Dalla lettura dell'opera del Cecchi, opera di scienza e di azione, di provvida e sana politica in un continuo esempio di coraggio e di sacrifizio, emana una sostanza di severe meditazioni sulla fatalità geografica che incombe a tanta parte della Terra tuttora sottratta alla organizzazione politica della collettività umana più aperta all'ordine del lavoro civile.
Pur troppo è vero quanto scrive Cesare Correnti: la politica si studia di coprire la faccia sinistra di Talleyrand con la maschera di Humboldt. E ai nostri giorni suol mascherare appunto col nome di «mandati» in una veste umanitaria d'occasione, la mal celata avidità di conquista territoriale e di sfrenato imperialismo, che è stata tanta parte delle cause della conflagrazione che ha funestato il mondo.
Ma è anche vero che questa imposizione di una nuova veste umanitaria sugli istinti atavici delle razze più raffinate nelle arti della civiltà moderna, è il segno dei tempi in questo omaggio, creduto necessario, ad un superiore ideale di virtù politica, che dovrà infine prevalere sugli istinti elementari. La politica coloniale degli Stati europei vuoi mantenere le vecchie conquiste e accrescerle a dismisura a danno dei vinti, o dei vincitori creduti più deboli, dando loro l'apparenza di una umanitaria tutela.
Ebbene, sia pure così. I maestri della scienza economica hanno mostrato di credere alla legittimità delle colonie intese come possessi degli Stati moderni nei territori di oltremare, aree di esportazione di lavoro o di capitali, e di scambio di materie prime e di manufatti, poichè nell'odierno stato della vita economica dei popoli, come abbiamo detto, non è più possibile pensare a sistemi chiusi di economia territoriale.
Oggi, che una dottrina sociale nuova, ma antica quanto la razza di Caino, sembra voler consacrare come diritto il dar di piglio nella roba altrui col pretesto d'una eguaglianza irraggiungibile, dovrebbe sembrare tanto più strano e ingiusto che i Paesi di più alta civiltà e di popolazione più densa, come gran parte dell'Europa occidentale e l'Italia stessa, lascino abbandonati a rare popolazioni inconscie dei paesi tropicali vasti territori inutilizzati. Una più equa distribuzione delle terre fra le diverse genti del globo si impone ben più giustamente che non una eguale ripartizione della proprietà territoriale fra gli individui o le famiglie di una medesima e densa collettività. Si chiamino colonie di popolamento o colonie di sfruttamento, o partecipino dell'uno o dell'altro sistema, esse sono da considerarsi assolutamente necessarie – o direttamente o indirettamente – per qualsiasi Stato, la cui sovra-produzione o sopra-popolazione reclami una forma di equilibrio economico in altre terre ancora nuove ad una vera e propria organizzazione politica.
Fu già dimostrato come l'Impero britannico, con 430 milioni di abitanti su una estensione di terre superiore più del doppio all'Europa e dominante tutti i mari del globo, sia l'esempio vivente della forma più adatta ad una possibile conoscenza vicendevole delle genti umane, postulato pregiudiziale e fondamentale al formarsi di una «morale dei popoli»: la qualcosa significa nel lontano avvenire una grande federazione mondiale dei popoli della Terra. Quell'impero si regge sul consenso spontaneo dei suoi componenti, un consenso che trionfò di ogni prova nella passata guerra.
Non v'ha dubbio, o signori, che i popoli delle Nazioni imperialiste, i mercanti, le Banche, gli uomini di Stato, gli uomini di guerra, sono tratti dalla sola cupidigia e dall'egoismo a conquistare, ma così facendo – osserva acutamente un economista italiano – rispondono all'ordine di una superiore provvidenza naturale e portano il loro contributo altruistico al fondo comune che è «la conservazione della dinamica produttiva della terra».
Anche noi dobbiamo dare questo contributo, ma dobbiamo essere più operosi ed anche più saggi. Una voce nel nostro Parlamento, e fuori, fin dai tempi dei disastri africani ammoniva che i nostri errori politici erano sopratutto errori geografici, e che dovevamo innalzare la cultura geografica, se volevamo bene indirizzare la nostra politica.
Noi passiamo troppo spesso dai subiti entusiasmi, come quelli che accolsero con tanto favore la Spedizione libica, alle subite depressioni, che ci fanno di colpo perdere il frutto di tante fatiche e di tanti sacrifizi.
Parlando del Cecchi come di uno degli artefici del nostro impero coloniale dell'Africa di Levante, ci vien fatto di chiedere – davanti alla carta che quei possessi rappresenta nelle due Eritree – perchè mai la nostra politica, neppure nei nuovi contatti di intima colleganza di armi con la Francia, non è riuscita a farsi togliere la spina che ci affligge nel nostro fianco più delicato: quel possesso di Obok e di Gibuti, che dopo il fallito tentativo di Fascioda nel 1898, dovrebbe aver perduto ogni valore per l'impero coloniale della sorella latina.
La verità è questa: che anche nel più decisivo momento favorevole per noi, dopo la guerra vittoriosa, ci è mancata quella coscienza politica, che sola attinge norma sicura da un chiaro senso geografico.
Un più equo trattamento noi avremmo certamente potuto ottenere, se fossimo stati più accorti e, sopratutto, più uniti, trattandosi di un puro atto di giustizia, con la assegnazione di quei compensi che più ci sono necessari tanto in Africa come in Asia. l'Italia, l'erede del vangelo politico di Giuseppe Mazzini, non può volere l'abbominevole imperialismo che trasporta una dinamica produttiva, creduta più alta, là dove esiste una organizzazione politica e una forma di lavoro superiore al livello dei popoli semi-selvaggi. Ma dove questi formano soltanto le rare popolazioni di estesi territori nella zona intertropicale, come la Somalia, essa ben può esercitare un ufficio superiore di valorizzazione economica, che ridonda a beneficio dell'intera collettività civile.
Pur troppo noi assistiamo ora allo spettacolo di un lavoro affannoso, inorganico e discorde della politica europea nella ripartizione dei così detti «mandati» d'Africa e d'Asia; e sembra ancor troppo lontano quel generale assetto politico ed economico, che dipende in gran parte da un più giusto equilibrio delle forze coloniali.
Onde ben a ragione oggi più che nel tempo del bombardamento d'Alessandria, potrebbe il nostro Poeta esclamare:
Ahi! vecchia Europa che sul mondo spargi
l'irrequieta debolezza tua,
come la triste fisa a l'Oriente
Sfinge sorride!
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Qui finiva la commemorazione tenuta in Torino la sera del 28 gennaio; ma la esposizione delle benemerenze del Cecchi in ordine alla nostra politica coloniale sarebbe monca se non la facessimo seguire da una pagina poco nota della storia delle origini del nostro possesso coloniale della Somalia.