I.Gli harem, i patriarchi e i dervisci, le armene di Cesarea.

Fra i giorni che ho passato in Oriente, me ne ricordo alcuni di un incanto singolare, nonostante le fatiche e le emozioni che li riempirono: sono i giorni di marcie penose, interrotte da soste ancor più penose, che si succedettero dalla mia partenza dall'Anatolia nel gennaio 1852 fino al mio arrivo a Gerusalemme nella stessa primavera. Nel corso di qualche mese mi fu dato osservare, in ciò che ha di triste e al tempo stesso di attraente, la vita orientale, di cui il mio lungo soggiorno in una pacifica valle dell'Asia Minore non mi aveva rivelato che gli aspetti più calmi. Pertanto, quando cerco di raccogliere, di fissare le mie idee sul mondo strano nel quale fui trasportata per un istante, non saprei interrogare più volontieri altri ricordi, fra tutti quelli che mi son portata venendo dall'Oriente. Alcuni episodi staccati di quest'epoca della mia vita potranno forse bastare a giustificare la preferenza con cui il mio pensiero vi si riconduce oggi ancora. Mostreranno, nei tratti essenziali, la fisionomia delle popolazioni che questo viaggio mi ha permesso di osservare, mentre i racconti, sin qui pubblicati, non avevano potuto darmene che un'idea molto inesatta.

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Ad esempio, la Siria, come io l'ho visitata, non assomiglia affatto alla Siria che avevo potuto scorgere traverso ai libri. È ben vero che io ero in condizioni assai più favorevoli della gran maggioranza dei viaggiatori per conoscere tutto un lato importantissimo della società mussulmana, il lato domestico dominato dalla donna. L'harem, santuario dei Maomettani, ermeticamente chiuso a tutti gli uomini, mi era aperto. Io potevo penetrarvi liberamente, potevo discorrere con quegli esseri misteriosi, che i «Franchi» non scorgono se non velati, interrogare alcune di quelle anime di cui non si conoscono confidenze e provocarne di preziose su tutto un mondo ignoto di passioni e di dolori. I racconti dei viaggiatori, così incompleti per ciò che riguarda la civiltà mussulmana, lo sono troppo spesso anche in ciò che concerne la natura e l'aspetto materiale dei luoghi. Essi adoperano molte parole senza spiegarle, di quelle che, in ciò che si potrebbe chiamare la «lingua europea», hanno un significato assai differente dalla loro portata effettiva in relazione agli usi dell'Oriente. Non voglio per altro insistere sulle difficoltà di dare conto di un viaggio in Oriente: non so infatti neppure io se riescirò a superarle tutte quante. Mi par meglio di affrontarle senz'altri preamboli, lasciando al racconto stesso l'incarico di giustificare il narratore.

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