II.

1. La spedizione aveva in apparenza uno scopo commerciale, è vero; si trattava di trovar modo di avviare utili scambi di merci e di prodotti fra l'Italia e lo Scioa, dove col re Menilek allora parevano facili le buone relazioni di amicizia quando le pratiche fossero state condotte con saggia opportunità e particolare accorgimento in una adeguata conoscenza di uomini e di cose; ma al disopra degli interessi commerciali, la scienza cercava la soluzione di un problema non ancora risolto, e prendeva di mira la «macchia bianca» che ancora rimaneva nella carta dell'Africa, per scrivere in essa il nome santo d'Italia.

Dovevasi sciogliere quel nodo, risolvere quel problema; e dare così alla Patria nostra, che già tanto tributo di opera individuale e di nobili esistenze aveva sacrificato alla Sfinge africana, da O. B. Belzoni a Giovanni Miani, il meritato onore della nuova conquista geografica, col diritto di esercitarvi un dominio economico prevalente, se non esclusivo.

Erano in quella plaga del mondo africano non lievi segni di esplorazioni condotte da illustri stranieri, come i fratelli Arnoldo e Antonio D'Abbadie, cui è dovuta una ricognizione fondamentale dell'Abissinia, nella prima metà del secolo scorso e dopo quella del Bruce; e vi si vedevano segnati gli itinerari del Rüppel, del Lefebvre, dell'Heuglin, del Munzinger, dell'Halevy, insieme a quelli di alcuni fra i nostri, come il Sapeto, lo Stella, l'Antinori medesimo.

Per la vasta zona a sud dello Scioa e del Golfo di Aden vi erano le belle ricognizioni etnografiche del Paulitschke e quelle dei fratelli James e del Revoil, ben completate più tardi, nella massiccia penisola Somalica, da una luminosa rete di itinerarii nuovi, che portano scritti i nomi di tanti valorosi italiani, come Baudi di Vesme e Candeo, il principe Emanuele Ruspodi col dott. Domenico Riva, e il fortunato pavese ing. Bricchetti-Robecchi, i quali tutti riuscirono a penetrare nell'interno della Somalia e a sfatare, nell'Ogaden, la leggenda di un preteso «paradiso dei Somali» che era ancora ammesso dal Reclus.

2. Al tempo del viaggio di Antonio Cecchi è della spedizione italiana diretta all'Equatoria, la prospettiva era molto diversa, e più vasto l'ignoto e più grandi le difficoltà; e quella appunto doveva essere la nostra maggiore esperienza, certamente la più dolorosa, ma anche la più utile, utile dico, per coloro che vengono dopo.

Cesare Correnti, ancora nel 1886, proemizzando all'opera del Cecchi, additava l'Uoscio, l'estremo pilastro alpino della triangolazione di Antonio D'Abbadie, alla lat. Nord di 6° 30' e long. Est di 38° circa, elevato sul mare fino a 5000 m., come ultimo faro delle conoscenze geografiche a sud dell'Abissinia, caposaldo di partenza dei nostri viaggiatori verso l'ignoto, nella direzione dei laghi equatoriali.

Il monte Uoscio vediamo perciò segnato in una delle carte del Cecchi, che accompagnano il 2° volume dell'opera, ma in modo un po' incerto, mentre invece sembra completamente scomparso delle più recenti figurazioni geografiche della regione Etiopica. Secondo il Correnti la spedizione doveva «prendere l'abbrivo da quel "faro geografico"» per dirigersi verso gli altri ben noti colossi alpini della regione equatoriale, come il Kenia e il Kilima-Ngiaro, che si levano superbi a ben oltre 5000 e fino a 6000 m. Si adergono sul labbro esterno del gran solco siro-africano che dalla fossa del Gôr, per il corridoio del Mar Rosso e la depressione di Assai e dell'Hauash, corre a sud dell'Etiopia, fra l'Elgon e il Kenia, fino al lago Niassa.

Siffatta linea di fratture si presentava mal nota per il lungo tratto fra il sistema Etiopico e quello dell'Equatoria. Ma nelle varie osservazioni del Chiarini, con tanta cura raccolte e ordinate dal Cecchi nel 1° volume, se ne può quasi intravvedere la direttiva.

3. Il disegno che si offriva alla Spedizione di cui era tanta parte Antonio Cecchi, si doveva risolvere in un viaggio senza precedenti; ma l'ignoto – come allora si presentava – ne doveva essere il supremo ostacolo. Elia Millosevich, che questo osserva nell'affettuoso necrologico pubblicato dalla Società Geografica, rileva pure che, se la spedizione non raggiunse il proposito, fra gli utili ammaestramenti che la sua dolorosa esperienza ci ha lasciati, massimo fu quello di chiarirci le ragioni per le quali il grande obiettivo non fu raggiunto.

Le quali ragioni – si potrebbe ancora osservare – non sono tutte nei prevedibili disagi di una marcia forzata di una carovana costituita per necessità di elementi locali eterogenei e centrifughi; non sono tutte negli assalti notturni delle belve, e nelle infinite molestie degli insetti e del clima; e neppure nelle continue aggressioni e nell'avidità insaziabile dei capi indigeni, se a questi è possibile por freno coi donativi, fra le minacce e le promesse di un principe interno più forte di loro. Il Cecchi nel 1° volume della sua opera (pagg. 110-11) accenna al fortunato viaggio del conte Pietro Antonelli, che di questi due mezzi potè disporre, con l'appoggio del sultano di Aussa dopo accordi presi nello Scioia, e riuscendo – primo europeo – ad aprirsi la via da Assab ad Ancober.

Ora: se un primo errore della nostra Spedizione fu il trasporto di un bagaglio eccessivo, facile incentivo e causa di aggressioni brigantesche, l'altro errore fu quello, non prevedibile, di aver trovato proprio il momento più disgraziato per la politica interna dell'Etiopia, nell'imminenza dell'invasione del Negus Giovanni nello Scioa e del conseguente mancato appoggio del re Menilek, causa principale della catastrofe a cui andò fatalmente incontro la nostra impresa nei paesi del Sud. Insomma, l'esperienza ci ammonisce del fatto che, eliminato il caso di un sicuro appoggio in un potente capo interno, non vi è alcuna via possibile fra questi due estremi: o sfondare a viva forza gli ostacoli con i mezzi e i metodi di Stanley, o andar soli, con piccola scorta, come Livingstone, come Schweinfurth, come Piaggia, come i nostri inermi missionari dell'Etiopia e dell'Equatoria, nella regione del Kenia. Delle loro perseveranti fatiche, pur coi peggiori trattamenti subiti dai capi indigeni, essi soli, nell'indicibile martirio di ogni giorno, di ogni ora, e per lunghi anni, come fu per il Massaja, ottennero i maggiori risultati col minore dei mezzi, non solo per la scienza, ma anche per l'umanità, con l'introduzione di norme igieniche e con le cure delle malattie, unico mezzo di penetrazione utile per una graduale possibile convivenza civile di quei popoli primitivi.

4. Ma l'una o l'altra di questa duplice forma di avanzata verso l'ignoto geografico può essere adottata a tempo opportuno; non quella però che, tutto apparecchiando per una grande impresa, si avventura nell'ignoto con la quasi certezza di tutto perdere. Epperò la nostra Spedizione, in due riprese, man mano assottigliata, aveva finito per assumere il carattere dei viaggi individuali, che appunto coi minimi mezzi possono conseguire i migliori risultati.

Ma con quanta pena, con quanti sacrifizi vennero quei risultati ottenuti! A qual prezzo vennero raccolti i materiali filologici che troviamo ordinati nel 3° volume dell'opera del Cecchi e i dati numerici che formano la materia delle tabelle sulle posizioni astronomiche e sul clima dell'Alta Etiopia! E che dire delle notizie preziose su popoli non ancora conosciuti, come i Guraghè?

Non v'ha dubbio che se la Spedizione della Società Geografica non raggiunse l'intento, essa – per la fortunata sopravvivenza del Cecchi – ha potuto lasciare nell'opera, che ne è il monumento, una così luminosa orma di sè da rischiarare la via alle ulteriori indagini sull'inospite paese: voglio dire le esplorazioni che culminarono nella scoperta dei laghi Rodolfo e Stefánia dovute all'ungherese conte Teleki nel 1888, e quella dell'Alto Giuba prima, dell'intero corso dell'Omo poi, compiute in due viaggi famosi da Vittorio Bòttego, nell'ultimo decennio del secolo scorso.

Anche i viaggi del Traversi, del Ragazzi e di tanti altri che valsero a dar nuova luce sulla configurazione geografica del paese e a completare le scoperte nel lungo solco seminato di laghi fra il Gaffa e gli Arussi, hanno potuto indubbiamente giovarsi dell'esperienza fondamentale di cui il Cecchi fu il testimonio superstite e lo storico fedele.

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