nel sacco di qualche castello si siano smarrite o perdute bambine o fanciulli, fanno conto d’averle udite, e volentieri, se potessero con loro onore, se ne partirebbero, sapendo che tutte quante battono a un segno medesimo. E di qui si può conoscere quanto questi cotali manchino di concetti e d’invenzione, veggendosi per lo più le loro commedie stiracchiate, grette e rubacchiate qua e là; e peggio ancora, che essi accozzano il vecchio col nuovo, e l’antico col moderno, e fanno un guazzabuglio, e una mescolanza, che non ha nè via nè verso, nè capo nè coda; e facendo la scena città moderne, e rappresentando i tempi d’oggi, v’introducono usanze passate e vecchie, e costumi antichi e tralasciati, e si scusano poi col dire: Così fece Plauto, e così usarono Terenzio e Menandro, non si accorgendo, che in Firenze, in Lucca, in Pisa non si vive come si faceva anticamente in Roma e in Atene. Traduchino in mal’ora, se non hanno invenzione, e non rattoppino e guastino l’altrui e il loro insieme: il senno e la prudenza degli uomini è sapersi accomodare ai tempi». Il medesimo ripete nel prologo della Spiritata; ed in quello dell’Arzigogolo se la piglia di nuovo contro quelli cui egli chiama guastatori di commedie. Così ancora egli derideva la manìa del voler dare al dramma uno scopo morale, e ripeteva con ragione che «non si va alle commedie per imparare a vivere, ma per piacere, per spasso, per diletto, e per passar maninconia e rallegrarsi»; e soggiungeva, bisognar che la commedia sia allegra, capricciosa, arguta, ridicola, bella e ben recitata. Nel prologo della Strega introduce il Prologo e l’Argomento a parlare così intorno allo scopo morale: «Prologo: Il Poeta vuol introdurre buoni costumi, e pigliare la gravità e lo insegnare per suo soggetto principale, chè così richiede l’arte. Argomento: Che arte o non arte, chè ci avete stracco con quest’arte: l’arte vera è il piacere e il dilettare. Prologo: Il giovamento dove rimane? Argomento: Assai giova chi piace e diletta: ma non t’ho io detto, che le commedie non si fanno più oggi a cotesto fine? Perchè, chi vuole imparare la vita civile e cristiana, non va per impararla alle commedie, ma bene leggendo mille libri buoni e santi che ci sono, e andando alle prediche, non per tutta la quaresima, ma tutto quanto l’anno, i giorni delle feste comandate, di che abbiamo assai a ringraziar messer Domeneddio».

Il Lasca adunque tentò felicemente alcune novità, e compose sette commedie in prosa di soggetto e d’invenzione moderni, ridicole e graziose, ma per il vizio del tempo più oscene che dalla pietà e dalla purezza dei suoi costumi non si dovesse aspettare. Egli ebbe una vena meno ricca e meno feconda del Cecchi, tuttavia condusse i suoi drammi con sommo artifizio, e con tale verità e proprietà di caratteri, facile rapidità di dialoghi, venustà ed eleganza di stile e di lingua, che al par di quelle del Cecchi sono le sue commedie preziose, ed alla lettura dilettevolissime. Anche del Lasca io recherò per saggio una scena della Gelosia, che dopo la Strega, a mio credere, è la migliore commedia: nella quale la padrona Zanobia coglie in sul fatto di notte la fante Orsola che vestita dei panni festivi della Cassandra figlia di Zanobia, stava in sull’uscio di strada aspettando di essere condotta in casa Pierantonio affine di gabbare il vecchio Lazzero, il quale così vestita dovevala prender per la Cassandra, e così torsi giù dal domandarla in moglie.

ATTO SECONDO – Scena II
Zanolia padrona – Orsola fante.

Zan. Orsola!
Ors. (da sè) Che sento io?
Zan. Oh Orsola, dove domin sei tu fitta!
Ors. (da sè) Oimè! ch’egli è la padrona che mi chiama: io son rovinata, io son morta.
Zan. Orsola!
Ors. Oimè ch’ella è già in sull’uscio.
Zan. Dove sarà fuggita or questa isciaguratella?
Ors. Nè posso ritornarmene dentro che la non mi veggia.
Zan. Vedi, che pur poi nella fine ella mi riuscirà una rozzetta.
Ors. E volendo fuggirmene per dispetto non saperrei dove.
Zan. Orsola! tu non odi, Orsola?
Ors. Ella m’ha veduto, ohimè!
Zan. Pena assai, spacciati, vien qua a me.
Ors. Qui non bisogna indugiare a pigliare partito: che dire? ohimè! che far debbo?
Zan. Pon mente, intronatella: ella non intende.
Ors. Dirò ch’io farnetichi; farò le viste d’essermi levata in sogno: lasciami andar così inverso lei con gli occhi mezzi chiusi e mezzi aperti. Uum, uum, uum (come chi voglia parlare e non possa)
Zan. Vu’ Signore! che cosa è questa? Orsola, Orsola!
Ors. Uum, muum, vuum.
Zan. Orsola, tu non odi? dormi tu? sogni tu? farnetichi, tu balorda, intronata? tu mi pari uscita fuor dei gangheri: o sciagurata me! ell’ha la veste migliore della mia figliuola indosso? O Orsola, che pazzia è questa? sei tu uscita del cervello? a che fine, dimmi, chi ti ha vestito i panni di Cassandra? Ella non vuol rispondere per dispetto. Orsola, in mal’ora.
Ors. Uum: ohimè! Um mu: che è, che è? io dormo, io dormo.
Zan. Come dormi, bestiuola! questi panni come gli ha’ così, dimmi, et a che effetto?
Ors. Oh in buon’ora! Voi mi avete rotto il più bel sonno del mondo, ch’io dormiva bene!
Zan. Tu mi pari fracida: io ti dico chi t’ha vestito la gammurra buona della Cassandra!
Ors. Ohimè! trista a me! ch’io ho ancora a fare il pane.
Zan. Bembè: costei debb’essere ubbriaca.
Ors. E il formento sarà forse troppo lievito.
Zan. Fatti in qua, rispondi a me un poco, e lascia andare il pane e ’l formento: perch’hai tu così la vesta miglior della mia figliuola? narrami la cagione.
Ors. O, o, sì, sì. Voi dite il vero: i’ ho anche il grembiule.
Zan. Egli mi par che tu abbi di suo infine alle scarpette.
Ors. O i’ dirò ch’io sto bene? non è egli così? deh, guardate un poco.
Zan. Tu mi par fuor di te, cervellina, dimmi, dico, chi t’ha vestito in questa forma, e ciò che tu fai qui a quest’otta.
Ors. Voi mi cred’io.
Zan. Com’io?
Ors. E qui non so quel ch’io mi facci.
Zan. Non lo sai?
Ors. Naffe, io non so com’ella si stia ora: so io bene che iersera me n’andai a letto di buon’ora, e spoglia’mi ignuda come Cristo mi fece. Voi vedete, io non so ridire come a quest’otta io mi sia qui, ora, e con questi panni condotta.
Zan. Signore! tu mi fai stupire: o che maraviglia è questa?
Ors. Non so io; da farsi le maraviglie.
Zan. Tu ti sarai levata in sogno, e farneticando, arai fatto questo: ma beata me, che mi risenti’ a tempo; perciocchè udendoti far romore per casa, dubitando di un ladro, mi levai, e chiamandoti, venni al tuo letto, dove cercandoti invano, cercai anche invano tutto il restante della casa; poi venendomene dall’uscio, pur sempre chiamandoti, come tu stessa vedi, in questa maniera qui nella via t’ho ritrovata.
Ors. U’, u’ ringraziato sia Dio, padrona mia; ch’io era atta a smarrirmi, o dar nelle mani di qualche baionaccio, che mi arebbe spogliata, e fattami forse poi, chi sa? qualche vergognaccia; ben be’ benedetta siate voi mille volte.
Zan. Deh guarda orrevolezza! ti pare essere scarica, rozzetta, ubbriacaccia; che se tu beessi meno la sera non ti avverrebbe questo; tira, col malanno, vanne su, ch’io ti spogli: vedi, ell’ha infino i guanti; doh! ribaldella! qui ci è sotto inganno; come hai tu fatto ad aprire il forziero ch’era serrato a chiave? in sogno non si trova ogni cosa così bene appunto. Oh presso che tu non mi facesti dire qualche mala parola: oh tu sei lisciata?
Ors. Padrona, io ho paura che, com’io dianzi, voi testè non farnetichiate; io non so ridire com’io sia qui, nè in che modo condotta, voi vedete; se già non fosse stato qualche spirito maligno: del liscio poi, uh, uh, non ho adoperato mai.
Zan. Vedrem se tu n’arai adoperato, o se lo spirito ti ci arà condotta, se non mi seccan le mani; ma facciam che noi non fussimo trovate a quest’ora fuori; vanne in casa; tira su, spacciati, perch’io voglio a bell’agio di questa matassa ritrovare il capo.

Veggansi pure della stessa Gelosia la scena 11a dell’atto III, in cui dal Ciullo e da Muciatto servi è data la berta saporitamente al povero Lazzero, che si muor di freddo; e la scena 3a dell’atto IV della Spiritata, dove è una splendida imitazione della Mostellaria di Plauto, all’originale troppo superiore: Giovangualberto e Niccodemo vecchi, sentito dal Trafela servo che la casa è piena di spiriti, vogliono entrare a vedere, e pur protestando che non hanno paura, nessun dei due vuol entrare pel primo, finchè non risolvono d’andare a un pari et ad un’otta. Entrati che sono, il Trafela dice: «Andate pur là; poco starete a favellar d’un altro linguaggio: se e’ non si cacan sotto questa volta, io non ne vo’ danaio: forse faranno peggio; caso sarebbe ch’egli spiritassero tuttadue daddovero, e non sarebbe troppo gran miracolo; dei maggiori se ne veggono ai Servi»; e difatto poco sta che i due vecchi spaventati gridando Cristo scampami, si gittan fuori, e narrano al Trafela quel ch’hanno veduto, e come gli spiriti corsero loro dietro. Vedasi pure della Strega la scena 3a dell’atto IV nella quale in Taddeo che vuol ire al soldo, e s’è botato di arrecare alla madre una soma di luterani, è con vantaggio imitato il Pirgopolinice di Plauto; e della Pinzochera la scena 9a dell’atto IV, dove lo scempio di Gerozzo, a cui da Giannino è dato a credere di essere invisibile tenendo in bocca una certa pallottola incantata, è trovato colla Sandraccia, e picchiato in sulla via da monna Albiera sua moglie; e così altre innumerevoli.

Il Lasca, come il Cecchi, espone di raro nel prologo l’argomento della favola, anzi ciò fa soltanto in quello dei Parentadi, per essere forse questa commedia di un intreccio piuttosto complicato; chè del resto si vale della prima o seconda scena, che soglionsi, per questo, con termine greco chiamare protatiche, o preordinate, nelle quali introducendo a favellare un personaggio, che in seguito per l’ordinario più non comparisce, nel dialogo stesso fa che l’argomento da sè si renda noto agli spettatori; che è un modo migliore.

22. Il Gelli. – Al Lasca io fo seguire G. B. Gelli, calzaiuolo fiorentino, in cui col fatto dimostrossi, come dice Scipione Ammirato, che coloro, i quali colla povertà si scusano di non aver atteso alla coltura dell’ingegno ed alle lettere, debbono anzi accagionarne la loro pigrizia e dappoccaggine. Il Gelli, esercitando pur sempre l’umile suo mestiere, in modo per l’ingegno e per gli studi si segnalò, che ammesso nell’Accademia degli Umidi, chiamata dopo Fiorentina, e da Giovanni Mazzuoli detto lo Stradino fondata, ne tenne nel 1548 il consolato, e da Cosimo ebbe l’incarico di spiegare in pubbliche lezioni il poema di Dante. Scrisse, oltre la Circe ed altre parecchie operette di minor conto, i piacevolissimi Capricci del Bottaio, ne’ quali finge che il vecchio Giusto, uomo di buon senso dotato e di natural discernimento, sebbene privo di lettere, poco potendo dormir la notte, si trattenga ragionando coll’anima sua; opera ricca di filosofici e morali documenti conditi di comica e lepida piacevolezza, ed espressi in sì tersa, chiara, semplice e graziosissima lingua toscana, che da essa bene apprender potrebbe, come saviamente avvisa il Ranalli (Amm. di lett., lib. II, cap. ii), il secol nostro, che di astrattezze e di linguaggio strano e ingarbugliato è sì vago, come si possa acconciamente trattare con purezza, proprietà e semplicità di favella la più alta filosofia, senza andar nelle nubi, e con parole barbare, con stil vaporoso rendersi inintelligibile.

Ma dove il Gelli fe’ mostra maggiore di grazia, di vivacità e di atticismo fiorentino si è nelle due commedie la Sporta e l’Errore ; le quali, sebbene quanto all’invenzione non abbian troppo gran pregio per essere tratte ed imitate da altre, sono tuttavolta, massime la Sporta, quanto alla lingua, allo stile ed alla vivezza del ridicolo, una perla. La Sporta imitò il Gelli dall’Aulularia di Plauto, ma, come in generale i nostri comici del cinquecento, la rifiorì di nuove ed elette bellezze, secondo potrai convincerti, o lettore, col solo ragguaglio della scena, che sono per recare, colle scene plautine corrispondenti. L’Errore, nel quale, com’è detto nel prologo, si rappresenta un caso simile alla Clizia del Macchiavello, trasse non tanto dalla Casina di Plauto, quanto dalla Clizia e dalla commedia senza nome del Macchiavello stesso in parte, ed in parte dalla Calandra del Bibbiena. Credettero alcuni che la Sporta fosse opera del Macchiavello, a cui avess’egli posto mano seguendo l’originale plautino, secondo fatto avea nella Clizia, ma non potutala finire e perfezionare; e che il manoscritto pervenuto alle mani del Gelli fosse da lui compiuto e ritoccato, e dato poscia in luce sotto il proprio nome, confessando nel prologo, d’aver rubato a Plauto ed a Terenzio, senza far altrimenti parola del Macchiavello. Checchè sia di ciò, egli è certo che dalla Sporta all’Errore ci corre un buon tratto, nè questo aggiunge a pezza la scintillante vivacità e la forza comica di quella, anzi mostrasi piuttosto dinoccolato e fiacco, ed havvi scene che proprio ci stanno a pigione, e disdicono, come la 2a dell’atto IV, nella quale tra Camillo e Giulio Agolanti interviene sul più bello dell’azione un lungo, stucchevole ed intempestivo ragionamento su li influssi celesti e sulla libertà dell’anima umana. Io recherò della Sporta la scena 1a dell’atto V, in cui Ghirigoro dei Macci, l’Euclione Plautino, narra col più lepido e schietto atticismo come in più luoghi appiattasse quella sua sporta dei denari; scena che al Gelli stesso piaceva sopra le altre, e cui difende dalle censure nell’epistola dedicatoria al signor Francesco di Toledo.

Ghirigoro.

Io ti so dire che io aveva scelto i luoghi dove nascondere i miei danari. Pur beato, che Dio m’aperse gli occhi. Io men’ andai al Carmine, e pel chiostro entrai in chiesa per quella porta, che è fra il tramezzo e la cappella maggiore, e guardando per tutto, e non vi veggendo persona, mi ritirai nella cappella de’ Brancacci, dove sono quelle belle figure di mano di Masaccio, perchè ell’è un poco buia, per nascondergli quivi sotto la predella dell’altare. Ma io non vi fui sì tosto dentro, che quei nomi, Masaccio e Brancacci mi spaventarono, ricordandomi che e’ non si sogliono porre a caso. Per la qual cosa io me n’andai più là, e nascosigli nella cappella de’ Serragli, parendomegli aver messi nel salvadanaio. Ma venendomen poi in giù pel mezzo della chiesa, e veggendo forse venti persone fra donne o uomini, e tutte povere, ginocchione innanzi a uno altarino, con un lume in mano per uno, domandai uno di loro, che devozione era quella. Ei mi rispose: quegli sono i Martiri, e noi facciamo le gite loro; non gli conosci tu? Be’, diss’io, a che servono queste gite? Come, a che servono? disse egli; chi li visita trenta dì alla fila, ha poi da loro una grazia secondo e’ suoi bisogni. Fa tuo conto che e’ dovevono essere alla fine delle gite, che gli avevano aria d’aver bisogno, e la grazia era lor presso, e la mia sporta sarebbe stata essa; e forse che e’ non avevano il lume in mano da poterla trovare più agevolmente? Il miracolo arei fatt’io, e i martiri arebbono avuto la cera. E sai che belle risa e’ si sarebbono fatto di me l’un con l’altro poi in paradiso. Io la detti subito a gambe, e ripresi la mia sporta, e uscendomene fuora che io pareva un porco accanito, mi gettai quivi presso in S. Friano, e nascosila sotto quello inginocchiatoio, che è drento alla porta appiè di quel S. Martino, e a lui accesi una candela, raccomandandogliela il più che io poteva e sapeva, dicendogli come io mi fidava liberamente di lui, e ch’ei facesse in modo, che e’ se ne potesse fidare anche un altro, e partimmi. Ben sai che io non fui prima fuor della porta, ch’io senti’ in chiesa un cane fare un grande abbaiare. Oimè, diss’io, che sarà questo? E tornando in là, trovai uno, che cercava tutti quelli altari, e dubito che ci non volesse far qualche malia, che, se bene lo raffigurai, io credo, che gli stia con un certo Alamanno Cavicciuli parente del genero mio, che è tuttavia in sull’amore, ed è uno di questi studianti, che ne sono maestri; e appunto s’appressava dove era la sporta. Se quel cane non abbaiava, e’ faceva forse un bel tratto a tormela, che io mi son poi ricordato d’avermelo veduto venir dreto insino nel Carmine. Addio, san Martino, tu me l’accoccavi; e dicono che tu desti del tuo al diavolo, e diventastine confessoro; or lasciavi tu tôrre il mio alla versiera, e ne diventavo martire. Io ho più obbligo a quel cane assai, e vorre’gli poter fare un piacere, che a quella candela ch’io t’accesi; perchè ei mi scoperse il ladro, e quella gli faceva lume a ’mbolarmi il mio. Io la levai di quivi e holla qui meco, e voglio ire or ora ratto ratto a nasconderla fra la Porta alla Croce e Pinti, che vi sono certe catapecchie, dove non la troverebbe va qua tu. E poi potrò con l’animo più riposato tornarmi a casa aspettare il genero mio. Se io non pigliava questo partito, io non facevo stasera queste nozze in pace.

23. Altri comici italiani minori. – Farò ancora menzione di alcuni altri comici di questo secolo fra i moltissimi che si potrebbero ricordare, le opere dei quali fuor della cerchia dei letterati poco o nulla sono conosciute.

Pietro Aretino, vitupero delle lettere in questo secolo, per cupidigia di denaro autore egualmente di sposizioni sui libri santi, di opere ascetiche e spirituali, e di dialoghi infami da bordello, e dei famosi sedici sonetti alle sedici figure oscene disegnate da Giulio Romano, che gli fruttarono il bando da Roma, compose altresì cinque commedie: la Cortigiana, il Marescalco, l’Ipocrita, il Filosofo e la Talanta, le quali, se si eccettui qualche scena piacevole ed animata, qualche carattere ben scolpito, qualche motto satirico bene scoccato, non hanno nè arte, nè vero estro comico, e, come dice il Tiraboschi, sono degne di lui, cioè famose soltanto per l’impudenza con cui sono scritte.

Agnolo Firenzuola, uno dei meglio prosatori di questo tempo, le cui scritture a ragione si stimano preziosi gioielli, poichè la frase e la parola sono in esse, a così dire, come tersi cristalli, trasparenti, sotto a cui si discerne chiaro e netto il pensiero e l’idea, ci lasciò due commedie in prosa, la Trinuzia ed i Lucidi, ricche e brillanti delle più elette grazie di lingua e di stile. La Trinuzia piglia il nome dalle triplici nozze di Uguccione, di Giovanni e di Alessandro, che chiudono la commedia; l’invenzione si può dir quasi originale ed anche graziosa; ma il messer Rovina, dottor sciocco introdotto nel dramma ad imitazione del messer Nicia e del Calandro, ed in cui con esagerazione si aduna la maggior parte del ridicolo, non avendo alcuna necessaria connessione col dramma, è un personaggio, che, si direbbe, ci sta a pigione, e non è ben fuso nè acconciamente adattato cogli altri. Tuttavia la scena in cui spiega al Dormi la ragione del suo nome di Rovina (atto II, sc. 4a); quella in cui a persuasion del Dormi stesso muore, e stendendosi in terra, lo prega a segnarlo, che ’l nemico non ne lo portasse (atto III, sc. 6a); quella in cui alle villanie di Uguccione risuscita (ib. sc. 7a); l’altra (atto IV, sc. 7a), dove compare vestito da donna e col viso tinto a uso di ghezza e simili, sono saporitamente ridicole, e ciascuna da sè avrebbe al Firenzuola prestato materia ad altrettante novellette del genere di quelle che egli ci lasciò spiritose ed eleganti. Il prologo della Trinuzia è modellato sul secondo della Lena ariostesca, anzi nello scherzo e nell’equivoco osceno lo sorpassa, e prelude, per così dire, all’immoralità che è diffusa in tutta la commedia.

I Lucidi, così detti dal cognome di due fratelli, Lucido Tolto e Lucido Folchetto, perfettamente l’uno all’altro somiglianti, sono tratti dai Menecmi di Plauto, ma con savia imitazione migliorati, anzi, come dice la Licenzia della commedia, la qual non ha prologo: «I nostri Lucidi si voglion portar più da gentiluomini che i Menemmi di Plauto, e mostrare ch’egli hanno migliore coscienza i giovani del dì d’oggi, che quelli del tempo antico». I Lucidi sono come la Trinuzia un modello prezioso di toscana eleganza, ma del pari che la Trinuzia immorali.

Francesco d’Ambra, console dell’accademia fiorentina nel 1549, scrisse parecchie commedie, delle quali abbiamo alle stampe il Furto in prosa, i Bernardi e la Cofanaria in versi. Il Furto prende il nome da alcune pezze di raso rubate da Gismondo, per far le spese a’ suoi amorazzi, a messer Lottieri suo fratello, del qual furto messer Cornelio vecchio medico innamorato viene accusato, per esser stato rinvenuto chiuso nel negozio di Lottieri dove era entrato per inganno di Gismondo stesso; dopo varii ridicoli casi si ritrova la fanciulla per riscattar la quale eran state furate le pezze di raso, ed il matrimonio di Mario e di Gismondo suggellano felicemente la commedia.

L’intreccio dei Bernardi è più semplice, e si annoda quasi tutto in due giovani, l’uno il vero Bernardo Spinola da Genova, l’altro che si finge tale; quello della Cofanaria, imitato in parte dalla Cassaria e dal Negromante dell’Ariosto, quantunque meno originale, è tuttavia maestrevolmente condotto e pieno dei più ridicoli casi, in modo da superare in alcune parti gli originali stessi. La Cofanaria fu con gran pompa ed applausi rappresentata in Firenze l’anno 1565 in occasione delle nozze di Francesco de’ Medici con Giovanna d’Austria: ed il Lasca ci lasciò una descrizione degli intermezzi che ebber luogo nella rappresentazione, che veramente furono splendidi e maravigliosi, e degni della magnificenza della Casa Medici. Le tre commedie dell’Ambra sono ancor esse un repertorio di eleganze, e di purgato scrivere, onde dall’Accademia della Crusca furono citate nel vocabolario.

La Suocera di Benedetto Varchi è una languida e sbiadita imitazione, e bene spesso traduzione dell’Ecira di Terenzio, mantenutivi i costumi antichi di cortigiane e di schiavi colla massima improprietà. Egli, come dice nel prologo, si propose di fare une commedia seria, e seria gli riuscì di modo, e quel che è più, con monologhi lunghissimi, eterni che ben uccide di noia. «Chi sa onde il riso proceda, così egli nel prologo, e quali siano coloro che spesso ridono, non la biasimerebbe mai per questo. E l’autore stesso m’ha detto che avrebbe molto più caro, e a vie maggior gloria s’arrecherebbe di farvi maravigliare una volta sola, e piagnere, che di ridere cento». Censura poi quivi stesso lo sghignazzare per cose sporche e disoneste; e quanto a questo ha ragione, anzi a lui si può dare il vanto d’essersi contenuto entro il buon costume, e d’aver fatto, come l’Ecira di Terenzio, una commedia pura e castigata. Leggendola, non ravvisai il libero autore dell’istorie fiorentine, che per narrare il vero dei tempi presenti fu aggredito di notte dal pugnale prezzolato del sicario; anzi m’offese e mi spiacque la sbracata adulazione a Cosimo duca, cui loda perfino del far murare (atto I, sc. 2a); e per bocca della Nastasia chiamando Talianacci i soldati di Pirro Colonna, esalta le gentili maniere dei Turchi Lanzi, che la tirannia di Cosimo assodavano e custodivano: «Uh! se non si abbattevano per mia buona sorte que’ due Lanzi della guardia, che mi aiutaron rizzare, io non me ne levava in tutto oggi: oh, che benedetta gente sono questi tedeschi! Dio gli mantenga. Al tempo di que’ Talianacci dei signor Pirro non ci si poteva vivere per verso nessuno» (atto II, scena 1a); eppure erano bene i Lanzi dell’assedio di Firenze, e, quel che è più, del sacco di Roma! Lo stile della Suocera è ornato, la lingua fiorita, ma l’eleganze che vi son versate col sacco, riescono stucchevoli, e ti fanno riconoscere il grammatico, lo scrittore dell’Ercolano, amante spasimato di quelle che il Muzio chiamava fiorentinarie, ed usate senza un’accorta parsimonia sono tali davvero.

Col Varchi io metto Lionardo Salviati, sebbene, massime nel Granchio, mostri d’avere più forza ed estro comico, ed anche sia originale: nondimeno i lunghissimi monologhi e dialoghi della Spina, le scene senza necessità prolungate in discorsi inutili, come la nona dell’atto III del Granchio, quanto a me, mel riducono ad una medesima stregua. Egli scrisse due commedie, la Spina in prosa, debole e languida, il Granchio in versi, migliore, come ho detto; se non che, oltre la lungaggine delle scene, lo scioglimento del nodo mi sembra precipitato e lontano dal verosimile, conciossiachè riesce strano che la favola inventata da Vanni riguardo all’esser Fortunio suo figlio, sia proprio la verità narrata e confermata da Duti, e si ritrovi, quel che si voleva fingere, essere davvero Fortunio figliuolo di Vanni. Quanto alla lingua ed allo stile è da dir quello che del Varchi; vi si scorge il grammatico che addensa quanto più può eleganze, quanti più può proverbi e riboboli, senz’altrimenti badare alla convenienza. Il Granchio con intermezzi di Bernardo de’ Nerli fu nel 1578 rappresentato alla corte di Mantova contro la voglia del modesto autore, se devesi credere al lunghissimo prologo fatto per questa occasione, ultimamente tratto dall’Archivio di Guastalla da una Memoria intorno ai fatti di Guglielmo Vespasiano Gonzaga, e pubblicato dal p. Ireneo Affò, nel quale è detto, che, per aver dal Salviati il manoscritto, convenne rubarglielo:

Lascio, che quella taccola, ch’io dissi,
Rivolti l’occhio, e raffica! do d’unghia,
E sbietto, e pianto il zugo a piuolo.

Lorenzino dei Medici, quello che uccise il duca Alessandro, e poi, sorpreso dalla paura, insieme con Scoronconcolo se ne fuggì, di che, qualunque cosa e’ dica nell’Apologia, e sebbene fosse nominato il Bruto Toscano, e s’avesse quel famoso epigramma del Molza citato dal Varchi, sarà sempre tenuto per traditore assassino, calzò anche il socco, e compose una commedia intitolata Aridosia, da un vecchio Aridosio ch’era più arido della pomice . Egli tolse il soggetto dagli Adelfi di Terenzio, e dalla Mostellaria di Plauto quanto alla casa spiritata, nè in tutto seppe spogliarli dell’antico e del vieto, chè ci lasciò il lenone Ruffo, e la Livia sua schiava messa in vendita; del che egli si scusa nel prologo dicendo: «L’argomento va in istampa, perchè il mondo è stato sempre ad un modo, ed egli dice che non è possibile a trovare più cose nuove; sicchè bisogna facciate con le vecchie; e quando bene se ne trovasse, molte volte le cose vecchie sono migliori delle nuove; le monete, le spade, le sculture, le galline, ed havvi chi dice che le donne vecchie sono come le galline. Però non abbiate a sdegno se altre volte avendo visto venire in scena un giovine innamorato, un vecchio avaro, un servo che lo inganni, e simil cose, delle quali non può uscire chi vuol fare commedie, di nuovo li vedrete». Pur v’aggiunse tra del suo e di quel di Plauto quel Cesare giovane che ruba il tesoro nascosto nella fogna ad Aridosio, e nella fine sposa la costui figliuola Cassandra, la scandalosa monaca che si marita poi ad Erminio, e ser Giacomo, prete, il maggior cacciadiavoli che vi fosse in Toscana , il quale fa gli scongiuri alla casa di Aridosio, e sì lo fa spiritar di paura, che al povero vecchio si muove il corpo, e vorrebbe ire a far una faccenda, se ser Giacomo non gli imponesse di non muoversi, e in ogni modo di farla lì sulla scena.

L’Aridosia è scritta con brio, con vivacità, con grazia e venustà di dialogo; non manca di ridicolo e di opportune facezie; nondimeno, a dir l’impressione ch’io n’ebbi alla lettura, una tinta oscura le si diffonde per tutto, e tu ravvisi l’indole cupa e tetra di Lorenzino fin dal prologo, in cui dice seriamente, e con un fare sprezzante così: «Dicono ch’egli è di spirito; io per me nol credo; e quando ei seppe che io veniva a farvi l’argomento, m’impuose ch’io vi facessi un’ambasciata a tutti; che se voi loderete questa sua commedia, sarete causa ch’ei n’abbia a far delle altre; onde vi prega che voi la biasimate, acciò gli togliate questa fatica. Vedete che cervello è questo: gli altri si affaticano in comporre, chieggono e pregano di essere lodati, e quando e’ non hanno altro remedio, si lodano da loro; e costui domanda di essere biasimato; e questo dice che fa solo per non fare come i poeti; e a mio giudizio ha mille ragioni, perchè ha più viso d’ogni altra cosa, che di poeta». Lo sporco intrigo della monaca, per me rivela le sozze ed infami tresche pei monasteri sia di Lorenzino sia del duca Alessandro, della qual cosa vedi il Varchi nel libro XV, cap. ii della Storia fiorentina, ed il Botta, Storia d’Italia, libro II; anzi quei due versi latini detti da ser Giacomo nello scongiurare gli spiriti: «Hanc tua Penelope lento tibi mittit, Ulixes – Nil mihi rescribas, attamen ipse veni», mi chiamarono alla mente il virgiliano: «Vincit amor patriae laudumque immensa cupido», che Lorenzino, consumato il delitto, lasciava scritto in una polizza sul lacero e sanguinoso cadavere del duca sgozzato. Insomma, checchè altri ne possa giudicare, mi sembrò essere l’Aridosia illuminata non di pacata e serena luce, che apre a letizia il cuore, ma di luce maligna e sinistra che lo chiude e lo angustia.

Anche di Annibal Caro abbiamo una commedia scritta per ordine del suo Cardinale in prosa, e intitolata gli Straccioni, che rappresenta i casi veri di que’ due fratelli Canali nominati nel prologo, nativi di Scio, che, litigando in Roma per la recuperazione od il prezzo di certe gioie contro un genovese de’ Grimaldi, a cui l’aveano vendute, si ridussero, per le enormi spese dei tribunali, a tale povertà e miseria, che diventarono ludibrio e sollazzo di tutto il volgo romano, che li chiamava col nome di Straccioni. L’orditura di questo dramma è condotta con arte e con somma diligenza; ma a paragone dei comici sopracitati è scadente quanto alla lingua ed allo stile, perchè mancante dell’atticismo del dialetto fiorentino, il quale dialetto per altro il Caro seppe piacevolmente usare nei Mattaccini, sonetti dieci contro Ludovico Castelvetro. Gli Straccioni, forse perchè il Caro recavasi a coscienza di schernire pubblicamente sulla scena le altrui sventure, non furono mai, vivente l’autore, nè in Roma nè altrove rappresentati; e quindi è forse, che, non incoraggiato da lodi ed applausi, quel vivacisssimo e pieghevolissimo ingegno non diè più altre composizioni di questo genere.

Citerò qui per ultimo Francesco Berni, il creatore di quella poesia che da lui ha il nome, il quale lasciò due brevi schizzi comici rusticali, la Catrina ed il Mogliazzo, in cui con verità e con lepore rappresentò e spresse al vivo il carattere dei contadini del dominio fiorentino, i loro usi, costumi, affetti e passioni, valendosi con disinvolta naturalezza del loro linguaggio medesimo, del quale ecco un breve saggio tolto dalla Catrina:

Nanni e Beco.

Nanni. Beco, tu sia il ben giunto. Beco. Oh! dàgli ’l giorno.
Nanni.

Potta del ciel! o tu par de bucato,

Tu sei più bianco ch’uno spazzaforno,

Saresti mai da nulla accalappiato?

Diacin che me responda! e’ fa ’l musorno.

Beco. Che vuoi ch’io dica, che sii manganato!
Nanni.

Dond’esci tu? Beco. De qua. Nanni. Deh tu fa ’l grosso,

Chi t’ha questo cotal cucito addosso!

Beco.

Al corpo al ciel, che tu debb’esser cieco!

Nol vedi tu? Nanni. Non io. Beco. Mettiti gl’occhi.

Nanni. Secci tu solo, o sei venuto teco?
Beco. Son con color. Nanni. Con chi? Beco. Co’ miei pedocchi.
Nanni.

Oh! io ci son anch’io. Deh! dimmel, Beco.

Dimmel, che la rabbia te spannocchi,

Vuommel tu dir? Beco. Deh! non me tôr la testa.

Dicotel io, son venuto alla festa.

Nanni.

Non maraviglia che tu ha’ calzoni,

E gli aghetti de seta, e’ nastri al tocco.

Beco

Oh! tu mi tieni di questi decimoni!

Io non son reo, bench’io ti paia sciocco.

Nanni.

Oh! che so io? Tu sei sempre a riddoni;

Io te vidi domenica al Marrocco,

Che tu parevi un Maggio delle sei.

Deh! dimmi il ver: togliestu poi colei?

Beco.

Chi? N. La Catrina. Bec. E quale? N. Eh! ghiarghionaccio.

Tu fa ’l balordo, eh? Beco. No alle guagnele:

S’io t’ntend’io, che te se secchi un braccio.

Nanni.

Oh! bugiardon. Quella de Ton de Chele,

Che stava quinavalle al poderaccio,

Che tu gli atasti a sbatacchiar le mele.

Beco.

Oh! tu me gratti, Nanni, aval la rogna:

Che vuoi tu far de cotesta carogna? etc.

Molti altri comici di minor fama si possono vedere presso il Tiraboschi, libro III, capo iii, paragr. 64, dei quali per altro e’ non fa che ricordare il nome; e fa menzione altresì di Angelo Ruzzante, che di questo tempo nel volgar dialetto di Padova compose e recitò egli stesso drammi contadineschi con tal brio e verità, che ottenne di presente grande rinomanza; di che lo Speroni chiamollo: «Nuovo Roscio di questa età, e comico eccellentissimo»; ed il Varchi nell’Ercolano non dubitò di anterporre i suoi drammi alle Atellane, così come i nostri zanni ai mimi: «Credo, dice egli, che i nostri zanni facciano più ridere, che i loro mimi (dei latini) non facevano, e che le commedie del Ruzzante da Padova, così contadine, avanzino quelle, che dalla città di Atella, si chiamavano Atellane».

24. Conclusione. – Questa di cui ho favellato finora è la commedia, che si direbbe classica e cortigiana, composta per i dotti e per i letterati, e da loro soli intesa e gustata. Il popolo n’avea un’altra sulle piazze e sui mercati, e dei motti spiritosi e delle facezie popolari degli zanni rideva saporitamente. Quella in breve decadde e morì; questa, invece, come tutte le cose che son proprie del popolo, durò piena di vita e di vigore giovanile fino a subire una trasformazione, e diventare commedia, da essere sui teatri rappresentata; poichè, come ognun sa, il Goldoni si valse delle commedie a soggetto, e gli zanni, gli arlecchini, e simili personaggi, destramente seppe ne’ suoi drammi introdurre, dando loro bene spesso tutta la parte ridicola.

La commedia classica del Cinquecento ai tempi nostri rappresentata sui teatri, non produrrebbe più, io credo, buon effetto, nè il gusto moderno darebbe favore a chi la volesse far rivivere; nondimeno potrebbe fornire ai moderni scrittori comici materia di studi vantaggiosi e fecondi, ed ottimi partiti da modificare, migliorandole, le commedie dei tempi nostri. Del resto, letta semplicemente e senza rappresentazione alcuna, ottiene l’effetto suo pienamente, e piace quanto se fosse rappresentata, il che non so se delle moderne avvenga; in modo che ad essa si può applicare quello che Aristotile scrisse della tragedia, paragonandola all’epopea: Ἔτι ἡ τραγῳδία καὶ ἄνευ κινήσεως ποιεῖ τὸ αὑτῆς, ὥσπερ ἡ ἐποποιία, διὰ γὰρ τοῦ ἀναγινώσκειν φανερὰ ὁποία τίς ἐστι.

Degli edifizi teatrali io non dirò altro, se non che nelle Corti di Roma, di Firenze, di Ferrara facevansi magnifici e sontuosi, lavorandone spesso i più rinomati artisti le scene e le decorazioni, come si è veduto innanzi della Calandra; e il celebre Andrea Palladio disegnò e cominciò a spese dell’Accademia Olimpica il teatro olimpico di Vicenza, terminato poi dallo Scamozzi, che ne eresse auto un altro in Sabbionetta per commissione del duca Vespasiano, del quale puoi vedere la minuta descrizione in un passo della Vita di esso Scamozzi scritta dal Temanza, citato dal Tiraboschi lib. III, cap. iii, paragr. 71.

La commedia italiana nel XVI secolo levò grandissima fama di sè non solamente al di qua, ma al di là ancora dell’Alpi: già si è veduto come Caterina de’ Medici facesse in Lione rappresentar la Calandra, ed il Napione nell’opera sua dell’uso e dei pregi della lingua italiana, osservato quanto questa fosse coltivata in Francia, dice che non solamente chiamavansi a Parigi commedie e comici nostri, ma che Margherita di Valois componeva e faceva rappresentare drammi italiani, ed in seguito Enrico III diede fermo stabilimento al teatro italiano, onde la compagnia dei Gelosi cominciò l’anno 1577 nel palazzo di Borbone le recite con tal concorso di gente, che, al dire di un giornale di quel tempo, quattro dei migliori predicatori non aveano tutti insieme l’uguale. In Baviera, come dicono lo stesso Napione ed il Denina nelle Vicende della letteratura, circa l’anno 1570 fu introdotta la nostra commedia a soggetto nei soliti dialetti delle varie maschere italiane.

Cotale pertanto fu in Italia la commedia classica: quali modificazioni, vicende e trasformazioni subisse nei susseguenti secoli fino ad abbandonare il modello classico, e ricostruirsi, per dir così, sul modello francese di Molière, non appartiene più al mio proposito di dire, e sarebbe materia da fornirne un altro libro, che, trattato a dovere, e meglio ch’io non sapessi e potessi, non mancherebbe d’essere utile e vantaggioso: per ora, dirò con Dante: perchè piene son tutte le carte ordite a questo mio lavoro, non mi lascia più ir lo fren dell’arte ; e faccio punto.

Lettor mio benigno, che fosti meco al teatro di Grecia, dell’antica Roma e d’Italia, tu hai potuto vedere come la commedia, nata, cresciuta e perfezionata in Atene con Aristofane, aggiunse con lui la sua perfezione, e fu vero poema: in Atene stessa cadde oppressa da morte in parte violenta, per la legge, in parte naturale pel gusto e l’indole, cambiata del popolo, e dopo un lavorìo di trasformazione, che durò parecchi secoli, sotto aspetto e forma diversa risorse vigorosa e adulta con Filemone e Menandro; imitata in Roma da Plauto e da Terenzio fu d’assai agli originali inferiore, e scadde al paragone, nè Roma ebbe quasi commedia che si potesse dir sua e nazionale: finalmente da Roma antica tolta ad imitare in Italia all’epoca del risorgimento delle lettere, sorpassò di gran lunga nell’invenzione, nella pittura dei caratteri, nella vivacità e nel brio, nell’atticismo della lingua e dello stile i modelli latini, e, a mio credere, salì al grado di perfezione dei greci, dai quali venne in origine, a guisa di acqua, che derivata mediante tubi da una sommità e discesa al basso, risale poi per legge di equilibrio ad altezza eguale a quella della sorgente, onde è premuta.

Se tu adunque, o lettore, da queste mie pagine traesti qualche cognizione, od alcun vantaggio, e non foss’altro, l’impulso a voler fare meglio di me, sappine grado più che al mio libro, alla tua pazienza nel leggerlo; che se invece sono riuscito, contro la buona mia intenzione, ad annoiarti, te ne chieggo scusa, e t’assicuro colle parole di Alessandro Manzoni, che non l’ho fatto a posta.

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