I.

1. Ci sia lecito di togliere dall'ingiusto oblio in cui giace, la bella e generosa figura di Antonio Cecchi in questo giorno anniversario della sua nascita avvenuta per l'appunto il 28 gennaio (altri dice il 29) in Pesaro, nel 1849.

Il prof. Filippo Porena nel suo discorso sul Cecchi tenuto alla Società Africana d'Italia in Napoli, sul cadere del 1896, poco dopo la catastrofe di Lafolè, che costò la vita dell'eroico esploratore, osserva che a Lui «mancarono le lodi dell'Italia ufficiale e di quella piazzaiuola, perchè la prima si mostrò solo importunata dalla sua strage, la seconda, a modo dei tiranni, non accorda favore che ài suoi adulatori». E conclude la sua accorata necrologia con la speranza almeno che il nome di Lui debba essere letto con amore da «una rinnovata generazione».

Sia dato a me, vecchio, di leggere quel nome in mezzo ai giovani nuovi, che hanno vinto la guerra e che si apparecchiano a vincere la pace, liberandola dalle insidie dell'egoismo più torbido, nascosto nelle forme di una bugiarda carezza umanitaria. Come vuole il compianto Geografo dell'Università di Napoli, il nome di Antonio Cecchi dobbiamo tenere più alto del fuggitivo presente, in cui si racchiudono gli spiriti inferiori.

Il prof. Giovanni Marinelli, nella sua lucida commemorazione del Cecchi letta il 6 gennaio 1897 all'Istituto di Studi Superiori di Firenze, dopo aver rilevato che dell'opera di Lui altamente giudicarono uomini illustri nella scienza, italiani e stranieri, osserva che – sfatata la leggenda della Spina Mundi da protrarsi fino all'Equatore – Egli, il Cecchi, con «efficacia di artista e valentia di scienziato, rivelava al mondo una regione di cui tutto s'ignorava: la configurazione del suolo accidentato e bizzarro, la flora, la fauna, le genti, le recondite bellezze, le inattese dovizie.

2. I biografi riferiscono che il Cecchi, nato da una famiglia di marinai, fu mandato agli studi, a Trieste dapprima, poi a Venezia, dove ebbe professore d'astronomia nautica un maestro a tutti caro, divenuto illustre fra i dotti del nostro tempo, Elia Millosevich, lutto recente della Scienza e della nostra Società Geografica.

Il Cecchi ottenne nel 1874 il diploma di «Capitano di lungo corso» all'Istituto di Marina Mercantile di Venezia. Ma solo in seguito e più tardi, al ritorno del suo fortunoso viaggio, doveva dare singolare prova di sua invitta costanza nel sistemare quanto aveva appreso nella convivenza con l'Antinori e col Chiarini, colmando le deficenze della sua coltura e sottoponendosi a 33 anni, ad uno studio paziente delle scienze ausiliarie ed affini alla Geografia. Così solo egli si mise in grado di scrivere un'opera scientifica, qual'è la complessa relazione del viaggio memorando nel quale si lasciò per via, come vedremo, tutti i suoi compagni, Antinori, Martini, Chiarini.

Appena uscito dalla scuola di Venezia, il Cecchi ebbe il comando della goletta genovese «Il Proteo» che esercitava la pesca delle perle nel Golfo di Aden. Con la sua nave faceva anche il servizio di trasporto da Zeila ad Aden. Ben presto però egli fu accolto dalla Società Raffaele Rubattino in qualità di ufficiale.

Ma appunto in quel tempo – su proposta di Sebastiano Martini – veniva chiamato dalla Società Geografica Italiana a far parte della Spedizione Africana, che reclamava nuovi mezzi e anche nuove energie di volontà intelligente.

Il Cecchi contava appena 27 anni, gagliardo di muscoli, agile della persona, simpatico nei modi, faccia aperta, occhio nero espressivo, mente svegliata, animo pronto ad ogni rischio per la scienza, che egli aveva cominciato ad amare, e per l'onore d'Italia. Vide egli subito quale doveva essere lo scopo della spedizione lanciata dalla Società Geografica, che era allora nel periodo eroico della sua esistenza, fra il 1870 e l'80, auspice Cesare Correnti, l'uomo politico, il pensatore e scrittore geniale, ultimo forse di quella schiera gloriosa di patrioti, economisti e filosofi italiani, geografi di elezione, che riempirono il secolo XVIII con la luce del loro pensiero dopo G. B. Vico e formarono nel successivo degna corona intorno al nome di G. D. Romagnosi, quali Melchiorre Gioia, Carlo Cattaneo, Pietro Maestri, Cristoforo Negri.

3. Ma per meglio riconoscere il campo di azione degli esploratori italiani di quel tempo, diamo un rapido sguardo a quella terribile Africa, che un giorno, come osserva il Correnti, parve soltanto

Fertil di mostri e d'infeconde arene;

terribile nella immensità dei suoi deserti infuocati, nelle sue dense foreste di felci arboree, di adansonie colossali, di palme d'ogni specie, fra viluppi di arbusti spinosi e di liane, dove le belve immani si appiattano, strisciano i rettili e brulicano gli insetti e stridono in alto le risa di innumere scimie fuggenti.

In quella vastità chiusa al mondo civile fra coste importuose e miasmi pestilenziali, in una massa continentale senza membra, senza moto, quasi rovina di un mondo spento da secoli, rimanevano isolati da noi e in parte affatto ignorati tanti milioni d'uomini quanti, e ben più, ne poteva abbracciare nella gran luce della storia lo stesso impero di Roma, allorché l'Europa moderna si accorse che tutto era da scoprire in quel mondo così vicino a noi.

L'Africa, nota oramai da quasi tre secoli nel suo contorno dopo le navigazioni dei Portoghesi dell'Epoca delle scoperte marittime, guidati lungo la costa atlantica da piloti italiani, ingombra nelle carte geografiche di nomi creati dalle favole medioevali, venne un giorno disegnata dal cartografo francese Bourguignon D'Anville, verso la metà del secolo XVII, con una figurazione quasi completamente bianca. L'esame critico degli elementi di fatto aveva messo in fuga tutti i nomi di oggetti immaginari, sgombrando la nuova carta dell'Africa dall'inganno delle indicazioni senza soggetto.

Quella ardita rivelazione fu come il segnale della nuova scienza quando potevano dirsi oramai compiute le maggiori scoperte marittime con gli ultimi viaggi di Tasman e degli Olandesi e le memorabili navigazioni scientifiche di Giacomo Cook. Così incominciarono i grandi viaggi terrestri, le esplorazioni continentali, specialmente là dove l'ignoto geografico pareva presentare la massima delle resistenze, vale a dire nell'Africa.

4. Per tal modo si spiega come dopo i primi veri viaggi scientifici nel Continente nero, condotti da Giacomo Bruce e da Mungo Park sul cadere del secolo XVIII, seguirono rapidamente e con prodigiosa vicenda e nobile gara di coraggio e di sacrificio, tanti ardimentosi viaggi di scoperta, che ci diedero nel secolo successivo la visione generale di tutta l'Africa, rischiarata nella sua nervatura geografica, con le sue catene montuose periferiche, senza collegamento centrale, co' suoi multiformi altopiani terrazzati sui quali si stendono vasti laghi a specchio dei colossi alpini coperti di ghiaccio sotto l'equatore; e quegli altopiani si videro solcati da alcuni fra i più potenti fiumi del globo, quali il Congo e lo Zambese, e – più lungo e più celebre fra tutti – il Nilo.

Così venne strappata la benda che avvolgeva il capo del misterioso fiume, quale dal Bernini ci veniva rappresentato nella monumentale fontana di Piazza Navona in Roma; e si esplorarono i laghi dell'Equatoria, di quella regione dove tanti valorosi italiani segnarono un'orma rivelatrice come Giovanni Miani, Carlo Piaggia, Romolo Gessi, Grazio Antinori, Pellegrino Matteucci.

Fra questi benemeriti delle conoscenze dell'Africa centro-orientale vanno pur ricordati monsignor Comboni, vicario apostolico del Sudan-egiziano intorno al 1880, e il missionario Giovanni Beltrame, che fu nel paese fra il Nilo Bianco e il Sobat, ove raccolse gli elementi per la compilazione della prima grammatica della lingua Denca, mentre un lavoro analogo, di pazienza e di dottrina filologica, compieva per le lingue Amharica e Oromonica, sull'altopiano etiopico, Guglielmo Massaia. Poiché, se l'esploratore naturalista rivela le fattezze fisiche del paese, il missionario, con lo studio delle lingue, ne rivela l'anima.

5. Ed è particolarmente nella sezione dell'Africa Orientale, che si stende a levante del Nilo Bianco e più si avanza acuminata verso l'Oceano Indiano dalla dorsale del gran Continente dove l'Etiopia eleva il suo poderoso acrocoro di Alpi impervie, fin oltre i 4000 m., formante una strana isola di Cristianesimo selvaggio, che emerge solitaria su un mare islamitico; è appunto là dove la penisola Somalica si divincola a stento dal gran tronco avaro della massa continentale africana in un nodo intricato di catene montuose, con laghi interni e disfrenamento di acque; in quel groviglio di elementi geografici non ancora determinati, in quello spazio bianco rimasto sulla carta dell'Africa interna, appunto là noi dobbiamo ricercare in special modo l'opera gloriosa e pertinace del Cecchi e dei suoi valorosi compagni in una commovente devozione al programma scientifico della Società Geografica Italiana.

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