Una pagina poco conosciuta dell'opera di Antonio Cecchi nell'Africa Orientale.

Dobbiamo ben mettere in rilievo la parte non solo iniziale, bensì ancora di apostolato ardente e di volontà tenace onde il Cecchi seppe guadagnare alla Madrepatria una vasta e fertile colonia, che – se sapremo bene organizzarla – potrà diventare – in breve volgere di anni – un provvido mercato di consumo dei nostri manufatti e un territorio di approvvigionamento di materie prime per le industrie tessili e di sostanze alimentari coi più ricchi derivati dell'allevamento del bestiame.

Al Cecchi noi dobbiamo attribuire principalmente il fatto che l'Italia non è rimasta fuori del concerto delle nazioni europee nella organizzazione economica dell'Africa, non però gli errori commessi nella nostra politica coloniale sempre improvvida e inorganica.

Egli comprese per tempo che il vasto movimento dell'Europa verso l'Africa – il fatto storico culminante del secolo XIX – è l'effetto di una necessità economica diretta alla ricerca di nuovi mercati di consumo per compensare le perdite di cui è causa il fatale e sempre crescente sviluppo del lavoro americano. Bisogna consolidare la conquista scientifica con una conquista territoriale che assicuri gli sbocchi in formule di accordi reciproci fra i varii Stati sulle questioni di comune interesse e difesa, con la prevenzione e la repressione della schiavitù nelle terre coloniali dei Tropici.

Sé il Cecchi, come abbiam visto, non fu estraneo alla posizione presa dall'Italia sul Mar Rosso il 5 febbraio 1885 con lo sbarco e l'occupazione di Massaua, compiuto dal colonnello Saletta, ebbe pure un'azione di primo ordine nella creazione della seconda Eritrea, là sull'Oceano Indiano, maturata nei giorni del suo consolato di Zanzibar. Egli, conoscitore profondo dell'Alta Etiopia e dello stato di servitù in cui sono tenuti dall'Abissinia i paesi Galla, un vero magazzino di rifornimento d'uomini e di bestiame per i sovrani Amharici, vide con occhio sicuro fin dal 1889 la missione che da quelle rive meridionali della Somalia, lungo i due fiumi, avrebbe potuto compiervi l'Italia, esercitandovi un richiamo commerciale con una ferma azione liberatrice dall'iniquo giogo.

Nel suo rapporto da Aden del 23 febbraio 1892 così si esprime:

«Fra le ragioni che m'indussero a consigliare il Governo ad estendere il protettorato italiano sul litorale del Benadir e a promuovervi l'impianto di una grande Società Commerciale Italiana, non fu ultima la persuasione che essa avrebbe potuto da quelle stazioni signoreggiare tutto o, almeno, la parte maggiore del traffico dei paesi Galla e Sidama. Aggiungerò che da questo primato commerciale dipenderanno la nostra influenza politica nella Etiopia meridionale e lo smercio maggiore della nostra industria ne' suoi mercati».

«..... la strada dell'Uebi Scebeli e quella del Giuba si va facendo meno selvaggia, e nella mente di quei travagliati popoli sorge continuamente il pensiero che il loro destino è in certo modo legato a quello di qualche popolo bianco. La coscienza quindi del dovere che a noi incombe di proteggerli dalla tirannia degli Amhara e dagli agguati degli schiavisti arabi, esiste già in loro abbastanza lucida».

E concludeva:

«..... Oramai siamo col piede nella staffa, e sarebbe un gravissimo errore se ci lasciassimo sfuggire questo territorio.

«Chi può dire con sicurezza l'influenza che potranno avere sulla politica e sul movimento economico europeo; i varii possedimenti che si vanno formando in Africa?

«È necessario quindi che noi pure vi abbiamo parte per avere qualità e diritti da far pesare sulla bilancia.

«Al presente la grandezza, la forza di una nazione consiste nella importanza e nella pluralità dei suoi sbocchi commerciali. La conquista di uno scalo, cioè di un nuovo mercato, nell'avvenire d'una nazione, conta più del trionfo delle armi in una questione di preponderanza politica.

«Sono molteplici ed involgenti gravi interessi, i rapporti che dobbiamo mantenere con l'Etiopia in seguito alla posizione che abbiamo acquistata, e conviene che il Governo vigili, e impedisca, con tutti i mezzi, che altri, ci prevenga per altra via».

La persuasiva insistenza del Cecchi – osserva Gustavo Chiesi nel suo aureo volume sulla colonizzazione dell'Est-Africa – vinse le titubanze; le trattative, spinte a Londra e a Zanzibar con molta alacrità, poterono arrivare al risultato della firma della Convenzione stipulata il 12 agosto 1892 a Zanzibar, con la quale il Sultano concedeva all'Italia l'amministrazione dei porti del Benadir.

Con la legge dell'11 agosto 1896 veniva data regolare esecuzione a siffatta Convenzione per l'amministrazione politica e giudiziaria dei così detti porti di Brava, Merca, Mogadiscio e Uarsceik, con un territorio interno per il raggio di 5 miglia, oltre agli isolotti vicini.

Ma il tricolore italiano era tuttora associato al rosso vessillo del Sultano di Zanzibar negli approdi del Benadir. Col Governo inglese si dovette stipulare un accordo per l'acquisto da parte dell'Italia di tutti i diritti di sovranità spettanti al Sultano anzidetto (13 gennaio 1905) mediante un compenso di 3.600.000 lire. Si trattava però di creare un ente intermediario che, sull'esempio già dato dall'Inghilterra e dalla Germania nel primo momento della loro presa di possesso di nuovi territori, ne assumesse la concessione e sollevasse il Governo dalla responsabilità e dalle difficoltà immediate e dirette del fatto nuovo.

Come gli Inglesi e i Tedeschi si erano a tal uopo serviti di potenti Compagnie, anche noi, Italiani, avremmo dovuto fare altrettanto. Ma il nostro Governo non potè mettere insieme se non la piccola Società formata dal Cav. Vincenzo Filonardi, già Console d'Italia a Zanzibar.

La Compagnia Filonardi ebbe il governo della Colonia il 15 luglio 1893, con presa di possesso al gennaio 1894, assistita dalla R. Nave «Staffetta».

Ma l'esiguità dei mezzi di cui disponeva la Compagnia di fronte agli impegni presi, rendeva molto difficile il compito dell'amministrazione della Colonia e quasi impossibile l'arrivare al termine della concessione. E, in ogni modo, scaduto il contratto, non avrebbe potuto continuare l'impresa. Nè d'altra parte il Governo italiano poteva denunziare la Convenzione senza rinunziare ad ogni idea di influenze future sul territorio della Somalia Meridionale e senza un grave scacco politico in Africa.

«Bisognava creare, soggiunge il Chiesi, un succedaneo alla Compagnia Filonardi mentre i tempi volgevano sfavorevoli alle imprese coloniali e il Governo non si sentiva in grado di assumere la diretta gestione della Colonia». Fu il Cecchi, l'innamorato, l'apostolo ardente del Benadir, che salvò il nostro possesso coloniale della Somalia, utile campo di organizzazione di lavoro, e di produzione per l'avvenire.

Si trattava di costituire in Italia una Società che potesse sostituirsi alla Compagnia Filonardi prima dello scadere della concessione e dell'esercizio provvisorio dei «porti» del Benadir concordato con l'atto del 25 maggio 1893, in seguito al quale poteva avvenire la retrocessione delle stazioni della costa Somalica al Governo dello Zanzibar.

Venne il Cecchi in Italia e tanto fece, con l'autorità della sua esperienza nelle cose africane e con la forza della sua fede nella riuscita e nella utilità del disegno, che anche nei giorni terribili che seguirono le notizie dei nostri maggiori disastri nell'Abissinia (giorni nei quali nessuno più voleva sentir parlare d'Africa), egli, dopo averlo costituito, potè mantenere un nucleo generatore della Società, che per il luglio del 1896 potesse sostituire la Compagnia Filonardi.

Chi può dire le pene e i palpiti del Cecchi all'annunzio della disfatta di Adua proprio nel momento in cui teneva in pugno la sua nuova combinazione? I sottoscrittori, sfiduciati, stavano per ritirarsi: alcuni pochi avevano resistito coraggiosamente e a questi pochi si aggiunse il Crespi, che arrivò in tempo per completare la somma mancante alla cifra di un milione che si richiedeva per far fronte alle spese della nuova gestione.

La caduta del Ministero Crispi e la costituzione del Ministero Rudinì, tutto intento a dare macchina indietro in ogni cosa che riguardasse la disgraziatissima Africa, pareva mettere un inciampo insuperabile all'impresa del Cecchi.

Ma fortunatamente nulla valse a scrollare la serena costanza infusa nell'animo dei sottoscrittori dalla calda parola e dall'autorità del Cecchi; e i negoziati erano così già avanzati all'avvento del Gabinetto Di Rudinì, che la Società non si sciolse e il Benadir fu salvo per l'Italia.

Questa pagina quasi sconosciuta della nostra storia coloniale e riportata nel volume del Chiesi, basta da sola a far conoscere all'Italia le particolari benemerenze del Cecchi nella formazione di quei possessi coloniali d'oltremare, che potranno un giorno, se le iniziative private saranno meglio incoraggiate da una più illuminata politica coloniale, essere un elemento nuovo di vita economica per la nazione.

Certamente, se un giorno l'Italia, fatta più saggia, ritrarrà i benefizii che ci ripromettiamo dalla Somalia, è bene che tutti sappiano quali e quante difficoltà vennero affrontate e qual lavoro Antonio Cecchi abbia saputo apparecchiare per vincerle. Ed è bene che a tutti sia noto come il viaggio del Cecchi da Mogadiscio a Gheledi, che diede occasione all'eccidio, fosse diretto a prendere accordi col Sultano di Gheledi per la sicurezza della strada e delle comunicazioni. Senonchè lo stesso Sultano, pur mostrando di voler accogliere il Console Generale con promesse di amicizia, era consenziente con gli elementi arabi della costa, interessati a mantenere l'infame traffico degli schiavi. La campagna antischiavista degli Italiani si imperniava ora con particolare energia nella persona del Cecchi. Ecco adunque la ragione dell'eccidio, sul quale troviamo ampie informazioni nel volume del Chiesi, insieme col rapporto steso dal Cav. Dulio, Commissario a Mogadiscio, e inviato dal Governo.

Fu grave sventura per la nostra colonia la perdita del suo principale organizzatore, e rappresentò in quel momento una vera battaglia perduta, di cui quasi non s'accorse il paese, tutto assorto nel lutto e nell'amara delusione in cui l'aveva piombato la disfatta di Adua, ma che ebbe pure un'importanza non lieve nei nostri rapporti con le popolazioni dell'Africa Orientale, dove, non solo per questi disgraziati avvenimenti, ma sopra tutto per la condotta remissiva del nostro Governo, il prestigio dell'Italia pareva tramontato per sempre.

La bella «Relazione al Parlamento» presentata nel 1918 dal ministro Gaspare Colosimo, sulla «situazione delle Colonie», ci fa sapere che l'azione governativa può essere molto efficace qualora si restringa a sapienti provvidenze dirette a incoraggiare lo sviluppo dell'agricoltura locale e del patrimonio zootecnico del paese; ci fa conoscere come questo paese – pur valorizzato in minima parte – ha già fornito, nel 1917, circa 16.000 quintali di pelli per tre milioni e mezzo di lire, con destinazione Aden, Zanzibar, Italia, Stati Uniti; nonchè 15.000 quintali di dura per l'amministrazione della guerra e oltre 40.000 in seguito; mentre da ulteriori relazioni rileviamo la notizia dei considerevoli saggi di una promettente produzione di cotone.

E se pure l'Uebi non sembra affatto sufficiente a quella larga irrigazione che si credeva, tuttavia la terra disponibile, purchè lo si voglia, offrirà largo campo ad utili imprese, ove con saggia opera di Governo si tenda ad attenuare la grande sproporzione, che ora esiste, fra la mano d'opera e la disponibilità territoriale, attirandovi abilmente e disciplinandovi la mano d'opera dei vicini Bantu, o fors'anco dei Galla della Etiopia del Sud, verso la quale il Cecchi, fin d'allora, volgeva l'acuto sguardo come all'avvenire commerciale della sua nuova creazione, voglio dire quella regione dei Regni Oromoni, ov'egli tanto sofferse, dove lasciò ricordo di sè il grande Massaia e dove ora si trovano, degni continuatori, i Missionari della Consolata di Torino.

Il Governo non amministri nessuna azienda, ma la lasci amministrare dall'industria privata, e si contenti di promuovere le utili iniziative con sagge disposizioni legislative e opportune provvidenze sociali, dando a tutti il senso della sicurezza politica, nella quale solo vive, col lavorò, la forza economica.

Così, senza esagerate speranze, potrà la Somalia aspirare ad un prospero avvenire; e si renderà capace di assorbire certi prodotti delle nostre industrie in una maggiore elevazione della vita degli indigeni, intelligenti, ma indolenti, e non stimolati ancora dal bisogno di migliorare la propria esistenza; così soltanto la nostra lontana colonia potrà fornire una più larga esportazione di materie prime, con tangibile utilità della madrepatria.

Allora potremo vedere la figura di Antonio Cecchi splendere della sua vera luce sul cielo tropicale in quell'unica terra di oltre mare, il cui acquisto, per opera sua principalmente, non ha pesato sull'Italia con disastrose operazioni militari e con gravi sacrifizi di vite e di fortune.

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