ANGORA E IL CONVENTO DEI DERVISCI

Due giorni di marcia separano Scerkess da Angora, viaggio faticoso. Traversiamo a cavallo montagne nevose e, caso singolare, splende un sole molto caldo, ma il suolo che scricchiola sotto i nostri passi è tutto ghiacciato. La prima tappa mi riservò un incidente che poteva emozionarmi. Eravamo arrivati verso sera ai piedi di una montagna dai fianchi tappezzati da fitti boschi di pini. [49] Era il tramonto quando arrivai sulla nuda spianata di quel monte, e il vento del nord che vi turbinava per poco non mi gettò dal cavallo. Dovevo ancora salire un'erta nell'oscurità, aggravata da incessanti raffiche di neve. D'un tratto il cavallo si ferma avendo perduto la traccia del sentiero che serpeggiava dinanzi a noi come le strade che valicano le Alpi e gli Appennini. Tutta la mia scorta era immobilizzata e, per aumentare l'imbarazzo, una mandra di mucche e di asini, guidata da qualche ragazzo, ostruiva il passaggio nel quale ci sforzavamo invano di avviare le nostre cavalcature. Era per altro necessario di uscire da quell'immobilità che ci minacciava di un congelamento, dato il freddo intensissimo che regna su quelle alture. Il nostro cavass prese una decisione eroica e lanciò il suo cavallo a caso fendendo gli strati di neve che avevamo d'intorno. Seguii il suo esempio affidandomi alla Provvidenza ed il mio cavallo traversò con impeto la distesa di neve nella quale l'avevo lanciato: perdette piede due volte e due volte ritrovò un punto d'appoggio, finchè raggiungemmo un terreno più solido al di là di quel passo pericoloso. Eravamo sulla cima della montagna non lungi da una casa di rifugio di cui potevamo già scorgere il fumo ospitale; pochi minuti dopo la nostra scorta ci raggiungeva ed una mano mezzo gelata, della quale fu difficile riattivare la circolazione, fu il solo strascico che ebbe per me un incidente come può aspettarsene qualsiasi viaggiatore che si rechi nell'inverno dall'Anatolia alla Palestina.

Ormai siamo ad Angora, l'antica Ancira. Mi trattenni in questa città una quindicina di giorni nel febbraio del 1852. L'archeologo non trova [50] che poveri avanzi dell'antica capitale della Galazia, ma un viaggiatore incuriosito dalla vita attuale dell'Oriente può raccogliervi materia d'osservazioni interessanti. Gli europei, poco esperti di usanze amministrative del paesi mussulmani, devono aspettarsi purtroppo ogni sorta di noie.

Io avevo dimenticato, al momento della mia partenza, di far rettificare un errore che era sfuggito nella redazione del mio passaporto. Contavo porvi rimedio ad Angora, ove risiede un Caimacan, ma egli si rifiutò di prestarvisi senza una mancia di 15,000 piastre. Non fu possibile di piegare quell'avido funzionario nè con osservazioni, nè con rimproveri, nè con preghiere, e mi riescì appena di ottenere una riduzione nel prezzo. Messa così alle strette e decisissima a non dare un centesimo a quel mascalzone, gli dichiarai che non avevo su di me che il denaro indispensabile per arrivare fino a Cesarea e che non potevo quindi pagarlo che con una tratta su Costantinopoli. L'accettò ed io gli consegnai la cambiale, ma scrissi al mio banchiere di non pagarla. Il blocco fu levato non appena consegnai la cambiale e mi affrettai ad uscire da Angora e dalla giurisdizione di quello sciagurato Caimacan. Mentre questa faccenda s'era imbrogliata e risolta dovetti far passare il tempo e pazientare.

Il mufti di Scerkess mi aveva indirizzata al suo amico, il mufti di Angora, personaggio ancora più vecchio e non meno rispettabile del suo collega. Egli aveva varcato i cent'anni e possedeva anch'egli delle mogli giovani e dei bambini piccolissimi. Questo valentuomo aveva perduto la vista da qualche anno e i dervisci, che aveva consultato, avevano parlato di una cataratta. Volle sapere [51] ciò che io ne pensassi, perchè la mia reputazione nella scienza medica è così ben stabilita in Asia come può essere a Parigi quella del Dottor Andral. Gli potevo dare qualche speranza perchè non scorgevo una vera cataratta e gli consigliai una cura che intraprese senza esitazione e che, sin dall'inizio, gli procurò qualche sollievo. Bastò perchè il buon vecchio concepisse una grande amicizia per me. Mandava tutte le mattine i suoi coadiutori a prendere le mie notizie, ed a mettersi a mia disposizione per tutte le spedizioni e le ricerche che volessi fare. Quei bravi mufti mi offersero, fra le altre distrazioni, la visita di un celebre convento di dervisci situato nella città stessa ed io accettai con premura la loro proposta.

Questo nome di dervisci compare spesso in tutti i racconti orientali ed in tutti gli scritti che trattano dell'Oriente e de' suoi costumi, ma, se io vedo bene, l'idea che ci si dà di tali personaggi è inesatta ed incompleta. Dal canto mio m'ero sempre rappresentato il derviscio come un frate mendicante mussulmano, un sant'uomo a modo suo, sottoposto ad una regola più o meno austera, subordinato a capi appartenenti ad una gerarchia sacerdotale, e costretti ad adempiere compiti di beneficenza e di sacrificio. Un personaggio così foggiato dalla fantasia non assomiglia affatto al vero derviscio. Derviscio può diventare istantaneamente qualsiasi mussulmano purchè si leghi al collo od infili nella sua cintura un talismano qualsiasi, una pietra raccolta sul territorio della Mecca, una foglia secca caduta da un albero che dia ombra al sepolcro di un santo o qualunque altra cosa di suo gusto. In mancanza di reliquie può scegliere semplicemente un corno nel quale soffia [52] a date ore del giorno od anche un semicerchio in ferro innastato su di un bastone destinato a reggere il suo capo nei brevi momenti nei quali è supposto abbandonarsi al riposo, ciò che vuol dire che il santone si è condannato alla veglia perpetua. Difatti il bastone che porta all'estremità questo semicerchio che deve servire da cuscino, non rimane fermo che per un miracolo d'equilibrio e, non appena l'asceta ha chiuso gli occhi, il bastone oscilla, cade e sveglia il dormiente. Vi sono poi dervisci che si accontentano di portare in testa una pelle di capra a foggia di berretto in punta e questa strana decorazione basta ad assodare, in favore di chi la porta, il diritto al titolo di derviscio ed alla venerazione dei fedeli. I dervisci hanno raramente un domicilio stabile; quasi tutti viaggiatori, vivono, cammin facendo, di elemosina, salvo a trasformarsi in ladri quando non basti loro la beneficenza nazionale. Sono chiamati talora a guarire gli infermi, uomini o bestie, a far cessare la sterilità delle donne, delle cavalle e delle mucche, a scoprire i tesori nascosti nel seno della terra, a cacciar gli spiriti maligni che abbiano stregato le greggi o le ragazze, insomma ad intervenire in tutto ciò che ha del maraviglioso. Come ogni buon mussulmano essi hanno delle mogli, ma le lasciano nel villaggio dove sono nate, mentre proseguono i loro eterni pellegrinaggi scegliendosi una nuova sposa quando si sentono troppo soli, e abbandonandola quando siano ripresi dalle attrattive del vagabondaggio. Accade talora che un derviscio ritorni dopo qualche anno per ritrovare quella delle sue mogli che gli abbia lasciato i più teneri ricordi. Se la donna lo ha atteso riannoda il matrimonio per qualche tempo; [53] se quella ha trovato di meglio od ha perduto la pazienza si scusa come può e non ha nulla da temere dalle vendette del suo primo sposo. Bisogna riconoscere che questi costumi sono assai facili e non hanno nulla di crudele.

Tale è nella realtà il derviscio, spoglio delle virtù che gli hanno attribuito novellieri e viaggiatori. In sostanza non è che un fannullone, un impostore che diventa talora brigante colla complicità delle circostanze. Qua e là vi sono però delle associazioni di dervisci che vivono in comune ed obbediscono a dei superiori. Esse sono molto più rispettabili dei loro confratelli erranti e si consacrano particolarmente a talune opere buone, espressione che nei riguardi dei dervisci esigerebbe un commento, perchè si vedrà fra breve a qual genere di opere buone si dedichino i dervisci regolari di Angora. Non dimentichiamo poi che l'ortodossia dei dervisci è molto problematica e che uno dei loro ordini in ispecial modo, quello della «Pietra della salvezza», è molto sospetto di indifferentismo riguardo al Profeta ed a' suoi precetti.

Me ne andai dunque, scortata da due de' coadiutori principali del mufti, a visitare il convento dei dervisci, o per dir meglio, la loro residenza d'estate, giacchè, durante l'inverno, quasi tutti si ritirano nella città, ove vivono come gli altri mussulmani in mezzo alle loro famiglie ed estranei alla comunità. In uno dei sobborghi di Angora si trova un giardino, non più grande di cinquanta pertiche quadrate, chiuso da tutti i lati da dei corpi di fabbrica staccati gli uni dagli altri e talmente ingombro di chioschi che rimane appena lo spazio necessario per passare da uno all'altro. Questo [54] strano giardino, che può avere qualche attrattiva durante la bella stagione quando i chioschi e le case che li circondano sono tappezzate di arrampicanti, presentava allora un aspetto deplorevole. Mi sedetti tristemente in uno di quei chioschi privi delle loro verdi ghirlande, ad ascoltare distratta ed incredula le descrizioni che i dervisci mi facevano senza posa degli incanti del loro soggiorno estivo. Ripetevano sopratutto che l'acqua vi è sempre fresca. È uno dei vantaggi ai quali gli orientali danno maggior importanza. Quando vi hanno detto che in un paese l'aria è buona e l'acqua è fredda, si meravigliano che non vi affrettiate a farne la vostra dimora. Quante volte mi hanno domandato se a Parigi ed a Londra l'aria sia buona e l'acqua fresca, e alla mia risposta di non saperne nulla rimanevano tutti sorpresi!

Una buona merenda, consistente in uva ed in pere squisite, miele, marmellate ed acqua freschissima, mi era stata servita senza poter vincere la mia crescente inclinazione alla malinconia, tanto che le mie guide credettero giunto il momento di variarmi i piaceri. Fui fatta passare in una delle case che circondano il giardino, ove le mogli dei dervisci stavano riunite per ricevermi e farmi gli onori della dimora. Ve ne saranno state trenta, pigiate in una stanzetta ermeticamente chiusa, abbastanza ben mobiliata, ma riscaldata a tal punto da una stufa in ghisa che avrei avuto uno svenimento se una di quelle signore non avesse avuto l'estrema bontà di stracciare uno dei telaj di carta delle finestre per darmi un poco d'aria. In un clima così caldo nulla è tanto temuto quanto il [55] freddo, e si prendono cure infinite per ripararsene anche nei momenti in cui i poveri europei come noi non pensano ad altro che al pericolo di morire soffocati. Così nei mesi più torridi d'estate potete scorgere degli asiatici avviluppati in mantelli di panno foderati di pelliccia e tutti attorno ad un fuoco fiammeggiante, mentre le donne esauriscono la fertilità del loro ingegno nel trovare il mezzo d'impedire all'aria libera di penetrare nelle loro case. Durante tutto il tempo del mio soggiorno ad Angora non riescii a liberarmi un momento solo da un violento mal di capo prodottomi dalle esalazioni della stufa a carbone. Nelle case armene si sta ancor peggio: le donne e, qualche volta anche gli uomini, adoperano per scaldarsi il così detto «tandur», mobile che sembra un tavolo ricoperto da una lana che si strascina fino per terra. Sotto questo tavolo si colloca un braciere coi carboni accesi e molta brace. Tutta la famiglia si pone intorno al tavolo ed ognuno tira a sè la coperta di lana, ponendovi sotto le sue mani e le sue braccia, così da arrostirsi alla mite temperatura di 38-40 gradi Reaumur per lo meno. I più sgraziati accidenti derivano da questi usi, e mi ricordo ancora di essere stata svegliata la notte precedente alla mia partenza da Angora perchè una famiglia in pianti mi recava un povero bambino che s'era bruciato nel domestico «tandur». Il fuoco s'era appiccato a' suoi abiti di lana e non se n'erano accorti che quando il corpicino era annerito come il carbone. Nonostante simili disgrazie, che si rinnovano abbastanza spesso, gli asiatici hanno un grande attaccamento per il loro «tandur» col quale si abbrustoliscono a buon mercato.

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Le mogli dei dervisci mi soffocarono d'amabilità e di testimonianze d'amicizia, forzandomi ad accettare un fagotto di calze e di guanti di pelo di capra d'Angora, oltre ad un magnifico gattone della specie conosciuta fra noi col nome di «gatti d'Angora». Discorremmo naturalmente delle qualità specialissime degli animali di una tale regione dell'Asia Minore. È infatti notevole, e meriterebbe di richiamare l'attenzione degli scienziati europei, la superiorità della lana delle bestie nate nella provincia d'Angora, in confronto di quella degli animali di tutto il resto dell'Asia ed anzi del mondo intero. Le capre d'Angora sono le più graziose bestiole che si possano vedere; la loro seta, giacchè non si può neppure chiamarla lana, è di solito bianca, talora rossiccia, grigia od anche nera, ma qualunque ne sia il colore è sempre altrettanto fina, morbida e lucente. Si potrebbe scambiarla colla seta più fina che fosse stata ondulata od arricciata mediante qualche processo recentemente scoperto. Con questo pelo si fabbrica ad Angora un tessuto molto stimato e si lavorano a maglia calze e mezzi guanti d'ogni specie. I gatti sono meno utili, ma non possono sprezzarsi per lo meno da parte di chi ama la bellezza ovunque si trovi. Questi gatti sono enormi ed hanno il corpo ricoperto da una densa lanuggine abbastanza simile a quella dei cigni. La loro testa è molto larga, hanno una coda lunga e folta. La maggiore attrattiva di questi animaletti consiste nella grazia delle loro movenze, nella leggerezza dei loro salti, nella rapidità della loro corsa e nel coraggio col quale picchiano i cani più grossi, che di solito si guardano dal replicare. Basta che vi allontaniate da Angora di qualche lega e le capre ridivengono [57] brutte, i gatti comuni ricompaiono col loro piglio volgare ed il loro carattere sornione. A Conia soltanto capre e gatti si accostano a quelli di Angora senza raggiungerne la bellezza incomparabile.

In genere gli animali dell'Asia sono molto superiori a quelli dell'Europa ed ogni distretto si vanta di possedere il tipo più perfetto dell'una o dell'altra specie. Se Angora ha le sue capre e i suoi gatti, i Turcomani, che abitano i vasti deserti della Cappadocia, hanno i loro montoni colla coda larga, i loro levrieri colle orecchie spioventi come i «king-Charles» inglesi, i loro cavalli più grandi e più robusti di quelli arabi. I montoni turcomani, che si trovano anche fra i curdi, hanno forme assai più graziose dei nostri: il collo lungo, il muso affilato, lunghe orecchie che scendono parallelamente al muso e ne seguono il contorno, come i ricci all'inglese accompagnano il viso di una giovinetta. Il carattere principale di queste bestie è una coda tanto grossa che pesa talvolta fino a 10-12 oche, misura turca che equivale a circa 44 once. Questo peso oscillante al di fuori del centro di gravità imbarazza alquanto la bestiola che è talvolta nell'impossibilità assoluta di trascinare la sua coda, sì che si cerca di sollevarla attaccandola a carrettine che reggono l'incomoda appendice.

Mentre le mogli dei dervisci di Angora mi vantavano le razze privilegiate della loro provincia, non potevo trattenermi dall'esprimere a un altro punto di vista la mia ammirazione per i nobili animali di quei paesi. Ciò che sopratutto mi aveva colpito era la loro estrema dolcezza, la loro mansuetudine singolare. Il bufalo che ovunque ha [58] la riputazione d'una bestia selvaggia quasi del tutto ribelle ai tentativi di addomesticarla non è qui più bellicoso di un bue. Gli sciacalli, che riempiono queste valli e queste foreste, non fanno altro che urlare come dei dannati e si tengon paghi di venirvi a rubare il burro fresco ed il latte fin nella vostra tenda, se l'avete. Il cavallo, che noi conosciamo così fiero ed indocile, non manifesta qui nè ribellione, nè collera, nè ostinazione. Anzi le fiere stesse sembrano partecipi di questa bonarietà universale. Le montagne sono abitate da pantere e da leopardi, ma non v'ha esempio che queste belve abbiano attaccato pacifici viaggiatori, nemmeno se andavano a caccia. Anche il cinghiale non fa la guerra che ai giardini ed alle risaie. Tutto ciò dipende, almeno per alcuni animali, dall'atteggiamento usato a loro riguardo. Un Turco, od anche un Arabo, non maltratterà mai un suo cavallo neppure per correggerlo. Gli parlerà, cercherà di ricondurlo sulla retta via, ma non riescendo si rassegnerà: «Allah Kerim!» Mi rammento d'aver molto scandalizzato la mia scorta mussulmana un giorno in cui, dopo che il mio bel cavallo aveva voluto adagiarsi in un fiume durante il guado, mi permisi, appena uscita dal mio bagno inatteso, di infliggergli un salutare castigo. «Oh, non colpitelo!» mi si gridava da ogni parte. «Che peccato! È così buono e così bello!» Tutti gli si accostavano per lusingarlo ed accarezzarlo facendogli dimenticare la mia ruvidezza. Lo stesso accade cogli animali destinati a lavorare la terra. I bufali non lavorano che finchè lo vogliono e nel modo che preferiscono. Il pastore non guida mai il suo gregge, ma lo segue e, occorrendo, lo protegge; così le sue bestie [59] gli vogliono un gran bene. Ci pare strano udire tutta questa gente discorrere cogli animali e ciascuno nella propria lingua, cioè indirizzandosi ad ogni specie di animali con un certo numero di parole, prive di un senso preciso per gli uomini, ma che le bestie capiscono benissimo. Vi è una parola ed una cadenza speciale che avverte le capre dell'avvicinarsi del lupo ed il medesimo monito è dato al cane con altre parole ed altri suoni. «Voltate a sinistra, voltate a destra, fermatevi, andate avanti»; tutto ciò si dice in modo diverso ad un montone o ad un cavallo, a un mulo o ad un bufalo. E sempre bene! Ognuno sa ciò che questo voglia dire. Tali diversi linguaggi non possono avere suoni molto delicati nelle sfumature; occorre procedere a grandi linee, o per meglio dire a grandi strida. Infatti nulla è più curioso delle rumorose melodie dei contadini, dei cacciatori, dei mulattieri e dei pastori dell'Asia proseguite da un monte all'altro ed alle quali gli animali rispondono a modo loro. Si potrebbe comporre uno strano dizionario colla lingua che gli animali di quassù capiscono, se anche non la parlano.

Ritorno, come devo ormai, ai miei dervisci. Questa brava gente voleva assolutamente divertirmi facendomi passare nel modo più gradevole che fosse possibile il tempo del mio soggiorno forzato nella città di Angora. Si erano accorti che la visita al convento aveva avuto un successo mediocre: immaginarono dunque qualcos'altro, e una bella mattina che, sdraiata sul mio sofà, mi sforzavo invano di scuotere il torpore e l'emicrania prodotti dal fumo di carbone della stufa di ghisa che infestava la mia camera chiusa, vidi entrare un [60] vecchietto col mantello bianco, la barba grigia, un berretto appuntito di feltro grigio circondato da un turbante verde. Il suo occhio era vivace e la sua fisionomia benevola quanto ingenua. Questo vecchio si annunciava come il capo di certi dervisci autori di miracoli che il gran mufti mi mandava perchè potessi assistere alle loro operazioni. Mi profusi in ringraziamenti dicendomi pronta ad assistere allo spettacolo che mi si offriva. Il vecchietto allora socchiuse la porta e, fatto un segnale, ricomparve subito con un seguito di discepoli.

Erano otto e di certo se li avessi incontrati durante il mio viaggio al limitare di un bosco non mi sarei rallegrata di vederli apparire. I loro abiti in brandelli, le loro lunghe barbe irsute, i visi pallidi, le figure emaciate, un non so che di feroce e di stralunato che balenava nei loro occhi, costituivano un contrasto impressionante col viso rotondo e fresco del loro capo, che aveva una fisionomia aperta, sorridente ed era vestito con qualche pretesa. All'entrata i discepoli si prosternarono davanti al loro capo, gli fecero un saluto d'etichetta e si sedettero ad una certa distanza aspettando gli ordini del vecchietto che, dal canto suo, attendeva i miei comandi. Provavo un certo imbarazzo che sarebbe stato assai più penoso, se la seduta che si annunciava fosse stata da me richiesta. Per fortuna io non ne aveva nessuna responsabilità, pensiero che mi rimetteva un poco in sesto: con tutto ciò io non osava far segno che si cominciasse... non sapevo neppur cosa. Mi aspettavo una scena d'impostura grossolana che sarei stata costretta a lodare per cortesia e che avrei dovuto fingere di prendere seriamente, non [61] fosse che per educazione. Il mio amor proprio non era in gioco, ma temevo di non saper bene recitare la mia parte e del resto, lo confesso, la mia coscienza di persona incivilita stava alquanto in allarme.

Feci servire il caffè per guadagnar tempo, ma solo il capo accettò; i discepoli si scusarono, allegando la gravità delle prove che dovevano superare. Io li guardavo; erano serii e impassibili come uomini che aspettassero la visita di un ospite, anzi di un padrone venerato. Dopo un breve silenzio, il vecchietto mi domandò se i suoi figlioli potessero cominciare; ed io risposi che non dipendeva che da essi, risposta che fu interpretata come un incoraggiamento, sicchè il vecchio fece un segno ed uno dei dervisci si alzò. Anzitutto andò ad inginocchiarsi dinanzi al capo e baciò la terra; il capo gl'impose le mani in atto di benedirlo e gli disse a voce bassa alcune parole che non afferrai. Alzatosi il derviscio lasciò cadere il suo mantello, la sua pelliccia di pelo di capra, tolse di mano ad uno de' suoi confratelli un lungo pugnale che aveva l'impugnatura guernita di campanelli e si pose in piedi nel mezzo della stanza. Da principio era calmo e raccolto, ma gradatamente si animava sotto l'azione di una forza interna: il suo petto si sollevava, gli si gonfiavano le narici e roteava gli occhi nelle orbite con una velocità straordinaria. La trasformazione era accompagnata e certamente agevolata dalla musica e dai canti degli altri dervisci che, avendo preso le mosse dal monotono recitativo, trascorsero tosto a grida, ad urli in cadenza, seguendo un certo ritmo misurato dai colpi regolari ed affrettati di un tamburino. Quando la febbre musicale raggiunse [62] il suo parossismo il primo derviscio prese ad alzare e ad abbassare successivamente il braccio che stringeva il pugnale senza sembrare d'aver coscienza de' suoi movimenti e quasi obbedisse ad una forza estranea. Un brivido convulso percorreva tutte le sue membra; egli univa la sua voce a quella de' suoi confratelli, ma presto li ridusse all'umile ufficio di accompagnatori, tanto le loro grida erano soverchiate e dominate dalle sue. Il ballo s'aggiunse alla musica ed il protagonista eseguì salti così prodigiosi, pur seguitando ad inneggiare come un energumeno, che il suo torso nudo era madido di sudore.

Era il momento dell'ispirazione. Il derviscio protese il braccio, brandendo il pugnale che aveva sempre nelle mani, facendone risuonare i campanelli alla menoma scossa, poi d'un tratto ripiegò con forza il braccio, infisse il ferro nella guancia fino a farne escire la punta nell'interno della bocca. Il sangue sgorgava dalle due aperture della piaga e non potei trattenere un gesto per far cessare quell'orribile scena. «La signora vuol vedere più da vicino» disse allora il vecchio che non mi perdeva di vista. Fece avvicinare il paziente e, per farmi constatare che la punta del pugnale aveva realmente traversato le carni, non fu soddisfatto finchè non mi ebbe costretta a toccare col dito quella punta.

- Siete convinta che la ferita di quest'uomo è reale? - soggiunse il vecchio.

- Non ne dubito menomamente - risposi con ogni premura.

- Basta figliol mio - riprese egli allora indirizzandosi al derviscio che era rimasto durante l'esame colla bocca aperta piena di sangue e col ferro nella piaga, - andate a guarirvi.

[63]

Il derviscio inchinatosi tolse il ferro dalla piaga, s'accostò a uno de' suoi colleghi e inginocchiatoglisi dinanzi gli offerse la guancia perchè gliela lavasse di fuori e di dentro colla propria saliva. L'operazione non si prolungò più di qualche secondo, ma, quando il ferito si rialzò e si volse verso di noi, ogni traccia di ferita era scomparsa.

Un altro derviscio, colla medesima messa in scena, si inferse una ferita al braccio, che collo stesso metodo fu medicata e guarita. Un terzo mi riempì di spavento: era armato di una grande sciabola ricurva che prese colle due mani per le due estremità e dopo essersi applicata la lama dal lato concavo sopra il ventre ve la fece penetrare con un leggero movimento bilanciato. Tosto una linea porporina si disegnò sulla pelle lucida e bruna, ed io supplicai il vecchio di non spinger più oltre quelle prove. Egli sorrise e mi assicurò che non avevo ancor visto nulla, che quello non era che un prologo, e che i suoi figli si tagliavano impunemente tutte le membra ed occorrendo anche la testa, senza che ne derivasse loro il menomo inconveniente. Io credo ch'egli era stato contento di me, e mi riteneva degna di apprezzare i loro miracoli, ma ne ero mediocremente soddisfatta.

Fatto sta che io rimaneva meditabonda ed imbarazzata. Di che si trattava? I miei occhi avevano ben veduto? Non avevo toccato colle mie mani? Il sangue non aveva forse sprizzato? Avevo un bel rammentarmi i giochi dei nostri più celebri prestidigitatori, non ritrovavo ne' miei ricordi nulla che potesse avvicinarsi a quello che avevo visto testè. Avevo dinnanzi uomini ignoranti e della [64] massima semplicità, come semplicissimi erano gli atti loro che non lasciavano alcun campo all'artificio. Non pretendo d'aver assistito ad un miracolo, narro fedelmente una scena che da parte mia non saprei spiegare.

Ero molto commossa, lo confesso, e l'indomani ascoltai senza sorridere il racconto di altri fatti meravigliosi di cui mi parlò il dottor Petranchi stabilito da molti anni ad Angora con funzioni di Agente Consolare inglese. Il signor Petranchi crede che questi dervisci possiedano secreti naturali, o per dir meglio soprannaturali, coi quali compiono prodigi simili a quelli degli antichi sacerdoti egiziani. Non enuncio la mia opinione; mi contento di non averne alcuna, è l'unico modo di non sbagliarsi in certi casi.

Giunse finalmente il giorno fissato per la mia partenza da Angora. Durante il mio soggiorno in quella città ero stata piuttosto ammalata e quando mi ritrovai sul mio cavallo non in piena campagna, ma in pieno deserto (come è l'intervallo che separa qui le grandi città), esposta a tutte le brine, senz'altra difesa che le mie pelliccie, senz'altro riparo che un misero tetto e alla peggio la mia tenda, mi sentii stringere il cuore in segreto. Occorre maggior forza d'animo di quanto si potrebbe credere a prima vista per intraprendere simili viaggi. Non è la fatica che spaventa, giacchè non si cammina più di sette od otto ore al giorno, al passo od ambando, su dei cavalli facilissimi; i pericoli sono piuttosto immaginari che reali, le privazioni tollerabili, perchè, oltre le provviste che il viaggiatore reca con sè, può esser quasi sicuro di trovare ovunque galline, ova, burro, riso, orzo, miele, caffè e dei materassi. Ma quando ci si pone [65] a riflettere che non sarebbe possibile procurarsi altro, che quand'anche le forze venisser meno, dopo sei ore di marcia, bisognerà nondimeno terminare la tappa, che la malattia ci troverà senza risorse, che la strada si svolgerà senza rifugio e che la neve e l'uragano possono sorprenderci nel corso della marcia, una specie di debolezza angosciosa ci assale involontariamente, sentimento che occorre respingere, perchè guai al viaggiatore che vi indulgesse!

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