I DERE-BEYS - IL MUFTÌ DI SCERKESS

Una parola anzitutto sul paese nel quale io abito. La valle d'Eiaq-Maq-Oglu (valle del «Figlio della pietra da fucile») si trova ad alcune giornate di cammino dalla città rilevante che ha per [29] nome Angora. Ho fissato la mia dimora in quest'angolo pittoresco e fertile dell'Oriente; da questa valle sono partita per lanciarmi nella vita nomade. Su questa terra, solcata durante tanti secoli da tutti gli eserciti del mondo, dai soldati di Mitridate e di Pompeo, come da quelli di Bajazet e di Tamerlano, non v'è regione, per quanto romita, che non abbia un passato tragico e sanguinoso, e non evochi ricordi funebri e dolenti. Si sono tentati ai nostri giorni sforzi diretti a risvegliare in Oriente la dolce influenza del benessere e della civiltà, ma i benefici della pace non sembrano sul punto di giunger così presto a cancellare quassù le traccie della guerra. Permangono le rovine, ma non appajono ancora gli edifici nuovi.

La valle d'Eiaq-Maq-Oglu è uno dei luoghi in cui l'impronta del passato è rimasta profonda e l'azione del presente non si rivela che con conati incompleti.

La borgata più vicina a casa mia si chiama Veranceir, nome che significa città distrutta e ricorda sinistre avventure. Al posto di quel borgo, non sono ancora trent'anni, sorgeva una città fiorente, con una popolazione di circa 40,000 anime. Veranceir, munita di buone fortificazioni, era la residenza favorita di un pascià potente, il cui governo, ormai smembrato, ha formato due o tre provincie. Comandava alle città di Bolo, di Angora, di Scerkess, d'Eraclea, ecc.; ma il signore di quelle grandi città le lasciava volontieri per venire a cercare il riposo nella vallata verde, in mezzo alla quale sorge Veranceir, in riva al fiume che ne bagna i ridenti giardini. A questa predilezione del pascià Osman, Veranceir andò [30] debitrice della sua prosperità, ahimè quanto effimera!

Mentre Veranceir così prosperava la Turchia obbediva al Sultano Mahmud, che proseguiva la sua opera di rinnovamento fra lotte sanguinose. La dominazione dei Dere-beys, feudatari militari in perpetua rivolta contro il gran signore e non rifuggenti dal fargli la guerra colle truppe reclutate nel loro feudo, era una di quelle vestigia dell'antico sistema turco che Mahmud riteneva necessario distruggere. Quasi tutta l'Asia Minore era divisa fra alcuni pochi di questi beys, buoni principi in fondo, per quanto male intendessero i loro doveri verso il sultano. Essi incoraggiavano fino ad un certo punto l'agricoltura e il commercio ed i loro interessi non erano sempre contrari a quelli dei loro popoli. La guerra sostenuta dai Dere-beys contro il sultano imponeva certo agli abitanti onerose gravezze; ma i capi ribelli non trascuravano nulla per circoscrivere le ostilità in un territorio assai limitato, e ad ogni campagna seguivano lunghe tregue acciocchè il lavoro dei campi, fonte della prosperità delle famiglie, non fosse completamente abbandonato.

Osman pascià aveva molte mogli e molti figli. Disgrazia volle che uno di questi figli, chiamato Mussa, fosse sedotto dall'esempio di uno dei suoi cugini, che aveva fama d'essere uno dei più turbolenti fra i Dere-beys. Mussa prese a percorrere il paese sottoposto a suo padre, s'impadronì dei tributi, adunò delle truppe, spiegò la bandiera dei Dere-beys e ne indossò l'abito. Il vecchio Osman, rimasto fedele suddito del sultano e desolato del colpo di testa di suo figlio, mandava un messaggio dopo l'altro a Costantinopoli per attestare la [31] sua innocenza ed il suo rammarico. Commosso da queste proteste, Mahmud volle allontanare il padre dai luoghi ove il suo esercito poteva esser condotto ad incrudelire contro il figlio ribelle e affidò ad Osman pascià un comando nella Rumelia. Avviandosi alla sua nuova sede, Osman si scontrò col corpo d'esercito mandato a combattere contro suo figlio. Il padre rassegnato, rivolgendosi al capo delle truppe del sultano, esclamò: Dio ti doni la vittoria! Il generale del sultano aveva cercato inutilmente di ottenere da Osman qualche indicazione sullo stato del paese e dei popoli insorti, ma non riescì a strappargli che lagrime e singhiozzi. Qualche giorno più tardi Osman non avrebbe marciato a sua volta contro Mahmud? Il sultano l'aveva mandato a tempo in Rumelia.

Ed ecco il giovane bey, liberato dal peso dell'autorità paterna, impegnarsi decisamente in una guerra lunga e terribile. Le sue reclute si battevano bene perchè combattevano sui loro campi, sulla soglia delle loro case, e quei montanari dell'Asia Minore avevano la sensazione di difendere la causa dell'indipendenza nazionale contro un esercito straniero. I Turchi di Costantinopoli con uniformi ed armi europee apparivano loro come degli stranieri. Mussa aveva una cavalleria leggera che si faceva ammontare a 20 o 30,000 uomini; con essa, sopratutto, il giovine bey faceva prodigi. Ogni anno, nuovi corpi d'esercito erano gettati da Costantinopoli sulle truppe del figlio di Osman; ogni anno, se ne ritornavano dopo aver lottato invano contro i rozzi soldati del capo insorto.

Erede delle ricchezze e dell'influenza di suo [32] padre, Mussa bey lo imitava nella sua predilezione per Veranceir. Vi si trovava meglio che nelle grandi città come Angora, ove una popolazione mista rende la difesa più difficile. Stabilito nella sua residenza favorita e circondato da' suoi valorosi e fedeli cavalieri, Mussa bey si credeva invincibile; e lo sarebbe forse stato se il sultano non avesse fatto intervenire nella contesa un elemento nuovo contro il quale nulla eravi di pronto. Alludo all'artiglieria che in Asia Minore non era nota che per fama; ma, sotto il comando di alcuni europei rinnegati, parecchi pezzi da campagna e d'assedio partirono da Costantinopoli e vennero ad assediare la città di Veranceir le cui fortificazioni non eran state costruite per resistere a tal sorta d'attacchi. L'ignoranza del bey in materia è provata dal suo errore di lasciarsi rinchiudere da un corpo d'artiglieria in una città inetta alla difesa; essa fu bombardata, le mura abbattute e la vittoria toccò al più abile, non al più intrepido. Forse il bey avrebbe avuto un'ultima via di scampo con una vigorosa sortita alla testa della sua cavalleria; ma la guerra durava da 10 anni, la stanchezza si era impadronita del cuore dei più valorosi ed i nuovi nemici, le cui armi insospettate compivano così orribili devastazioni, inspiravano una sorta di terror panico più fatale che i pericoli più reali. D'altronde i successori dei Solimani, dei Selim e dei Bajazet non avevano ancora abiurato le massime odiose della loro antica politica e a quei tempi i mussulmani non avevano rossore d'ingannare e di tradire. Il comandante dell'esercito imperiale fece sapere al bey ch'era munito d'ordini speciali a suo riguardo, che il sultano, ammiratore della sua valentia coraggiosa, voleva prenderlo al suo [33] servizio, non avendo dimenticato i meriti del padre e volendo rimunerarne il figlio. Il generale ottomano aveva incarico di promettere a Mussa un completo perdono ed anche, per più tardi, i maggiori onori, purchè deponesse le armi e si recasse solo a Costantinopoli per farvi atto di sottomissione e vivervi poi tranquillamente, in attesa che piacesse al sultano di ricompensarne l'obbedienza. Mussa bey diede ascolto a queste proteste e forse non gli restava in realtà altra via da seguire. Pattuite non pertanto alcune condizioni per il suo paese, per i suoi fedeli e per la sua famiglia, il bey partì per Costantinopoli accompagnato da una scorta d'onore datagli dal pascià trionfante, e, tutto essendo stato sistemato con generale soddisfazione, lo stendardo del bey fu abbassato e sostituito dalla bandiera imperiale e le truppe del sultano presero possesso di ciò che restava della città.

Non vi fu a Veranceir nè saccheggio, nè massacro, nè esecuzioni militari: fu il bey che pagò per tutti. Appena fu arrivato a Costantinopoli vide i soldati della scorta d'onore tramutarsi in guardie ed in carcerieri; Mussa fu chiuso in una prigione e vi fu decapitato dopo tre giorni di captività. Non basta: le sue mogli, i suoi giovani fratelli e i suoi figli furono arrestati nei dintorni di Veranceir, nella loro proprietà d'Eiaq-Maq-oglu, dove la sua famiglia si era ritirata alla partenza del bey. Furono inviati alla lor volta a Costantinopoli e venduti come schiavi. I loro beni furono confiscati e di tutta quella casa, testè così potente, non rimase che il vecchio Osman che non si permise il menomo mormorio e ricevette, in cambio delle sue perdute ricchezze, una pensione sufficiente [34] a sostenere il rango che gli era lasciato. Il vecchio morì pochi mesi dopo suo figlio, triste ma silenzioso, senza lamentarsi e senza parlare delle sue sventure, attestando al suo sovrano quell'amore e quella gratitudine che riscaldano il cuore del pio e vero cristiano quando loda e glorifica il Signore d'aver gravato la mano su di lui e sui suoi. Ma cos'era dunque quest'Osman pascià? Un'anima stoica, un cuore devoto, un fanatico, un imbecille od un furbo compare? Non mi assumo di rispondere a queste domande.

Il sultano Mahmud non sopravvisse lungamente al suo fedele servitore Osman e il suo giovane figlio Abdul-Megid gli succedette. Che un tale figlio sia nato da un tal padre, che un principe di tal fatta abbia regnato su un popolo simile, che un mussulmano siasi rivelato così dissimile dai mussulmani di tutti i tempi sono ben strane anomalie. Tosto dopo la sua assunzione al trono, Abdul-Megid attese a scoprire quali fossero state le sorti delle famiglie di tutte quelle vittime illustri che avevano insanguinato il regno di suo padre. Sulla lista di quelle famiglie sventurate non mancava quella di Osman pascià. Si rintracciarono alcuni discendenti del padre di Mussa che dalla sua rivolta in poi eran tenuti schiavi. Restituita loro la libertà ed alcune delle loro antiche terre, tutti, uomini, donne e bimbi vi ritornarono abbandonando Costantinopoli. Il fratello maggiore di Mussa, uno degli amnistiati, sposò la più cospicua vedova del Dere-bey. I beni resi a questa famiglia non prosperarono nelle mani di questi beneficati dalla clemenza di Abdul-Megid. I degeneri figli di Osman, invece di sfruttare le loro terre, preferirono darsi all'usura, al commercio e vi furon anche [35] quelli che vissero di rapine. Ben presto il territorio della valle d'Eiaq-Maq-Oglu fu trascurato, i mulini vi si fermarono, i canali d'irrigazione furono ostruiti, e il paese, un tempo abitato da Osman, si trovava in così triste stato allorchè io vi giunsi. Vedete con quali uomini io doveva aver a che fare. La fama pubblica mi annunciava ai proprietari fondiari dei paesi vicini a Costantinopoli come una dama «franca» che la guerra cacciava dalla propria patria e che veniva a trascorrere l'esilio in Turchia. I discendenti di Osman sopratutto si ripromisero di far buoni affari con una straniera sbarcata in Turchia in tali condizioni, e non avevano interamente torto. Venni da Costantinopoli per visitare la vallata così cara al vecchio pascià; la situazione, la bellezza del paese, la calma di quel ritiro incantato vinsero tosto le mie esitazioni. Comprai per cinque mila franchi la valle d'Eiaq-maq-Oglu, cioè una pianura di circa due leghe di lunghezza, per un terzo di lega di larghezza, traversata da un corso d'acqua e incorniciata da montagne boscose, con una casa, un mulino e una segheria. I fratelli del Dere-bey avevano fatto una magnifica retata e quando nel paese si seppe qual somma avevano riscossa si andò dicendo che la fortuna favorisce gli inetti. In ogni caso non ebbi troppo da lagnarmi degli antichi possessori della mia piccola tenuta, ed, allorchè disegnai di allontanarmene per qualche mese per recarmi a Gerusalemme, mi decisi a cominciare il viaggio in compagnia del più giovine dei fratelli di Mussa-bey. Ho fatto il racconto particolareggiato della storia di questa famiglia di cui avevo in parte riscattato l'eredità, perchè essa riassume assai bene le condizioni nelle quali languivano [36] talune provincie della Turchia trent'anni or sono. I miei ricordi faranno forse apparire gli stessi paesi sotto un altro aspetto e si potrà così confrontare l'epoca di Abdul-Megid a quella di Mahmud.

In una fredda giornata di gennaio io lasciai dunque il mio tranquillo rifugio, colla scorta di uomini a cavallo senza la quale è impossibile viaggiare in Oriente. Un fratello minore di Mussa, come ho detto, mi accompagnava. Dovevamo traversare, per raggiungere la piccola città di Bajandur, termine della nostra prima tappa, la contrada un tempo governata dal figlio di Osman. Il mio compagno mi mostrava i luoghi dove il derebey aveva battuto le truppe imperiali, il boschetto in cui una spia del nemico era stata impiccata sotto gli occhi e per ordine del capo dei ribelli, il posto già occupato dalle fortificazioni di Veranceir, il lato che aveva maggiormente sofferto dall'artiglieria del Sultano. La mia guida ravvisava spesso nei vecchi contadini che incontravamo lungo la strada dei compagni di Mussa bey; egli mi parlava della propria captività, delle sofferenze da lui sopportate, dello stato misero al quale era ridotto. Infine al nostro arrivo a Bajandur, ove presi alloggio in casa del Direttore delle poste, che era a sua volta un cognato di Mussa, il mio giovine compagno si accomiatò da me: ritornava al suo piccolo villaggio appollajato in cima ad un'alta montagna come il nido di un uccello di rapina. Seguii a lungo cogli occhi quel giovine, nato alla lotta e ristretto precocemente in una vita di ozio senza gloria. Triste spettacolo quello del fiero montanaro che su una cavalla curda, magra e gracile, seguiva faticosamente le svolte della strada. Gli abiti [37] del giovine cavaliere contradicevano del resto a ciò ch'egli mi aveva detto della sua povertà: il suo turbante verde, il suo ricco mantello d'Aleppo, in lana bianca intessuta d'oro e d'argento, annunciavano in lui il discendente di una nobile schiatta. Per un istante mi dolsi di non avere il pennello di Decamps per fissare sulla tela quella figura fiera e selvaggia.

Non saprei dir nulla di Bajandur; ma a Scerkess ove mi fermai la mattina seguente, incontrai un tipo della società orientale che contrastava in modo caratteristico con quello del mio compagno del giorno innanzi. È per mezzo de' miei ospiti che vorrei far conoscere l'Oriente. La vita domestica è uno degli aspetti meno conosciuti della civiltà mussulmana, uno di quelli che ho potuto meglio studiare.

A Scerkess scesi da un muftì che avevo guarito qualche mese prima d'una febbre intermittente, e che m'aspettava a braccia aperte. Si è tanto parlato dell'ospitalità orientale, che m'asterrei volontieri d'intavolare questo discorso, se parlandone molto non se ne fosse parlato assai male. Ho letto, per esempio, dei racconti di viaggio in cui gli autori cantavano le lodi dell'ospitalità dei Turcomani, mentre io ho sempre riconosciuta l'origine turcomana della popolazione d'un villaggio dal miserando ricevimento che mi si faceva. Del resto si accetta come seria offerta d'ospitalità qualunque complimento indirizzato da un indigeno ad un forestiero senza pensare agli strani equivoci che produrrebbe da noi un'interpretazione troppo letterale di certe formule della cortesia europea. Il fatto è che, di tutte le virtù tenute in conto nella società cristiana, l'ospitalità è la sola che i mussulmani [38] si credano in obbligo di praticare. Là dove i doveri sono poco numerosi, essi sono maggiormente rispettati, cosa del resto perfettamente naturale. Gli orientali hanno dunque preso sul serio questa sola ed unica virtù, questo vincolo isolato ch'essi hanno consentito ad imporsi. Sventuratamente una virtù che si appaga di apparenze è esposta ad alterarsi ben presto. E questo è appunto ciò che è accaduto, è ciò che accade giornalmente nell'ospitalità orientale. Un mussulmano non si consolerà mai d'aver mancato alle leggi dell'ospitalità. Entrate in casa sua, pregatelo d'uscirne, lasciatelo esposto alla pioggia, al sole alla porta del suo stesso alloggio, devastate la sua dispensa, esaurite pure le sue provviste di caffè e d'acquavite, rovesciate in ogni senso i suoi tappeti, i suoi materassi, i suoi cuscini, spezzate il suo vasellame, inforcate i suoi cavalli e rendeteli esausti, se tale è il vostro capriccio. Il mussulmano non vi indirizzerà un solo rimprovero perchè voi siete «un muzafir» un ospite: è Dio stesso che vi ha inviato e qualunque cosa voi facciate siete e sarete sempre il benvenuto. Tutto ciò è ammirevole; ma, se un mussulmano trova modo di sembrare altrettanto ospitale quanto è richiesto dalle leggi e dai costumi, senza sacrificare un centesimo od anche guadagnando una grossa somma di denaro, al diavolo la virtù, evviva l'ipocrisia! È ciò che accade novantanove volte su cento. L'ospite vi ricolma di cortesie mentre soggiornate in casa sua; poi, se alla vostra partenza non gli pagate venti volte il valore di ciò che vi ha dato, aspetterà bensì che siate uscito dalla sua casa, che abbiate deposto quindi il vostro sacro carattere di «muzafir», ma poi vi getterà delle pietre.

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Naturalmente voglio parlare della moltitudine volgare, e non dei cuori semplici e buoni che amano il bene perchè lo trovano amabile e che nella pratica della virtù procurano a sè stessi un'intima gioja. Il mio vecchio mufti di Scerkess può entrare in questo numero. La sua casa è costituita, come quella di tutte le buone famiglie del Levante, da un corpo di fabbrica riservato alle donne e ai bambini, di un padiglione esterno, con un salone d'estate ed uno d'inverno e finalmente di qualche camera per i domestici. Il salotto d'inverno è una bella camera riscaldata da un buon camino, coperta da grossi tappeti ed abbastanza ben mobiliata da divani ricoperti in stoffe di seta e lana e distribuiti tutt'intorno. L'arredamento della sala d'estate consiste in una fontana che sorge nel mezzo della stanza, alla quale si accostano, occorrendo, cuscini e materassi per sedersi e sdrajarsi. Del resto non si vedono nè finestre, nè porte e l'esterno non è separato dall'interno dalla menoma barriera. Il mio vecchio mufti, che ha novant'anni, possiede parecchie mogli, la più vecchia di soli trent'anni ed ha figli di tutte le età, da un marmocchio di sei mesi ad un uomo di sessant'anni. Egli professa una ripugnanza di buon gusto per il frastuono, il disordine e la sudiceria dell'harem. Vi si reca durante la giornata, come va a vedere ed ammirare i suoi cavalli in scuderia; ma abita e dorme, secondo la stagione, nell'uno o nell'altro de' suoi salotti. Quell'uomo eccellente comprese che, se non aveva potuto adattarsi con una lunga abitudine agli inconvenienti dell'harem, ben peggio doveva essere per me, recentemente sbarcata da quella terra di raffinatezze incantevoli che qui si chiama il «Franguistan». Mi dichiarò dunque [40] subito che non mi confinerebbe in quel luogo oscuro e confuso, male odorante e fumoso che si chiama l'harem, e mi offerse il suo appartamento che accettai con gratitudine. Dal canto suo si insediò nella sua sala d'estate, preferendo, anche alla fine di gennaio e mentre la neve ricopriva città e campagne, la sua fontana ghiacciata, col pavimento umido e tutte le correnti d'aria, all'atmosfera calda ma fetida dell'harem.

Temo di distruggere qualche illusione quando parlo degli harem con così scarso rispetto. Avendo letto le descrizioni che ce ne danno le «Mille e una notte» ed altri racconti orientali, udendo che quei luoghi sono il soggiorno della bellezza e degli amori, siamo autorizzati a credere che le descrizioni letterarie, sieno pure esagerate, abbiano un fondamento nella realtà e che in quei misteriosi rifugi debbano trovarsi riunite tutte le meraviglie del lusso, dell'arte e della più sontuosa voluttà. Quanto siamo lontani dal vero! Immaginatevi dei muri anneriti e screpolati, dei soffitti in legno con fenditure, polvere e ragnatele, dei divani stracciati ed unti, delle portiere strappate, macchie di cera e di olio in ogni angolo.

Tale spettacolo era urtante per me, poichè entravo per la prima volta in luoghi simili, ma le padrone di casa non se ne accorgevano. Sono vestite come Dio vuole e, poichè gli specchi sono rarissimi in quei paesi, le donne si mettono intorno a caso ornamenti di cui non possono valutare esattamente le strane ripercussioni. Arrotolano intorno al capo dei fazzoletti di cotone stampato e vi puntan sopra spilloni di diamanti e di pietre preziose. I loro capelli sono trascuratissimi ed i pettini sono solo conosciuti dalle gran signore che [41] abbiano abitato alla capitale. Fanno un uso smodato di belletti di tutti i colori: ma non possono regolarne la distribuzione che ajutandosi l'un l'altra coi reciproci suggerimenti e, rivali come sono tutte queste donne che convivono nella stessa casa, non trovano di meglio che d'incoraggiarsi mutualmente alle dipinture più grottesche. Esse pongono del carmino sulle labbra, del rossetto sulle guancie, sul naso, sulla fronte, sul mento, del bianchetto arbitrariamente e come sfondo, del bleu intorno agli occhi e sotto il naso. Quello che è ancora più strano è il modo con cui si tingono le sopraciglia. Devono aver udito dire che le sopraciglia acquistano bellezza col formare un grande arco, e ne concludono di potersi far tanto più ammirare quanto più grande sarà questa curva, senza domandarsi se essa non abbia il suo posto delimitato irrevocabilmente dalla natura. Attribuiscono quindi alle loro sopraciglia tutto lo spazio tra una tempia e l'altra e si dipingono sulla fronte due archi immensi che partono dal culmine del naso e se ne vanno, ciascuno per conto suo, fino alle tempia. Non mancano, per quanto sieno casi rari, delle giovani beltà bizzarre che preferiscono la linea retta alla curva e che disegnano una grande riga nera traverso la fronte.

Il risultato più certo e più deplorevole di tutto ciò è il sovrapporsi di tutta questa pittura alla pigrizia ed alla sudiceria che riescono così naturali alle donne dell'Oriente. Ogni viso di donna diventa un'opera d'arte molto complessa e non si potrebbe rifarla tutte le mattine. Perfino le mani ed i piedi tinteggiati in color arancione sfuggono all'azione dell'acqua che può compromettere queste bellezze. La massa di bambini e di schiave, [42] specialmente nere, che affolla gli harem, congiunta all'uguaglianza del tenor di vita fra serve e padrone, costituisce un aggravante della mancanza generale di pulizia. Non è necessario di spiegare come vivano ovunque i bambini piccoli; ma immaginiamoci inoltre quale sarebbe il destino dei nostri mobili fini d'Europa, se le nostre cuoche, le donne di fatica, venissero a riposarsi sulle nostre poltrone, appoggiando i piedi sui nostri tappeti e la schiena alle nostre tende. Per di più, i vetri sono tuttora per l'Asia un oggetto di curiosità, le finestre sono di solito chiuse con carta oliata, e, dove scarseggia anche la carta, si sopprimono senz'altro le finestre e ci si contenta di quel po' di luce che penetra dal camino e che è più che bastante per fumare, per bere e per battere i bambini troppo riottosi, sole occupazioni alle quali si dedicano durante il giorno le spose dei fedeli mussulmani. Non crediate per questo che in tali camere senza finestre regni una vera oscurità. Le case non hanno mai più di un piano, le cappe dei camini non sorgono mai più alte del tetto e sono molto ampie, sì che accada, piegando un poco il capo davanti al camino, di scorgere facilmente il cielo dall'apertura. È l'aria che manca completamente in quegli alloggi. Ma quelle signore non se ne lagnano affatto perchè soffrono naturalmente il freddo e non sanno cacciarlo col moto: rimangono durante ore intere accoccolate per terra dinanzi al fuoco e non riescono a comprendere che talora altri vi si senta soffocare. Mi pare di venir meno solo che ripensi a quelle caverne artificiali, ingombre di donne in istracci e di bimbi maleducati e benedico con tutto il cuore l'eccellente mufti di Scerkess e la sua singolare delicatezza che mi [43] risparmiò un soggiorno di ventiquattr'ore nel suo harem, tanto più che non è dei meglio tenuti.

È un personaggio ben straordinario il mio vecchio amico, il mufti di Scerkess, a giudicarlo almeno dal nostro punto di vista europeo, perchè armonizza perfettamente colla società mussulmana. Non gli avrei dato più di sessant'anni, è alto di statura e leggermente incurvato, ma sembra piegarsi piuttosto per condiscendenza che per debolezza; porta con grazia congiunta a nobiltà la lunga toga e la pelliccia rossa dei dottori in legge. I suoi lineamenti regolari, il suo colorito chiaro e quasi trasparente, il suo occhio limpido ed azzurro, la sua lunga barba bianca che scende ondulata sul suo petto, la sua bella fronte alla quale sovrasta un turbante bianco o verde rigonfio alla moda antica, tutto ciò potrebbe servire degnamente come modello per un ritratto di Giacobbe o di Abramo.

Quando si vede un così bel vecchio, circondato da una famiglia tanto numerosa ed onorato da' suoi concittadini come il simbolo vivente di tutte le virtù, è difficile trattenersi da un sentimento profondo di venerazione. Io non abitavo, mi venivo dicendo, la casa di un semplice mortale, ero ammessa in un santuario. Le vicinanze ne erano affollate ad ogni ora da devoti di ogni età e di ogni condizione accorsi a baciare il lembo dell'abito del Santone, a chiedergli consigli, preghiere ed elemosine. Tutti ripartivano contenti cantando le lodi del loro benefattore. Egli stesso sembrava corazzato contro tutte le debolezze umane: la noia, l'impazienza, il disprezzo, il motteggio, il malumore, l'egoismo. Quale spettacolo incantevole lo scorgere il vecchio coi più giovini de' suoi figli che gli si arrampicavano sulle ginocchia, nascondevano [44] il loro viso giovine nella sua lunga barba e si addormentavano nelle sue braccia, mentr'egli sorrideva loro con tenerezza, ascoltava attentamente i loro lagni e le loro apologie, li consolava de' loro crucci con dolci parole, li esortava allo studio rifacendo con essi e per essi il pesante cammino dell'alfabeto. Io mi smarriva nella contemplazione di quel giusto dicendo fra me: felice il popolo che tuttora possiede e sa apprezzare tali uomini! Ma una conversazione, che ebbi col mufti e con uno de' suoi confidenti, gettò qualche ombra sulla mia ingenua ammirazione. Il vecchio stava seduto con uno de' suoi bimbi su ciascun ginocchio. Ebbi l'idea di chiedergli se avesse molte mogli. Mi rispose: «Non ne ho che due in questo momento (ed era un po' vergognoso di mostrarsi così sprovvisto), le vedrete domani e non vi piaceranno - poi fece una smorfia di disprezzo: - quelle vecchie donne, proseguì, sono state abbastanza belle, ma è passato molto tempo».

- Che età hanno? - domandai.

- Non ve lo potrei dire esattamente, sono sulla trentina.

- Oh! - esclamò allora uno dei servitori del mufti, - il nostro signore non può contentarsi di mogli simili e non tarderà a riempire i vuoti che la morte ha lasciato nel suo harem. Se voi foste venuta un anno fa, avreste veduto una donna degna di sua Eccellenza; ora che è morta ne troverà delle altre, non dubitatene.

- Ma - chiesi a mia volta - sua Eccellenza non è giovane, ha sempre avuto, a quanto pare, parecchie mogli giovani e non le considera tali che al dissotto dei trent'anni. Calcolo quindi che nel corso della sua lunga vita deve averne ricevute [45] nel suo harem un numero molto notevole.

- Probabilmente - fece il sant'uomo impassibile.

- E vostra Eccellenza ha senza dubbio molti figli?

Il patriarca ed il suo domestico si guardarono scoppiando in una risata: poi, quando l'accesso d'ilarità fu passato, il padrone rispose:

- Se ho molti figli? lo credo bene, ma non saprei dirvene il numero.

- Dimmi, Hassan - soggiunse rivolto al suo confidente - mi potresti dire quanti figli io abbia e dove si trovino?

- In verità, no. Sua Eccellenza ne ha in tutte le provincie dell'impero ed in tutti i distretti di ogni provincia; ed è tutto quello che io so e scommetterei che egli stesso non ne sa più di me a questo proposito.

- Come potrei saperlo? - disse il vecchio.

Io volli insistere, perchè il mio patriarca perdeva a vista d'occhio nella mia estimazione e volevo mettermi il cuore in pace; perciò ripresi:

- Come sono allevati questi figlioli, chi ne ha cura? A quale età lasciano il padre? Ove sono stati mandati? e confidati a chi? A quale carriera sono indirizzati e quali sono i mezzi di sussistenza? E come li riconoscete?

- Oh Dio mio! Posso sbagliarmi come qualunque altro, ma poco importa. Del resto li ho tutti allevati, come vedete che faccio con questi fino all'età in cui hanno potuto bastare a loro stessi. Le ragazze sono state sposate o regalate a 10 o 12 anni e non ne ho più sentito parlare; i maschi non sono così precoci e non possono trarsi soli d'impiccio prima dei 14 anni. Io dò allora a [46] ciascuno una lettera di raccomandazione per qualche amico che diriga una grande casa od occupi una carica; egli li colloca in casa sua od altrove, ma tocca ai giovani stessi di far fortuna, io me ne lavo le mani.

Io domandai ancora: - E non li vedete più?

- Che ne so io? Io ricevo, abbastanza spesso, la visita di persone che si dicono miei figli e che possono anche esserlo; faccio loro buon'accoglienze e li ospito per qualche giorno senza chieder loro nulla. Finiscono bene per comprendere che qui non vi è posto per essi e che non vi hanno assolutamente nulla da fare. Le loro madri sono morte, essi sono degli stranieri per me. Per cui se ne vanno spontaneamente e, dopo essere venuti una volta, non ricompaiono più. Sta bene, perchè altri arrivano al posto loro e fanno poi come quelli che li hanno preceduti. Meglio così.

Io non era ancora soddisfatta e continuai:

- Ma questi bei bambini che accarezzate e che vi abbracciano così teneramente sono destinati a subire la stessa sorte?

- Senza dubbio.

- Ve ne separerete quando avranno raggiunto l'età di 10 o 14 anni? Non vi preoccuperete cosa diverranno? Non li rivedrete forse più? E, se ritorneranno un giorno per sedersi ancora una volta alla tavola famigliare, li tratterete come degli stranieri e li vedrete ripartire, questa volta per sempre, senza dar loro un solo di quei baci che prodigate loro adesso? Che accadrà di voi un giorno nella vostra casa deserta quando la voce dei vostri bimbi non vi risuonerà più?

Io cominciavo ad animarmi ed i miei uditori non mi capivano più. Il domestico riuscì ad afferrare [47] il senso delle mie ultime parole e si affrettò a rassicurarmi circa l'isolamento futuro del suo venerato padrone.

- Oh, - disse - quando questi bimbi saranno grandi, sua Eccellenza ne avrà altri piccolini, potete rimettervi a lui su questo punto, non se ne lascerà mancare.

Padrone e servitore scoppiarono in una nuova risata, ma il vecchio aveva osservato che l'effetto prodotto in me da questa conversazione non aveva aumentato la mia stima per lui che teneva a conservare. Affrontò quindi una dissertazione con una certa pretesa di serietà a proposito delle famiglie troppo numerose e dei loro inconvenienti, dell'impossibilità di nutrire e di allevare fino in fondo tutti i propri figlioli, specialmente in una vita così lunga come la sua. Quest'apologia era svolta in un tono solenne, ma le argomentazioni sulle quali si fondava non erano per questo meno assurde ed odiose, tanto che fui ripetutamente sul punto d'interrompere il patriarca. Mi limitai a compiangere in silenzio il popolo che onora uomini di tal fatta come modelli di virtù.

L'indomani ricevetti la visita della principale sposa del patriarca; era un bel donnone, ma orribilmente impiastricciata di rosso e di nero; vi sarà stato anche del bianco, ma non lo si vedeva. Quando le restituii la visita, la trovai circondata da tutte le signore della città che le rendevano onore come alla moglie del personaggio più importante del paese. Essa sembrava comprendere tutta la dignità della sua posizione e ne godeva senza scrupoli. Poichè mi piaceva poco non feci con essa una conoscenza più intima e profittai del permesso del mufti per tenermi ad una certa distanza dalla porta dell'harem.

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Se devo poi darvi un'idea della città di Scerkess, l'antica Antoniopolis, vi additerò tante piccole case in legno ed in fango più o meno in rovina, distribuite a caso sul terreno, abbandonando alle immondizie lo spazio rimasto libero fra l'una e l'altra. Le funzioni di spazzino sono affidate ai cani quasi selvatici, agli sciacalli ed agli uccelli di rapina. Nessuno si preoccupa di assicurare agli abitanti il transito da una casa all'altra. I solchi, le buche, i detriti dei muri crollati, tutto ciò si accumula, si sfascia, aggravando uno stato di cose al quale nessuno rimedia. In alcune città, nell'interno dell'Asia Minore, per traversare le strade si ricorre a dei pattini, che potrebbero anche esser chiamati dei trampoli, tanto sono alti. Altrove le suole delle scarpe devono essere rimpiazzate da sandali in pelle di capra o in pelle di bufalo non conciata e non spogliata del suo pelo. Non ultimo inconveniente è quello che una persona di statura appena superiore alla media arrischia di urtare negli spigoli dei tetti delle case, se non sta in mezzo alla strada. Ecco un quadro fedele di Scerkess che può applicarsi a tutte le città dell'Asia Minore.

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