I Protestanti e gli ebrei a Gerusalemme - gli ospizi

Se anche i luoghi e i monumenti non avessero alimentato la mia curiosità, Gerusalemme mi avrebbe offerto un simpatico argomento di studi, l'ospitalità cristiana in Oriente. Ho passato fra [214] i monaci e le suore di carità alcuni dei migliori momenti del mio pellegrinaggio. Gli uni mi incantavano colla loro ingenua bonarietà, le altre vegliavano con materna cura sulla mia figliola, giovane neofita che la direttrice di quella Comunità, una donna amabile e dolce, giudicò degna di accostarsi ai Sacramenti con grande sorpresa di taluni di quei religiosi che mi credevano dedita al culto ed alla pratica delle dottrine di Voltaire e di Rousseau. Il giorno della prima Comunione era arrivato e la cerimonia fu a parer mio molto commovente. Il Sacramento era conferito a due sole giovinette, a quella che non ho più bisogno di nominare e ad una giovane tedesca che aveva appena abjurato il Protestantesimo e che s'incominciò dal battezzare. Scopo palese di quest'ultima cerimonia era di far credere alle anime semplici che i luterani non fossero cristiani, ma l'atto non era per questo meno contrario alle vere intenzioni della Chiesa che non permette un secondo battesimo condizionale che nei casi in cui è realmente dubbio che il primo sia stato amministrato. La sola scusa che avrebbero potuto invocare i promotori di quella manifestazione ostile ai protestanti consisteva nelle prove di malevolenza che quei medesimi protestanti risparmiavano tanto poco alla minoranza cattolica, in lega coi mussulmani, greci, ebrei e gli armeni scismatici, attualmente così numerosi a Gerusalemme.

Bisogna ammettere che tutte le simpatie dei protestanti vanno in Siria agli ebrei. Ma devo anche confessare che gli ebrei sono circondati a Gerusalemme da un certo prestigio poetico. Un giorno della settimana, sopratutto, ed un'ora particolare, richiamano volontieri l'interesse su quello [215] strano popolo: l'ora del mezzogiorno di ogni venerdì. Si vedono allora gli ebrei riunirsi fuor delle mura esterne del loro tempio trasformato in moschea, in un punto in cui le antiche pietre sono ancora ritte: ivi piangono e si lamentano, in conformità alle parole del profeta, sui loro peccati e la loro caduta. Ebbi voglia di ascoltare una volta quei lamenti settimanali e me ne partii profondamente commossa. Vi è in quell'usanza un sentimento vero che non può non commuovere. Dacchè Tito prese Gerusalemme, ogni venerdì le lamentele degli ebrei si rinnovano su quei sacri ruderi. Sembra forse agli eterni proscritti che la vecchia patria risponda una volta la settimana all'appello della loro voce lamentosa? Non so; ma quel punto dell'antico Israele è abbastanza forte per attrarre ogni anno, verso Gerusalemme, schiere di emigranti israeliti dal fondo dei più ridenti villaggi della Germania. Questi strani coloni popolano quasi esclusivamente le città di Safed e di Tiberiade. Non vengono a coltivare la terra, nè a scambiare le merci europee coi prodotti di un paese remoto, no, vengono a chiedere un sepolcro alla terra che ricopre le ossa dei loro antenati; sono convinti che, se muojono entro il recinto di talune città di Palestina, non hanno nulla a temere dai tormenti della vita futura. Tutti gli ebrei del Levante non sono purtroppo, dei coloni di Safed e di Tiberiade; ma come potrebbero i cristiani non mostrare a questi ultimi benevolenza e misericordia?

All'epoca del mio soggiorno a Gerusalemme, il consolato d'Inghilterra manifestava agli ebrei di Palestina una vivissima simpatia. Il console era un vero «gentleman» naturalmente benevolo. Sua [216] moglie, ch'era del resto una persona molto per bene, non aveva un carattere del tutto pacifico come quello del marito. Ancor giovanissima, era profondamente versata nelle lingue e nelle letterature orientali. Figlia di uno dei principali agenti dell'Inghilterra nell'estremo Oriente, aveva recato a Gerusalemme abitudini di attività politica che erano senza dubbio una tradizione di famiglia. Era essa che, d'accordo col vescovo protestante, dirigeva vari stabilimenti di beneficenza fondati in favore degli ebrei. Ne ho veduti i due principali, l'ospedale e la scuola. Ho poco a dire di quest'ultima; ma l'ospedale è un simpatico asilo, in una bella postura, ben tenuto e bene ammobiliato ed ove i sani non corrono il rischio di ammalarsi, come può accadere in parecchi ospedali europei. Vi è un'eccellente farmacia e l'amministrazione si regge con mezzi abbondanti. Quest'ospedale protestante, riservato agli ebrei, offre uno stridente contrasto coll'ospedale cattolico, misera istituzione sostenuta a fatica dalle scarse forze dei fedeli, ma ove anche un protestante sarebbe accolto, se si presentasse.

Poichè sto parlando d'ospedali, dirò che mi recai a visitare l'asilo dei lebbrosi e soggiungerò di passaggio che è una gran fortuna che il de Maistre non abbia fatto come me, perchè non avremmo avuto il suo mirabile racconto. Nella maggior parte delle città della Siria, i lebbrosi conducono un'esistenza singolare, ma felice. Sono alloggiati a spese del comune o della carità di cittadini che si quotano per ajutarli. L'alloggio non è caro e neppure sontuoso, perchè a Gerusalemme, per esempio, consiste in un piccolo spazio in cui gli stessi lebbrosi si son fabbricati alcune capanne, [217] ove gli ultimi venuti prendono successivamente il posto degli anziani che scompajono. Ognuno di essi impiega il suo tempo come gli garba ed il loro gusto uniforme li induce alla mendicità. Pertanto si trovano nelle strade e nei pubblici passeggi con un bacile in mano ed il viso scoperto, ciò che basta di solito a chiarire la loro situazione ed i loro bisogni. Al tramonto, tutti rientrano nel loro parco, vi fanno la loro cucina, mangiano e si addormentano come giusti che abbiano soddisfatto la loro sete.

Quelli che prendono cura dei lebbrosi passano loro una piccola pensione di pochi parà (la metà di un centesimo) al giorno, somma che del resto basta largamente a sostentarli. La lebbra non è considerata da nessuno in Oriente come una malattia contagiosa e neppure come un'infermità vergognosa e ripugnante, tanto più che il senso di disgusto è molto poco diffuso in quei paesi. E sì che l'aspetto di un lebbroso sarebbe proprio fatto per ispirarlo! La sua pelle, sovratutto quella della fronte, si copre dapprima di lenticchie che poi si tagliano per formare sia delle scaglie, sia delle croste. Le sue labbra e le sue palpebre si gonfiano e perdono la loro forma originaria, mentre le cartilagini delle orecchie e del naso si allungano smisuratamente al punto che le orecchie pendono talora fin sulle spalle. La loro testa si denuda e non hanno più nè sopracciglia al disopra degli occhi, nè ciglia alle palpebre. Si aggiunga a tutto ciò un colorito livido e cereo che è loro speciale e si avrà un'immagine abbastanza fedele dei men maltrattati fra i lebbrosi, perchè ve ne sono di coperti da orribili piaghe e di cui le ossa stesse, consumate dalla putrefazione, escono a scheggie da quelle ulceri ripugnanti, mentre in altri casi [218] le ossa si stortano e si dislocano, senza giungere a dissolversi. Vidi per altro piuttosto con soddisfazione che con ripugnanza, come genitori di quei disgraziati si stabilissero presso di essi dividendo con loro l'asilo e prestando loro quelle cure che avrebbero dedicato loro in qualsiasi altra circostanza. Ma ciò che mi fece indietreggiare dall'orrore fu il sapere che le passioni e le debolezze umane non erano spente nè per essi nè per quelli che li circondavano. I matrimoni sono frequenti nel quartiere dei lebbrosi e, siccome la religione mussulmana vi predomina, tali matrimoni non sono che l'unione passeggera di un uomo con parecchie donne. Finchè io viva non potrò dimenticare una giovinetta lebbrosa che, senz'essere ancora escita dall'infanzia, era già completamente sfigurata dalla malattia e che stava tranquillamente seduta sulle ginocchia di una specie di titano senza più forma umana. Egli aveva completamente perduto la voce e per farsi ascoltare da lei accostava le sue labbra tumide alle orecchie pendenti della fanciulla. Osservai che essa sembrava ascoltarlo con piacere, e che lo stiramento dei muscoli del suo viso sarebbe diventato un sorriso se tal cosa fosse stata possibile, e ne conclusi che avevo dinanzi agli occhi uno sgradevole ma onesto spettacolo di amor paterno e di tenerezza figliale. «È vostra figlia?» chiesi al colosso. Egli fece udire un grugnito e niente di più, ma la piccina si affrettò a far valere i suoi titoli alla mia considerazione.

- Son sua moglie e da un mese! - esclamò rizzandosi...

L'espressione di vanità soddisfatta che riescì a palesarsi su quell'orrendo viso all'idea della lunga durata del suo impero, la specie di fiamma [219] che lampeggiò un istante negli occhi glabri del marito, tutto ciò suscitò in me un orrore misto di pietà e di ripugnanza che pose un termine alla mia visita.

Avevo veduto i frati e le suore di Carità, ero penetrata negli ospizi dei protestanti e delle altre confessioni, mi rimaneva da visitare il convento degli armeni. Mi vi recai e vi trovai la più amabile accoglienza. Gli armeni dell'Asia Minore non assomigliano ai greci di quel paese, che, sotto la dominazione dei loro barbari padroni, hanno contratto non so quale ruvidezza estranea alla razza ellenica. Posti sopra i greci dall'ingegno e dalla ricchezza, gli armeni di Siria e di Palestina sovrastano loro anche per una grazia e per una dignità tutte speciali.

Nulla è più bello, più ricco e di miglior gusto che i loro edifici, gli ornamenti delle loro chiese e le loro case. In tutte le città dell'impero ottomano, le più belle case appartengono agli armeni ed esse, come le chiese, non sono solo magnifiche, ma pulite, ben tenute, eleganti e comode. I loro modi sono quelli di gran signori e l'interno dei loro palazzi risponde perfettamente all'idea che ci facciamo in Europa di una dimora principesca in Asia. Il convento armeno di Gerusalemme è immenso, composto di parecchi corpi di casa e circondato da deliziosi giardini. Una biblioteca ricca in bei manoscritti ed in miniature su pergamena, il tesoro ricolmo di pietre preziose montate con un gusto squisito, infine i loro arredi sacerdotali intessuti d'oro, d'argento, e delle sete più smaglianti, tutto ciò abbaglia gli occhi e incanta l'immaginazione. Il patriarca armeno circondato da' suoi monaci dalle lunghe barbe accurate, dalla tonaca [220] violacea, con un berretto ed un velo svolazzante dello stesso colore, non assomiglia affatto ad un capo di comunità monastica europea. Dev'essere costato molto ad essi l'umiliarsi come fecero durante tanti secoli di fronte al potere del conquistatore o piuttosto devono aver tratto gran profitto da un'umiliazione sopportata con tanta pazienza, perchè non sono gente capace di prosternarsi nella polvere solo perchè è pericoloso di rimanere in piedi.

Frattanto era arrivato il momento della partenza. Io era da un mese a Gerusalemme, avevo raggiunto lo scopo del mio viaggio e non avevo più tempo da perdere se volevo ritrovarmi in climi più temperati prima che la canicola regnasse in Siria. Partii dunque, escii dalla cinta merlata che avevo varcata con tanta emozione e, arrivata in cima alla collina donde un mese innanzi avevo scorto Gerusalemme, mi voltai indietro per dare alla città santa un ultimo sguardo. Ultimo? Che so io se lo sarà davvero? Me lo domandavo lasciando Gerusalemme e me lo chiedo ancor oggi.

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