LIBRO SECONDO. Della Commedia presso i Romani.

1. Scarsa coltura letteraria degli antichi Romani. – Lento e tardo fu lo svolgimento della coltura civile e letteraria presso il popolo romano pel lungo spazio di quasi sei secoli, conciossiachè quasi niun lume di umane lettere mostrossi in Roma, se non quando, come disse Porzio Licinio: Punico bello secundo Musa pennato gradu – Intulit se bellicosam in Romuli gentem , ed anche allora ebbe bisogno la romana coltura d’essere fecondata, e sto per dire tratta in luce dalla greca già perfetta e fiorente, la quale le fu poi ad un tempo modello e maestra.

Ciò era naturale alle condizioni ed all’indole dei Romani discendenti non da Minerva, ma da Marte, e più che al canto delle Muse, nati al grido della guerra ed allo strepito dell’armi. Roma fu dapprima un ridotto di ladroni e d’uomini facinorosi, che in que’ colli deserti ed appartati cercavano asilo ed impunità, e Romolo stesso non fu probabilmente che quello che noi diremmo un capo di briganti, nobilitato poscia colle favolose leggende della sua nascita e della sua morte; al che accenna Dante dicendo (Parad., VIII, 131): e vien Quirino – Da sì vil padre che si rende a Marte. Fondata la città e col ratto delle Sabine assicurata la futura esistenza della nuova società nascente, i Romani trovaronsi tantosto nella necessità di difendere coll’armi gli acquistati diritti, e non andò molto che furono in guerra con tutti i popoli vicini, e per conseguenza nè a sistemar la religione ebbero agio di provvedere, nè ad ordinar la famiglia, nè a regolar con leggi fisse e determinate la società. Sotto il pacifico e lungo regno di Numa Pompilio respirarono dalle guerre, e attesero all’ordinamento interno. Numa, ad acquistarsi fede ed autorità fintosi ispirato dalla ninfa Egeria, istituì i collegi sacerdotali che sopraintendevano al culto pubblico e privato, con a capo un Pontefice massimo che regolava il calendario e 1e feste e scriveva gli annales maximi nei quali conservavasi memoria de’ pubblici avvenimenti, gli Auguri, i Flamini, i Feciali, le vergini Vestali, alla cui cura erano affidate la conservazione del fuoco sacro e la custodia del Palladio da Troia recato in Roma, e finalmente i Salii custodi dello scudo di Marte caduto dal cielo e degli altri undici detti ancili che Vetorio Mamurio avea fabbricati a somiglianza di quello acciocchè il vero non fosse riconosciuto e rubato.

2. Carmi Salii e convivali e versi Saturnii. – Questi Salii, celebrando le feste degli Dei armati nel mese di marzo, andavano per la città menando una certa danza detta tripodazione dal battere tre fiate il piede in terra, ed accompagnandola con canti d’argomento patrio e religioso detti axamenta, o perchè erano scritti sopra tavole di legno (axes), o perchè, secondo Festo, vi si nominavano per singolo gli Dei (axare), o perchè recitavansi o si cantavano assa voce senza accompagnamento di tibie. A questo tempo si riferiscono i monumenti più antichi della letteratura latina, de’ quali uno fu rinvenuto, non è gran tempo, nella sacristia di S. Pietro, e pubblicato ed illustrato da Monsignor Marini: esso è il carme d’un collegio di Salii detti fratelli arvali, perchè loro apparteneva di pregare gli Dei per la prosperità dei campi, e secondo il Galvani, è composto in versi saturnii settenarii. La lingua di esso è sì diversa da quella degli altri monumenti meno antichi del latino, che molti dotti pressochè indarno si sono affaticati di darne una spiegazione, e non poterono uscire dalle conghietture: il che non reca maraviglia, poichè già ai tempi di Elio Stolone (650 di Roma) i carmi saliari non s’intendevano quasi più, e molto meno a’ tempi di Orazio, il qual dicea (Ep., l. II, 1, 86): Iam Saliare Numae carmen qui laudat et illud – Quod mecum ignorat solus vult scire videri, – Ingeniis non ille favet, plauditque sepultis, – Nostra sed impugnat nos, nostraque lividus odit. Quintiliano poi afferma che alla sua età, cioè nel primo secolo dell’era cristiana, non erano nè anche più intesi dagli stessi sacerdoti Salii, presso dei quali pure doveva essersi conservata una privata e particolare tradizione, che que’ canti accompagnando avvivasse, e lor facesse, a così dire, pigliar voce e senso. Onde si scorge a quale trasformazione andò soggetta la lingua latina, quando per la prima volta i Romani usarono co’ Greci ed appresero il linguaggio loro; e confermasi l’opinione di Tommaso Vallauri, che le due favelle greca e latina fur nate da un ceppo, ma cresciute e svoltesi indipendentemente l’una dall’altra, finchè per il commercio e la comunanza dei due popoli non si ravvisò dai Romani l’affinità che la favella loro teneva strettissima col greco, e specialmente col dialetto eolico, e non si ricostruì, per così dire, il linguaggio latino sulle traccie e sull’etimologia del greco idioma. Sacro adunque come presso i Greci, così presso i Romani fu il primo genere di poesia, quum enim, dice il Vallauri, uti habet Plato in Phaedone, nihil sit tam cognatum mentibus nostris, quam numeri, quorum summa vis carminibus est aptior et cantibus; ita apud Romanos haud aliter atque apud Graecos, in sacris mature usurpari coepti sunt hymni; quibus Deorum laudes celebrarent : ma il genere eroico, che appo i Greci fu coevo al sacro, in Roma non si sviluppò che assai tardi, e fu dal drammatico preceduto; erano tuttavia in uso canti popolari nei quali celebravansi le lodi degli uomini grandi e dei prodi capitani, e canti militari che dai soldati nell’ebbrezza del trionfo cantavansi al vincitore non senza qualche stoccata e qualche frizzo, che tra i fumi della gloria gli rammentassero la debolezza umana.

Cicerone, citando due volte un passo di Catone il censore, accenna pure a canti detti convivali, perchè si facevano alla fine de’ banchetti, e deplora la loro perdita, conciossiachè, encomiastici quali erano, avrebbero potuto somministrare notizie preziose intorno a’ grandi uomini dei tempi antichi: Gravissimus auctor in Originibus dixit Cato, morem apud maiores hunc epularum fuisse, ut deinceps qui accubarent canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes. Ex quo perspicuum est et cantus tunc fuisse rescriptos vocum sonis et carmina (Tusc., Quaest., IV, 2); e nel Bruto, XIX: Utinam extarent illa carmina, quae multis saeculis ante suam aetatem in epulis esse cantitata a singulis convivis de clarorum virorum laudibus in Originibus scriptum reliquit Cato.

Tutti questi canti e sacri e profani erano composti nel verso saturnio da Orazio chiamato orrido, il quale non era metrico, ma ritmico, cioè non ordinato e disposto secondo la misura e la quantità delle parole, ma secondo il numero delle sillabe, come il nostro italiano, ed aveva altresi omioteleuti, cioè desinenze simili rispondenti alla nostra rima. Più tardi, quando si conobbero i Greci, fu abolito ed andò in dimenticanza cedendo il luogo alla metrica greca, che in tutto fu dai letterati latini adottata, quantunque forse si conservasse nel popolo minuto tenace delle antiche usanze, e durasse fino a generare il moderno verso italiano.

Di versi saturnii si contano quattro sorta; la prima antichissima non sottoposta quasi ad alcuna regola; la seconda ritmica ed a versi corti con numero determinato di sillabe, come nell’iscrizione 2a del sepolcro de’ Scipioni: Honc oino plorume – Consentiont Romae – Duonoro optumo – Fuise viro – .Luciom Scipionem – Filios Barbati – Consol, censor aidilis, – Hic cepit Corsica – Aleriaque urbe etc.; la terza di versi più lunghi, che hanno a fondamento il giambico senario, sebbene con molta irregolarità; e segna il passaggio dal ritmo al metro, come:

Summas opes qui regum regias refregit;

la quarta finalmente è quella di Nevio, in cui il saturnio è composto d’un trimetro catalettico, come: Adest celer phaselus, – Memphitides puella, – Tinctus colore noctis: poi si fece asinarteto coll’aggiungervi un itifallico, come:

Et Naevio poetae – Sic ferunt Metellos,
Cum saepe luderentur, – Esse comminatos:
Dabunt malum Metelli – Naevio poetae.

cui Mauro Terenziano analizza così: «Dabunt malum Metelli, clauda pars dimetri: post, Naevio poetae, tres vides trochaeos: nam nil obstat trochaeo longa quod suprema est». I moderni cercarono di rintracciare la natura di questo antichissimo metro, ed affermarono non essere che un metro giambico assai licenzioso nel mutare la quantità delle sillabe; ma alcuni, come si può vedere in Düntzer e Lersch, impugnando una tale opinione, dichiararono dubbia l’esistenza d’un metro determinato, e sostennero che nel verso saturnio altro non richiedevasi che contare le sillabe senza punto badare alla loro natura, o ad altra legge di prosodia. Il Müller, ad esempio del Lachmann, combatte il Düntzer e il Lersch, e stabilisce una nuova teoria del verso saturnio secondo il Bäehr più simile al vero, ammettendo cogli antichi un giambo catalettico di quattro piedi, e di un trocheo di tre piedi, coll’avvertenza tuttavia, supprimi posse theses omnes, excepta ultima, maxime penultimam .

Checchè sia di ciò, non entrando questo nel mio proposito, fatto è che nel periodo dei Re e ne’ primi tempi della Repubblica non vi fu quasi ombra di coltura letteraria, nè a dirozzare le menti si pensò e ad ingentilire i cuori cogli studii e colle arti, ma ad assoggettare colle armi i vicini popoli ed estendere ed ampliare il dominio. In Etruria si mandavano i giovani ricchi ad apprendere i riti augurali e ad essere iniziati nelle scienze sacre, dove ad una ricevevano alcuna lieve tintura di lettere, senza per altro che queste discipline fossero da quel popolo guerriero stimate gran fatto, se non in quanto servivano all’efficienza di pubblici atti: in Roma tutto era rozzo e feroce, e l’educazione limitavasi ad indurare e fortificare i corpi alle prove e alle fatiche di Marte. Senonchè quando le guerresche imprese li avvicinarono alla Magna Grecia, sentirono tantosto il contatto di que’ popoli colti e civili, e cominciarono ad entrare nella loro coltura con quella ammirazione che fa il villano, quando, direbbe Dante, rozzo e salvatico s’inurba ; di che maravigliandone i modi, le arti, il sapere, se ne fecero tali imitatori da soffocare e spegnere il genio e l’indole nazionale non solo, ma coll’uso della greca favella alterare e trasformar la propria, come si è già osservato. Allora Roma riboccò di Greci, la maggior parte prigionieri o schiavi, protetti e favoriti dai grandi e specialmente mente dagli Scipioni: i quali Greci facendo nelle famiglie da pedagoghi, i divini esemplari dei vinti proponevano all’imitazione de’ vincitori. Per assai tempo le lettere furono alle mani di schiavi e di liberti, poichè, al dir di Sallustio, ogni savio cittadino attendeva innanzi tutto agli affari e ad esercitare coll’ingegno il corpo; ed ogni uom grande volea mentosto dire che fare, lasciando che altri narrasse le imprese di lui, anzichè narrar esso le altrui.

Discorse così queste cose in generale intorno alla coltura dei latini, conviene cercare delle origini, del progresso e dello svolgimento della commedia presso i Romani e tralasciata ogni altra considerazione, attendere pure al tema proposto.

3. Preludii alla drammatica latina – Le Fescennine. – Le origini della commedia latina sono press’a poco identiche con quelle della greca, tanto son simili tra loro i costumi e l’indole degli uomini. In Etruria dapprima, e più principalmente nella città di Fescennia, erano in uso canzoni improvvise alterne a proposta e risposta, assalendosi l’un l’altro i cantori con motti pungenti; e spesso con aperti e disonesti vituperii. Appreso questo modo dai Romani, la libertà fescennina per alcun tempo lusit amabiliter al dir d’Orazio, finchè trasmodò nello scherno e nella beffa, e iam saevus apertam – In rabiem verti coepit iocus, et per honestas – Ire domos impune minax: onde le leggi decemvirali provvidero alla fama ed alla tranquillità de’ cittadini col minacciare il bastone, o, come leggono altri, la pena del capo a chi con versi infamatorii mordesse e vituperasse chicchessia. Quindi è ancora che qualsiasi sfrenata libertà, o meglio licenza, si disse fescennina, e fescenninus homo significò uomo di lingua scorretta, oscena e maledica. Ma questo genere non volse ancora a sè gran fatto l’attenzione ed il gusto dei Romani, che, fieri e marziali quali erano, si dilettavano pure di que’ spettacoli, in cui colla corsa, colla lotta, col pugilato s’addestrassero e s’invigorissero i corpi alle battaglie ed alle armi; e quindi correvano al Circo, e de’ giuochi circensi pigliavano maraviglioso piacere.

4. Le Atellane. – Un passo più in là nell’arte fece la drammatica per quelle che si chiamarono fabulae Atellanae da Atella città osca della Campania, di cui oggidì si mostra il luogo e le rovine a due miglia da Aversa; le quali furono, un divertimento veramente nazionale ed italiano, che sotto diverse forme, dice il Bähr, si è conservato fino al dì d’oggi in Italia. Questi drammi rusticali, poichè in essi introducevansi generalmente le persone del contado, furono dapprima in Roma rappresentati, per quanto ne dice Strabone, da Osci ed in lingua osca, e poscia dalla gioventù romana, che vi si esercitò con lode, nè lasciò che dagli istrioni fossero contaminati e disonorati, come si vedrà da un passo di Tito Livio che sono per recare. Erano le Atellane un misto di sentenze gravi e di motti giocosi, temperati da quella urbanità e da quel riserbo che s’addicevano a’ nobili giovani che le rappresentavano e si devono ben distinguere da que’ drammi i quali chiamaronsi in appresso Exodia, e si lasciarono dai giovani ai mimi od istrioni da rappresentarsi a modo di farse dopo le Atellane stesse e dopo le tragedie, per sollevare col riso gli animi degli spettatori turbati dal terrore o mossi dalla compassione. Quintiliano dice che le Atellane amavano i motti oscuri ed ambigui da trarre agevolmente in inganno chi non fosse bene avveduto; e Svetonio racconta che Caligola, offeso da uno di questi motti, fe’ pigliare ed ardere in mezzo all’anfiteatro l’imprudente e malcapitato poeta. Ma l’indole di questo dramma ci viene meglio espressa in un passo di Valerio Massimo (lib. II, c. 4) che lo chiama: Genus delectationis italica severitate temperatum, ideoque vacuum nota est. Nam neque tribu movetur, neque a militaribus stipendiis expellitur. Il grammatico Diomede, paragonandole ai drammi satirici dei Greci, ne discorre così: Tertia species est fabularum latinarumn, quae a civitate Oscorum Atella, in qua primum coeptae, Atellanae dictae sunt, arqumentis dictisque iocularibus similes satyricis fabulis graecis; e poi notandone la differenza, soggiunge: Latina atellana a graeca satyrjca differt, quod in satyrica fere satyrorum personae inducuntur, aut si quae sunt ridiculae similes satyris, Antolycus, Burris: in atellana Oscae personae, ut Maccus, etc. Introdottosi poi il dramma greco, le atellane se ne valsero a migliorarsi e perfezionarsi col prender da quello la delicata gentilezza dell’espressione ed il destro artifizio di condurre e svolgere l’azione e l’intreccio; ma pur ritennero il prisco carattere di nazionale originalità, e da esso si mantennero sempre molto bene distinte. Una cosa che dimostra l’onesta costumatezza delle atellane si è, che gli attori di esso non erano bollati del marchio d’infamia come gli istrioni ed i mimi, nè esclusi dalle cariche e diritti civili e dalla milizia, come si è veduto da Valerio Massimo ora citato, e come attesta altresì Tito Livio (lib. 7, c. 2). Ed oltre questo, mentre gli istrioni, se per imperizia o per trascuratezza sciupassero il dramma, venivano costretti a buttar giù la maschera e pigliarsi gli insulti e le fischiate a viso scoperto; agli attori delle atellane, comunque andasse la rappresentazione, non facevasi mai tale affronto; onde dal tener sempre la maschera furono detti personati. I più rinomati compositori di questo genere furono più tardi Pomponio e Q. Novio, i quali fiorirono amendue nel secolo settimo di Roma, e coll’imitazione greca ammorbidirono il rozzo carattere di queste favole, conservandone tuttavia l’originalità italica. Verso i tempi di Cicerone le atellane furono quasi totalmente sopraffatte e scacciate dai mimi; ma dopo il secolo d’Augusto, per opera d’un C. Memmio, ritornarono in onore; se non che pare ricomparissero degenerate e lontane dalla prisca severità e castigatezza, ed al pari delle altre composizioni drammatiche insudiciassero la scena di sconcezze invereconde. Nelle atellane, dice il Bärh, scorgiamo una specie di farsa buffonesca coll’uso di maschere e di certi caratteri determinati, i quali hanno pure una qualche rassomiglianza colle maschere e co’ caratteri usati anche al dì d’oggi nella commedia burlesca popolare italiana, p. e. coll’Arlecchino. Onde la moderna commedia dell’arte in un co’ suoi caratteri e cogli stessi vestiti vuol essere derivata da questi antichi scherzi nazionali, i quali si sono conservati durante tutto il medio evo.

5. Origine della drammatica latina secondo Tito Livio. – Livio ci narra in un passo prezioso le origini prime della drammatica in Roma, ed i rozzi tentativi che si fecero per creare un dramma nazionale fino alla venuta di Livio Andronico ed all’introduzione dell’arte greca. Egli racconta nei seguenti termini (lib. VII, c. 2): Et hoc et insequenti anno (391 di Roma) E. Sulpitio Petico, C. Licinio Stolone Coss., pestilentia fuit. Eo nihil dignum memoria actum, nisi quod pacis deum exposcendae causa tertio tum post conditam urbem lectisternium fuit. Et cum vis morbi nec humanis consiliis nec ope divina levaretur, victis superstitione animis, ludi quoque scenici, nova res bellicoso populo (nam circi modo spectaculum fuerat), inter alia coelestis irae placamina instituti dicuntur. Caeterum parva quoque (ut ferme principia omnia) et ea ipsa peregrina res fuit: sine Carmine ullo, sine imitandorum carminum actu, ludiones ex Etruria acciti, a d tibicinis mo dos saltantes, haud indecoros motus more Tusco dabant. Imitari deinde eos iuventus simul inconditis inter se iocularia fundentes versibus coepere, nec absoni a voce motus erant. Accepta itaque res, saepiusque usurpando excitata; vernaculis artif icibus, quia hister Tusco verbo ludio vocabatur, nomen histrionibus inditum. Qui, non sicut ante Fescennino simil em versum compositum temere ac rudem alternis iacieb ant, sed impletas modis satyras descripto iam ad tibicinem cantu motuque congruenti peragebant. Dalle quali testimonianze si raccoglie per prima cosa, che i giuochi scenici furono sacra istituzione, come presso i Greci, appo i Romani; quindi, che a questi eran già preceduti i versi alterni fescennini rozzi ed incolti; che i ludioni etruschi intrecciavano danze garbate e decorose al suono della tibia senza canto alcuno di carmi e senza quelle movenze che sogliono accompagnarli, e fors’anche del tutto alla muta; da ultimo, che i giovani romani, andata loro a sangue la cosa, cominciarono ad imitarla, ed usati com’erano a’ versi fescennini, v’inserirono motteggevoli ed allegri dialoghi e diverbii in versi meglio foggiati e torniti che i fescennini per avventura non fossero: i quai dialoghi Livio chiama satire da satura probabilmente, perchè erano come un miscuglio di canto, di suoni, di recitazione e di danza, ed anche un accozzamento di varie e disparate cose, il che si pare, altresì dal chiamarle che e’ fa impletas modis satyras.

Tuttavia questi, secondo che nota ivi medesimo lo stesso Livio, non erano che rozzi ed incomposti principii, nè costituivano per anco un vero dramma; ma primo che dalle, satire passasse a comporre il dramma alcuni anni dopo, fu Livio Andronico: Livius post aliquot annos . . . . ab satyris ausus est primus argumento, fabulam serere. Ed è quindi necessario che io passi a discorrere di questo schiavo greco, che si può dire il creatore, della latina letteratura, a cui diede forte e potente impulso dirigendola all’imitazione de’ capolavori ellenici.

6. Epoca prima della commedia latina. – Livio Andronico –Livio, conosciuto sotto il nome di Andronico, fu greco di Taranto, e nella presa di questa città, circa l’anno 487, fu fatto prigioniero di guerra da Livio Salinatore, il quale, avvisatone l’ingegno e la perizia non meno nella lingua greca che nella latina, datogli il proprio nome l’affrancò e rese libero. Egli si diede tantosto ad imitare nella favella del Lazio i modelli della drammatica greca, forse altro non facendo che tradurli fedelmente, e compose buon numero di tragedie e commedie che rappresentate piacquero ed ebbero applausi, onde, come dice Tito Livio, grande fu in un tratto la turba degli imitatori. Il primo dramma latino adunque, se tragedia o commedia fosse non si sa, comparve sul teatro intorno all’anno 514, e di qui comincia la storia letteraria di Roma. Così alle sature successe la favola, ovvero dramma regolare ed artifizioso, che a poco a poco ebbe il sopravvento, e sbandì, ad eccezione delle atellane sì care al popolo romano, ogni altro genere di teatrali composizioni. Allora, come dice Orazio (Ep. lib. II, 1, v. 162), il rozzo romano

..... post Punica bella quietus quaerere coepit
Quid Sophocles et Thespis et Aeschylus utile ferrent.
Tentavit quoque rem, si digne vertere posset,
Et placuit sibi natura sublimis et acer;
Nam spirat tragicum satis et feliciter audet,
Sed turpem putat inscite, metuitque lituram.

Onde si può arguire, che e Livio Andronico dèsse più tragedie che commedie, ed i Romani dapprima più a quelle che a queste volgessero l’animo, come più consentanee all’indole loro fiera ed armigera, ed anche ci riuscissero meglio, e le loro composizioni spirassero veramente sentimento tragico, e di invenzione fossero ricche e di felici ardimenti, tanto più che nella tragedia s’offrivano loro da trattare soggetti ed argomenti di storia patria e domestica; al che allude Orazio dove loda i suoi d’aver abbandonato le greche vestigia e celebrati domestici fatti (ad Pis., v. 285):

Nil intentatum nostri liquere poetae,
Nec minimum meruere decus, vestigia graeca
Ausi deserere et celebrare domestica facta,
Vel qui praetextas vel qui docuere togatas;

laddove la vita, qual la menavano i Romani negli antichi tempi, seria ed attesa o alla milizia o alle pubbliche cure, pochi soggetti forniva al genere comico, e per conseguenza assai meno in questo si abbandonarono le traccie dei Greci. Al che si aggiunge, che la lingua latina, nata, come si disse, al comando, fiera, vibrata, concisa e lontana dalla pieghevole morbidezza della greca, mentre poteva essere acconcia al tragico, e dargli agevolezza di esprimere il concetto con nobile ed eloquente dignità, mostravasi invece restìa alla bassezza del comico, e nell’allegra e festiva commedia diportavasi, per valermi d’una similitudine di Orazio (ib., v. 232): Ut festis matrona moveri iussa diebus – Intererit satyris paulum pudibunda protervis. Di che Quintiliano (l. X, 1) la mancanza di buone commedie attribuisce appunto all’indole della lingua, la qual non forniva quella venere a’ soli attici concessa: Sermo ipse romanus mihi non recipere videtur illam solis atticis concessam venerem, quando eam ne Graeci quidem in alio genere linguae obtinuerunt. Che più della commedia fosse coltivata la tragedia è dimostrato ancora dal noverarsi da Livio Andronico fino ad Accio, cioè dal 514 al 660, centodiciannove tragedie, delle quali quindici appartenevano a Livio, ventisei ad Ennio, nove a Nevio, diciassette a Pacuvio, cinquantadue ad Accio. Che se i Latini non valsero gran fatto neanche nella tragedia, sebbene molti vi applicassero indefessamente, ciò deve riferirsi alla poca stima e quasi non dissi al dispregio che quel popolo guerriero faceva de’ poeti, e massime de’ teatrali, ed alla severità onde li colpiva la legge, poichè, dice Cicerone: Quum artem ludicram scenamque totam probro ducerent, genus id hominum non modo honore civium reliquorum carere, sed etiam tribu moveri notatione censoria voluerunt , ed ancora, come avverte Orazio, al poco uso che fecero i Romani della lima, contentandosi essi, direbbesi, de’ primi sbozzi, e non si curando di condurli coll’assiduo ed accurato lavoro a perfezione: sed turpem putat inscite metuitque lituram , ed altrove dice espressamente, che non meno illustre nella lingua e nell’eloquenza che nelle armi sarebbe il Lazio, si non offenderet unum – quemque pöetarum limae labor et mora (ad Pis., v. 290).

Tornando ora a Livio Andronico, è da sapere che come i suoi componimenti drammatici erano imitazione, od anzi meglio traduzione degli originali greci, così ancora dal greco tolse ad imitare la rappresentazione, e il poeta stesso faceva da attore. Al qual proposito Tito Livio (lib. VII, c. 2) racconta che Andronico pel frequente e lungo recitare essendo arrochito, si prese un giovane che accompagnato dal flautista davanti a lui cantasse il cantico, mentr’egli, non distratto dal badare alla modulazione della voce, faceva con maggior naturalezza e vigoria i gesti al canto corrispondenti, ed a sè riservò il dialogo o diverbio (la quale usanza fu poscia adottata per sempre dagl’istrioni, ond’è che trovasi a volte tra i personaggi delle commedie di Plauto anche il cantore): Suorum carminum auctor dicitur (Livius) cum saepe revocatus vocem obtudisset, venia petita, puerum ad canendum ante tibicinem cum statuisset, canticum egisse aliquanto magis vigente motu, quia nihil vocis usus impediebat. Inde ad manum cantari histrionibus coeptum, diverbiaque tantum ipsorum voci relicta. Non so io qual buon effetto possa produrre negli spettatori il sentir uno cantare e veder l’altro che in vece di lui fa i gesti, e colle movenze accompagna la musica e dà l’espressione al canto; certo è almeno, che al gusto moderno un tal modo non potrebbe gradire.

Andronico compose buon numero di tragedie e di commedie, di alcune delle quali i titoli e pochi frammenti superstiti raccolse il Bothe. Le tragedie appartengono tutte a miti e fatti greci, come Achille, Egisto, Andromeda, Antiope, il Cavallo troiano, Elena, Teucro ecc. Così ancora le commedie sono tutte del genere delle palliate, cioè di modello greco, come Gladiolus, Lidia, Virgo, etc., ed erano composte nel metro greco senario. Per queste e per la sua versione latina dell’Odissea egli salì in grande fama ed ebbe segnalati onori: onde, come narra Tito Livio (l. XXVII, c. 37), avendo decretato i pontefici nell’anno 544 un sacro novendiale a placare gli Dei che con spaventosi portenti mostravansi irati ed infesti alla città, la cura di comporre il carme da cantarsi da un coro di vergini fu a lui commessa; ed essendo riuscita a bene l’espiazione, a Livio in premio, come si ha da Festo, fu assegnato il tempio di Minerva, perchè i poeti drammatici e gli istrioni vi recassero i doni e le offerte come a maestro insigne e benemerito dell’arte loro: Publice adtributa est in Aventino Aedis Minervae, in qua liceret scribis histrionibusque consistere, et dona ponere in honorem Livii, quia is et scribebat fabulas et agebat.

Egli dovette morire poco dopo: ma l’esempio suo fu fecondo, ed i suoi componimenti sopravvissero lungo tempo; anzi, come abbiamo da Orazio, si dettavano per le scuole a’ fanciulli che v’apprendessero la purità della lingua latina, nè solamente da pedanti, che d’ordinario ammirano e lodano gli antichi per deprimere e sfatare i moderni, ma eziandio da quell’Orbilio, cui Orazio chiamò plagosum per una qualche ruggine, ma che in realtà fu un grammatico dottissimo e tenne scuola rinomatissima e frequentata sotto il consolato di Cicerone, come si può vedere in Svetonio (De illustr. gramm., VI).

Senonchè l’Andronico, forse per la rozzezza della lingua allora nascente e non giunta per anche ad una forma determinata, e per i difetti d’uno stile incondito e per avventura non temperato dalla grazia e dal buon gusto, non andò molto a’ versi di Cicerone, il quale (Brut., XVIII) sentenziò che i suoi drammi non meritavano una seconda lettura: Livianae fabulae non satis dignae quae iterum legantur; nè ad Orazio, che forse il dovette aver preso in odio per le busse onde Orbilio ne accompagnava i versi. Ed in vero egli (Ep. II, 1, v. 69-75) sebbene professi di non voler perseguitare e dar di frego ai carmi di Andronico; nondimeno si maraviglia come per una parola elegante, per un verso alquanto accurato, che tra la molta scoria vi s’incontrano qua e là, il pedante iniuste totum ducit venditque poëma dandoci gl’intieri carmi per modelli di perfezione e di gentilezza, pulchraque et exactis minimum distantia.

Ma, non ostante il sentenziare di questi due maestri del buon gusto, il cui retto e sano giudizio era forse offuscato da qualche verghetta di fumo esalato dalla passione, poichè scrivevano per contrapporsi ai pedanti i quali non vedevano più in là dell’antico, e, come dice Orazio stesso, lividi odiavano i moderni e i loro scritti, a giudicare dai pochi frammenti che ci restano di Livio, se pur questi sono genuini ed autentici, si può credere che non fosser poi i drammi di lui sì irti, scapigliati e selvaggi, da meritare in tutto d’essere posti in oblio. Per esempio:

Et iam purpureo suras include cothurno
Balteus et revocet volucres in pectore sinus:
Pressaque iam gravida crepitent tibi terga pharetra:
Dirige odorisequos ad certa cubilia canes.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tu qui permensus ponti maria alta velivola
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Si malos imitabo, tum tu pretium pro noxa dabis
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tum autem lascivum Nerei simum pecus
Ludens ad tantum classem lustrat.

Del resto Orazio e Cicerone non biasimarono che la lingua e lo stile, a quanto pare, e l’aver essi taciuto dell’invenzione e della disposizione del dramma conferma vieppiù che Livio non abbia fatto che semplici versioni dal greco.

7. Gneo Nevio. – Sei anni dopo il primo dramma di Livio Andronico comparve in sul teatro romano un prode soldato Campano, il quale volle in sulla scena recare quell’impeto e quel fuoco che aveva dimostrato nelle puniche guerre, io voglio dire Gneo Nevio. Di fantasia fervida come tutti i meridionali, di genio satirico, di temperamento iroso, Nevio si provò intorno alla commedia antica dei Greci, e mirò a diventare l’Aristofane romano. Ma chi per poco consideri la costituzione repubblicana di Roma, la paragoni a quella di Atene, e ponga a riscontro la severa e dignitosa tempra dello spirito romano coll’indole leggiera e festevole ateniese, s’accorgerà leggermente che vano dovette riuscire il tentativo, e che non era possibile la commedia aristofanesca attecchisse ed allignasse in Roma. E infatti la repubblica romana era bensì amante della libertà quanto potesse essere l’ateniese; ma nello stesso tempo i consoli di quella, più che gli arconti di questa, erano gelosi della dignità dello Stato e del rispetto alle leggi, ai magistrati, al pubblico reggimento, nè avrebbero mai permesso che un poeta potesse loro sulla scena lanciare motti e vituperii impunemente. Il console, preceduto dai littori e circondato dalla maestà delle leggi, non era, chi avesse cara la vita, soggetto di riso e di scherno, ma di riverenza e di venerazione. Nè la religione, come presso i Greci, poteva mettere, a così dire, in franchigia i poeti comici, e del teatro fare un luogo di asilo; poichè essa, che in Grecia fu un sentimento intimo e potente non meno del popolo che dei dotti e dei filosofi, in Roma non fu che una mostra vana ed un cotal ritegno a frenare la plebe circense: chè del resto in petto ai governanti ed ai savii ed illuminati albergava la miscredenza e lo scetticismo, con cui essi le credenze popolari degli Dei e della vita futura volgevano in beffa e cuculiavano; il che conveniva all’indole romana tutta pratica e quasi materiale, mentre la mente speculativa ed acuta dei Greci spaziava nell’idealismo, e sulle ali del genio libravasi a voli sublimi. Quindi è che in Roma la satira politica non ebbe luogo; anzi, come si è veduto da un passo di Cicerone recato nella prima parte del mio scritto (p. 35), venne detestata come scandalosa e nociva al pubblico benessere, e Plauto nel prologo del Pseudolus dice a ragione, che chi cerca altro che giuochi, scherzi, riso, ebrietà nella commedia, si cerca la mala ventura:

Ubi lepos, ioci, risus, vinum ebrietas decent,
Gratia, decor, ilaritas atque delectatio,
Qui quaerit alia, is malum videtur quaerere.

E difatti Nevio che cercò altro, e volle, come si dice, por la bocca in cielo coll’assalir sulla scena pubblici personaggi, come p. e. i Metelli, n’ebbe in mercede prima il carcere, poscia l’esilio, e miseramente in Utica morì; esempio ai susseguenti del come dovessero trattare il dramma e diportarsi sul teatro.

Non è già per questo che talora il popolo e gli attori non volessero un tratto sfogare la bile e sputare il fiele ch’avevano in cuore contro i reggitori della cosa pubblica; ma, come scrive Cicerone ad Attico (II, 19), il facevano con allusioni coperte e velate e coll’applicare a maligno intendimento i versi che recitavansi in altro senso sulla scena, facendoli anche più fiate ripetere. Per es. avendo l’attore-Esopo detto, questi, versi:

Nostra miseria tu es magnus . . . . .
Tandem virtutem istam veniet tempus cum graviter gemes,
Si neque leges, neque mores cogunt . . . . .

il popolo li applicò a Pompeo, e l’attore, dice e Cicerone, millies coactus est dicere. Durante l’esilio di Cicerone recitandosi una tragedia di Accio, lo stesso Esopo applicò ai Romani quei versi in cui si rimprovera l’ingratitudine dei Greci per aver permesso l’esilio di Telamone, e voltosi al popolo con piglio commosso e con voce significante proruppe: O ingratifici Argivi, inanes Graii, immemores beneficii, – Exulare sivistis, sivistis pelli, pulsum patimini; in modo che trasse le lagrime a tutti gli spettatori. Così ancora ai tempi di Nerone un attore salutando il padre e la madre, il primo saluto accompagnò coll’atto di bere, il secondo coll’atto del nuotare, per alludere al genere di morte violenta dei genitori dello stesso Nerone, e pronunziando le parole: Orcus vobis ducit pedes, si volse ed accennò a’ senatori. Ma Nevio, imitando Aristofane, non cercò di ferire occultamente e per indiretto, bensì a viso scoperto si scagliò contro L. Cecilio Metello con quel verso: Fato Romae fiunt Metelli consules: a cui l’offeso di rimpatto: Dabunt malum Metelli Naevio poëtae; e non andò molto che gli attenne la promessa. Anche a P. Scipione appuntò lo strale, e gettò una macchia sulla fama e sui costumi di questo grande:

Etiam qui res magnas manu saepe gessit gloriose,
Cuius facta viva nunc vigent, qui apud gentes solus praestat,
Eum suus pater cum pallio uno ab amica abduxit.

di che, come si è detto, fu da’ triumviri chiuso in carcere, dove stette del tempo e compose le due commedie il Leonto e l’Ariolo, nelle quali avendo lodato coloro che prima aveva offesi, venne restituito alla libertà, cui per altro non godette a lungo, poichè ritornato in sull’antico vezzo di pungere e di mordere, fu mandato a confine, e morì in Utica l’anno 550.

Come s’avvantaggiasse nelle sue mani la commedia non si può giudicare con certezza, essendo di lui ogni cosa perita; ma se si guarda ai pochi frammenti rimastici, è da dire che alquanto più di Andronico ingentilisse la favella latina, e lo stile usasse più colto e più scelto, onde Ennio, come dice Cicerone, molto imparò da lui; alla qual cosa accennò egli stesso nel pomposo suo epitaffio conservatoci da Aulo Gellio, nel quale afferma, dopo la sua morte essersi dimenticato in Roma il latino idioma:

Mortaleis Immortaleis flere si foret fas,
Flerent divae Camoenae Naevium poëtam.
Itaque postquam est Orcio traditus thesauro,
Oblitei sunt Romae loquier latina lingua.

Nè mancò, a quanto pare, di sali e di facezia pronta ed arguta; chè studiando sui Greci, specialmente in Aristofane, ne potè attingere quella vena limpida ed abbondante di ridicolo e di motteggio, che è il tutto della comica poesia della quale poi sopra tutti i Latini fu Plauto ricchissimo; se non che e’ ne trasse anche quello scherzar inurbano e basso, proprio dei trecconi e della gente da trivio, forse per andar a’ versi della plebe, al modo che avevano fatto i Greci, come si può scorgere dai versi seguenti:

Quod editis nihil est, si vultis quod cacetis copia ’st
Est pedis unus ingens in naso.

Così noi vediamo la commedia latina da Livio Andronico a Nevio aver progredito rapidamente, e tentato anche l’antico genere attico, sebbene indarno, non per la mancanza o la debolezza del genio latino, ma per le condizioni dello stato e della repubblica, le quali, come si vedrà, incepparono anche il genere della commedia nuova, ed impedirono che la letteratura romana potesse vantare una commedia veramente originale e nazionale, qual senza dubbio sarebbesi avuta, chi consideri l’indole arguta e feconda di quel popolo, se gli ingegni si fosser lasciati liberi e degli aiuti opportuni sovvenuti. Infatti, dice il Bähr, i frammenti di Nevio, tutto che scarsi ed insignificanti, conservatici dai grammatici per riguardo della lingua, ci lasciano abbastanza intravvedere che nello scrivere commedie egli faceva prova di una più che comune originalità d’invenzione, e non perdeva di vista le condizioni ed i rapporti romani, anzi le ritraeva liberamente nelle sue composizioni; e dimostrano in modo incontrastabile la fecondità di questo nobile ingegno, il quale tentò già di dare titoli latini alle sue commedie. A Nevio Volcazio Sedigito in alcuni versi che si citeranno appresso, ne’ quali è come compendiata la storia lettararia della commedia latina, assegna il terzo luogo dopo Plauto e Cecilio Stazio: dein Naevius, qui servet pretium, tertiu ’st.

8. Ennio, Accio e Pacuvio. – Fiorirono dopo Nevio e chiusero il primo secolo della letteratura romana, sesto di Roma, Ennio, Accio e Pacuvio. Ennio di Rudia in Calabria, detto da Ovidio ingenio maximus, arte rudis, e da Quintiliano paragonato ad un sacro bosco, in cui i proceri tronchi degli alberi antichi non ispirano tanto bellezza quanto religione, delizia di Cicerone, e di Virgilio, che, al dir di Donato, ne sceglieva fra la mondiglia le perle, applicò alla tragedia, e la commedia sfiorò appena. Di lui come certo citasi soltanto il Pancratiastes: l’Amphithraso, l’Ambracia e l’Alcestis sono dubbie, come si può vedere nei frammenti raccolti dal Bothe. Se nella tragedia Ennio portò la forza e la rusticità militare, nella commedia, appunto per l’indole sua fiera e rozza, non dovette far bella prova, onde anche Volcazio gli assegnò fra i comici l’ultimo luogo, e non per merito, ma unicamente pel rispetto dell’antichità: Decimum addo causa antiquitatis Ennium.

Di Accio non dirò nulla, poichè sembra non ponesse mai mano alla commedia, consacratosi intieramente alla tragica Musa, nella quale colse palme ed allori, e meritò le lodi e gli encomii di Cicerone, che lo chiamò ora gravis et ingeniosus, ora summus poëta, e nelle Tusculane, lib. II, cap. 7, ne citò alcuni versi, e di Ovidio che lo chiamò animosique Accius oris , e gli attribuì un nome ed una fama immortale: Casurum nullo tempore nomen habet; sebbene Orazio, agli antichi in generale poco favorevole ed amico, per opposizione a’ pedanti, mettesse in un fascio Accio con Ennio come due abboracciatori ignari dell’arte, chiamando ironicamente nobili i loro trimetri, in cui riprendevali di non aver quasi mai serbato nella seconda, quarta e sesta sede il piede giambo, ma intrusovi lo spondeo, e fattili lenti e ponderosi (ad Pis., 258). Nerbo non comune, dice il Bähr, nella lingua, questa tuttavia non scevra d’alcune asperità, sublimità di pensieri, intelletto potente e dignitosi sentimenti, sono queste le qualità che in lui particolarmente brillarono.

Anche di Pacuvio Brundusino pittore e poeta, nipote di Ennio, non citansi più che tre o quattro commedie, come tutte le altre, perdute; il resto furono tragedie ch’egli tolse e rimpastò, secondo l’usanza, dalle greche di Sofocle, di Euripide e d’altri, quantunque con maggiore libertà e indipendenza che i suoi antecessori non avesser fatto, fino a mutarne totalmente l’intreccio. Azzio riconoscealo come maestro ed al suo giudizio sottoponeva le proprie tragedie; Cicerone per l’accuratezza del verso l’anteponeva ad Ennio, sebbene il riconoscesse non esente da durezze e da voci e locuzioni forastiere; e Quintiliano (l. X, 1, 97), lodatolo per la gravità delle sentenze, pel peso delle parole, per l’autorità delle persone, dice, che molti dando il pregio della forza ad Azzio, a Pacuvio attribuivano maggior dottrina. Nè Azzio, nè Pacuvio sono dal Sedigito annoverati tra i comici. Pacuvio negli ultimi anni della sua vita, abbandonata Roma, si ridusse in Taranto dove morì nonagenario l’anno 624; ma prima di morire, ad imitazione degli altri poeti, compose l’epitaffio pel suo sepolcro, il quale, per essere troppo più umile e modesto che non quelli di Nevio e di Ennio, merita d’essere qui riferito, anche come monumento della maggiore forbitezza ed eleganza della lingua latina:

Adolescens, tametsi properas, hoc te saxum rogat,
Uti se adspicias, deinde quod scriptum est legas.
Heic sunt poëtae Marcei Pacuviei sita
Ossa. Hoc volebam nescius ne esses. Vale.

A questo modo si chiude l’epoca prima della commedia latina, epoca di tentativi e di prove, che prepararono la via e disposero la materia ai susseguenti, i quali, ammaestrati e resi avvertiti dei difetti, lavorarono a ripulire e perfezionare que’ sbozzi informi appena sgrossati, e quantunque, per le ragioni già innanzi esposte, non assurgessero a creare una commedia in tutto originale, pure alquanto più e felicemente s’allargarono, specialmente Plauto, dalla imitazione greca, e bellamente seppervi inserire i costumi romani e nazionali.

Ma prima di parlare dei due maestri del dramma romano, Plauto e Terenzio, conviene premettere alcune brevi notizie intorno ai varii generi e nomi della commedia presso i Romani, quali ci furono dati dagli antichi grammatici ed eruditi, e specialmente da Donato.

9. Varie sorti di commedie appo i latini. – Due furono i generi principali della commedia latina, cioè la commedia palliata e la togata . Nella palliata, la qual così chiamasi dal pallio che vestivano gli attori alla foggia greca, il soggetto ed i personaggi erano greci, e la scena supponevasi in Atene od in altra città della Grecia; e poichè era quasi l’unico vero dramma che si usasse, chiamavasi anche solamente commedia : quindi essa non era altro che o una traduzione o tutt’al più una imitazione della commedia nuova di Menandro e di Filemone; ed a questo genere appartengono quasi tutte le commedie di Plauto e quelle di Terenzio. Nella togata invece, così detta dalla toga romana che vestivano gli attori, si rappresentavano soggetti, personaggi e costumi romani: a questa appartiene altresì quella che si chiamò trabeata, inventata da un tal Melisso liberto di Mecenate e ispettore della biblioteca Ottaviana, nella quale figuravano i più alti e distinti personaggi della nobiltà romana vestiti della trabea, abito proprio dei cavalieri; per il che rendesi oscuro e difficile ad intendere, non rimanendone più traccia alcuna, come convenisse e s’adattasse al comico tanta nobiltà e dignità di personaggi: forse dovett’essere qualche spettacolo privato a cui intervenissero, esclusa la plebe, i soli nobili.

S’aggiunga a queste la commedia Rintonica, detta anche Ilarotragedia o Tragicommedia, di cui si fa inventore un certo Rintone; della quale l’Anfitrione di Plauto può fornirci un qualche esempio. In essa toglievasi a parodiare l’azione ed i caratteri austeri della tragedia, gli Dei e gli eroi mettendo in canzone, ed eccitando il riso col vivo contrasto del serio e del ridicolo, nel che ebbe forse alcuna relazione colla commedia mezzana dei Greci, quantunque ne fosse escluso ogni intendimento satirico e maligno che potesse offendere chicchessia. Alla Rintonica risponde negli oppositi la Tabernaria, nella quale introducevansi le persone della plebe minuta, e vi si usava conseguentemente il linguaggio della bettola e del trivio. Orazio ne fa menzione dove dice (Pis., 228), sconvenire che l’attore il quale prima rappresentò una tragedia, regali conspectus in auro nuper et ostro, passi poi dopo alla tabernaria distruggendo così il primo effetto, migret in obscuras humili sermone tabernas. Questi erano quei drammi che andavano a genio al volgo, il quale sempre si diletta di veder ritratti i proprii vizii, la bassezza dei sentimenti, l’oscenità dei motti e la scorrettezza del parlare; ma spiacevano alla gente civile ed ai facoltosi, come dice Orazio (ibid., 249):

Offenduntur enim, quibus est equus et pater et res,
Nec si quid fricti ciceris probat et nucis emptor,
Aequis accipiunt animis, donantve corona.

Del genere delle tabernarie erano sottosopra le Planipedie, così nomate perchè si recitavano od a piè nudi, oppure sopra il solo pavimento senza palco alcuno, ed avevano qualche affinità coi Mimi, colla differenza tuttavia che questi versavano intorno a soggetti greci, quelle invece non uscivano dai costumi e dai caratteri romani. Delle Atellane si è già parlato, dei Mimi e dei Pantomimi si discorrerà in seguito.

Quanto al tenore ed alla forma del dramma, ed al modo di condurre e di svolgere l’azione e l’intreccio, le commedie romane dividevansi in statarie, motorie e miste; nelle prime all’azione e al movimento prevaleva il dialogo, ed a questo genere apparterrebbero l’Asinaria di Plauto e l’Ecira di Terenzio; le motorie erano il rovescio, e le miste abbracciavano l’un modo e l’altro, e per conseguenza erano di maggior brio adorne e di maggiore vivacità, come per es. l’Eunuco di Terenzio.

Non ostante tutte queste divisioni, non è però da credere che fossero sì certi i confini e sì scrupolosamente definiti e mantenuti tra i diversi generi, che i personaggi, i caratteri e i costumi dell’uno non passassero anche negli altri, perchè in questo caso non sarebbe stato possibile un vero intreccio ed un convenevole sviluppo, e del tutto sarebbero stati tolti i contrasti, fonte la più feconda del ridicolo e delle situazioni comiche. Devesi dunque intendere e ritenere che le varie denominazioni si riferiscono alla parte principale del soggetto ed ai personaggi dominanti nel dramma, lasciando tuttavia al poeta una cotal larghezza e libertà di accozzare, secondo che gli torni, i caratteri e le proprietà distinte di questo o di quel genere.

10. Delle parti onde componesi la commedia latina. – La commedia latina, come si è già avvertito a proposito della nuova greca, non ebbe il coro e quindi nè anche la parabasi, ma a questa supplì col prologo, a quello col cantico.

Il prologo in capo alla commedia veniva recitato o dallo stesso poeta, o da un altro camuffato e mascherato da vecchio a nome di lui; talora anche da qualcheduno degli attori stessi, come si vede nel prologo 2° dell’Ecira di Terenzio, recitato da uno de’ primi attori, L. Ambivio Turpione, per aver buona udienza e guadagnar favore al poeta. Nel prologo generalmente il poeta parlava di sè e de’ suoi drammi, difendendosi dalle imputazioni e dalle accuse che gli venissero apposte, come si può vedere in Terenzio, il quale in quasi tutti si lamenta di quel vecchio poeta Luscio Lanuvino o Lavinio, che andava sfatando le cose di lui mano mano che uscissero fuori, e si purga di que’ vizii che gli venivano affibbiati, come di essere un copiatore ed un plagiario. A volte anche vi s’annunziava l’argomento della favola, come nel prologo dei Captivi di Plauto, ovvero vi si alludeva con poche parole, avvisando gli spettatori di badare alla prima scena, onde avrebbero raccolto il costrutto della commedia; si raccomandava poi l’attenzione ed il silenzio, e pregavasi il popolo di prestar favore e benevolenza al poeta per dargli animo e coraggio a far più e meglio. Tanto erano usate nel prologo le accuse e le difese del poeta, che Terenzio in quello del Formione si fa questa obbiezione, che se il Lanuvino pel primo non lo mordesse e non sparlasse di lui, egli non troverebbe materia a scriver prologhi:

Vetus si poëta non lacessisset prior
Nullum invenire prologum potuisset novus,
Quem diceret, nisi haberet cui malediceret.

La commedia poi constava, secondo il costume introdotto da Livio Andronico, di soliloquii e diverbii, vale a dire monologhi e dialoghi, e di cantici, quelli recitati dagli istrioni, questi cantati a suono di tibia o flauto dal cantore e dagl’istrioni accompagnati col gesto. Il cantico, che faceva le veci del coro greco, aveva luogo tra un atto e l’altro e serviva a maggior varietà dello spettacolo; ond’è che gli si dava una grande importanza, come si può vedere dalle didascalie che ci rimangono, in cui è diligentemente registrato il nome del musico che compose i modi, ossia i suoni, e la qualità delle tibie che li accompagnarono: p. e. nella didascalia dell’Andria di Terenzio: Modos fecit Flaccus Claudii, tibiis paribus dextris et sinistris, e così nell’altre.

11. Delle specie varie di ludi presso i Romani. – Le rappresentazioni drammatiche curate e dirette dagli Edili curuli, a cui i poeti comici presentavano a concorso le loro composizioni e ne ricevevano denaro in premio secondo il merito, si facevano in occasione delle varie specie di Ludi o giuochi usati in Roma. I più antichi furono i così detti Circenses o Magni Circenses perchè si facevano nel Circo, prima chiamati Consualia per essere sacri a Conso, lo stesso forse che Nettuno equestre, dio degli arcani consigli, ed ordinati da Romolo a perpetuar la memoria del ratto delle Sabine. Altri introdotti verso il 560, dopo la seconda guerra punica, erano i Megalensi , istituiti a ricordare l’ingresso solenne in Roma della madre Idea, nei quali, oltre al divertimento del teatro, solevano i cittadini convitarsi scambievolmente, e dal tramutarsi che facevano a cena qua e là chiamavano tale rito mutitare; questi giuochi ci sono descritti da Ovidio, ed in essi fu rappresentata, come si vede dalla didascalia, l’Andria di Terenzio.

Anche a’ giuochi Apollinari, Funebri e Plebei, si rappresentavano le commedie, come leggesi in più luoghi di Livio.

Gli Apollinari, com’egli narra (lib. XXV, cap. 12), vennero per senatusconsulto ordinati ad ottenere la vittoria nella seconda guerra punica, perchè, secondo la profezia contenuta nei carmi di Marzio, allora i Romani avrebbero vinto e sarebbero stati in perpetuo felici, quando avessero decretato votivi giuochi annuali in onore di Apollo: Hostem Romani, si ex agro pellere vultis, vomicamque, quae gentium venit longe, Apollini vovendos censeo ludos, qui quotannis comiter Apollini fiant etc. Haec, conchiude lo storico romano, est origo ludorum Apollinarium, victoriae non valetudinis ergo, ut plerique rentur, votorum; factosque populus coronatus spectavit; matronae supplicavere; vulgo apertis ianuis in propatulo epulati sunt, celeberque dies omni ceremoniarum genere fuit.

I giuochi Funebri furono in uso da antichissimo tempo presso i Greci, ed Omero nel XXIII dell’Iliade descrive quelli fatti in onore di Patroclo, onde Virgilio nel Libro V dell’Eneide imitò i suoi in onore di Anchise; consistevano presso i Romani in lotte, in corse ed in spettacoli scenici; solo più tardi, quando la degenere virtù piegava a lascivie e barbarie crudeli, vi si aggiunsero i duelli de’ gladiatori e vi si mescolò il sangue de’ miseri schiavi. A differenza degli altri, i giuochi funebri erano ordinati e regolati non dagli edili, ma dai parenti o dagli amici del defunto, alla cui memoria si celebravano.

I Plebei erano istituiti a perpetuar la ricordanza della cacciata dei re e della stabilita repubblica, oppure, quello che è più verisimile, a festeggiare l’accordo fatto da Menenio Agrippa in sul monte sacro tra la nobiltà e la plebe, ed anche in essi co’ sacrifizii espiatorii e co’ lauti banchetti avevan luogo gli spettacoli teatrali.

12. Forma, del teatro. – Della forma del teatro si parlò trattando della commedia dei Greci, e non sarebbe quasi necessario aggiunger altro, poichè come i drammi, così ancora l’architettura e la costruzione del teatro i Romani tolsero a’ Greci con poche differenze; tuttavia ne darò così in compendio qualche notizia più particolareggiata.

Da principio i Romani, e per lungo tempo, non ebbero un teatro stabile; in modo che le commedie di Plauto e di Terenzio si rappresentarono, viventi gli autori, su teatri posticci di legno. Pareva all’austera natura de’ consoli e magistrati romani, che siffatti spettacoli ammollissero gli animi e soffocassero i generosi spiriti marziali, e quindi assai di mala voglia si conducevano a permetterli, avvertendo per altro, che dentro la città e ad un miglio da essa il teatro fosse così disposto che niuno si potesse sedere, affinchè, come dice Valerio Massimo (l. II, 4), stando in piedi anche in cotali passatempi dimostrassero la virilità e la robustezza del popolo romano; ed ordinando che terminati gli spettacoli, l’edifizio fosse disfatto ed ogni traccia ne scomparisse. Così anche il magnifico teatro innalzato da Scauro, celebre per la vastità poichè capiva ottantamila persone, per le trecentosessanta colonne e per le tremila statue, dopo un mese di durata fu tolto di mezzo. Il Circo, come più tardi l’Anfiteatro servirono anche ai ludi scenici, nel mezzo dell’arena innalzandosi temporaneamente il palco. Il primo teatro stabile in pietra fu nell’anno 699, dopo la guerra Mitridatica, edificato da Pompeo Magno, e nel 741 comparvero gli altri sontuosissimi di Balbo e di Marcello. Questi teatri ebbero in tutto la forma e la struttura greca, colla differenza che l’orchestra, non dovendo servire al coro, fu più ristretta, e venne destinata ai senatori dagli edili Serrano e Scribonio al tempo di Scipione Africano. Vicino al teatro era l’Odeo, propriamente destinato a’ soli trattenimenti musici, in cui si facevano dagli attori le prove dei drammi prima di esporli sul teatro, e dove il popolo si ritirava al coperto quando per la pioggia si dovesse interrompere lo spettacolo; al quale scopo erano altresì costruiti dietro la scena ampii portici ed androni, come si ha da Vitruvio: Post scenam porticus sunt constituendae, ubi, cum imbres repente ludos interpellaverint, habeat populus quo se recipiat ex theatro (l. V, 9). A riparare dal sole gli spettatori (cosa non usata dai Greci), si provvide dapprima con ombrelle e con cappelli dalla larga tesa; ma in seguito Q. Catulo, cresciuti il lusso e la mollezza, fe’ distendere su tutta l’ampiezza della cavea un velo grandissimo (velarium) di lana, che poi si fece di seta a varii colori, e più tardi fu anche trapunto in oro, il quale con macchine ingegnose, con funi e con antenne era sostenuto. Tenui e sottili pioggie di acque odorate dall’alto spandevansi sugli spettatori, e sul palco si mettevano fiori ed erbe aromatiche in modo che l’aria n’era imbalsamata, e i grati effluvii appagavano la molle delicatura romana. Che cosa n’avrebber detto Porzio Catone e quegli antichi consoli e dittatori or sull’aratro, or sotto l’acciaro fumanti di sudore? Le decorazioni della scena erano ricche e splendide, conciossiachè la pittura e la scultura vi ponevano tutto il loro ingegno e la massima accuratezza; e sì perfetta era la imitazione del vero, che, come narra Plinio, ai giuochi di Claudio Pulcro, i corvi, ingannati dai tegoli dipinti, volarono per andarvisi a posare sopra: ad tegulorum similitudinem corvi decepti imagine advolarunt (Hist. nat., XXXV, 6). La scena era vastissima e poteva rappresentare ad un tempo varie vedute, di modo che potesse parere verisimile quello che spesso incontrasi in Plauto ed in Terenzio di attori che parlano senza vedersi, o si cercano l’un l’altro senza trovarsi, o chiamati non riconoscono alla prima chi li chiama. Per la vastità ancora del teatro, a rinforzare la voce degli attori, oltre la maschera, erano, come s’è altrove notato, collocati in varii punti con legge matematica vasi di bronzo detti grecamente ἠχεῖα, la cui disposizione è così descritta da Vitruvio (l. I, 1): In theatris vasa aerea (quae in cellis sub gradibus mathematica ratione collocantur, et sonituum discrimine) quae Graeci ἠχεῖα vocant, ad symphonias musicas sive concentus componuntur divisa circinatione in diatessaron et diapente et diapason; uti vox scenici sonitus conveniens in dispositionibus, tactu cum offenderit, aucta cum incremento, clarior et suavior ad spectatorum perveniat aures: dalle quali parole si scorge, che non pure tali vasi rafforzavano la voce, ma l’ordinavano in accordi musici, in guisa che non solo più chiara, ma altresì più soave la trasmettevano alle orecchie degli spettatori.

Delle maschere si è già parlato; qui si può aggiungere che rappresentavano figure sì brutte e sì deformi, e con bocche sì spalancate da metter paura ai fanciulli, come dice Giovenale: personae pallentis hiatum – In gremio matris formidat rusticus infans. Il Volff intese di dimostrare, che solo verso il 650 di Roma furono da Roscio introdotte le maschere, e stimò che alla fine del dramma gli attori se la togliessero ritornando in sulla scena a dire il plaudite agli spettatori; ma probabilmente Roscio non fece che perfezionarla e compierla, poichè già prima nelle atellane usavansi certi berretti nominati galeri, di varia forma e colore, i quali in qualche modo, forse con una specie di celata o di visiera, coprivano il viso e facevano le veci d’una vera maschera; e sembra che il plaudite fosse detto non dagli attori, ma dal cantore; poichè nelle commedie di Plauto è posto in bocca a quest’ultimo.

13. Del vestiario. – Del vestiario ed abbigliamento degli attori romani discorre festevolmente il Bindi così: «Primieramente è da avvertire, che gli eroi nel concetto degli antichi dovevano essere omaccioni grandi e grossi due tanti più che il volgo degli uomini. Ma poichè la stampa degli eroi era finita anco allora da un pezzo, e dovendoli rappresentare nella tragedia, era pur forza servirsi degli omicciatti moderni; però pensarono supplire la natura coll’arte. Di che, oltre ad appiccar loro quelle gran teste, che ho dette di sopra (le maschere), gli rimpinzavano con batuffoli, gli avvolgevano in gran manti collo strascico (syrma) e gli calzavano con un paio di zoccoli sì eminenti (cothurni), che un buon terzo dell’eroe restava di sughero.

«Anche gli eroi della commedia, sebbene vulgari, pur sempre eroi, dovevano almeno un tantino alzarsi dalla comunale statura; e perciò avevano anch’essi i loro zoccoli proporzionati (socci). Oltrecchè alla sveltezza delle faccende domestiche sarebbero stati d’impaccio que’ trampoli, che ottimamente valevano a rialzare le tragiche ire (Ovid., Rem. am., 375):

Grande sonant tragici: tragicos decet ira cothurnos:
Usibus et mediis soccus habendus erit.

«Variava il vestito secondo la condizione, l’età, il paese, l’indole e il mestiere de’ personaggi. I servi, ad essere spediti nel correre di su e di giù, portavano una tunichella corta ed angusta. Un messo vedeasi in gabbano e tabarro (penala); un marinaro coprivasi d’un cappello a teglia (causia) color di ruggine, e d’un mantelletto dello stesso colore. Il soldato compariva in sago e spada, e talvolta colla clamide di porpora. Un parassito col mantello tirato in su e avvoltato, come colui che era sempre in faccende per andare in busca di cene, o a correre pel signore a far la spesa in mercato; officio che davasi sempre a siffatta gente, che bene intendeasi del buono. La gentucola del popolo usciva in farsetto (tunicatus popellus). Il servo furbo trincato, che con sue gherminelle tirava a capo un paio di nozze a dispetto del padron vecchio, aveva per lo più il gonnelletto o giubberello bianco (tunica alba), mentre l’infame lenone, e gli stava bene, lo portava nero (pullatus). I giovinotti poi vestivano secondo il vento e secondo la luna, di bianco i lieti, alla sciatta i mesti, di porpora i ricchi, i poveri di bigello (tunica punicea). Era anche in uso per la scena una specie di tunica appellata (exomide) con una manica sola; ma per ordinario era affatto smanicata. E tal sorta di vestiture dicevansi anche encombomata. I servi le portavano bianche succinte a’ fianchi con legaccioli: i giovanotti ricamate, i vecchi brune. La casacca, la pelliccia e il pedo o vincastro erano l’arnese dei villani. Le donne portavano la crocota, veste di color giallo fine e di gala. Ma questa era una moda greca. Le donne romane mettevansi il ricinium, veste quadrata, cioè di due pezzi quadri, che scendevano dinnanzi e di dietro come nelle tonacelle dei diaconi. Ma l’usavano anche i mimi, che però dicevansi riciniati. Si osservavano pure le foggie dei paesi. Un Africano vedevasi in toga manicata e sciolta e cogli orecchini: un Frigio colla mitrietta (mitella) in capo, benda con legaccioli e toga come l’Africano. Solenne ai Greci il pallio; ai Romani la toga».

14. La musica, la danza, gli attori. – La musica del teatro consisteva unicamente nella tibia, la quale dava l’intonazione (incentivum), ed accompagnava il canto dei versi (succentivum), dapprima semplice, ad un solo e piccolo forame, quale la descrive Orazio e come ho già detto (p. 4), e poscia man mano perfezionata fino ad essere avvolta in oricalco ed avere tre chiavi o linguette inventate dal tebano Pronomo flautista. Ma Orazio a’ suoi tempi lagnavasi già dell’affettata esagerazione in cui, in un colla drammatica poesia, era caduta la musica, effetto ed indizio della maggiore licenza introdottasi nel vivere e nei costumi (Pis., 203); poichè allora solo accessit numerisque modisque licentia maior, quando coepit agros extendere victor et urbem – Latior amplecti murus vinoque diurno – Placari genius festis impune diebus. In una nota precedente, a proposito della didascalia dell’Andria di Terenzio, si è già detto che cosa s’intendesse per tibie pari ed impari, destre e sinistre; cui si può aggiungere ciò che spiegando Plinio e Teofrasto ne discorre il Bindi: «Questi due naturalisti, parlando della canna auletica, dicono che di essa si fanno le tibie, cioè le tibie destre di quella parte che è, dice Teofrasto, πρὸς τοὺς βλαστούς, ossia quae cacumen antecedit, come spiega Plinio; le tibie sinistre di quell’altra che è πρὸς τῇ ῥίζῃ, ossia quae radicem antecedit, secondo l’interpretazione dello stesso scrittore. Secondo queste autorità, le destre si sarebber fatte della punta della canna, e le sinistre del pedale. Come poi la canna più sottile, qual è nella punta, potesse avere un suono grave; e quella più grossa presso il piede, acuto, altri sel vegga. Per me penso che il πρὸς di Teofrasto e l’antecedit di Plinio non sieno stati intesi a dovere; e tengo per fermo che antecedit radicem voglia significare: est contra radicem, cioè nel lato opposto alla radice, ossia nella punta; come cacumen antecedit sia quanto contra cacumen, cioè nel lato opposto alla punta, ossia nel pedale. Anche le parole di Teofrasto si acconciano benissimo a questa interpretazione. Infatti che la frase πρὸς τοὺς βλαστούς (presso a’ germogli) significhi la parte inferiore della canna dove spuntano i germogli, non v’ha dubbio. E se così è, πρὸς τῇ ῥίζῃ non potrà voler dire prope o apud radicem; ma praeter, adversus, contra radicem; nel lato opposto alla radice, cioè nella punta. nèπρὸς col dativo rigetta tale significato».

Alla musica talvolta congiungevasi anche la danza, poichè, come si è veduto parlando di Livio Andronico, l’istrione che accompagnava col gesto il cantore, probabilmente muovevasi e volteggiava in danza seguendo e secondando le cadenze musiche del canto, e come fecero dopo i pantomimi colla gesticolazione e colla mimica, esprimeva alla muta il senso di ciò che si cantava; conciossiachè altrimenti, stando l’istrione fermo in un luogo a gestire colle sole mani, ed un altro cantando, non si può intendere come negli spettatori si producesse una grata e piacevole illusione. Quanto alla natura dei cantici usati ancora nella tragedia, secondo il Volff, e nelle atellane, il Volff stesso fece diligenti e minute ricerche circa i caratteri ed alle proprietà onde distinguevansi dai monologhi e soliloquii, e s’ingegnò di trovare e noverare i cantici nelle superstiti commedie di Plauto e di Terenzio; ma la cosa intenebrata da tanti secoli, riesce oscura e difficile a concepirsi, e nella scarsezza e penuria di notizie non si può uscire dalla conghiettura.

Gli attori erano già fin d’allora ordinati in compagnie chiamate greges, con a capo un impresario o direttore detto imperator histricus , il quale dagli Edili riceveva il dramma e l’incarico di rappresentarlo, oppure, come si usò in appresso, avuta dagli Edili la commissione, sceglieva egli stesso il poeta e contrattava con lui, togliendo sopra di sè tutto il carico. Così l’Ecira di Terenzio, come si vede dal prologo II, venduta la prima volta agli Edili, ed andata a monte per i tumulti e i fracassi della cavea, la seconda fu compra dal capo comico L. Ambivio ed a suo carico rappresentata: i rinomati Roscio ed Esopo erano primi attori e direttori di compagnie. Di Esopo dice Macrobio, che tanto guadagnò sull’arte mimica, da lasciare al figliuolo, morendo, un asse ereditario di venti milioni di sesterzii.

15. Gli spettatori. – Quanto agli spettatori è da notare che se per i Greci è dubbio intervenissero o no le donne alle commedie, per i Latini è certo che v’assistevano, ed anche le gravi matrone vi pigliavano parte, come si può vedere nel prologo del Poenulus di Plauto, in cui sono così scherzevolmente ammonite:

Matronae tacitae spectent, tacitae rideant,
Canora hic voce sua tinnire temperent:
Domum sermones fabulandi conferant,
Ne et hic viris sint et domi molestiae.

Dapprima l’ingresso al teatro, come presso i Greci, era gratuito; ma in seguito col lusso e la magnificenza delle decorazioni e degli ornamenti cresciute ed aumentate le spese si obbligò il popolo a contribuire col pagar l’entrata, e a prezzo di danaro gli si dava il biglietto, tessera theatralis. Una di queste tessere per la rappresentazione della Casina di Plauto, la quale dovette precedere di poco la distruzione di Pompei avvenuta l’anno 79 dopo l’era volgare, fu negli scavi di questa città rinvenuta. Gli spettatori poi erano spesso inquieti e chiassosi in modo da disturbare e troncare anche a mezzo la rappresentazione. Orazio dice che la voce degli attori ai suoi tempi si perdeva nel frastuono della cavea, cui paragona al muggire del bosco Gargano, o del tosco mare (Ep., lib. II, 1, 200):

. . . . . . . . . Nam quae pervincere voces
Evaluere sonum, referunt quem nostra theatra?
Garganum mugire putes nemus aut mare Tuscum,
Tanto cum strepitu ludi spectantur et artes,
Divitiaeque peregrinae.

Nè più al dramma si badava, ma alla pompa del vestiario degli attori, onde loro s’applaudiva prima ancora ch’avesser favellato (Ibid., 204):

. . . . . . . . . . . . . . . . . Actor
Cum stetit in scena, concurrit dextra laevae.
Dixit adhuc aliquid? Nil sane.Quid placet ergo?
Lana Tarentino violas imitata veneno,

e si voleva le sontuose decorazioni della scena, e gli splendidi apparati, il palco ingombro di gente, di cavalli, perfino di navi, e sul più bello dello spettacolo, se tale era che piacesse ai cavalieri ed alle persone colte, la plebe levavasi su a far romore e domandare con un rombazzo da stordire orsi, leoni e lottatori (Ibid., 185):

Si discordet eques, media inter carmina poscunt
Aut ursum aut pugiles; his nam plebecula gaudet.
Verum equitis quoque jam migravit ab aure voluptas
Omnis, ad incertos oculos et gaudia vana.
Quattuor aut plures aulaea premuntur in horas,
Dum fugiunt equitum turmae peditumque catervae;
Mox trahitur manibus regum fortuna retortis,
Esseda festinant, pilenta, petorrita, naves,
Captivum portatur ebur, captiva Corinthus.

Anche Cicerone scrivendo a Marco Mario, e descrivendogli gli spettacoli e i giuochi celebrati da Pompeo console per la seconda volta, nella dedicazione del teatro da lui fabbricato, in cui s’era rappresentata la Clitennestra di Accio, parla di tali esorbitanze, e riprova il pessimo gusto del popolo: Quid tibi ego alia narrem? Nosti enim reliquos ludos. Quid? Ne id quidem leporis habuerunt, quod solent mediocres ludi. Apparatus enim spectatio tollebat omnem hilaritatem: quo quidem apparatu non dubito, quin animo aequissimo carueris. Quid enim delectationis habent sexcenti muli in Clytennestra?aut in Equo trojano craterarum tria millia, aut armatura varia peditatus et equitatus, ut in aliqua pugna? Quae popularem admirationem habuerunt, delectationem tibi nullam attulissent .

Usava anche allora di parteggiare per questo e per quell’attore, e talvolta deprimere i buoni esaltando i mediocri e i dappoco, come si vede da Plauto, che raccomanda ai così detti procuratores ab scena di badare e sorvegliare cosiffatto abuso:

Quodque ad ludorum curatores attinet,
Ne palma detur cuiquam artifici iniuria,
Neve ambitionis caussa extrudantur foras,
Quo deteriores anteponantur bonis.

A queste fazioni teatrali accenna altresì Tacito parlando d’un tal Percennio gregario che dal mescere tresche teatrali aveva imparato ed era atto ad accendere e suscitare sedizioni militari: Erat in castris Percennius quidam, dux olim theatralium operarum, dein gregarius miles, procax lingua, et miscere coetus histrionali studio doctus . Quando poi gli attori portasser male la loro parte, erano, come adesso, messi ai fischi, explodebantur; ed obbligati a deporre la maschera venivano caricati d’ingiurie e di villanie: Histrio, dice Tullio, si paulum se movit extra numerum exsibilatur et exploditur . . . non modo sibilis sed etiam convicio; quando, come attesta Svetonio, non fosser pezzi di scanni lanciati contro loro e sassate.

16. Passione entrata nei Romani pel teatro. – Il denaro che si sprecò in Roma nei giuochi e negli spettacoli teatrali eguaglia, se forse non sorpassa, le ingenti spese che nei medesimi buttarono i Greci. Di questi già si è veduto come al teatro volgessero l’erario destinato alla tutela della libertà, e Plutarco scrisse che le spese fatte per la rappresentazione delle Baccanti, delle Fenicie, degli Edipi, delle Antigoni, delle Medee, delle Elettre di Sofocle e di Euripide superavano quelle impiegate per la difesa della libertà contro i Barbari e per la salvezza della Grecia, e saviamente riprese tale spreco e gettito di danaro in cose sì frivole che egli a ragione chiama fanciullesche; ed i Romani vi consumavano gli immensi tesori dello Stato, e le ricche spoglie dei vinti. Ma ai Greci per questo lusso e per questa oziosa mollezza a cui s’erano abbandonati venne addosso la potenza Macedone, che li schiacciò sotto il suo giogo come dice Giustino (l. VI, c. 6): Quibus effectum est, ut inter otia Graecorum, sordidum et obscurum antea Macedonum nomen emergeret, et Philippus obses triennio Thebis habitus, Epaminondae et Pelopidae virtutibus eruditus, reguum Macedoniae, Graeciae et Asiae cervicibus, velut jugum servitutis imponeret; ed i Romani, perduta l’antica forza, snervati gli animi, cancellata la maestà della repubblica, diedero prima nelle civili discordie, poi nella sanguinaria tirannia di quei mostri che si chiamarono Tiberio, Nerone, Caligola, Eliogabalo, e prepararono il terreno ai barbari, dai quali finalmente ebbero l’ultima stretta. Onde è da conchiudere con Plutarco (ib.), che gli spettacoli ed i giuochi debbono essere giuochi e nulla più, nè è ragionevole comprare a tanto caro prezzo un lieve e corto divertimento. Conciossiachè, dice ancora il citato autore, se la prudenza di Temistocle cinse la città di mura, se il buon gusto e la magnificenza di Pericle l’abbellirono ed ornarono, se il generoso ardire di Milziade ne fortificò la libertà, e la condotta moderata di Cimone le assicurò l’impero ed il governo della Grecia, altrettanto non fecero la dotta poesia di Euripide, lo stile sublime di Sofocle, l’alto coturno di Eschilo, nè grandi vantaggi le procurarono nè grande gloria. Le quali parole del filosofo di Cheronea si devono per altro intendere con discrezione, nè si ha perciò a mettere in un fascio il buono e il cattivo, e per l’abuso riprendere e riprovare l’uso legittimo; poichè se i poeti greci non ingrandirono la città materialmente, la circondarono di tal gloria e di tale splendore che in tutto il mondo e per tutti i secoli si diffusero, onde i lor nomi non dureranno meno lontani di que’ di Temistocle e di Pericle.

17. Metro della commedia latina. – I metri che nella commedia latina si usarono furono i giambici senarii, come dice Orazio, parlando del giambo (ad Pis., 80):

Hunc socci cepere pedem grandesque cothurni
Alternis aptum sermonibus, et populares
Vincentem strepitus, et natum rebus agendis;

ma, come dice egli stesso più innanzi (v. 268 e seg.), guastarono e resero inetto questo metro col caricarlo ed aggravarlo di spondei non solo, ma al giambo ed allo spondeo usarono anche di sostituire i piedi isocroni, cioè quelli che hanno un tempo eguale od egual numero di battute; quindi invece del giambo per esempio, che è di una breve ed una lunga, e però di tre battute, la lunga quanto al tempo valendo due brevi, usarono il tribraco di tre brevi, ed invece dello spondeo di due lunghe, il dattilo che è di una lunga e due brevi, o l’anapesto di due brevi ed una lunga, e così via. Oltre che per ridurli alla giusta misura, conviene frastagliare e smozzicar le parole, e fare le sincopi più stravaganti, come dixe, produxe per dixisse e produxisse, sbi, fcit per sibi, fecit. Per essere così restii e ribelli alla misura i versi comici, pensarono alcuni che le commedie latine di Plauto e di Terenzio fossero scritte in prosa; e certo minimo, per non dir nullo, è il divario di cotali versi da essa; nè punto il sentiva Cicerone, a cui i senarii comici sapevano ben spesso di prosa: Comicorum senarii propter similitudinem sermonis sic saepe abjecti sunt, ut vix in his numeros et versus intelligi possit ; ed anche più che i versi comici trovava poetica la prosa di Demostene e di Platone: Itaque visum est nonnullis Platonis ac Demosthenis locutionem, etsi abest a versu, tamen quod incitatius feratur, et clarissimis verborum luminibus utatur, potius poema putandum, quam Comicorum poëtarum. Anzi nel libro dell’Oratore discorrendo dei numeri oratorii, e riprendendo come vizioso l’intromettere o lasciarsi uscir per inavvertenza dei versi nell’orazione, come talora suole avvenire, reputa quasi impossibile lo schivare i senarii appunto per la loro grande affinità colla prosa, nella quale abbondano: Incidere vero omnes (numeros) in orationem, etiam ex hoc intelligi potest, quod versus saepe in oratione per imprudentiam dicimus: quod vehementer est vitiosum; sed non attendimus, neque exaudimus nosmetipsos. Senarios vero et Hipponacteos effugere vix possumus: magnam enim partem ex jambis nostra constat oratio. Sed tamen eos versus facile agnoscit auditor; sunt enim usitatissimi ; e più sotto soggiunge: Jambus enim frequentissimus est in his, quae demisso et humili sermone dicuntur. A ciò si aggiunge che gli antichi manoscritti e le prime stampe di Plauto e di Terenzio recavano queste commedie non distribuite ed ordinate a versi, ma scritte di seguito come prosa. Tuttavia, dice il Bindi, che esse abbiano un metro, e che questo metro sia il giambico misto a quando a quando di trocaici, non pare che possa dubitarsene.

18. Inferiorità della commedia latina alla greca. – Ripeterò qui quello, che dissi già altra volta, essersi per questa ragione, oltre le altre, nella imitazione latina perduta gran parte della venustà, della grazia e dell’eleganza greca principalmente del pulitissimo e dolcissimo Menandro, e non potersi dalle superstiti imitazioni formare un retto ed adeguato giudizio dei perduti originali, conciossiachè non v’ha alcuno che ignori quanto vaglia e giovi a bellezza la forma, principalmente nelle composizioni drammatiche. Ed è principalmente per questo motivo e per la mancanza di forbitezza e del lavoro della lima, il quale secondo Orazio offendeva generalmente i poeti latini, che Quintiliano, innamorato della venere Attica contro la sentenza di Varrone, afferma i Romani quanto alla commedia essere zoppicanti: In comœdia maxime claudicamus: licet Varro Musas Ælii Stolonis sententia, Plautino dicat sermone locuturas fuisse, si latine loqui vellent: licet Caecilium veteres laudibus ferant, licet Terentii scripta ad Scipionem Africanum referantur ; ed altrove dice che i latini appena giungevano ad essere quasi un’ombra dei Greci. Che poi giudicasse in tal modo per riguardo più alla forma ed all’elocuzione, che all’invenzione ed alla sostanza, si scorge dal passo citato, in cui parla della lingua e del sermone Plautino, e da un altro già recato più sopra, in cui la mancanza di buone commedie attribuisce all’indole ed al carattere stesso della latina favella, che non aggiunge a pezza la pieghevole e copiosa bellezza della greca. Per la stessa ragione Aulo Gellio paragonando agli originali le imitazioni latine trovava queste, sebbene in sè belle e piacevoli, scadere di buon tratto al paraggio, ed oscurarsi come al sorgere del sole s’abbuiano le stelle. Ecco le sue parole: Comoedias lectitamus nostrorum poëtarum sumtas ac versas de Graecis, Menandro ac Posidippo, aut Apollodoro aut Alexide, et quibusdam item aliis comicis. Neque, cum legimus eas, nimium sane displicent; quin lepidae quoque et venustae scriptae videntur, prorsus ut melius posse fieri nihil censeas. Al enim si conferas et componas Graeca ipsa, unde illa venerunt, ac sinqula considerate atque apte junctis et alternis lectionibus committas, oppido quam jacere atque sorgere incipiunt quae latina sunt! ita Graecarum, quas aemulari nequiverunt, facetiis acque luminibus obsolescunt. Nuper adeo usus hujus rei nobis venit. Caecilii Plocium legebamus: haudquaquam mihi, et qui aderant displicebat. Libitum est Menandri quoque Plocium legere, a quo istam comoediam verterat, sed enim, postquam in manus Menander venit, a principio statim, dii boni! quantum stupere atque frigere, quantumque mutare a Menandro Caecilius visus est! Diomedis hercle arma et Glauci non dispari magis prelio existimata sunt . – Praeter venustatem autem rerum atque verborum in duobus libris nequaquam parem, in hoc equidem soleo animum attendere, quod quae Menander praeclare et apposite et facete scripsit, ea Caecilius nequaquam potuit, nequidem conatus est, enarrare; sed quasi minime probanda praetermisit, et alia nescio quae mimica inculcavit (lib. II, 21).

Ma per noi, a’ quali è tolto di compararle e raffrontarle insieme, le commedie latine paiono belle e perfette, nè stimiamo che se ne possano fare di migliori, come chi non avendo mai veduto i capolavori originali di Michelangelo e di Raffaello, si diletta delle copie, ne ammira la finitezza dell’arte, e non immagina un grado superiore di perfezione.

19. Tipo comune della commedia latina. – Ed ora, prima di discorrere partitamente di Plauto e di Terenzio e delle loro drammatiche composizioni, converrebbe dare un’idea generale delle loro commedie, e tracciarne come a larghi tratti la figura e il tipo comune che si ravvisa in ciascheduna particolare; se non che bisognerebbe ripetere quanto si è già detto a proposito della nuova commedia greca, conciossiachè assai poco questi poeti, principalmente Terenzio, ausi sunt, come dice Orazio: deserere vestigia graeca, et celebrare domestica facta .

Anche qui ricorrono i medesimi intrighi, ed i medesimi caratteri; pratiche amorose seguite dai giovani colle mondane, ed attraversate dai vecchi padri; servi furbi trincati che coll’astuzia e colla frode maneggiano a talento i loro padroni, e riescono tuttavia a salvare le spalle dai lorari e dalle frustate; parasiti procaci ed insolenti; soldati spacconi che a parole spianano città e rovinano castella; cortigiane ingorde; lenoni schifosi; madri e mogli brontolone, schiave maliziose ed avvedute; il tutto condito con sali e facezie vivaci e briose sempre, ma talora basse ed invereconde; l’intrigo poi si scioglie, secondo il consueto, in un matrimonio o fatto a contraggenio o per un caso di ricognizione in cui la donna amata si scopre per parente, o per libera e cittadina. La scena è sempre in Grecia, in Atene, in Tebe, in Mileto, ecc., non mai in Roma; il tempo sempre di parecchi secoli indietro, forse per togliere ogni appiglio di ravvisare nella comica finzione allusioni e stoccate a cose, o persone presenti; tuttavia Plauto massimamente seppe ai greci consertare costumi ed usanze nazionali, e la commedia rendere meno estranea alla vita Romana; del resto la vita dei Greci erasi così trasfusa nei Romani, ed il commercio e la comunicazione di questi due popoli diventata sì intima, che i soggetti greci sembravano come nazionali, e piacevano e dilettavano, come se tali fossero stati.

L’espressione e la pittura delle passioni dell’animo è sempre temperata, leggiera e libera da quel fascino che incanta sciaguratamente i cuori, li avvelena e li uccide; onde in quella moderazione savia di tratti e di colorito l’uomo legge riposato ed a mente serena, nè può sottostare al pericolo di essere signoreggiato dal piacere e dal diletico del senso, a scapito della ragione e dell’onestà dei costumi. Vi s’incontrano è vero talvolta bassezze grossolane, ma appunto perchè tali nuocono e danneggiano meno che non certe passioni velate ed imbellettate con una cotal grazia sentimentale ed insidiosa, che a mo’ di serpe variopinta e brillante strisciando s’insinua blandamente, ed injetta un veleno cosperso di miele e di dolcezza, ma pur sempre veleno: nè il vizio viene a sì lieti e vivaci colori rappresentato, nè di sì potenti attrattive rivestito, che a vece di ispirare orrore e disprezzo, innamori e trionfi l’animo di chi legge o vede. In questa parte forse sopra la greca ebbe il vantaggio la commedia latina; poichè la greca nelle mani principalmente di Menandro ricevette tanta grazia e mollezza da giungere al soperchio, e produrre sugli animi un’azione dissolvente delle tempre e dei caratteri robusti, ed accendere nei petti la fiamma d’una passione che gittando fumi corrotti ottenebra e soffoca la ragione; e cagionare, si direbbe, il sinistro effetto della magica verga di Circe; laddove la latina si sostenne in una certa forza e gagliardia, mantenendo una cotal apparenza di rusticità e di salvatichezza, e rigettando, quasi sdegnosa, i vezzi cortigianeschi, e quella raffinatezza che sfibra e snerva, e confina colla depravazione non meno del gusto che del costume. Ciò era insito nella natura e nelle condizioni dei due popoli. I Greci di fantasia fervida, d’animo sereno, di senso squisito e delicato, tendenti ad un idealismo speculativo nella ricerca del vero, e ad una molle sensualità nell’amore del bello: i Romani invece d’immaginazione scarsa, d’animo severo, di senso più grossolano, volti alla positiva e pratica realtà delle cose, e più che al bello, inclinati all’utile. Questo carattere romano si rivela in quei pochi scrittori che non tolsero ad imitare, come gli altri, i Greci, nè vollero tradire l’indole e la natura propria; come per esempio in Tacito, le cui scritture, tutte nervo e vigore, mostrano la vera originalità del romano spirito, sebbene Tacito fiorisse in tempi che questo spirito svaniva nelle cambiate forme di governo, e la prisca grandezza fatta eunuca volgeva con precipizio al termine. Arrogi a questo, che la società greca ai tempi di Filemone e di Menandro era decrepita, e nella universale mollizie e corruzione moribonda disponevasi, conforme al comune destino delle nazioni, a divenir preda di popoli giovani e testè usciti dal periodo della nascita e dell’infanzia, ed a fondersi e trasformarsi nella giovinezza e pienezza di lor vita; laddove la società romana a’ tempi di Plauto e di Terenzio, sebbene già valico da lunga pezza lo stadio della prima adolescenza, trovavasi ancora nell’epoca di incremento e nello stato d’una gioventù progredita sì, ma piena di vigore e di gagliardia.

Per queste ragioni adunque la commedia latina sotto Plauto e Terenzio mantenne, malgrado qualche macchia inonesta che preludeva alla soprastante corruzione, un certo grado di costumatezza e di sobrietà che l’affrancano da ogni ragionevole censura; ed il pudore, se non vi tenne il primo luogo, non fu nemmeno confinato nell’ultimo, come seguì in appresso; onde Cicerone non pure alle commedie, ma ed agli attori stessi ebbe a dar lode di verecondia: Scenicorum quidem mos tantam habet, veteri disciplina, verecundiam, ut scenam sine subligaculo prodeat nemo: verentur enim, ne si quo caso evenerit, ut corporis partes quaedam aperiantur, aspiciantur non decore (De Off., I, 36).

20. Dei due maggiori comici romani Plauto e Terenzio. – Ed ora dati questi brevi cenni generali, mi accingo a ragionare in particolare, studiandomi di restringere la materia nella maggior brevità che io possa, dei due grandi comici romani Plauto e Terenzio, i quali la commedia in Roma innalzarono al sommo dell’arte, sebbene non siano usciti dal gregge degli imitatori, e di proprio non abbiano inventato pressochè nulla; tanto è vera la sentenza di Tucidide, volgersi più agevolmente gli uomini alle cose fatte, che non a ricercare e far da sè: Οὕτως ἀταλαίπωρος τοῖς πολλοῖς ἡ ζήτησις τῆς ἀληθείας, καὶ ἐπὶ τὰ ἕτοιμα μᾶλλον τρέπονται.

21. Plauto. – Padre e principe della commedia latina, per consenso degli antichi e de’ moderni eruditi, fu Tito Maccio Plauto, nativo di Sarsina o Sassina nell’Umbria, città posta tra Rimini e Ravenna, ricca d’acque termali, come si vede in Marziale (IX, 59): Sic montana tuos semper colat Umbria fontes, – Nec tua Baianas Sarsina malit aquas; ed abbondante di pascoli ubertosi, in modo che Silio la disse (l. VIII, 473): Sarsina dives lactis; Plauto stesso nella Mostellaria (act. III, sc. 2a) equivocando sul duplice senso della parola latina Umbra, fece menzione di Sarsina: poichè, dicendo Simone: Nec mihi umbra usque est, nisi si in puteo quaepiam est, Tranione servo risponde: Quid? Sarsinatis ecqua ’st, si Umbram non habes? Ma qui non accennò per nulla, come si vede, che Sarsina fosse sua patria; quando non si volesse dire aver egli introdotto questo giuochetto di parole, che col discorso dei due personaggi non ha a fare nulla, per ricordare una città a lui cara come patria. Egli nacque, secondo la comune opinione, 224 anni avanti l’êra volgare, cioè il 529 di Roma, e morì l’anno 570, come attesta Cicerone (Brut., c. 15): Plautus, P. Claudio et L. Porcio Coss., mortuus est, Catone Censore; sicchè la sua vita non si stese oltre l’anno quarantesimo primo; e, se vero è che la Mostellaria, i Menecmi e l’Anfitrione furono rappresentati non più tardi del 540, come portano le didascalie, l’ingegno suo, al pari e più di Aristofane, dovette essere assai primaticcio e precoce; cosa per altro non del tutto rara in questa felice Italia, sotto un cielo sì sereno e limpido, sopra una terra sì vaga e feconda, che simili a sè gli abitator produce, e che al mondo stupefatto mostrò ingegni adulti in piccoli anni, oltre altri non pochi, in Giovanni Pico della Mirandola, in Angelo Poliziano, ed in Giacomo Leopardi.

Il nostro poeta s’ebbe l’appellativo di Plauto in Roma appiccatogli per nomignolo, poichè, dice Festo: Ploti appellati sunt Umbri, pedibus planis quod essent... Unde Marcus Accius poëta, quia Umber Sarsinas erat, a pedum planitie initio Plotus, postea Plautus coeptus est dici. Plauti si dicevano anche i cani perchè, dice ancora Festo, le loro orecchie: Languidae sunt et flaccidae et latius videntur patere; o come altri vuole: quia eorum pedes extrorsum vergunt, seu quibus pedes disploduntur. Alcuni hanno creduto che per aver egli fatto l’uffizio d’asino a volgere la macina fosse anche chiamato, Asinius; ma un tal soprannome non ha fondamento di sorta e, come osserva il Ritschl, non è altro che una corruzione di Sarsinas.

Giovanissimo venne Plauto in Roma trattovi dal desiderio della gloria, e colla coscienza di poter contribuire col suo genio allo svolgimento della civiltà e della letteraria coltura, che allora, avuto l’impulso dai Greci, andava pigliando sempre maggiori incrementi. Nato di piccola gente e cresciuto fra la plebe, egli non avvicinò mai i potenti ed i privilegiati dalla fortuna, ma com’era nato, così visse e morì senz’altro lustro e senz’altra fama che quella meritata dall’ingegno e dai lavori, la quale bastò sola a renderlo immortale. Usando col popolo minuto, ne studiò attentamente ed apprese l’animo, il cuore, le passioni, il carattere, i vizii, le virtù, il linguaggio, e vide come giacesse disonorato ed oppresso dalla classe ricca e nobile; conobbe la corruzione di questa, e ravvisò il vizio e la turpitudine sotto alla trabea patrizia e alla toga senatoria; mirò l’esempio di Nevio sulla scena che sbottoneggiava fiero e virulento; udì la voce del severo Catone che tuonava dai rostri e tentava di porre un argine all’irrompere del vizio e della corruzione; ancor egli nell’arguzia e finezza del suo spirito, e nella vena che possedeva inesauribile dei frizzi, avrebbe trovato una terribile frusta da scoccarne di sonore e di sanguinose, ed il teatro avrebbe mutato in tribuna di censore, se non ci fosse stato di mezzo quel ferreo e pesante fuste ferito, o che è peggio, capital esto delle leggi decemvirali, e se l’os columnatum del mal capitato Nevio non l’avesse atterrito e tenuto indietro. In altre condizioni ed in altri tempi Roma in Plauto avrebbe avuto il suo Aristofane, non inferiore certamente quanto alla forza comica ed all’argutezza della satira e del ridicolo a quello di Atene. Ma se fu tolta a Plauto la facoltà di menar a tondo la sferza, non è già per questo che egli talvolta annestando vagamente col Greco il Romano e il presente congiungendo col passato non uscisse in qualche tiro aristofanesco, facendo una specie di parabasi al modo della commedia antica, come alla fine dell’atto I della Cistellaria ed al principio del II del Miles gloriosus; ma soprattutto quando nel Curculio ti traccia la topografia di Roma, sebben la scena sia in Epidauro, e t’insegna dove trovare ogni fatta furfanti:

. . . . . . . . . . . . . . . . . . dum hic egreditur foras
Commonstrabo quo in quemque hominem facile inveniatis loco,Ne nimio opere sumat operam, si quem conventum velit,
Vel vitiosum, vel sine vitio, vel probum vel improbum.
Qui periurum convenire volt hominem, mitto in Comitium.
Qui mendacem et gloriosum, apud Cloacinae sacrum.
Ditis damnosos maritos sub basilica quaerito;
Ibidem erunt scorta exoleta, quique stipulare solent.
Symbolarum collatores apud forum piscarium.
In foro infimo boni homines atque dites ambulant;
In medio propter Canalem, ibi ostentatores meri.
Confidentes garrulique, et malevoli supra Lacum,
Qui alteri de nihilo audacter dicunt contumeliam,
Et qui ipsi sat habent, quod ipsis possit vere dicier.
Sub Veteribus, ibi sunt qui dant, quique accipiunt foenore.
Pone aedem Castoris, ibi sunt, subito quibus credas male.
In Tusco vico, ibi sunt homines, qui ipsi sese venditant.
In Velabro vel pistorem, vel lanium, vel haruspicem,
Vel qui ipsi vortant, vel qui aliis subvertendos praebeant.
Diteis damnosos maritos apud Leucadiam Oppiam.
Sed interim fores crepuere, linguae moderandum ’st mihi.

Se non che egli prudentemente tennesi sulle generali, nè ad esempio di Nevio assalì mai persona in particolare, lasciando che il popolo la satira ed i frizzi lanciati così per aria applicasse a talento, se l’occasion gli venisse. Chè se Plauto non potè sul teatro latino portare la commedia intiera di Aristofane, ne tolse nondimeno il brio e la vivacità della facezia, che scintilla da capo a fondo ne’ suoi drammi, l’arguzia schietta e natia, e non tralasciò neanche la volgare oscenità dei motti e la plebea trivialità della frase, temperandola tuttavia con qualche maggior riserbo e velandola alquanto con una certa dignitosa severità romana. Menandro tutto grazia e gentilezza, poeta prediletto alla gente colta e civile, non quadrava all’indole di Plauto tutto nerbo e robustezza, sdegnoso dei vezzi e della svenevolezza smanzerosa; quindi è che da Menandro e dagli autori della commedia nuova tolse i soggetti, ma nel trattarli, svolgerli ed abbellirli allontanatosi da loro, s’attenne ad Aristofane, non però trascurando il siciliano Epicarmo.

Adunque Plauto nell’arringo che prendeva a correre trovatasi la via tracciata da Livio Andronico, e dal gusto dominante del popolo che chiedeva roba greca, e ricusava uscir da essa, dovette soffocare e spegnere il genio originale, rinunziare in gran parte all’invenzione, e suo malgrado acconciarsi all’andazzo corrente, imbacuccandosi col pallio greco, non sì per altro che non s’intravvedesse tratto tratto la toga, o, se volete, il gonnellino romano. Quanto di mal’animo ed a contraggenio s’adattasse a tale necessità e servisse alla moda, scorgesi dalla ruggine che mostra aver coi Greci, e dal veleno che schizza loro contro, piacendosi di metterli in canzone e cuculiarli saporitamente, additandoli al popolo come impostori, scrocconi, briachi, ecc., come fa nel Curculio:

Tum isti Graeci palliati, capite operto qui ambulant,
Qui incedunt suffarcinati cum libris, cum sportulis,
Constant, conferunt sermones inter sese drapetae.
Obstant, obsistunt, incedunt cum suis sententiis,
Quos semper videas bibenteis esse in thermopolio.
Ubi quid surripuere, operto capitulo calidum bibunt:
Tristes atque ebrioli incedunt: eos ego si offendero
Ex uno quoque eorum excutiam crepitum polentarium.

E nel prologo dei Menaechmi pigliasi giuoco dell’Ellenismo, dicendo, come i poeti, per far meglio greca la cosa, piantassero in Atene la scena, ma che egli, sebbene grecizzerà, non vuol però atticizzare, ma sicilizzare.

Atque hoc poëtae faciunt in comoediis:
Omneis res gestas esse Athenis autumant,
Quo illud vobis graecum videatur magis.
Ego nusquam dicam, visi ubi factum dicitur.
Atque ideo hoc argumentum graecissat tamen,
Verum non atticissat, at sicelicissat.

A questo modo Plauto potè dar commedie quasi originali, se non quanto al soggetto ed al tessuto generale del dramma, quanto alla condotta e quanto ai particolari, e costretto a trattare ruffian, baratti e simile lordura , seppe metterci di suo qualche dignità, e nobilitare a quando a quando il tema.

Fatti i primi esperimenti probabilmente colla rappresentazione della Cistellaria , a detta del Crusius, nell’anno 552, Plauto acquistò incontanente credito e stima, nè gli mancarono grosse retribuzioni: onde, stimolato dal desiderio di maggiori guadagni, o, come congettura il Ritter, per meglio istruirsi, e più da vicino conoscere la vita e le usanze dei Greci nelle città dell’Italia meridionale e della Sicilia, intraprese la mercatura, nella quale la fortuna non gli disse buono, chè o per imperizia, o per soverchio arrischiare si ridusse in sul lastrico a discrezione dei creditori. Le leggi romane davano facoltà al creditore non solo di spogliare il debitore dell’ultimo avere e venderne la moglie ed i figliuoli, ma di tôrre lui stesso a’ suoi servigi come schiavo: Post deinde manus iniectio esto, in ius ducito. N i iudicatum facit, aut quis endo em iure vindicit, se cum ducito, vincito aut nervo aut compedibus XV pondo ne maiore; at, si volet, minore vincito ; e quel, che è peggio e più inumano, permettevano, caso che i creditori fossero più di uno, di tagliare il cattivello a pezzi e dividerselo fra loro: Ast si plures erunt, rei tertiis nundinis partis secanto , sebbene, come attesta Gellio, una legge sì bestiale non sia mai stata eseguita. Ora il disgraziato Plauto venne alle mani di qualche avaraccio ignorante, il quale non dovette muoversi ai pregi dell’ingegno peregrino di lui, ma ritenutolo schiavo, addictus o nexus, lo cacciò al mulino a volger la macina invece di un asino. Secondo A. Gellio, che cita le parole di Varrone, Plauto stesso ridotto all’indigenza si sarebbe, per guadagnarsi il pane, posto a servigio d’un mugnaio: ob quaerendum victum ad circumagendas molas, quae trusatiles appellantur, operam pistori locavit . Se non che non par verisimile, che essendo Plauto libero di locar l’opera sua a cui gli piacesse, scegliesse il mulino, che era il mestiere più faticoso e più vile fra tutti gli altri, al quale per punizione si condannavano i più abbietti e ribaldi mancipii, come si vede nelle stesse commedie, p. e. in Terenzio, dove il vecchio Simone temendo d’essere corbellato dal servo Davo, lo minaccia così: Si sensero hodie quidquam in his te nuptiis – Fallaciae conari, quo fiant minus, . . . . . Verberibus caesum te in pistrinum, Dave, dedam usque ad necem : onde ancora Cicerone usò pistrinum traslatamente per luogo travaglioso: Tibi mecum in eodem est pistrino, Crasse, vivendum . Ad ogni modo, o vi sia Plauto stato costretto dal creditore, o trovatosi nella dura necessità di eleggere una tanto bestial fatica, è da dolere che sì poderoso ingegno dovesse con sì grave stento mangiare col sudore della fronte il pane della miseria, mentre tanti doviziosi e patrizii ignoranti e corrotti sguazzavano nell’abbondanza e sprecavano in lautissime cene migliaia di sesterzii; anzi vien da maledire alla tanto famosa grandezza e generosità romana sì decantata, che empiendo il ventre a goffi ed inetti parassiti, lasciava nei cenci a discrezione della fame e della sete i poeti e gli studiosi, veri lumi e splendidi ornamenti della società. Nella calamità in cui Plauto videsi caduto trovò una consolazione ed un sollievo nel suo genio fecondo, e dimenticò forse in parte l’acerbità e l’amarezza della fortuna colla compagnia delle Muse, le quali non l’avevano abbandonato, ond’è che, come attesta A. Gellio, horis subsecivis, quibus ab eo labore otium erat, ad intermissum comici poëtae officium dicitur sese revocasse, e compose parecchie commedie, in una delle quali, intitolata Addictus rappresentava forse, cospargendoli di lepore e di ridicolo, i suoi casi e la deplorevole sua condizione. Probabilmente per lungo tempo rimase nel pistrino, e solo dopo luminose prove del suo ingegno riconosciuto e secondo il merito apprezzato, venne francato da quel vitupero, se pure egli stesso a forza di stenti e di sudori non giunse a pagare l’ingordigia dello spietato creditore, e sciogliersi da lui. Altro della vita di Plauto non si sa, e non è giunto a noi se non l’epitaffio (conservatoci da Gellio), cui egli compose per la sua tomba, non certo troppo modesto, ma vero ed al merito conveniente, nel quale si può osservare uno di quei giuochi di parole sì familiari e graditi al nostro autore, concepito in questa sentenza:

Postquam morte captu ’st Plautus – Comoedia luget;
Scena est deserta, – dein Risus, Ludus, Iocusque,
Et Numeri innumeri simul omnes collacrumarunt.

E nel darsi questi vanti ebbe ragione, poichè con lui scomparve dal teatro la briosa e spensierata allegria, e si spense il vero e natio spirito comico, nè Terenzio bastò in seguito ad empiere il vuoto lasciato dalla morte di Plauto. Credono alcuni che egli dipingesse se stesso in quelle parole dette nel Pseudolus (Act. IV, sc. 7a) a Ballione ruffiano, nel dargli i contrassegni della persona di Pseudolo; e se è vero, non dovette certamente esser troppo un bello, e garbato uomo:

Rufus quidam, ventriosus, crassis suris, subniger,
Magno capite, acutis oculis, ore rubicundo, admodum
Magnis pedibus.

Le commedie di Plauto, come già si è detto, si allontanano felicemente dalla greca imitazione, e sono fra le latine le sole che dir si potrebbero originali, poichè havvene bene alcune che, eccettuato il soggetto greco, sono svolte e trattate in modo tutto proprio e nuovo; e quelle stesse tratte dal greco ricevono nelle mani di Plauto un carattere ed un’impronta originale. Ma ciò che sopra ogni cosa le distingue e le colloca nel primo luogo, si è l’inesauribile vena del ridicolo, la copia dei sali, la vivacità del dialogo, il movimento delle scene, i caratteri espressi al vivo a pochi colpi di pennello, in guisa che Terenzio al paragone ti par freddo e compassato; e se questi fu detto puroque simillimus amni, tu dirai che Plauto è simile ad un fiume, torbido a volte, ma più ricco ed abbondante, da più larga vena premuto e più rapido e sonante nel suo corso. Terenzio fa sorridere e mantiene pacatamente lieto lo spettatore fino alla fine, talvolta lo intenerisce e lo richiama a delicati pensieri; Plauto fa ridere saporitamente, e non di rado anche sgangheratamente, ed infonde un’allegria più viva e più sentita. Terenzio si volge alle anime nobili e colte, nè è gustato da tutti; Plauto è popolarissimo, e mentre diletta e diverte il popolo, non annoia, anzi ricrea altresì il patrizio e il padre coscritto. Terenzio fa parlare gli attori; Plauto li fa agire. Terenzio usa una lingua forbita, uno scherzo studiato e pulito: Plauto favella come il popolo, i motti gli fioriscono sul labbro spontanei e naturali, e lo scherzo se non sempre è urbano, è sempre facile ed arguto; in somma in Plauto scorgesi l’uomo di spirito e di genio creatore: in Terenzio il fedele imitatore, il poeta artifizioso ed accurato, l’uomo delicato e gentile.

Recando alcuni passi si dimostrerà meglio che con parole generali, l’indole e la grazia del ridicolo di Plauto Nel Pseudolus Calidoro non potendo da Ballione ottenere un ritardo di pochi giorni al pagamento, e fallitogli ogni mezzo di persuaderlo, impone al servo di caricarlo d’insulti e villanie per sfogar la collera, e Ballione, non che altro, tien loro bordone:

Calidorus. Pseudole, assiste altrinsecus, atque onera hunc maledictis.
Ps.

Licet.

Numquam ad Praetorem aeque cursim curram, ut emittar manu.

Cal.

Ingere mala multa. Ps. Jam ego te differam dictis meis.

Impudice. Ball. Ita est. Ps. Sceleste. Ball. Dicis vera. Ps. Verbero.

Ball. Quippini? Ps. Bustirape. Ball. Certe. Ps. Furcifer.
Ball. Factum optume.
Ps. Sociofraude. Ball. Sunt mea haec ista. Ps. Parricida. Ball. Perge tu.
Ps. Sacrilege. Ball. Fateor. Ps. Periure. Ball. Vetera vaticinamini.
Ps. Legirupa. Ball. Valide. Ps. Pernicies adolescentum. Ball. Acerrume.
Ps. Fur. Ball. Babae. Ps. Fugitive. Ball. Bombax. Ps. Fraus populi.
Ball. Planissume.
Ps. Fraudulente. Cal. Impure leno. Ps. Coenum. Ball. Cantores probos!
Cal.

Verberavisti patrem atque matrem. Ball. Atque occidi quoque,

Potiusquam cibum praehiberem, num peccavi quippiam?

Ps. In pertusum ingerimus dicta dolium, operam ludimus.
Ball. Numquid aliud etiam voltis dicere?

Nell’atto III, sc. 2a, della stessa commedia è saporito il dialogo tra Ballione, ed un cuoco ch’egli si conduce a casa per ammannir la cena, colla tema che, secondo il solito dei cuochi, gli rubi qualche cosa.

Cocus.

..... Vel ducenos annos poterunt vivere,

Meas qui esitabunt escas quas condivero.

Nam ego cicilendrum quando in patinas indidi,

Aut sipolindrum, aut macidem, aut sancaptidem,

Eae ipsae sese patinae fervefaciunt illico;

Haec ad Neptuni pecudes condimenta sunt.

Terrestres pecudes cicimandro condio,

Aut hapalopside, aut cataractria. Ball. At te Iuppiter

Diique omnes perdant cum condimentis tuis,

Cumque tuis istis omnibus mendaciis.

Coc. Sine sis loqui me. Ball. Loquere, atque in malam crucem.
Coc.

Ubi omnes patinae fervent, omneis aperio.

Is odos demissis pedibus in coelum volat,

Eum in odorem coenat Iuppiter cotidie.

Ball. Odor dimissis pedibus? Coc. Peccavi insciens.
Ball. Quid est? Coc. Quia enim demissis manibus volui dicere.
Ball. Si numquam is coctum, quidnam coenat Iuppiter?
Coc.

It incoenatus cubitum. Ball. I in malam crucem.

Istaccine caussa tibi hodie nummum dabo?

Coc.

Fateor equidem esse me cocum carissimum,

Verum pro pretio facio, ut opera appareat

Mea, quo conductus veni. Ball. Ad furandum quidem.

Coc.

An invenire postulas quemquam cocum

Nisi milvinis aut aquilinis ungulis?

Ball.

An tu coquinatum te ire quoquam postulas,

Quin ibi constrictis ungulis coenam coquas?

Nunc adeo tu, qui meus es, iam edico tibi,

Uti nostra properes amoliri omnia:

Tum ut hujus oculos in oculis habeas tuis:

Quoquo hic spectabit, eo tu spectato simul;

Si quo hic gradietur, pariter progredimino:

Manum si protollet, pariter proferto manum.

Suum si quid sumet, id tu sinito sumere;

Si nostrum sumet tu teneto altrinsecus;

Si iste ibit, ito; stabit, adstato simul;

Si conquinescet iste, ceveto simul.

Item his discipulis privos custodes dabo.

Coc.

Habe modo bonum animum. Ball. Quaeso, qui possim, doce

Animum bonum habere, qui te ad me adducam domum?

Coc.

Quia sorbitione faciam ego te hodie mea,

Item ut Medea Peliam concoxit senem,

Quem medicamento et suis venenis dicitur

Fecisse rursus ex sene adolescentulum;

Item ego te faciam. Ball. Eho, an tu etiam veneficus?

Coc. Immo Ædepol vero hominum servator magis.
Ball. Hem mane, quanti istuc unum me coquinare perdoces?
Coc. Quid? Ball. Ut te servem, ne quid subripias mihi.
Coc.

Si credis, nummo, si non, ne mina quidem.

Sed utrum amicis hodie, an inimicis tuis

Daturus coenam? Ball. Pol, ego amicis scilicet.

Coc.

Quin tu illos inimicos potius quam amicos vocas?

Nam ego ita convivis coenam conditam dabo

Hodie, atque ita suavitate condiam,

Ut quisque quicque conditum gustaverit,

Ipsos sibi faciam ut digitos praerodat suos.

Ball.

Quaeso hercle priusquam quidquam convivis dabis,

Gustato tute prius et discipulis dato,

Ut praerodatis vostras furtificas manus.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Profecto, quid nunc primum caveam nescio,

Ita in aedibus sunt fures, praedo in proximo est, etc.

In seguito, sc. 4a, Ballione esce di casa seco allegrandosi che il cuoco dabbene gli abbia sgraffignato soltanto un bicchiere ed una tazza: Minus malum hunc hominem esse opinor, quam esse censebam coquum. Nam nihil etiamdum harpagavit praeter cyathum et cantharum.

Comica e bellissima è pure la scena dei Captivi, in cui il parassito Ergasilo corre e si affretta di andare ad annunziar ad Egione la venuta del suo figliuolo, e discorrendo da sè, dà zaffate a questo e a quello:

Heg.

Sed Ergasilus estne hic procul quem video?

Collecto quidem est pallio, quidnam acturu’ st?

Erg.

(che non vede Egione e parla sempre da sè)

Move abs te moram, atque, Ergasile, age hanc rem.

Eminor, interminorque, ne quis mi obstiterit obviam,

Nisi qui sat diu vixisse se se homo arbitrabitur:

Nam qui obstiterit, ore sistet. Heg. Hic homo pugillatum incipit.

Erg.

Facere certum est. Proinde ut omnes itinera insistant sua,

Ne quis in hac platea negotii conferat quidquam sui:

Nam meus est balista pugnus, cubitus catapulta est mihi,

Humerus aries; tum genu ut quemque icero, ad terram dabo.

Dentilegos omnes mortales faciam, quemque offendero,

Heg. Quae illaec eminatio est? naia nequeo mirari satis.
Erg.

Faciam ut hujus diei, locique, meique semper meminerit.

Qui mihi in cursu obstiterit, faxo vitae is extemplo obstiterit suae.

Heg. Quid hic homo tantum incipissit facere cum tantis minis?
Erg.

Prius edico ne quis propter culpam capiatur suam,

Continete vos domi, prohibete a vobis vim meam.

Heg.

Mira Ædepol sunt, ni hic in ventrem sumsit confidentiam;

Vae misero illi, cujus cibo iste factu’st imperiosior.

Erg.

Tum pistores, scrophipasci qui alunt furfuri sues,

Quarum odore praeterire nemo pistrinum potest,

Eorum si quojusquam scropham in publico conspexero,

Ex ipsis dominis meis pugnis exculcabo furfures.

Heg.

Basilicas edictiones, atque imperiosas habet;

Satur homo est, habet profecto in ventre confidentiam.

Erg.

Tum piscatores, qui praebent populo pisces foetidos,

Qui advehuntur quadrupedanti crucianti canterio,

Quorum odos subbasilicanos omneis abigit in forum;

Eis ego ora verberabo sirpiculis piscariis,

Ut sciant alieno naso quam exhibeant molestiam.

Tum lanii autem, qui concinnant liberis orbas oveis,

Qui locant caedundos agnos et duplam agninam danunt,

Qui petroni nomen indunt verveci sectario;

Eum ego si in via petronem publica conspexero,

Et petronem et dominum reddam mortaleis miserrimos.

Heg.

Euge, edictiones aedilitias hic habet quidem,

Mirumque adeo est ni hunc fecero sibi Ætoli agoranomum.

Erg.

Non ego nunc parasitus sum, sed regum rex regalior,

Tantus ventri commeatus meo adest in portu cibus:

Sed ego cesso hunc Hegionem onerare laetitia senem?

Qui homine hominum, adaeque nemo vivit fortunatior.

Heg. Quae illaec est laetitia, quam hic laetus largitur mihi?
Erg.

Heus ubi estis vos? Ecquis hoc aperit ostium? Heg. Hic homo

Ad coenam recipit se ad me. Erg. Aperite hasce ambas foreis,

Priusquam pultando assulatim foribus exitium affero.

Heg. Perlubet hunc hominem colloqui. Ergasile. Erg. Ergasilum qui vocat?
Heg.

Respice. Erg. Fortuna quod tibi nec facit nec faciet,

Hoc me jubes. Sed quid est? Heg. Respice ad me, Hegio sum.

Erg.

Oh mihi,

Quantum est hominum optumorum optume in tempore advenis.

Seguita poi il parassito a tener Egione in ponte per lungo tratto, a fargli meglio destar l’appetito della buona novella ch’era per dargli, e guadagnarsi così il pranzo per qualche tempo.

Io potrei qui recare moltissime scene festevolissime e saporite quanto, e più delle precedenti, ma mi converrebbe, tante sono, trascrivere quasi tutto Plauto. Per esempio la prima dell’Anfitrione, in cui Sosia servo, spedito innanzi dal padrone a portar le notizie alla moglie dell’esito della battaglia a cui egli non fu, perchè, dice, cum illi pugnabant maxume, ego tum fugiebam maxume, e si ricorda la pugna esser durata tutto il giorno, perchè rimase senza pranzo, quia illo die impransus fui; come pure nella stessa scena l’incontro suo con Mercurio, che ha rivestite le sembianze di lui Sosia, ed a pugni e sgrugnoni tali, che exossant os hominibus, lo allontana dalla casa. Nella scena 2a dell’atto IV Anfitrione giunge alla porta di casa sua mentre Giove di dentro si sollazza con Alcmena, e Mercurio d’in sul tetto a mandarlo via di quivi, lo carica d’ingiurie e villanie, ed alla fine gli scaglia i tegoli sul capo. Nell’Aulularia Euclione presentasi sempre affannato per quella sua pentola piena d’oro, temendo non gli sia furata, e l’appiatta, e sotterra in tutti i lati; udendo i cuochi, ladri al solito, mandatigli in casa da Megadoro per le nozze della figlia, che cercavano d’una pentola per cuocere, spaventato corre in cucina, li bastona e li caccia, e non risparmia neanche un gallo, che razzolando dov’erano sotterrati i quattrini, n’avea dato indizio, per mercede ricevuta dai cuochi, come dice Euclione stesso; indi nasconde la pentola nel tempio della Fede, poscia in un bosco sotto la tutela di Silvano, onde finalmente la gli vien rubata. Bella è la scena 1a dell’atto II, in cui Strobilo fa il panegirico della taccagneria di Euclione, come piange l’acqua che sparge quando si lava, e lega il collo al mantice prima di andare a letto, perchè di notte non perda il fiato; ed essendo ito al barbiere a farsi tagliar l’ugne, ne raccolse e portò via i ritagli; e così via. Nè meno bella è la scena 6a dell’atto IV, in cui Euclione e Liconide parlano insieme senza intendersi, come si dice, nel nominativo, alludendo l’uno alla pentola rubata, l’altro alla figlia stuprata la vigilia della festa di Cerere. Nel Miles gloriosus vedi la scena 1a dell’atto I, in cui Pirgopolinice soldato rammenta le sue prodezze in campis Gurgustidoniis, – Ubi Bombomachides Cluninstaridisarchides – Erat imperator summus, Neptuni nepos , e quelle operate in Sicolatronide, ed in Cilicia, e come con un pugno dato così leggiermente stroppiò un elefante; e se nel valore gli pare d’essere il fratello d’Achille, quanto a bellezza e’ vuol essere nipote di Venere, e lagnasi come d’una gran miseria di esser troppo bello, poichè, tutti volendolo vedere, gli conviene andare a pricissione per le strade. Vedasi poi anche l’ultima scena dell’atto V, dove il povero Pirgopolinice è bussato di santa ragione con tutte le sue spacconate, e gli si minaccia di fargli un male scherzo, onde e’ si reca all’umiltà ed alle preghiere. Nella Mostellaria è da leggere la scena 1a dell’atto III, in cui Tranione servo con pastocchie e panzane di spiriti e di folletti vuol allontanare dalla casa il vecchio Teuropide, tornato allora da lungo viaggio, acciocchè non sorprenda il figliuolo a gozzovigliare e far stravizzo con amici ed amiche. Così nel Trinummus lepida è la scena 2a dell’atto IV, quando il sicofante, che si finge mandato con una lettera e del denaro da Carmide lontano a Lesbonico figliuolo di lui, s’imbatte con Carmide stesso già tornato, e senza conoscerlo entra seco in discorso. In somma tutte le commedie plautine scintillano del più vivo ridicolo e del più schietto lepore di gusto al tutto aristofanesco, come aristofanesco è pure l’esagerato, e l’iperbolico che non di rado vi s’incontra, e che a certi schizzinosi critici dà nel naso e li offende. I motti son sempre arguti, vibrati ed a proposito, come, per esempio, quando Euclione proibisce alla serva Stafila di lasciar entrare in casa chicchessia, foss’anche la buona fortuna, essa di ripicchio risponde: Pol ea ipsa credo ne intromittatur cavet, – Nam ad aedis nostras nusquam adiit, quamquam prope est ; nell’Anfitrione Sosia udendo in disparte Mercurio vantarsi d’aver co’ pugni stramazzato quattro uomini, ed aspettandosi di assaggiarne anche lui dei siffatti, dice: Formido male – Ne ego hic nomen meum commutem, et Quintus fiam e Sosia: – Quatuor viros sopori se dedisse hic autumat, – Metuo ne numerum augeam illum; nei Captivi esortando Egione il servo Stalagmo a confessare il vero per cansare se non tutte le frustate, almeno alcune poche, questi risponde. Le poche le canserò di sicuro, perchè mi verranno addosso le molte: Pauca effugiam scio, nam multa evenient et merito meo; nel Pseudolus domandando Ballione ad Arpace servo del soldato Polimacheroplagide, quanto costasse al suo padrone, e rispostogli da costui: Una vittoria pel suo valore, perchè a casa mia io era generale in capo; Ballione soggiunge: Forse che espugnò qualche galera – An etiam ille unquam expugnavit carcerem patriam tuam? Nella stessa commedia essendo Simia e Pseudolo avanti la casa del ruffiano Ballione, e scricchiolando la porta nell’aprirsi, Simia dice: Sta, la casa boccheggia; – Pseud.: Ha un travaglio di stomaco, credo; – Simia: Come? – Pseud.: Rece il ruffiano. – Sim.: Tace, aedes hiscunt. – Ps.: Credo, animo male est aedibus. – Sim: Quid iam? Ps. Quia aedepol ipsum lenonem evomunt. Il traslato, se si vuole, è sucidetto, ma ardito, felice e non disdicevole, parlandosi d’un lenone. Ora di tali motti, e più spiritosi ancora, in Plauto ve n’ha più che di maggio foglie, e le freddure e i giuochi di parole che si citano, sono eccezioni. Cicerone dei sali plautini era innamorato, e li trovava squisiti, urbani, eleganti: Duplex omnino est iocandi genus: unum illiberale petulans, flagitiosum obscenum: alterum elegans, urbanum, ingeniosum, facetum, quo genere non modo Plautus noster, et Atticorum antiqua comoedia, sed etiam Socraticorum philosophorum libri sunt referti ; e Macrobio lo mette a paro con lo stesso Cicerone per la venustà e la grazia dello scherzo, e dice che da questo riconoscevansi fra le altre le commedie plautine: Plautus quidem ea re clarus fuit, ut post mortem eius, comoediae, quae incerte ferebantur, Plautinae tamen esse de iocorum copia noscerentur .

Ma in Plauto non tutto è scherzo, giuoco ed allegria; vi ha scene che vanno al cuore e commuovono; talvolta vera e potente eloquenza. I Captivi, p. es., sono una commedia di genere patetico, ed un quadro delicatissimo dell’amore e della fedeltà generosa d’un povero schiavo verso il padrone per disgrazie caduto anch’esso in servitù: veggasi quanto tenera ed affettuosa sia la scena 1a dell’ atto II, e più ancora la 3a. Nè i servi son sempre ribaldi e bricconi, ma talvolta buoni, leali ed affezionati al padrone, come il Tindaro dei Captivi, detto testè; lo Stasimo nel Trinummo, che vorrebbe salvare il giovine Lesbonico dal dar l’ultimo tuffo nel vizio e nella prodigalità; il Messenione dei Menecmi, che per il padrone è disposto ad esporre la vita; il Lido delle Bacchidi, pedagogo al giovine Pistoclero ed austero precettor di morale. Le donne non sono sempre vili e sucide baldracche, ma a volte infelici e degne di compassione, come Palestra ed Ampelisca nel Rudens; talora generose e cordiali, come la sacerdotessa di Venere nella stessa commedia; talvolta virtuose, pudiche e costumate, come la Silenio nella Cistellaria, e la vergine figliuola del parassito Saturione nel Persa, la quale s’oppone al padre ingordo e vigliacco che vorrebbe venderla, o almeno farne le viste per empiersi il buzzo, e nega di fare ciò che anche solo in apparenza possa offendere il decoro ed il pudore; talvolta spose che osservano la fede coniugale, come Panegiri e Pinacio nello Stico. Nè i giovani sono sempre scostumati, donnaiuoli e senza rispetto ai genitori; ma qualche volta amici buoni e fedeli, e figli sottomessi e riverenti al padre, come il Lusitele nel Trinummo; talvolta generosi sebben corrotti, come il Lesbonico della stessa commedia, che offresi di rinunziare all’ultimo suo campo, onde trae il sostentamento, anzichè mandarne la sorella senza dote; talvolta accesi di nobile amore, come l’Alcesimarco della Cistellaria; e così via. La qual varietà di caratteri, per dirla di passaggio, basta a smentire l’asserzione del La Harpe a Plauto infensissimo, il quale ne accusa le commedie di monotonia, e lo riprende quasi che ignorasse l’arte di dare a’ suoi drammi varietà e vivezza.

L’intreccio delle commedie plautine in alcune è semplice e leggiero, in altre è più annodato e più artifizioso, come nell’Anfitrione, nei Captivi, nel Pseudolo, nei Menecmi; del resto in generale è bene disposto e con naturalezza svolto: nè ho potuto capire quello si voglia dire lo Schlegel, al teatro italiano severo e nemico, quando afferma: Plauto allargar sempre il suo soggetto, ed essergli forza riparare per via di mutilazioni l’eccessiva lunghezza ch’avea dato alle sue commedie, conciossiachè a me pare, anzi, per quanto ne intendo io, che, per usare una frase di Orazio, semper ad eventum festinat; anzi Orazio stesso ci afferma, tale essere stato a’ suoi tempi riguardo a Plauto la sentenza comune dei grammatici e dei letterati: Dicitur . . . Plautus ad exemplar Siculi properare Epicharmi . Egli è vero, che Plauto allunga talvolta le scene oltre il convenevole, e ripete le cose medesime già dette innanzi, come principalmente nella scena 2a dell’atto II dell’Anfitrione, tra Anfitrione ed Alcmena, la quale invero riesce noiosa e stucchevolissima; è vero anche che nei prologhi si distende quanto può, e chiacchera un’ora sull’argomento; è vero altresì, che ci s’incontra dei monologhi lunghetti, nei quali, uscendo dai confini del dramma, fa come una specie di parabasi alla greca; ma io non vedo che per questo s’inceppi o si ritardi, se non materialmente, l’azione; molto meno mi accorgo (forse perchè avrò la vista grossa) delle pretese mutilazioni. Che se si ha da riprendere quel pazzeggiare, per dir così, e quel vagare quasi senza scopo, ma ripieno di brio, di grazia, di lepore, io non vedo perchè non si debba molto più condannarne Aristofane. Fatto sta che tutto questo desta il riso e l’allegria vivissima, e quando una commedia fa ridere di cuore, secondo lo Schlegel medesimo, ha ottenuto il suo fine, ed è perfetta.

Grandi sono i meriti di Plauto rispetto all’arte, poichè la commedia, ch’egli, se non in fasce, trovò almeno bambina nelle mani di Nevio, tolse seco e sì seppe educarla, nutrirla e crescerla col suo ingegno, che in poco tempo la rese adulta e piena del vigore d’una virilità perfetta. Egli si valse dei Greci, poichè altre vie gli erano chiuse e sbarrate; ma l’Ellenismo temperò con elementi romani ed originali; per modo che quasi il cancellò del tutto a costo anche di qualche inverosimiglianza e di qualche improprietà. Le commedie di Cecilio, che furono forse tutte palliate, si sono perdute, e non dovettero essere gran cosa, sebbene Volcazio Sedigito tra i comici gli assegni il primo luogo; ond’è che le sole romane, le quali si possano dire originali, sono quelle di Plauto, poichè Terenzio ne latum quidem unguem si scostò dall’imitazione greca. Oltrechè Plauto quasi creò, od almeno stabilì e fermò lo stile comico prima di lui indefinito ed incerto, e trovò il modo di adattarlo acconciamente al dramma col dargli forza, rapidità, spigliatezza, eleganza, e col porgerlo scevro di quella ponderosa gravità propria dei Romani: a questo gli giovò l’usare anzichè la lingua dei letterati, quella del popolo, la quale offre costrutti più semplici, più naturali e più schietti che non l’altra, ed è doviziosa d’idiotismi e di modi elittici, che al dialogo comico principalmente convengono e rendonlo vispo ed efficace. Plauto dà luogo a molti studii e considerazioni sulla lingua latina, e ci rivela le antichissime origini della nostra italiana, poichè in lui tu incontri frasi, locuzioni, parole, costrutti al tutto proprii della nostra favella ed alieni dalla lingua di Cicerone, di Virgilio, di Orazio; il che dimostra altra essere stata la lingua scritta dei letterati e dei dotti, quale si trova negli scrittori dell’aurea latinità altra la lingua parlata, popolare, o, si direbbe, il dialetto romano; quella informata e desunta in buona parte dal greco; questo invece originariamente nazionale, che alla lingua scritta preesistette, le si mantenne a fianco coesistente, le sopravvisse, e con qualche cambiamento, massime nelle desinenze, diventò la nostra presente favella italiana, come insegnano dottissimi filologi che impugnano l’inesplicabile ed assurda opinione, essere la lingua nostra italiana nata dalla corruzione della latina e dall’intromettersi e mescolarsi in essa elementi barbarici. Per questo Plauto non è scrittore latino, come i susseguenti del secolo d’oro, ma mostra maggior rigoglio di vita; e sebbene rozzo e talvolta inelegante ed irto, pure fiorisce d’una grazia più schietta e più natia, e mostra un fare meno studiato e più naturale, sicchè non pare esagerata la sentenza riferita da Varrone, che le Muse volendo parlar latino avrebbero scelto la plautina favella. Plauto popolano, parlando al popolo, usò la lingua del popolo, ma conobbe l’arte di abbellirla, non con vezzi carichi e leziosi, sì con ornamento sobrio, semplice, e temperato, in guisa che per questo rispetto, se la gentile e colta poesia di Terenzio piace letta una fiata, quella di Plauto piacerà nella sua quasi selvatichezza letta anche dieci volte, per valermi d’una frase oraziana (ad Pis., 365): haec placuit semel, haec decies repetita placebit.

Ma, oltre il merito dell’arte, dello stile e della lingua, Plauto ha per noi, sì scarsi di notizie circa l’antichità, un pregio ed un valore non piccolo rispetto alla storia, poichè sotto la maschera ed il pallio greco ci palesa l’intima e domestica vita dei Romani, e ci avvicina a’ quei superbi Quiriti sì celebrati dalle panegiriche ed entusiastiche istorie, dandoci a conoscere che non erano eroi, ma uomini come gli altri pieni di vizii e di miserie, ed aprendoci le occulte e cancrenose piaghe, che rodevano internamente quella società sì robusta e vigorosa al di fuori, e ne preparavano la caduta e lo sterminio. Quale fosse il miserando stato di quella classe infelice destinata, a guisa di maledetta fra tutto il genere umano, al più duro e crudele servaggio, senza Dio, senza patria, senza famiglia, senza leggi, Plauto ce lo dimostra; e come que’ tronfi ed orgogliosi Romani, che si vantavano del civis romanus sum, e davansi aria di umani e generosi, trattassero queste infelici creature fino ad abbrutirli nel modo più indegno. Lo stato vile ed abbietto della donna in Roma, il disprezzo in che era avuta dagli uomini, il commercio esecrando che dagli impuri lenoni venuti di Grecia se ne faceva, sotto gli occhi di quei fastosi consoli, che ci si vorrebbero spacciare per modelli di senno politico e civile, sotto la tutela di quelle leggi maestose che si vorrebbero dare per l’ideale della giustizia e dell’equità, in Plauto ci viene delineato e dipinto fedelmente e colla massima vivacità di colorito, in modo che chi legge, ed ha sentimento, sentesi ribrezzare, e riduce al giusto il vasto concetto, instillatogli fin da fanciullo nelle scuole, della civiltà e della grandezza romana. Gli usi e le costumanze del popolo in Plauto sono più che ritratte, scolpite; il lusso smodato, la corruzione invadente ogni classe di cittadini, i danni della moda, i vizii dell’educazione, l’empietà in religione, la slealtà nei contratti, ecc. in lui sono spressi al vero, e talvolta con vive ed eloquenti declamazioni deplorati. Vedansi, per esempio, del Trinummo atto IV, sc. 3a; del Mercante atto V, sc. 1a, in cui sotto l’apparenza di Atene vien punzecchiata Roma; dell’Epidico atto I, sc. 1a, atto II, sc. 2a; del Pseudolo atto 1, sc. 2a; del Truculento atto II, sc. 6a; dell’Aulularia atto III, sc. 5a, dove dalle parole di Megadoro scorgesi quanta fosse la pretenziosa ambizione delle mogli, che metteva alla disperazione i mariti e riduceva a rovina le famiglie.

22. Giudizio di Orazio e d’altri intorno a Plauto. – Ma sul merito di Plauto grava un giudizio di condanna pronunziato dal più acuto e solenne dei critici, da un uomo, in cui fu personificato il buon gusto, e le cui sentenze divennero leggi, io voglio dire Orazio, il quale lo pose addirittura fra le ciarpe e lo giudicò grossolano, goffo e da nulla. Nella 1a Epistola del lib. II, v. 170, lo accagiona di aver badato non all’arte, ma ad empir la borsa abborracciando commedie, e lo mette a paro con un tal Fabio Dossenno non atto a rappresentare se non parassiti, e con assai villano stile:

. . . . . . . . . . . . . . . Aspice, Plautus
Quo pacto partes tutetur amantis ephebi,
Ut patris attenti, lenonis ut insidiosi,
Quantus sit Dossennus edacibus in parasitis,
Quam non adstricto percurrat pulpita socco.
Gestit enim nummum in loculos demittere, post hoc
Securus, cadat, an recto stet fabula talo.

e nell’Epistola ai Pisoni, v. 270, ne riprende e censura i metri ed i sali, stando a un pelo di dar dello sciocco pel capo agli ammiratori di lui, che non sanno distinguere il lepido dall’inurbano, ed a contare e misurare i versi non hanno ne orecchio nè dita:

At vestri proavi Plautinos et numeros et
Laudavere sales: nimium patienter utrumque,
Ne dicam stulte mirati, si modo ego et vos
Scimus inurbanum lepido seponere dicto,
Legitimumque sonum digitis callemus et aure.

Ora, quanto al metro, concedasi pure ad Orazio ciò ch’egli dice, poichè già si è veduto come non solo libero, ma licenzioso fosse Plauto nel verseggiare, sebbene mi par una pedanteria ristringersi alla forma e guardarla pel sottile senza badare alla sostanza, ed in un dramma lepido, pieno di grazia e di vivacità fermarsi a noverare i piedi e misurar le lunghe e le brevi; nondimeno concedasi, e su questo non mettiam piato. Ma quanto all’intreccio comico, allo sceneggiare, alla pittura dei caratteri, alla vena dei sali e dello scherzo, qual cagione mai indusse Orazio, sì avveduto e sicuro nei giudizii, a sfatar Plauto in quella maniera, e contrapporsi solo all’avviso ed all’opinione dell’universale?

Daniele Heinsio in una dissertazione stesa a questo proposito cerca di giustificare Orazio, e non gli parendo verisimile che siffatta sentenza scrivesse sopr’animo e mosso dalla passione, s’ingegna di trovare e dimostrare in Plauto il gran difetto che meritò sì forti e sì acerbi biasimi, ed è quello di avere attinto alla corrotta sorgente di Aristofane quanto al ridicolo, e non alla pura e limpida di Menandro: Plauto, secondo lui, è atto a far ridere il comprator del cece fritto, non il patrizio ed il cavaliere; i suoi sali sono bassi e triviali, le sue facezie invereconde, il suo motteggiare offende il pudore e la civiltà; quindi è che Orazio, guardando al vero concetto del ridicolo, distinguendo dall’inurbano il lepido, e riprovando l’oscenità onde bruttavasi il teatro, ricisamente lo condannò, nè della sua condanna gli si può far colpa. Ad Orazio fecero coro molti fra i moderni; il Mureto, il quale, offeso dalla lode esagerata di Elio Stolone, disse che se le Muse avesser usata la favella plautina, avrebber favellato da baldracche anzi che da caste ninfe del Parnaso; Erasmo, lo Scaligero, il Rapin e sopra tutti il La Harpe, il quale nelle venti commedie plautine non vide che una sola tela drammatica, monotonia di caratteri e di dialoghi, scurrilità di linguaggio, negligenza delle convenienze teatrali, anzi tanto gli si svelenì contro da perderne, come si suol dire, la tramontana; poichè credendo averla con Plauto, se la pigliò invece con un grammatico del quattrocento, Codro Urceo, che nell’Aulularia rimasta incompiuta supplì di suo qualche scena; sì fine ed acuto dovette essere in questa materia il suo gusto ed il suo discernimento!

Ma tornando ad Orazio, dirò non mi sembrare verisimile ciò che ne pensa l’Heinsio. Conciossiachè, prima di tutto, Orazio, come si è veduto nella prima parte del presente scritto, nulla ebbe a ridire sul conto di Aristofane, il quale più assai di Plauto è triviale ed inverecondo; nè disapprovò Lucilio che lo imitò, e che dagli autori della prisca commedia trasse l’acre, il pungente, il satirico, il ridicolo (Sat., I, 4): Hinc omnis pendet Lucilius, hosce secutus – Mutatis tantum pedibus, numerisque, facetus – Emunctae naris..... Di poi, egli è ben vero, che a razzolare in Plauto s’incontrano brutture ed oscenità stomachevoli: ma stava per questo ad Orazio di metter tutto in un fascio senza distinzione, e col cattivo riprovare anche il buono? Tanto più che spesso non meno del Sarsinate pecca in siffatta materia anche il Venosino, sebben professi: Non ego inornata et dominantia nomina solum – Verbaque, Pisones, Satyrorum scriptor amabo, e debbano a suo giudizio i Fauni guardarsi ne immunda crepent ignominiosaque dicta. Conciossiachè non è anco egli triviale quando usa il versus ructatur, il minxerit in patrios cineres, quando dice: merdis caput inquiner albis corvorum, atque in me veniat mictum atque cacatum (Sat., I, 8, 37)? e non è altresì osceno, a tacer d’altro, quando mi racconta una certa avventura notturna in un suo viaggio a Brindisi (Sat., I, 5, 82), e quando (ibid., 2, 116) col linguaggio del lupanare mi ragiona dei suoi gusti venerei?

Non sono adunque la lubricità dello scherzo e la volgarità del linguaggio che offendessero il delicatissimo gusto di Flacco, e molto meno potevan la pietà e la morale malmenate premere a lui epicureo in teoria ed in pratica, a lui che si dava per parcus deorum cultor et infrequens (Od., lib. I, 34), e scriveva: Sed satis est orare Iovem, quae ponit et aufert: – Det vitam, det opes; aequum mi animum, ipse parabo . La vera causa della sua ruggine con Plauto, checchè ne creda l’Heinsio, secondo m’è avviso, ci si appalesa nella Epistola 2a del lib. I, nella quale, pigliate le mosse da Augusto a cui scrive, il quale a differenza degli altri valentuomini era onorato e adorato vivente, mentre gli altri non si lodano che dopo morte, percuote gli invidiosi e pedanti grammatici de’ suoi tempi, i quali, a disprezzo dei moderni, esaltavano oltre il merito gli antichi, principalmente i drammatici, fino a mettere in cielo quei rozzi monumenti della prisca latinità non più intesi da alcuno; e le opere recenti dannavano sol perchè recenti. Punto in sul vivo Orazio e giustamente irato contro una tale pedantesca idolatria, come avviene a chi combatte un opposto, diede nell’opposto contrario, e lasciandosi trasportare alla passione, quanto quelli levavano in alto gli antichi, altrettanto egli li abbassò e li depresse. Nè con questo io intendo di far ingiuria al senno di lui, supponendolo alquanto offuscato da qualche verghetta d’amor proprio offeso; poichè Orazio alla fine non fu un modello di umiltà e di modestia; e del resto, come dice Plinio: Nemo est qui omnibus horis sapiat; nè perciò sarà egli meno reputato per quel grand’uomo che da tutti è riconosciuto. Anche Galileo, per mo’ di esempio, fu, almeno in parte, ingiustamente severo al Tasso e lo bistrattò villanamente, scendendo dall’alto dei cieli e ravvolgendosi nel fango di amare e virulente censure; ma ciò non ne menoma la fama immortale, anzi è provvidenziale, osserva saggiamente il Monti, che i savii ed i grandi talvolta commettano cotali difetti acciocchè conoscan se stessi, e dagli altri siano conosciuti per uomini, chè anche loro hanno di quel d’Adamo, come direbbe Dante.

Ma se Plauto in Orazio ed in altri ebbe critici e detrattori, molti più incontrò ammiratori: tra i quali Cicerone già citato innanzi, il cui giudizio può bene contrappesare quello di Orazio; Varrone, che, oltre la lode datagli da Elio Stolone, gli aggiunge quella della grazia e della vivacità del dialogo: in sermonibus palmam poscit Plautus; Quintiliano e Gellio, che lo chiama onore della lingua romana, principe della latina eleganza; Macrobio, che lo mette a paro di Cicerone nelle parole già riportate; Sidonio Apollinare, che per la facilità e la lepidezza dello scherzo lo colloca al di sopra dei Greci; S. Gerolamo di lettere latine intelligentissimo e di gusto squisito, il quale, oltre al farne lettura assidua e spiegarlo ai fanciulli, come egli stesso scrive ad Eustochio (e le parole sue furono già altrove citate), aveva in proverbio la plautina eleganza, come l’attico lepore: haec est plautina elegantia, hic lepos atticus. Fra i moderni non è bisogno citar nomi, poichè ognun sa quanto amore siasi destato per questo antichissimo comico, e quanti studii, siensi adoprati dai più rinomati eruditi sia a restituirne all’autenticità ed alla integrità, coi lumi della critica, il testo, sia a commentarne ed illustrarne le espressioni, e voltarlo nelle moderne favelle. Ultimamente, scrive il Bindi, il 5 marzo 1844 furono rappresentati i Captivi a Berlino dagli studenti dell’Università, presente il re, i ministri di stato, e i letterati e gli artisti di maggior fama. La scena rappresentava una piazza ed una strada di Pompei; il vestiario donato dal re era in tutto conforme ai tempi; e negli intermezzi si cantarono odi di Orazio poste in musica da Meyerbeer. L’effetto riuscì stupendo, e Plauto fu regalmente e dottamente applaudito, forse come mai non gli era incontrato: e l’ombra sua dovè fremere di gioia a vedere l’acerbo Venosino costretto di servire al suo trionfo.

Si accusa ancora Plauto di grave immoralità, e mentre si è con Terenzio di molto indulgenti, si è con Plauto troppo severi. Ma se si discorra dei soggetti delle commedie, non v’ha alcuna differenza fra l’uno e l’altro, poichè amendue li tolsero dai Greci, e trattarono quindi di pratichee d’intrighi amorosi; se non che Terenzio fu più nei motti e nei sali riserbato ed onesto, Plauto invece più facile e più libero; non però al segno che alcuni si danno a credere, conciossiachè abbia commedie, come i Captivi e l’Epidico, quanto al costume irreprensibili, ed anche nelle altre non sia sì abbondante e frequente il turpiloquio, che un savio ed avveduto traduttore non potesse velare od acconciamente risecare senza recar gran guasti al dramma. Del resto Plauto assecondava, più del proprio, il genio della maggior parte degli spettatori, che volevano essere da oscene salacità solleticati, e non avrebber fatto buon viso ad una commedia che con scherzi e parole meretricie non si fosse presentata sul teatro, poichè, a teneri e delicati sentimenti ed a linguaggio civile e pulito non essendo avvezzi, se ne annoiavano, come ebbe a provare Terenzio, a cui per due volte fu interrotta la rappresentazione dell’Ecira. Ma Plauto per sè non dovette essere uno spudorato e rotto al vizio, poichè non di rado si dà a veder conscienzioso e fornito di sentimento morale, come quando nel Curculio, atto IV, sc. 3a così si scaglia contro i lenoni e gli strozzini, due piaghe che appestavano Roma: «Garanzie da un ruffiano, il quale non ha di proprio che la lingua per tradire chi si fida di lui! A voi non appartengono nè le persone che vi fate schiave, nè quelle che fate libere, nè quelle che vi tenete sottoposte. Da nessuno comprate legittimamente, non rivendete legittimamente a nessuno. La vostra razza, se lo domandate a me, è come le mosche, le zanzare, le cimici, la pulci, i pidocchi; molestia, maledizione, rovina; di bene, nulla. Un galantuomo non si ferma con voi in piazza: se lo fa, lo accusano, lo svituperano, gli sputano addosso e dicono che vuol rovinarsi nell’onore e nelle sostanze, sebbene non abbia commessa nessuna colpa. E voi altri strozzini, nulla? Io vi metto precisamente alla pari: stiappe del medesimo ceppo. Costoro almeno se ne stanno nei vicoli, e voi nel bel mezzo della piazza; voi con gli scrocchi, e loro colle seduzioni e col bordello assassinate la gente. Per cagion vostra il popolo ha fatto un monte di leggi, che voi bucate appena fatte, trovando sempre qualche gretola; e così le leggi son per voi acqua bollita che presto si raffredda». Nè meno morale e costumato si mostra nel lungo monologo dell’atto II, sc. 1a del Trinummo, in cui il giovine Lusitele esaminando i danni e le rovine che il vago e licenzioso amore produce, lo abborre e si decide per la virtù. Alcune sentenze plautine, prese assolute e staccate dal resto, hanno certo dell’empietà e dall’inumanità, come la tanto famosa: De mendico male meretur, qui ei dat quod edit, aut quod bibat, – Nam et illud quod dat, perdit, et illi producit vitam ad miseriam ; ma è da osservare trattarsi prima di tutto in questo luogo, non già d’un mendico qualunque, ma di un prodigo che ha sparnazzato tutto il suo in bagordi ed in lussurie vergognose; in secondo luogo, che le suddette parole son poste in bocca d’un vecchio misero e tirato, il quale contrasta alla caritatevole generosità del figliuolo; finalmente, che lo stesso vecchio si corregge tantosto con temperar il detto, e confessare d’aver così favellato per dare un salutare avvertimento al figliuolo, acciocchè si guardi dal ridursi per i vizii a tale stato, ch’altri gli debba aver pietà: Non eo hoc dico, quin, quae tu vis, ego velim et faciam lubens: – Sed ego hoc verbum cum illi cuidam dico, praemonstro tibi, – Ut ita te aliorum miserescat, ne tui alios misereat: e così dicasi del resto. Io conchiuderò quanto alla moralità di Plauto colle parole, che a Plauto stesso fanno dire a questo proposito il Gradi ed il Rigutini: «Quanti Demeneti, quanti Ballioni, quante Acroteleuzie, quanti Pirgopolinici dovettero arrossire o bestemmiare in corpo, vedendo in sulla scena il proprio ritratto! Quanti giovani scapestrati, quanti vecchi rimbambiti, quante donne o cadenti o cadute non dovettero vergognarsi di se medesimi! Se il peggio della natura umana spesso non distruggesse i gagliardi effetti di un onesto insegnamento, dopo la rappresentazione d’una mia commedia, il popolo avrebbe dovuto fare a pezzi quanti Ballioni e Cappadoci e Liconi erano a Roma, e correre difilato a’ postriboli ed agli scannatoi per appiccarvi le fiamme. A differenza di certi vostri autori moderni, io non esposi il vizio con quell’arte perfida che riesce ad innamorarne la gente, ma lo esposi per flagellarlo e per bollarlo del marchio d’infamia. E se è vero quel che mi dicono, i vostri tempi non sono gran fatto diversi da’ miei, se forse il divario non consiste in una certa ipocrisia, che i miei non conobbero.»

Aggiungerò qui che certe freddure, certi scherzi compassati, che da taluni si riprendono quì e qua in Plauto, come p. e. nel prologo dei Captivi; Hos, quos videtis stare hic, capteivos duos, – Illic qui stant: ii stant ambo, non sedent: se letti ora sulle carte, paiono e sono goffaggini, forse allora sulla scena, per le circostanze, per qualche allusione a noi ignota, pel tono stesso della voce con cui vennero pronunziate, non furono tali; anzi poterono avere spirito ed acconcezza; ed è questa un’avvertenza, che mi sembra essenziale alla lettura degli antichi e necessaria a volerli rettamente giudicare, poichè è d’uopo, come si suol dire, mettersi nei loro panni e considerare le cose come erano o dovevano essere a quelle stagioni, facendo astrazione da quello che è presentemente, chi non voglia per ignoranza e per precipitazione essere con loro ingiusto.

23. Catalogo delle commedie Plautine. – Qual fosse il numero delle commedie composte da Plauto, fu già questione fra gli antichi, poichè Gellio gliene attribuisce centotrenta, Elio venticinque, e Varrone su questo argomento scrisse un apposito libro De comoediis plautinis. Causa di questa incertezza fu l’avere Plauto ritocco e raffazzonato molte commedie composte da altri a sua imitazione, e come a maestro alla sua revisione sottoposte; e l’essersi confuse colle sue un buon dato d’altre di un certo Plauzio, le quali per altro si sarebber dovute chiamare non plautinae, ma plautianae. Per conseguenza, oltre Varrone, molti grammatici, come narra Gellio, tentarono di formare un canone delle vere plautine separandole dalle apocrife e spurie, e furono L. Elio, Volcazio Sedigito, Claudio, Aurelio, Accio e Manilio. Ma a tutti sopravvisse e a preferenza degli altri fu comunemente ricevuto il catalogo di Varrone, che comprende le venti commedie dette per questo varroniane, pervenute fino a noi, oltre una intitolata Vidularia, la quale s’è perduta; poichè, come osserva il Bähr, per essersi trovata verosimilmente alla fine della raccolta, potè più facilmente essere stracciata via dal manoscritto. Queste venti commedie, eccettuate le Bacchidi, che trovansi fuor di luogo, furono disposte, come si crede, da Prisciano in ordine alfabetico, ed a lui si attribuiscono altresì i brevi argomenti in versi premessi a ciascuna, dei quali altri fanno autore Sidonio Apollinare, sebbene, come dice il Bähr, la purezza di lingua in cui sono scritti riveli l’opera di qualche grammatico che li stese in epoca più antica, quando era ancora in fiore la letteratura latina.

Ecco l’ordine di queste commedie:

Amphitruo, chiamato nel prologo tragicommedia, perchè vi agiscono Giove e Mercurio, personaggi da tragedia, ed appartiene forse a1 genere delle rintoniche. Secondo il Petersen sarebbe stata scritta l’anno 560 di Roma; tra il 538 e il 539 secondo il Windischmann.

Asinaria, scritta in greco, come dice il prologo, da Demofilo e intitolata Onagros, da Plauto tradotta in barbaro, – Marcus vortit barbare , e sarebbe stata scritta dall’anno 560 al 568. Il titolo è tratto dal prezzo di alcuni asini venduti, che serve agli osceni intrighi d’un vecchio scostumato.

Aulularia, da, aula, olla o pentola in cui l’avaro Euclione tiene appiattato il suo tesoro; essa manca della fine, e come si è detto, fu supplita da Codro Urceo.

Captivi, composta secondo il Bähr in età matura, e forse circa l’anno 560.

Curculio, così nominata dal parassito di questo nome, che è il protagonista del dramma.

Casina, imitata, come dice il prologo, dalle Clerumenoe di Difilo, ed in latino detta Sortientes. Casina è il nome della schiava ambita dal padre e dal figliuolo.

Cistellaria, così detta da un canestro da cui dipende la soluzione del nodo; e, come si è detto, probabilmente essa fu il primo lavoro di Plauto.

Epidicus, dal nome del protagonista; questa è la commedia di cui Plauto più si compiacesse, com’egli stesso attesta nell’atto II, sc. 2a delle Bacchidi: Epidicum, quam ego fabulam aeque ac meipsum amo.

Bacchides, imitata dal greco e mutila del prologo e della scena 1a dell’atto I, suppliti, come credesi, da Antonio Beccadello detto il Panormita.

Mostellaria, detta anche Phasma.

Menaechmi, la miglior commedia d’intreccio che Plauto abbia composto, fondata sui varii accidenti ridicoli che seguono dalla somiglianza perfetta di due fratelli.

Miles gloriosus. Terenzio sul Pirgopolinice e sull’Artotrogo di questa commedia foggiò il Trasone ed il Gnatone del suo Eunuco.

Mercator, imitata dall’ Ἔμπορος di Filemone.

Pseudolus, anch’essa prediletta da Plauto, e rappresentata nell’anno 562, ed anche ai tempi di Cicerone dal celebre Roscio.

Poenulus, imitata dal Carchedonius di Menandro: questa commedia è notabile per le parole cartaginesi che si trovano nella scena 1a dell’atto V, martello degli eruditi.

Persa, mancante del prologo; si conta come una delle ultime di Plauto.

Rudens, imitata dal greco di Difilo, e di genere tenero e patetico come i Captivi.

Stichus, tolta anch’essa dal greco.

Trinummus, tratta dal θησαυρός di Filemone, e bella commedia d’intreccio.

Truculentus, della quale Plauto tanto si rallegrava, come dice Cicerone: Quam gaudebat Truculento Plautus .

Plauto ebbe molti commentatori ed illustratori fra gli antichi, come C. Cornelio Sisenna, Varrone, Terenzio Scauro ed altri; ma di questi grammatici sonosi perduti gli scritti o non rimangono che pochi frammenti e scarse notizie, onde siam privi di quella molta luce che le costoro opere avrebbero certamente sparso sul testo e sulle difficoltà e luoghi oscuri del gran comico latino.

24. Terenzio. – Quando Plauto nel 570 di Roma moriva, Terenzio contava già nove anni, onde Plauto poteva dire quello narrasi dicesse il vecchio Cicerone udendo leggere alcuni versi del giovane Virgilio: Magnae nascitur spes altera Romae, mettendo tuttavia, come meritava, se stesso per il primo.

Avanti Terenzio bisognerebbe dar qualche notizia di Cecilio Stazio, che oriundo della Gallia e schiavo, venne poi manomesso, e morì, come si crede, il 568 di Roma; ma quantunque Volcazio Sedigito fra i comici gli assegni il primo luogo: Caecilio palmam statuo dandam comico, e Cicerone lo dica comico sommo, i pochi frammenti di lui rimasti, dice il Bähr, non ci permettono di determinare su quali titoli fossero fondati questi encomii, e per quali pregi abbia meritato d’esser posto tra i maestri della commedia, Plauto, Terenzio, Afranio. I titoli superstiti d’alcuni suoi drammi arguiscono imitazione dal greco di Menandro, intorno a che già si è veduto altrove che cosa ne pensasse Gellio, come altresì si è accennato in che senso s’abbiano da intendere gli elogi fattigli da Cicerone.

Intorno a Publio Terenzio poche sono le notizie che abbiamo nella breve vita di lui scritta, secondo alcuni, da Elio Donato grammatico e maestro di S. Gerolamo, ch’alla prim’arte, dice Dante, degnò poner mano , e viveva in Roma sullo scorcio del 4° secolo del l’êra volgare; secondo altri attribuita a Svetonio Tranquillo, ma che probabilmente non appartiene a nessuno dei due, ed è opera di qualche altro che dai loro scritti raccolse e compendiò le notizie più principali. Adunque, conforme a quest’antico biografo, Terenzio nacque in Cartagine l’anno 561, pochi anni dopo la 2a guerra punica, e fu schiavo del senatore Terenzio Lucano, il quale per l’ingegno di lui e per la bellezza della persona non solo il fe’ istruire nelle umane lettere, ma assai presto il rese libero e probabilmente gli diede il suo nome. Lo storico Fenestella, nato 194 anni avanti l’êra volgare, e morto l’anno 161, dubitava come Terenzio da Cartagine avesse potuto venire a Roma, perchè nato essendo dopo la fine della 2a guerra punica e morto nove anni prima della 3a, in questo lasso di tempo Roma fu in pace con Cartagine, nè commercio alcuno esistette tra queste due città se non dopo distrutta Cartagine, onde niuna occasione si ebbe di fare o comprar schiavi; chè se si suppone preso dai Numidi e dai Getuli, che in quel tempo guerreggiavano coi Cartaginesi, per la stessa ragione non si può intendere come venisse alle mani d’un padrone romano. Madama Dacier nelle note alla vita di Terenzio, a questo luogo osserva che sebbene prima della rovina di Cartagine i Romani non facessero un grande e vivo commercio coi Cartaginesi, per aver uno schiavo, come Terenzio, bastava bene che ci avessero qualche piccola relazione di certo loro non mancata; e soggiunge che dopo la 2a guerra punica due o tre fiate s’inviarono da Roma a Cartagine ambasciatori per comporre le differenze e le contese tra i Cartaginesi ed i Numidi, come vedesi in più luoghi di Livio, e per conseguenza poterono da qualche Numida comprare questo schiavo cartaginese. Checchè sia di questo, se Terenzio nacque veramente in Cartagine, e in Roma non fu recato bambino com’è credibile, è cosa maravigliosa, come nei pochi anni di sua vita, che non passò i trentaquattro, abbia sì dimenticato il natio linguaggio ed appreso il romano per modo da non lasciar mai scorgere il forestiero, e mentre in Tito Livio fu notata la patavinità, in lui non una frase, non una parola si trovi che non sia puramente e schiettamente romana: oppure è da dire ch’ei fosse oriundo africano, ma nato in Roma da qualche schiavo cartaginese ai tempi di Attilio Regolo quivi rimasto; il che non avrebbe ripugnanza alcuna e non toglierebbe che Terenzio, per rispetto all’origine, si chiamasse africano.

A differenza di Plauto che girava la macina e viveva tra la plebe, Terenzio ebbe usanza e famigliarità co’ signori, ed il suo biografo racconta che fu intrinseco amico di Scipione Africano e di C. Lelio, ai quali devesi aggiungere Furio Filo nominato nei versi di Porzio, e da Cicerone come giovane di molte lettere e di facile e gentil favellare lodato, e introdotto a disputare nei libri della repubblica. A sentir Porzio cotesta amicizia non sarebbe stata gran fatto pura e sincera, nè a Terenzio avrebbe fruttato una vita comoda ed agiata, lasciandolo anzi morire nella miseria:

Dum lasciviam nobilium et laudes fucosas petit,
Dum Africani vocem divinam inhiat avidis auribus,
Dum se ad Furium coenare, et Laelium pulchrum putat,
Dum se rapi in Albanum crebro aetatis ob fiorem suae,
Ipsus laetis rebus summam ad inopiam redactus est,
Itaque e conspectu omnium abiit Graeciam in terram ultimam.
Mortuu ’st in Stymphalo Arcadiae oppido.Nil Publius
Scipio profuit, nil ei Laelius, nil Furius,
Tres per idem tempus qui agitabant nobiles facillume.
Eorum ille opera ne domum, quidem habuit conductitiam,
Saltem ut esset, quo referret obitum domini servolus.

Se non che l’esser egli morto in tanto squallore di povertà viene apertamente smentito dal citato biografo, il quale dice che maritò la figlia ad un cavalier romano e lasciò morendo per venti iugeri di orti lungo la via Appia presso la villa di Marte. La prima commedia composta da Terenzio fu l’Andria, cui egli giovinetto presentò da comprarsi agli edili, che non fidandosi del lavoro per la giovane età del poeta, ne ’l mandarono al rinomato Cecilio per averne il giudizio e l’approvazione, il quale ricevutolo dapprima con sussiego e con piglio e faccia severi, fattolo sedere su di uno scanno a’ suoi piedi, com’ebbe sentiti i primi versi, ne fu talmente ammirato che il fe’ porre a tavola con sè, e colmatolo di onori lo ammise tra gli amici. Ma, se vero è il racconto, la commedia letta a Cecilio non potè certamente essere l’Andria, la quale non fu la prima composizione di Terenzio; poichè rilevasi dal prologo di essa che già n’avea dato altre al teatro, cui difende dalle imputazioni degli emuli e dei malevoli:

Poëta quum primum animum ad scribendum appulit,
Id sibi negoti credidit solum dari,
Populo ut placerent quas fecisset fabulas.
Verum aliter evenire multo intelligit,
Nam in prologis scribundis operam abutitur,
Non qui argumentum narret sed quî malevoli
Veteris poëtae maledictis respondeat.

Per la sua giovane età, per la coltura dei gentiluomini coi quali usava, forse anche per non supporsi in lui cartaginese sì profonda conoscenza ed uso sì natio ed elegante della latina favella, fu Terenzio sospettato di plagiario, e principalmente per l’invidia di Luscio Lanuvino vecchio poeta comico, contro il quale e’ si difende pressochè in tutti i prologhi, apertamente accusato che vendesse per sue le commedie composte da Scipione e da Lelio, o che almeno fosse da costoro aiutato; la qual accusa venne in seguito accolta da Q. Memmio, che nell’orazione in sua difesa scrive: Q. Africanus, qui a Terentio personam mutuatus, quae domi luserat ipse, nomine illius in scenam detulit; e più ancora da Cornelio Nepote, il quale racconta come in Pozzuoli alle calende di marzo, festa delle matrone, C. Lelio avvisato dalla moglie, che la cena era in tavola e i convitati aspettavano, si fe’ attendere alquanto, ed entrato poscia nel triclinio, a chi gli domandava la cagione del ritardo rispose, niun giorno mai avere avuto, in cui fosse più in tempera a scrivere che quello, e citò un verso composto allora, il qual si trova nell’Eautontimorumenos att. IV° sc. 3 a di Terenzio: Satis pol proterve me Syri promissa huc induxerunt. Terenzio stesso leggiermente e con deboli ragioni, nel prologo degli Adelfi se ne scusò e difese in guisa, che pare insinuare l’accusa essere fondata e vera:

Nam quod isti dicunt malevoli, homines nobiles
Eum adiutare, assidueque una scribere,
Quod illi maledictum vehemens esse existumant,
Eam laudem hic ducit maxumam, quum illis placet,
Qui vobis universis et populo placent;
Quorum opera in bello, in otio, in negotio
Suo quisque tempore usu ’est sine superbia.

Ma, come osserva il biografo, probabilmente Terenzio si schermì dall’accusa in modo che parve consentirla, per non offendere i suoi illustri amici e benefattori, ai quali non dispiaceva che la pubblica opinione a loro attribuisse componimenti sì eleganti e sì perfetti, quali erano que’ di Terenzio; tanto è vero che i signori credonsi, non che d’altro, arbitri e padroni dell’anima e dell’ingegno dei poveretti, che bisognosi di campar la vita si conducono ai loro servigi; onde a ragione l’Alighieri (Par., XVII, 58):

«Tu proverai sì come sa di sale
Lo pane altrui, e com’è duro calle
Lo scendere e ’l salir per d’altrui scale».

Disgustato Terenzio del mangiar questo pane amaramente salato, oppure desideroso di visitare le greche città ad esempio di Plauto, e meglio informarsi dei loro costumi, dopo di avere in sei anni dato alla luce le sei commedie che di lui abbiamo di presente, toltosi da Roma, s’imbarcò, e, come dice Volcazio, più non comparve: Navim quum semel – Conscendit, visus nunquam est; sic vita va cat. – Porzio, come si è veduto, lo fa morto poverissimo in Stinfalo d’Arcadia; ma Q. Cosconio racconta che ritornando di Grecia con trentotto commedie tradotte dal greco di Menandro, naufragò e perdette il frutto delle sue fatiche e de’ suoi sudori, di che ebbe tal disgusto, e tanto sel pose a cuore, che ammalatosi di malinconia in breve si morì sotto il consolato di Gneo Cornelio Dolabella e M. Fulvio Nobiliore, cioè, l’anno 594 di Roma. Secondo l’antico biografo egli fu di statura mediocre, di corpo gracile e sottile, di colore tendente al bruno; come infatti veder si può in un antico suo ritratto giunto fino a noi ed inciso in capo a parecchie edizioni, tra cui quella di Anna Dacier.

Terenzio non fu in alcuna sua commedia originale, ma tutte le voltò dal greco; il Formione, e l’Ecira da Apollodoro, le altre quattro, l’Eunuco, l’Andria, gli Adelfi, l’Eautontimorumenos da Menandro; nè per questo gli parve d’essere plagiario, poichè, come dice lo Schlegel, l’idea del plagio per lui non si stendeva oltre la letteratura latina, e quando e’ recato avesse dal greco una commedia non per anche tradotta da altri, sembravagli far di suo; il che si scorge dal prologo dell’Eunuco, nel quale racconta, che essendo alle prove di questa commedia davanti gli edili presente il solito Luscio Lanuvino, ed uscito a gridare che e’ l’avesse rubata a Nevio, ed a Plauto dall’Adulatore, dai quali aveva tolto il personaggio del parassito e del soldato, egli si difese con dire di non conoscere l’esistenza di queste commedie latine, che quindi non aveva commesso furto, ma i suoi personaggi tratti dall’Adulatore di Menandro:

. . . . . . . . . . . . . Nunc quam acturi sumus
Menandri Eunuchum, postquam Aediles emerunt,
Perfecit, sibi ut inspiciundi esset copia.
Magistratus quum ibi adesset, occepta ’st agi.
Exclamat, furem, non poëtam fabulam
Dedisse, et nil dedisse verborum tamen:
Colacem esse Naevi et Plauti veterem fabulam;
Parasiti personam inde ablatam et militis.
Si id est peccatum, peccatum imprudentia ’st
Poëtae, non qui furtum facere studuerit.
Id ita esse, vos iam iudicare poteritis;
Colax Menandri est; in ea est parasitus Colax,
Et Miles gloriosus: eas se non negat
Personas transtulisse in Eunuchum suam
Ex Graeca: sed eas fabulas factas prius
Latinas scisse sese, id vero pernegat.

Ma se Terenzio non inventò commedie, usò nel tradurle dal greco un metodo ch’egli chiama contaminazione, vale a dire di due greche ne fece una latina, come p. e. l’Andria compose fondendo insieme l’Andria e la Perinzia di Menandro; di che veniva già fin d’allora accusato multas contaminasse graecas, dum facit paucas Latinas , e ne lo vituperavano come di metodo mostruoso: Id isti vituperant factum atque in eo disputant – Contaminari non decere fabulas (Andria, prol.). Ma egli risponde (Ibid.), così aver adoperato Nevio, Plauto, Ennio, la cui trascuratezza ama meglio di seguire, che non la ignobile accuratezza degli accusatori, e professa che, non che pentirsi del fatto, seguiterà per lo innanzi a valersi della contaminazione ad esempio dei buoni scrittori comici che lo aveano preceduto. Ed invero a leggere le sue commedie, l’accusa si dimostra falsa e mossa dalla malignità degli invidiosi, conciossiachè il nodo è così ben intrecciato e ridotto ad unità, le scene sì acconciamente consertate e con sì bell’ordine succedentisi, che non generano la menoma confusione, nè ritardano od inceppano per nulla l’andamento dell’ azione, di modo che chi non lo sapesse innanzi, giammai si accorgerebbe, per acuto e sottile che fosse, due essere i drammi che formano il tessuto di quello, che ha dinnanzi agli occhi. Con tanto garbo adunque e con tanta avvenevolezza seppe Terenzio rimpastare le commedie di Menandro, che talvolta, al dir di Varrone, gli entrò innanzi, e lo vinse in grazia ed in delicatezza, come p. e. nel principio degli Adelfi; e Giulio Cesare, sebbene gli negasse l’estro e la forza comica, lo chiamò tuttavia un mezzo Menandro:

Tu quoque, tu in summis, o dimidiate Menander,
Poneris, et merito puri sermonis amator.
Lenibus acque utinam scriptis adiuncta foret vis
Comica, ut aequato virtus polleret honore.

Le commedie di Terenzio hanno un carattere al tutto diverso da quelle di Plauto, poichè in queste tu scorgi una fantasia briosa e vivacissima, talvolta sbrigliata, in quelle un’immaginazione calma, serena, tranquilla; nelle une incontri pitture rozze e quasi appena sbozzate, ma di tratti risentiti e di colorito fiammante, nelle altre gran finitezza di lavoro, maneggio delicato di pennello, tinte temperate ed uniformi; in quelle caratteri forti, spesso anche esagerati, in queste più deboli, ma più naturali; Plauto nel dialogo procede impetuoso come fiume sonante, Terenzio placido e leggiero simile a ruscelletto che mormora; la facezia ed il motteggio di Plauto pieni di vita e di spirito scoccano come elettrica scintilla, il ridicolo di Terenzio è più scarso, meno spontaneo, ma più castigato e più civile; lo stile di Plauto è rapido, incolto, duro, e la lingua raccolta dalla bocca del popolo: Terenzio invece usa la lingua che adoperarono poi Cicerone e Virgilio, ed uno stile grazioso, con elegante sobrietà ornato e fiorito; Plauto in somma è il poeta del popolo, Terenzio il poeta della gente colta e dei letterati. Nelle commedie di Terenzio non trovi la spensierata festività di Plauto, ma una cotal tinta leggiera di patetico e di malinconico si diffonde per tutto il dramma, e vi domina un sentimento di tenerezza e di affetto ignoto a Plauto; i padri sono sempre teneri ed affettuosi anco quando si adirano e minacciano; il vecchio Menedemo p. e. che ad espiare la soverchia severità usata col figliuolo Clinia si affligge, e si punisce da sè col lavorare da mane a sera, muove a compassione; come piace e si ammira Creme, che lo consola e lo invita a sollevarsi dalle fatiche interessandosi vivamente de’ fatti suoi, portando per ragione quella generosa sentenza meritamente divenuta celebre: Homo sum; humani nihil a me alienum puto: i giovani se non sempre costumati, conservano nondimeno affetto e riverenza verso i genitori, come il Panfilo dell’Ecira, e lo stesso Eschine degli Adelfi; parassiti non sono tanto vili ed ingordi, ma atti anche a rendere un servigio, e tener in sè, come Formione nella commedia di questo nome; i servi, sebbene trappoloni e raggiratori, mantengono tuttavia un certo fondo di naturale onestà, come Davo nell’Andria, il quale sente rimorso di dire la bugia, e fa poner il bambino, sono parole di Giambattista Vico, innanzi l’uscio di Simone con le mani di Miside, acciocchè se per avventura di ciò sia domandato dal suo padrone, possa in buona coscienza niegare di averlovi posto esso: il buon Parmenone dell’Ecira, che dal difetto di essere un po’ linguacciuto e cicala in fuori, è un servo dabbene ed affezionato alla casa; ed il generoso Geta degli Adelfi, che col lavoro delle sue mani alimenta la povera famigliuola della vedova Sostrata: le cortigiane sono ancora capaci di qualche rimorso, e acconce a fare un po’ di bene, come la Taide dell’Eunuco, ma più di tutte la Bacchide dell’Ecira, che per metter la pace nella famiglia di Panfilo non si perita di sviarlo da sè, e si rallegra di avere, mediante una ricognizione, ridottolo a vivere d’amore e d’accordo colla moglie, quantunque ella n’abbia il danno; cosa che, come dice essa stessa, le altre cortigiane non farebbero; che più? gli stessi lenoni non son così stomachevoli come in Plauto, ed un Lico, un Ballione in Terenzio cercheresti indarno; il Sannione degli Adelfi, p, e., per ruffiano è ancora una coppa d’oro, ut usquam fuit fide quisquam optuma , come dice egli stesso, e pazientemente s’assoggetta e si rassegna ai sodissimi pugni che per ordine di Eschine gli appoggia Parmenone, ed esortato da Siro a volere un tratto andar a’ versi del giovane, risponde: O poteva io farlo anche più, che tutt’oggi gli lasciai questo viso a sua requisizione? – Qui potui melius? qui hodie usque os praebui .

Nel maneggio degli affetti Terenzio è delicato maestro: l’Ecira è un dramma in tutto commovente; quanto bello e gentile si è il carattere di quella Filumena che sposata a Panfilo, il quale non la menava che per rispetto al padre, ne tollera paziente e rassegnata le bizzarrie e i duri trattamenti; e d’altra parte quanto generoso è il carattere dello stesso Panfilo, che facendo pensiero di rimandarla un giorno al padre, si guarda bene dal disonorarla e farle ingiuria. La povera Sostrata madre di Panfilo, donna dabbene ed affettuosa, accagionata a torto dei guai che nascono in casa, ed agramente ripresa dal marito Lachete, eccita un vero senso di pietà: ma commovente fino alle lagrime è la scena 3a dell’atto III in cui Panfilo narra, come la madre di Filumena sua moglie lo scongiurasse a tenere occulto il parto, che si credeva illegittimo, di essa Filomena; e merita bene di essere qui recata:

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Corripui illico
Me inde lacrumans, incredibili re atque atroci percitus.
Mater consequitur, iam ut limen exirem, ad genua accidit
Lacrumans misera; miseritum est.Profecto hoc sic est, ut puto;
Omnibus nobis ut res dant sese, ita magni atque humiles sumus.
Hanc habere orationem mecum principio institit:
O mi Pamphile, abs te quamobrem haec abierit, caussam vides;
Nam vitium est oblatum virgini olim ab nescio quo improbo.
Nunc huc confugit, te atque alios partum ut celaret suum.
Sed quum orata eius reminiscor, nequeo quin lacrumem miser!
Quaeque fors fortuna est, inquit, nobis quae te hodie obtulit,
Per eam te obsecramus ambae, si ius, si fas est, uti
Advorsa eius per te tecta, tacitaque apud omnes sient.
Si unquam erga te animo esse amico sensisti eam, mi Pamphile,
Sine labore hanc gratiam te, ut sibi des, illa nunc rogat,
Ceterum de reducenda, id facias quod in rem sit tuam.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . Nunc si potis est, Pamphile,
Maxume volo doque operam, ut clam parto eveniat patrem,
Atque adeo omnes; sed si fieri id non potest, quin sentiant,
Dicam abortum esse; scio nemini aliter suspectum fore,
Quin quod verisimile est, ex te recte eum natum putent.
Continuo exponetur; hic tibi nihil est quidquam incommodi, et
Illi miserae indigne factam iniuriam contexeris.
Pollicitus sum et servare in eo certum ’st, quod divi, fidem.
Nam de reducenda, id vero neutiquam honestum esse arbitror,
Nec faciam, etsi amor me graviter consuetudoque eius tenet.
Lacrumo quae posthac futura ’st vita, quum in mentem venit
Solitudoque. O fortuna! ut nunquam perpetuo es bona!.

Commoventi altresì nell’Andria, atto I, sc. 5a, sono le parole con cui Panfilo ricorda gli estremi detti di Criside moribonda:

O Mysis, Mysis! etiam nunc mihi
Scripta illa dicta sunt in animo Chrysidis
De Glycerio.Iam ferme moriens, me vocat:
Accessi: vos semotae; nos soli; incipit:
Mi Pamphile, huius formam atque aetatem vides;
Nec clam te est, quam illi utraeque res nunc inutiles
Et ad pudicitiam et ad rem tutandam sient.
Quod ego te per hanc dextram oro, et per genium tuum,
Per tuam fidem, perque huius solitudinem,
Te obtestor, ne abs te hanc segreges neu deseras.
Si te in germani fratris dilexi loco,
Sive haec te solum semper fecit maxumi,
Seu tibi morigera fuit in rebus omnibus.
Te isti virum do, amicum, tutorem, patrem:
Bona nostra haec tibi permitto et tuae mando fidei.
Hanc mi in manum dat, mors continuo ipsam occupat.
Accepi, acceptam servabo.

Se Plauto, al dir di Varrone, ottiene la palma nel dialogo, nella pittura dei costumi sempre viva e parlante l’ottiene Terenzio; in sermonibus palmam poscit Plautus, in ethesin Terentius; e basti fra i moltissimi citare il ritratto, che degli innamorati fa Parmenone nell’Eunuco, del cui disegno e colorito si valsero quanti vollero in seguito dipingere siffatte persone, cominciando da Orazio, il quale non ne lasciò indietro neppur le parole. Così dunque ragiona Parmenone a Fedria, il quale con lui si consiglia se debba imbronciarsi del tutto con Taide, ed aspettare che la lo mandi a chiamare, od andare egli stesso il primo per essa, e riappiccar l’amicizia.

Si quidem hercle possis, nil prius neque fortius;
Verum si incipies, neque perficies naviter,
Atque ubi pati non poteris, quum nemo expetet,
Infecta pace, ultro ad eam venies, indicans
Te amare et ferre non posse; actum ’st, ilicet;
Peristi; eludet, ubi te victum senserit.
Proin tu, dum est tempus, etiam atque etiam cogita,
Here, quae res in se neque consilium, neque modum
Habet ullum, eam consilio regere non potes.
In amore haec omnia insunt vitia: iniuriae,
Suspiciones, inimicitiae, induciae,
Bellum, pax rursum; incerta haec si tu postules
Ratione certa facere, nihilo plus agas,
Quam si des operam, ut cum ratione insanias.
Et quod nunc tute tecum iratus cogitas:
Egone illam? quae illum? quae me? quae non? sine modo:
Mori me malim; sentiet qui vir siem:
Haec verba mehercule una falsa lacrimula,
Quam, oculos terendo misere, vix vi expresserit,
Restinguet: et te altro accusabis, et ei dabis
Ultro supplicium.

Breve, evidente ed efficace è ancora Terenzio nelle narrazioni e descrizioni, che ti paion fatte a tocchi di pennello maestro, ed in pochi tratti ti metton la cosa sotto gli occhi. Io recherò quella bellissima fra tutte, in cui il vecchio Simone nell’Andria racconta a Sosia, come in occasione del funerale di Criside venisse a scoprir l’amor del suo Panfilo per Glicerio, narrazione che del resto è piena di tenerezza e di affetto:

Sim.

Fere in diebus paucis, quibus haec acta sunt,

Chrysis vicina haec moritur. Sos. O factum bene!

Beasti; heu metui a Chryside. Sim. Ibi tum filius

Cum illis, qui amabant Chrysidem, una aderat frequens,

Curabat una funus, tristis interim,

Nonnunquam conlacrumabat: placuit tum id mihi.

Sic cogitabam: Hic parvae consuetudinis

Causa, mortem hujus tam fert familiariter:

Quid si ipse amasset? quid mihi hic faciet patri?

Haec ego putabam esse omnia humani ingeni,

Mansuetique animi officia; quid multis moror?

Egomet quoque ejus causa in funus prodeo,

Nil suspicans etiam mali. Sos. Hem! quid est? Sim. Scies.

Effertur, imus. Interea inter mulieres,

Quae ibi aderant, forte unam adspicio adolescentulam,

Forma... Sos. Bona fortasse? Sim. Et voltu, Sosia,

Adeo modesto, adeo venusto, ut nihil supra.

Quia tum mihi lamentari praeter caeteras

Visa est; et quia erat forma praeter caeteras

Honesta et liberali, accedo ad pedissequas;

Quae sit rogo: sororem esse ajunt Chrysidis.

Percussit illico animum: at at! hoc illud est;

Hinc illae lacrumae, haec illa ’st misericordia.

Sos.

Quam timeo quorsum evadas! Sim. Funus interim

Procedit; sequimur: ad sepulcrum venimus;

In ignem imposita ’st; fletur. Interea haec soror,

Quam dixi, ad flammam accessit imprudentius,

Satis cum periclo; ibi tum exanimatus Pamphilus

Bene dissimulatum amorem, et celatum indicat:

Adcurrit, mediam mulierem complectitur.

Mea Glycerium, inquit, quid agis? cur te is perditum?

Tum’illa (ut consuetum facile amorem cerneres)

Rejecit se in eum flens, quam familiariter.

Sos.

Quid ais! Sim. Redeo inde iratus, atque aegre ferens:

Nec satin ad objurgandum caussae. Diceret:

Quid feci? quid commerui, aut peccavi, pater?

Quae se se in ignem iniicere voluit; prohibui;

Servavi: honesta oratio est. Sos. Recte putas,

Nam si illum objurges vitae qui auxilium tulit;

Quid facias illi, qui dederit damnum aut malum?.

Il ridicolo, lo scherzo ed il motteggio in Terenzio sono più che in Plauto leggieri e temperati, e se non destano le grasse risa, mantengono non pertanto nello spettatore e nel lettore una sobria e tranquilla allegria qual si conviene all’uomo savio e garbato, il quale sorride, ma sfugge la soverchia ilarità, conoscendo che il riso eccessivo degenera in una contrazione morbosa quanto al corpo, e quanto allo spirito, rivela un’anima frivola e sciocca. Pure se si ha da notare qualche difetto della così detta vis comica nelle commedie di Terenzio, io direi essere appunto questo, che i suoi drammi talora paiono pender troppo al grave ed al serio, ed i suoi personaggi trovansi talvolta più che in situazioni comiche, in tali condizioni, cui oggi i nostri chiamano interessanti, poichè toccano il cuore e commuovono profondamente; il che, come altrove si è osservato, sarebbe direttamente opposto all’indole ed allo scopo della commedia, ed avvicinerebbe di qualche poco le commedie di Terenzio a quello, che ai giorni nostri fu chiamato dramma lagrimoso, cui per altro, come notai già altra volta citando la sentenza del Metastasio, io non mi arrischierei di condannare a priori, quando fosse maestrevolmente trattato e facesse bella prova. Non è a dire per questo che Terenzio non abbia spontaneità, spirito e brio nel motteggiare, e che mostri nello scherzo una vena debole e pressochè esausta; anzi tratto tratto offre scene saporitissime, e contrasti vivaci e talmente comici, che lo stesso Plauto se ne potrebbe contentare, con questo di più, che l’intento suo di eccitare il riso è meno che in Plauto appariscente; conciossiachè il suo scherzo è in certa guisa furtivo, onde più alletta e diverte chi per gentilezza di natura e per coltura di spirito sia atto a gustarlo; sicchè di lui si può dire quello che della donna sua diceva Tibullo: Componit furtim, subsequiturque decor. Di tali scene, fra le moltissime, io sceglierò alcune poche, in modo da non varcare i limiti della brevità che mi sono proposta; ma credo potranno bastare come lieve saggio a dare un’idea generale del ridicolo di Terenzio, ed invogliare altri a volerne conoscere più addentro.

Per esempio negli Adelfi la scena 3a dell’atto III offre un bellissimo contrasto tra quel severo ed avaro vecchio di Demea, e quello scozzonato furbacchione di Siro, che a bella posta gli dà la soia per farlo cantare, e mentre quegli si distende in precetti di morale e di educazione, questi sciorina a proposito con fine buffoneria esempi e comparazioni tolte dalla cucina: non mi si vorrà male s’io la reco qui tutta intiera:

Demea.

Disperii; Ctesiphonem audivi filium

Una adfuisse in raptione cum Æschino.

Id misero restat mihi mali, si illum potest,

Qui alicui rei est, etiam eum ad nequitiem abducere.

Ubi ego illum quaeram? credo abductum in ganeum

Aliquo; persuasit ille impurus, sat scio.

Sed eccum ire Syrum video, hinc scibo jam ubi siet.

Atque hercle hic de grege illo est: si me senserit

Eum quaeritare, nunquam dicet carnufex.

Non ostendam id me velle.

Syrus.

(secum) Omnem rem modo seni,

Quo patto haberet, enarramus ordine;

Nil quicquam vidi laetius. Dem. (secum) Pro Iuppiter

Hominis stultitiam! Syr. Collaudavit filium;

Mihi, qui id dedissem consilium, egit gratias.

Dem.

Disrumpor. Syr. Argentum adnumeravit illico,

Dedit praeterea in sumtum dimidium minae

Id distributum sane est ex sententia. Dem. Hem!

Huic mandes, si quid recte curatum velis.

Syr. Hem! Demea: haud adspexeram te; quid agitur?
Dem.

Quid agatur? vostram nequeo mirari satis

Rationem. Syr. Est hercle inepta, ne dicam dolo, atque

Absurda. Pisces ceteros purga (conservis clamitans), Dromo;

Congrum istum maxumum in aqua sinito ludere

Paullisper: ubi ego venero, exossabitur:

Prius nolo. Dem. Haeccine flagitia!

Syr.

Mihi quidem non placent,

Et clamo saepe: (servis) Salsamenta haec, Stephanio,

Fac macerentur pulchre. Dem. Di vostram fidem!

Utrum studione id sibi habet, an laudi putat

Fore, si perdiderit gnatum? Vae misero mihi!

Videre videor jam diem illum, quum hinc egens

Profugiet aliquo militatum. Syr. O Demea!

Istuc est sapere, non quod ante pedes modo ’st

Videre, sed etiam illa, quae futura sunt,

Prospicere. Dem. Quid? istaec jam penes vos psaltria est?

Syr.

Ellam intus. Dem. Eho, an domi est habiturus? Syr. Credo, ut est

Dementia. Dem. Haeccine fieri? Syr. Inepta lenitas

Patris et facilitas prava. Dem. Fratris me quidem

Pudet pigetque. Syr. Nimium inter vos, Demea (ac

Non quia ades presens, dico hoc), pernimium interest.

Tu, quantus quantus, nihil nisi sapientia ’s:

Ille somnium; sineres vero illum tu tuum

Facere haec? Dem. Sinerem illum, aut non sex totis mensibus

Prius olfecissem, quam ille quicquam coeperit?

Syr.

Vigilantiam tuam tu mihi narras? Dem. Sic siet.

Modo, ut nunc est, quaeso. Syr. Ut quisque suum volt esse, ita ’st.

Dem.

Quid eum? vidistin’ hodie? Syr. Tuum ne filium?

(secum) Abigam hunc rus. (ad Dem.) Jamdudum aliquid ruri agere arbitror.

Dem.

Sati’ scis ibi esse? Syr. Oh! quem egomet produxi. Dem. Optume ’st,

Metui ne haereret hic. Syr. Atque iratum admodum.

Dem.

Quid autem? Syr. Adortus est jurgio fratrem apud forum

De psaltria isthac. Dem. Ain’ vero? Syr. Vah, nil reticuit.

Nam ut numerabatur forte argentum, intervenit

Homo de improviso; coepit clamare: «O Æschine,

Haeccine flagitia facere te? haec te admittere

Indigna genere nostro?» Dem. Oh! lacrumo gaudio.

Syr. «Non tu hoc argentum perdis, sed vitam tuam».
Dem. Salvus sit: spero: est simile majorum suum. Syr. Hui!
Dem.

Syre, praeceptorum plenus istorum ille. Syr. Phy!

Domi habuit unde disceret. Dem. Fit sedulo:

Nil praetermitto, consuefacio; denique

Inspicere, tanquam in speculum, in vitas omnium

Jubeo, atque ex aliis sumere exemplum sibi:

«Hoc facito». Syr. Recte sane. Dem. «Hoc fugito». Syr. Callide.

Dem. «Hoc laudi est» Syr. Isthaec res est. Dem. «Hoc vitio datur».
Syr.

Probissume. Dem. Porro autem. Syr. Non hercle ocium ’st

Nunc mi auscultandi: pisces ex sententia

Nactus sum; hi mihi ne corrumpantur cautio ’st,

Nam id nobis tam flagitium ’st, quam illa, Demea,

Non facere vobis, quae modo dixti: et, quod queo,

Conservis ad eundem istunc praecipio modum:

«Hoc salsum ’st; hoc adustum est, hoc lautum ’st parum,

Illud recte; iterum sic memento!» sedulo

Moneo quae possum pro mea sapientia.

Postremo, tanquam in speculum, in patinas, Demea,

Inspicere jubeo, et moneo, quid facto usu’ sit.

Inepta haec esse, nos quae facimus, sentio:

Verum quid facias? ut homo ’st, ita morem geras.

Numquid vis? Dem. Mentem vobis meliorem dari.

Syr.

Tu rus hine abis? Dem. Recta. Syr. Nam quid tu hic agas,

Ubi, si quid bene praecipias nemo obtemperat?

Dem. Ego vero hinc abeo, etc.

Così ridicola è ancora negli stessi Adelfi la scena 2a dell’atto IV, nella quale Siro tenta di allontanare Demea dalla casa di Mizione, acciocchè non vi trovi il figliuolo, e gli dà perciò ad intendere mille favole e pastocchie; poscia, cercando egli di Mizione, con false indicazioni lo manda a scavezzarsi il collo per vicoli e per chiassetti, e come lo vede avviato, gli scaglia dietro questo complimento: I sane: ego te exercebo hodie, ut dignus es, silicernium: «Vatti pure, io te ne darò oggi una stratta che ti stia bene, robaccia da sepoltura». – Nella sc. 1a poi dell’atto V capita Demea tutto arrovellato, e trova Siro che fatto un ingoffo di buone vivande, ed ubbriaco per bene, esce a pigliar aria, e gli dice: Ecce autem hic adest – Senex noster. Quid fit? quid tu es tristis? Dem. Oh! scelus! Syr. Ohe, iam tu verba fundis hic sapientia? Dem. Tun’? si meus esses . . . . . Syr. Dis quidem esses, Demea, – ac tuam rem constabilisses .

Nell’Eunuco è saporita la scena V dell’atto III, nella quale con sbracata adulazione il parassito Gnatone va a’ versi di Trasone soldato, e loda alle stelle ogni sua goffaggine, mentre il soldato grullo assapora quegli elogi e se ne tiene, e dassi aria, che è uno smascellarsi dalle risa; ma di sapore più fino e più attico è la scena 7a dell’atto IV, dove Trasone co’ suoi leccapiatti ordina un assalto contro la casa di Taide per ritorle una fanciulla ch’ella gli aveva carpita, ed alla fine ne va colle pacche, e per paura scioglie le truppe e leva l’assedio. Eccola:

Thraso.

Hanccine ego ut contumeliam tam insignem in me accipiam, Gnatho?

Mori me satiu’ est. Simalio, Donax, Syrisce, sequimini.

Primum aedes expugnabo. Gnatho. Recte. Thr. Virginem eripiam. Gn. Probe.

Thr.

Male mulctabo illam. Gn. Pulchre. Thr. In medium huc agmen cum vecti, Donax;

Tu, Simalio, in sinistrum cornu; tu, Syrisce, in dexterum:

Cedo alios ubi centurio ’st Sanga, et manipulus furum? Sang. Eccum, adest.

Thr. Quid ignave? peniculon’ pugnare? qui istum huc portes cogitas?
Sang.

Egone? imperatoris virtutem noveram, et vim militum;

Sine sanguine hoc fieri non posse: qui abstergerem volnera.

Thr. Ubi alii? Sang. Qui, malum, alii? solus Sannio servat domi.
Thr. Tu hosce instrue; hic ego ero post principia; inde omnibus signum dabo.
Gn. (secum) Illuc est sapere: ut hosce instruxit, ipsus sibi cavit loco.
Thr.

Idem hocce Phyrrhus factitavit. Chremes. Viden’ tu, Thais, quam hic rem agit?

Nimirum consilium illud rectum ’st de occludendis aedibus.

Thais.

Sane, quod tibi nunc vir videatur esse, hic nebulo magnus est:

Ne metuas. Thr. Qui videtur? Gn. Fundant tibi nunc nimis vellem dari

Ut tu illos procul hinc ex occulto caederes: facerent fugam.

Thr.

Sed eccam Thaidem ipsam video. Gn. Quam mox irruimus? Thr. Mane:

Omnia prius experiri verbis, quam armis, sapientem decet.

Qui scis, an quae jubeam, sine vi faciat? Gn. Dî vostram fidem!

Quanti est sapere! nunquam accedo ad te, quin abs te abeam doctior.

Thr.

Thais, primum hoc mihi responde: quum tibi do iptam virginem,

Dixtin’ hos mihi dies soli dare te? Th. Quid tum postea? Thr. Rogitas?

Quae mi ante oculos coram amatorem adduxisti tuum?

Th. Quid cum illo ut agas? Thr. Et cum eo clam subduxisti te mihi?
Th. Libuit. Thr. Pamphilam ergo huc redde, nisi vi mavis eripi.
Chr. Tibi illam reddat? aut tu eam tangas? omnium..... Gn. Ah! quid agis? tace.
Thr. Quid tu tibi vis? ego non tangam meam? Chr. Tuam autem furcifer?
Gn.

Cave sis: nescis, cui maledicas nunc viro. Chr. (ad Gnat.) Non tu hinc abis?

(ad Thr.); Scin’ tu ut tibi res se habeat? si quidquam hodie hic turbae coeperis,

Faciam ud hujus loci, dieique, meique semper memineris.

Gn. Miseret tui me, qui hunc tantum hominem facias inimicum tibi.
Chr.

Diminuam ego caput tuum hodie, nisi abis. Gn. Ain’ vero, canis?

Siccine agis? Thr. Quis tu es homo? quid tibi vis? quid cum illa rei tibi est?

Chr. Scibis; principio eam esse dico liberam. Thr. Hem! Chr. Civem Atticam. Thr. Hui.
Chr.

Mea, sororem. Thr. Os durum. Chr. Miles nunc adeo edito tibi,

Ne vim facias ullam in illam. Thais, ego ad Sophronam eo

Nutricem, ut eam adducam, et signa ostendam haec. Thr. Tun’ me prohibeas,

Meam ne tangam? Chr. Prohibeo, inquam. Gn. Audin’ tu? hic furti se adligat,

Satin’ hoc est tibi? Thr. Hoc idem tu ais, Thais? Th. Quaere, qui respondeat (Chr. et Thais abeunt).

Thr.

Quid nunc agimus? Gn. Quin redeamus: iam haec tibi aderit supplicans

Ultro. Thr. Credin’? Gn. Imo certe; novi ingenium mulierum;

Nolunt ubi velis; ubi nolis, cupiunt ultro. Thr. Bene putas.

Gn.

Iam dimitto exercitum? Thr. Ubi vis. Gn. Sanga, ita ut fortes decet

Milites, domi focique fac vicissim ut memineris.

Sang. Iam dudum animus est in patinis. Gn. Frugi es. Thr. Vos me hac sequimini.

Un’altra scena, e sarà l’ultima ch’io reco, piena di spirito e di estro comico trovasi nel Formione. In essa i due vecchi fratelli Cremete e Demifone, giunti per un caso di fortuna ad ottenere l’intento, a cui miravano, di maritare l’uno la figlia col figliuolo dell’altro, vogliono ritorre al parassito Formione trenta mine stategli prima ad altro fine consegnate; ma Formione per levar loro il ruzzo di cercargli nulla, chiama fuori Nausistrata, la moglie di Cremete e rivelandole la tresca, che il marito suo dabbene di nascosto da lei teneva in Lemno, gliela riscalda per forma, che se non fosse dell’intervento di Demifone, la gli salterebbe al viso a fargli colle unghie e colle mani:

Demiph.

Rape hunc. Phor. Itane agitis? enimvero voce ’st opus.

Nausistrata, exi. Chr. Os opprime. Dem. Impurum vide:

Quantum valet! Phor. Nausistrata, inquam. Chr. Non taces?

Phor.

Taceam? Dem. Nisi sequitur, pugnos in ventrem ingere,

Vel oculum exclude. Phor. Est ubi vos ulciscar probe.

Naus.

(domo egrediens) Quis nominat me? Chr. Hem! Naus. Quid istuc turbae ’st, obsecro,

Mi vir? Phor. Hem, quid nunc obticuisti. Naus. Quis hic homo ’st?

Non mihi respondes? Phor. Hiccine ut tibi respondeat?

Qui hercle ubi sit nescit? Chr. Cave isti quicquam creduas.

Phor. Abi, tange, si non totus friget, me enica.
Chr.

Nihil est. Naus. Quid ergo est? quid istic narrat? Phor. Iam scies:

Ausculta. Chr. Pergin’ credere? Naus. Quid ego, obsecro,

Huic credam, qui nil dixit? Phor. Delirat miser

Timore. Naus. Non pol temere’ st, quod tu tam times.

Chr.

Egon’ timeo? Phor. Recte sane; quando nihil times,

Et hoc nihil est, quod dico ego, tu narra. Dem. Scelus!

Tibi narret? Phor. Eho tu, factum ’st abs te sedulo

Pro fratre. Naus. Mi vir, non mihi narras? Chr. At... Naus. Quid at...

Chr.

Non opus est dicto. Phor. Tibi quidem, at scito huic opu ’st.

In Lemno. Chr. Hem! quid ais? Dem. Non taces? Phor. Clam te... Chr. Hei mihi.

Phor. Uxorem duxit. Naus. Mi homo, Di melius duint.
Phor.

Sic factum ’st. Naus. Perii, misera. Phor. Et inde filiam

Suscepit jam unam, dum tu dormis. Chr. Quid agimus?

Naus. Pro Dii immortales! Facinus indignum et malum!
Phor.

Hoc actum ’st. Naus. An quidquam hodie est factum indignius?

Qui mihi, ubi ad uxores ventum ’st, tum fiunt senes.

Demipho, te appello, nam me cum hoc ipso distaedet loqui.

Haeccine erant itiones crebrae, et mansiones diutinae

Lemni? haeccine erat, ea quae nostros fructus minuebat vilitas?

Dem.

Ego, Nausistrata, esse in hac re culpam meritum non nego;

Sed ea quae sit ignoscenda.... Phor. (secum) Verba fiunt mortuo.

Dem.

Nam neque negligentîa tua, neque odio id fecit tuo.

Vinolentus, fere abhinc annos quindecim, mulierculam

Eam compressit, unde haec nata ’st, neque post illa unquam attigit.

Ea mortem obiit, e medio abiit, qui fuit in re hac scrupulus.

Quam ob rem te oro, ut alia facta tua sunt, aequo animo hoc feras.

Naus.

Quid ego aequo animo? cupio, misera, in hac re jam defungier.

Sed quid sperem? aetate porro minus peccaturum putem?

Jam tum erat senex, senectus si verecundos facit.

An mea forma atqua aetas nunc magis expetenda ’st, Demipho?

Quid mihi hic offert, quam ob rem expectem, aut sperem porro non fore?

Phor.

(secum) Exequias Chremeti, quibus commodum ire, jam tempus est.

Sic dabo; age nunc Phormionem, qui volet, lacessito;

Faxo tali eum mactatum, atque hic est, infortunio.

Redeat sane in gratiam; jam supplici satis est mihi;

Habet haec ei quod, dum vivat usque, ad aurem obganniat.

Naus.

At meo merito, credo; quid ego nunc commemorem, Demipho,

Singillatim, qualis ego in istum fuerim? Dem. Novi aeque omnia

Tecum. Naus. Meriton’ hoc meo videtur factum? Dem. Minime gentium;

Verum, quando jam accusando fieri infectum non potest,

Ignosce: orat, confitetur, purgat: quid vis amplius?

Phor.

Enim vero priusquam haec dat veniam mihi prospiciam et Phaedriae.

Heus, Nausistrata, priusquam huic respondes temere, nudi. Naus. Quid est?

Phor.

Ego minas triginta ab isto per fallaciam abstuli,

Eas dedi tuo gnato; is pro sua amica lenoni dedit.

Chr.

Hem! quid ais? Naus. Adeon’ indignum tibi videtur, filius

Homo adolescens, unam si habet amicam, tu uxores duas?

Nil pudete? quo ore illum objurgabis? responde mihi.

Dem.

Faciet, ut voles. Naus. Imo, ut meam jam scias sententiam,

Neque ego ignosco, neque promitto quicquam, neque respondeo,

Priusquam gnatum video; ejus judicio permitto omnia; is

Quod jubebit, faciam. Phor. Mulier sapiens es, Nausistrata.

Naus.

Satin’ id est tibi? Phor. Imo vero pulchre discedo, et probe,

Et praeter spem. Naus. Tu tuum nomen dic quod est? Phor. Mihin’? Phormio.

Vestrae familiae hercle amicus, et tuo summus Phaedriae.

Naus.

Phormio, at ego ecastor posthac tibi, quod potero, et quae voles,

Faciamque et dicam. Phor. Benigne dicis. Naus. Pol meritum ’st tuum.

Phor.

Vin’ primum hodie facere, quod ego gaudeam, Nausistrata,

Et quod tuo viro oculi doleant? Naus. Cupio. Phor. Me ad coenam voca.

Naus.

Pol vero voco. D em. Eamus intro hinc. Naus. Fiat: sed ubi est Phaedria,

Judex noster? Dem. Jam hic faxo aderit. (ad spectatores) Vos valete, et plaudite.

Da questi pochi tratti ognuno può formarsi un qualche giudizio anche dello stile, della lingua e del maneggio e del movimento del dialogo di Terenzio, scorgendo quella propria e pura, questo disinvolto, elegante, sommamente artifizioso e pieno d’una grazia delicata e gentile; onde ai tempi di Orazio gli si dava appunto sopra gli altri il vanto dell’arte: Vincere, Caecilius gravitate, Terentius arte . Quindi egli fu dai letterati prediletto, ed Orazio, oltre che talvolta gli tolse pensieri e versi, spesso nell’epistola ai Pisoni cita esempi tratti dalle sue commedie; Cicerone, come riferisce l’antico biografo, nel Limone lo colma di lodi co’ seguenti versi:

Tu quoque, qui solus lecto sermone, Terenti,
Conversum expressumque latina voce Menandrum
In medio populo sedatis vocibus effers,
Quicquid come loquens atque omnia dulcia dicens.

Ed Afranio la cui testimonianza non può essere sospetta di parzialità, perchè scrittore di commedie anch’egli, il pone sopra ogni altro comico, nè trova chi gli possa stare a paro, dicendo nei Compitali: Terenzio non similem dices quempiam. Senonchè, come avverte Orazio, Interdum... – Fabula nullius veneris, sine pondere et arte, – Valdius oblectat populum meliusque moratur . . . , nè la plebe ignorante è atta a gustare le fine e delicate grazie d’uno stile meditato, come quella che di sentimento è ottusa, nè piacesi d’una facezia e d’un motteggio urbano e temperato, ma lo richiede tale che faccia sbracar dalle risa, sapendole alcun che di mesto un’allegria moderata; epperciò le commedie di Terenzio non godettero il favor popolare, riuscirono anzi fredde e tediose, specialmente l’Ecira, che, come vedesi dai due prologhi, fu per due volte chiassosamente interrotta, mentre rappresentavasi, dal popolo per correre a’ giuochi d’un funambolo o saltimbanco, e la terza, al dir del citato biografo, a grande stento potè esser condotta al termine. Ma un pregio che sopra ogni altro distingue Terenzio e lo mette a paro di Virgilio, si è la castigatezza e la purezza delle sue scene, nelle quali, una eccettuata, la pericolosa e sdrucciolevole materia dell’intreccio obbligato è con tale delicato riserbo e sobrietà trattata e svolta, che il pudore e l’onestà dei costumi non ne vengono menomamente offesi; onde anche si rivela la gentilezza dell’anima di Terenzio e lo squisito e dignitoso suo sentimento del bello. Per questa ragione uomini non meno pii che dotti lo amarono e proposero sicuramente qual modello di buona latinità e di utili insegnamenti ai giovani; S. Carlo Borromeo affidò, perchè fosse pubblicato, un erudito commento di Terenzio del celebre latinista Gabriele Faerno suo familiare, alle cure di Pier Vettori e di Silvio Antoniano, che lo diedero alla luce colle stampe dei Giunti in Firenze l’anno 1565; e il p. Antonio Cesari usando il linguaggio de’ nostri comici cinquecentisti, cui egli possedeva al sommo, eseguì delle sue commedie una bellissima, esatta ed elegantissima versione in lingua toscana diretta ai giovani, e meritamente encomiata e levata a cielo da Pietro Giordani ma più di tutti esaltò il merito morale di Terenzio l’illustre e dottissimo Mr Benigno Bossuet, il quale lo interpretava e spiegava al Delfino di Francia affidato al suo magistero, velandone tutt’al più acconciamente, come dice il Ranalli, qualche non pudica espressione; e nella sua lettera De institutione Delphini ad Innocenzo XI dice così: «In Terenzio non si può altresì dire con quanto diletto ed utilità sua si ricreasse, occorrendogli quelle vive immagini dell’umana vita. Ben vedeva le lusinghe ingannevoli del piacere e delle male femmine; vedeva i ciechi furori dei giovani, per le truffe e le sollecitazioni d’un tristo servo a rompicollo sospinti giù per gli sdruccioli, ovvero dall’ardore della passione tirati a non veder più nè via nè partito; i quali non sarebbono più tornati alla pace di prima, se non se riconducendosi al loro dovere. Adunque il Principe sottilmente notava come quell’eccellente maestro, rappresentando i costumi di ciascuna età e la diversa indole degli affetti, così aggiustatamente disegnava co’ proprii lineamenti ciascun personaggio, che tuttavia conservava la proprietà ne’ concetti, la convenienza delle cose e quella avvenentezza, che a così fatti scritti è peculiarmente richiesta. Nè già per tutto ciò io aveva rispetto in nessun luogo a quell’elegante poeta, sicchè io non ripigliassi altresì que’ luoghi dove egli mostrava qualche po’ di licenza; confessando tuttavia di maravigliarmi, che ne’ più dei comici nostri fosse una libertà e procacità troppo maggiore; detestandogli quel disonesto modo di scrivere, come peste sicurissima de’ costumi.»

Di Terenzio rimangono sei commedie, le quali forse sono le sole che abbia composto, come si è già osservato, e pervennero fino a noi per la cura dei grammatici e degli eruditi, tra cui primo di merito si è Elio Donato, non solo integre e niente nel testo viziate, ma ancora fregiate ciascuna d’un titolo o didascalia, documento prezioso che ne compendia, a così dire, la storia, dandoci a conoscere, in qual tempo, sotto quali edili e quali consoli, ed in quali feste e giuochi e da quali attori furono rappresentate, e con quale e cui musica accompagnate. Queste commedie sono l’Andria, l’Eautontimorumenos, l’Eunuco, gli Adelfi, l’Ecira, il Formione: tra le quali i critici danno comunemente la palma all’Eunuco, come quello che offre un intreccio ben posto e sviluppato, caratteri ben scolpiti, scene vivaci e ridicole; altri antepongono gli Adelfi il cui concetto morale, inteso a porgere il metodo dell’educazione dei figliuoli, supera certamente quello dell’Eunuco. Al nostro Macchiavelli dovette piacere sopra tutte le altre l’Andria, poichè di essa sola fece una graziosa ed elegante traduzione italiana.

25. Comici latini minori. – Altri molti, contemporanei a Terenzio, e dopo di, lui, corsero l’arringo comico, e più o meno acconciamente calzarono il socco, le opere dei quali andarono perdute. Tra questi si citano Terenzio di Fregelle, Q. Fabio Labeone, M. Pompilio, Sesto Turpilio, il quale, come scorgesi da alcuni titoli de’ suoi drammi, trattò soggetti greci, Luscio Lanuvino rimasto celebre per l’invidia e l’odio che portava a Terenzio, e di cui si cita una commedia intitolata Thesauros. Attilio tragico pare trattasse ancora la commedia palliata, poichè di lui ricordasi un raffazzonamento del Μισογύνις di Menandro; e pare si distinguesse nella pittura degli affetti e delle passioni. Di Fabio Dosenno si è veduto ciò che ne diceva Orazio, e come fosse nei caratteri grossolano, nello stile rozzo, duro ed incolto. Q. Trabea, secondo Varrone, era abile nel tratteggiar le passioni, e Cicerone ne fa onorevole menzione allegandone due versi. Licinio Imbrice, secondo il Bähr, sarebbe lo stesso che P. Licinio Tegula nominato da Livio, il quale racconta, che, afflitta Roma da strane calamità e portenti, a lui, come già una volta a Livio Andronico, impose il carico di comporre un inno deprecatorio per espiare la città e placare i numi. Questo Licinio sarebbe quindi vissuto verso il 554 di Roma e però apparterrebbe al periodo antico della romana letteratura, contemporaneo od anche anteriore a Plauto. Di lui si cita la Neaera, la quale appartiene al genere delle palliate. Ma più di questi, dopo Plauto e Terenzio, ottenne fama Afranio, vissuto intorno all’anno 660, il quale compose tutte commedie togate, cioè di soggetto romano; ed è certo da dolere che le siensi perdute, poichè, se non altro, ci fornirebbero un ritratto, più fedele che nelle istorie non possa trovarsi, delle usanze e dei costumi romani: se non che egli stesso confessa di essersi giovato, nel comporre i suoi drammi, non pur di Menandro, ma eziandio degli altri comici greci, onde può indursi, che neanche lui osò del tutto spogliarsi del pallio greco, per rivestirsi unicamente della toga romana:

Fateor, sumpsi non a Menandro modo,
Sed ut quisque habuit, quod conveniret mihi,
Quod me non posse melius facere credidi.

Ai tempi di Orazio egli godeva molta estimazione, ed i suoi drammi leggevansi, ed anche si rappresentavano, anzi si diceva comunemente esser lui uguale a Menandro, forse nella dolcezza e nella facilità dello stile e della lingua e nella morbida pittura dei costumi e dei caratteri:

Dicitur Afrani toga convenisse Menandro.

Ma Quintiliano muovegli il rimprovero di avere insozzata la scena colla turpitudine dei soliti amori. Non secondo ad Afranio nel genere delle togate fu Q. Atta, cui Orazio, facendone menzione, colloca tra i poeti antichi per la forma e la lingua de’ suoi drammi.

Chiuderò queste brevi osservazioni sui poeti comici latini col recare i versi di Volcazio Sedigito, ove, secondo il merito, ciascuno dei più celebri è nominato, avvertendo per altro che non se ne può trarre un criterio sicuro da giudicarli, poichè son disposti ed ordinati più con arbitrio che con ragione, conciossiachè Cecilio, tanto inferiore ai due gran lumi della drammatica latina, Plauto e Terenzio, sia posto in capo di lista, e Plauto abbia il secondo luogo, Terenzio appena il sesto, Afranio non vi sia pur nominato:

Multos incertos certare hanc rem vidimus
Palmam poëtae comico cui deferant.
Eum, me iudice, errorem dissolvam tibi
Ut contra si quis sentiat, nihil sentiat.
Caecilio palmam statuo dandam comico,
Plautus secundus facile exsuperat caeteros:
Dein Naevius, qui servet, pretio in tertio est.
Si quid quarto detur, dabitur Licinio:
Post insequi Licinium facio Attilium.
In sexto sequitur hos loco Terentius,
Turpilius septimum, Trabea octavum obtinet;
Nono loco esse facile facio Luscium;
Decimum addo causa antiquitatis Ennium.

Le Atellane, come si è veduto, per l’introduzione del dramma greco acquistarono forma più regolare ed artifiziosa senza cancellare l’impronta ed il carattere loro proprii ed originali, per opera dell’insigne cultore di esse L. Pomponio Bolognese vissuto, secondo il Munk, circa l’anno 660 di Roma, e del contemporaneo suo Novio non meno di lui fecondo e celebre. Sul cadere della Repubblica, ai tempi di Cicerone, le Atellane dieder luogo ai mimi; ma dopo Augusto furono fatte rivivere e restituite all’antico onore da C. Memmio vissuto intorno all’anno 768.

26. I mimi e la pantomima succeduti alla commedia. – Alla commedia latina palliata e pedissequa della greca successe in progresso di tempo ilMimo od Etologia, che è quanto dire imitazione de’ costumi, che, abbandonato l’artifizio ed il tessuto greco, intese a rappresentare caratteri romani scelti tra i più piacevoli e ridicoli; dapprima fu come una farsa scapigliata senz’arte e senza unità, nè di scurrilità scevra e di sconcezze, di cui il popolo maravigliosamente si dilettava più che della raffinata commedia greca; ma verso il tempo dei Cesari i mimi cominciarono a ricevere un avviamento artistico e veramente drammatico per opera principalmente di Decimo Laberio cavaliere romano, che, come si vede da un prologo di uno de’ suoi mimi rimastoci intiero, fioriva sul principio dell’ottavo secolo e morì verso l’anno 710. Già vecchio sessagenario, come dice egli stesso nel citato prologo, fu da Cesare costretto a rappresentare quale attore in sul teatro i suoi mimi, onde, conforme alle leggi, perdette lo stato e i diritti civili; quali nondimeno gli furono da Cesare ridonati. Di tale soperchieria e prepotenza e’ si lagna nel prologo con queste parole:

Ego bis tricenis annis actis sine nota
Eques romanus Lare egressus meo
Domum revertar mimus? nimirum hoc die
Uno plus vixi mihi, quam vivendum fuit.

Mimografo non inferiore a Laberio fu Publio Siro, di cui è celebrata presso gli antichi la dottrina e la moralità, e le cui sentenze, onde sapeva opportunamente ingemmare i suoi drammi, furono, come quelle di Menandro, dopo la morte di Seneca raccolte insieme, ed usavasi per le scuole farle imparare a memoria a’ giovinetti, come ottimi documenti morali; Gellio le chiama lepidae et ad communem sermonum usum accommodatissimae, e S. Gerolamo dice di averle nelle scuole da fanciullo apprese: legi quondam in scholis puer. Altro mimografo dei tempi di Augusto è Filistione greco di Nicea, del quale si narra che rappresentando egli stesso uno de’ suoi mimi intitolato il Riditore, fece tutta la cavea sbellicarsi dalle risa, ed egli stesso dal ridere crepò pel mezzo sulla scena, tanto ci si era messo con tutta l’anima. Da ciò adunque si può raccogliere che i mimi furono drammi ridicoli e festivi, ma nello stesso tempo onesti e costumati, pieni anzi di utili insegnamenti, perfezionati ancora secondo l’arte e ridotti ad essere un vero dramma, che poco a poco cacciò dal teatro la commedia greca di Plauto e di Terenzio, la quale quasi del tutto fu posta in dimenticanza; se si eccettui qualche rappresentazione fattasi ancora più tardi a’ tempi degli imperatori, ma che non destò più nè ammiratori, nè imitatori.

I mimi pertanto contenendosi nella via tracciata dai predetti scrittori avrebber potuto diventare una vera commedia originale latina e segnare un’êra di risorgimento della comica letteratura romana; ma ben presto si guastarono e dieder luogo ai Pantomimi, ultimo stadio di corruzione, in cui spirò per sempre la drammatica latina.

Si è già veduto innanzi come Livio Andronico separasse dal canto la gesticolazione, e come questa sola fosse propria dell’istrione, mentre le parole si dicevano dal cantore, ed anche si è detto che e la vastità del teatro, e il rombo confuso degli indisciplinati spettatori paragonato da Orazio al fremere del bosco Gargano ed al muggito del tosco mare, impedivano di raccogliere ed intendere le parole che dagli attori pronunziavansi sulla scena: a ciò s’aggiunga il pazzo amore della plebe per le sontuose decorazioni e per le comparse rumorose di navi, di carra, di cavalli e di muli, e l’abilità degli attori, massime Esopo e Roscio l’uno tragico e l’altro comico, nell’azione e nel gestire; e s’intenderà come il dramma parlato, per dir così, dovesse cessare e succedergli una rappresentazione muta ed a gesti, che Dante chiamerebbe visibile parlare ; ciò furono i pantomimi, così detti ἀπὸ τοῦ πάντα μιμεῖσθαι dall’imitare ogni cosa.

L’azione pantomimica aveva un principio, un mezzo, un fine ed uno svolgimento progressivo; onde incontrò talmente il genio del popolo romano, che ne impazzò a segno da occuparvisi tutto, erigere appositi teatri, e dividersi in strepitose fazioni per questo e quello attore, fino a mettere a rumore la città, come per le fazioni civili e politiche.

Celebri ai tempi di Augusto furono i pantomimi Pilade e Batillo, quegli liberto di Mecenate, questi venuto a Roma di Cilicia, i quali col gesto, colle movenze della persona e colla danza acquistaronsi onori e denari, e furono ad Augusto benveduti e cari; il quale tuttavia a provvedere ai tumulti che per tali spettacoli sollevavansi nel teatro, creò una censura politica a quest’ uopo, e l’affidò a quel Mezio datoci da Orazio per critico valente, nelle cui orecchie doveva il maggior dei Pisoni far discendere i suoi carmi prima di darli alla luce: Si quid tamen olim – Scripseris, in Maeci descendat iudicis aures . Più tardi un imperatore scendeva sulla scena a fare il mimo, io voglio dir Nerone. Ma i pantomimi corrisposero alla corrotta e brutale società in cui erano nati e cresciuti, e la scena insanguinarono, e bruttarono di spudorata inverecondia. Valerio Massimo attesta che i loro argomenti erano stupri, adulterii e simile lordura: quorum argumenta maiori ex parte stuprorum continent actus; alcune parole di Lattanzio a questo proposito furono di già recate nella prima parte del mio scritto, e nel VI libro delle divine istituzioni esclamava: Quid de mimis loquar, qui docent adulteria, dum fingunt? Minuzio Felice nel capo XVII ripeteva: Mimus vel exponit adulteria, vel monstrat. Altre gravi testimonianze sulla depravatissima condizione de’ teatri, e severe e giuste invettive contro il turpe abuso, tratte dai padri della Chiesa Tertulliano, Girolamo, Agostino, si ponno vedere raccolte nel Mamachi, De’ costumi de’ primitivi cristiani, lib. II, c. 5.

Così il popolo romano nella corruzione del costume e nell’oblio d’ogni legge ripiombava un’altra fiata nella barbarie, e ve lo guidavano diritto que’ tristi flagelli della collera di Dio che si chiamarono imperatori, i quali, a modo di bestia, lo pascevano di pane e di spettacoli, ed alla sua libidine offrivano le sopraddette scene, all’immane sua ferocia apprestavano gladiatori che tra gli applausi e le briache grida mescolassero sgozzandosi urli e gemiti di moribondi; e martiri cristiani a migliaia che venendo alle prese co’ lioni e colle tigri cadessero vittime sulla sanguinosa arena: in sì bestiale stato di depravazione precipitò quel popolo, che prima col senno e colla mano aveva assoggettato l’universo, e dato legge al mondo intiero; tanto presto ed agevolmente si abbuiarono e si spensero quei lumi splendentissimi di civiltà e di coltura antica per dar luogo in seguito a quella civiltà più ampia immensamente e più perfetta, che già nata in Oriente stava per diffondersi in tutto l’universo, e dar principio ad un nuovo periodo di tempo, quo ferrea primum – Desinet, ac toto surget gens aurea mundo .

Tali pertanto furono le origini, lo svolgimento, i progressi, il decadere e il perdersi della commedia presso i Latini.

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