I.

1. Sul nostro pianeta e proprio sui fianchi opposti del medesimo continente, a latitudini pressochè invertite sul 40° parallelo Nord, si sono andati formando a poco a poco, dall'antichità remota, i due più grandi sistemi di aggregati umani, e si sono sviluppate, a insaputa l'una dell'altra, le due massime società civili, così opposte fra loro, di natura così profondamente diversa nelle istituzioni politiche e nelle forme artistiche, dall'architettura alla lirica, che si direbbero nate e cresciute su due pianeti differenti, anche i più lontani del sistema solare, Mercurio, verbigrazia, e Nettuno.

La Civiltà Mediterranea, che è nostra (quella cioè dei popoli di «razza bianca»), si è svolta propriamente intorno al Mare che fu il principale teatro della sua storia e il suo primo elemento unificatore, pur nel contrasto tante volte secolare delle stirpi Arie, Semitiche e Turaniche: donde il carattere non più fluviale e continentale che aveva sulle rive dell'Eufrate e del Nilo, ma essenzialmente marittimo, fissato dai Fenici e dai Greci nell'Antichità, da Latini e da Anglo-sassoni nell'Epoca Moderna, espansivo, avventuroso, instabile, invadente, prepotente.

La Civiltà asiatica dell'Estremo Oriente (quella dei popoli di «razza gialla») si è da lunghi secoli costituita nel bassopiano irriguo che si allarga verso l'Oceano Pacifico, sulle rive dei mari che ne dipendono. Quel grande paese, che è una concavità, cioè una forma geografica di assimiliazione sociale, cinta a N., a W. e, in parte, a S. da un'immensa cornice di alte terre pressochè insormontabili, aperta solo a levante, sul più infido dei mari, per le naturali difficoltà delle comunicazioni con gli altri popoli, doveva essere la dimora più propria allo sviluppo lento di una società agricola, patriarcale e pacifica, stabilmente fissata sul suolo, chiusa in sè, ingegnosa, paziente, diffidente, esclusiva.

La Civiltà Mediterranea, divenuta poi Europea, ricevette dalle stirpi semitiche la scrittura alfabetica, sciolta dai vincoli della ideografia originale, prima base di ogni facile commercio fra i popoli e germe fecondo di ogni legame ideale fra le genti più lontane. Pure semiti furono i pellegrini, che nella immensa uniformità del deserto, maturarono l'idea di un Dio, unico, invisibile, personificazione altissima della legge morale. Propria invece della stirpe Giapetica è la trasformazione di una più ricca natura nella molteplicità degli Dei, onde la creazione lieta in Grecia ed in Roma di un Olimpo estetico, vivente ancora nelle forme dell'arte. Il contrasto, spesso violento, fra popoli di razze diverse, e il loro vario mescolarsi sulle rive e nelle isole del Mediterraneo, valse a provocare la scintilla vivace delle idee universali, onde emerse il concetto greco del Cosmo e, nella speculazione filosofica della scuola Jonica, il primo tentativo di un'indagine scientifica. L'immediato contatto col mare, che ritempra la fibra dei popoli nella lotta contro gli elementi della selvaggia natura, ha dato alla stirpe Giapetica, sotto il cielo di Grecia, il sentimento e l'idea della libertà.

Ma nel mondo Cinese nulla troviamo che risponda con ugual forza di determinazione a queste tre grandi concezioni delle genti Mediterranee: Dio, Scienza, Libertà. Dio è costituito dal «Cielo» senza una decisa personificazione etica, e da un largo, ma anti-estetico politeismo di origine indiana; la Scienza è rappresentata da un complesso di nozioni raccolte senza metodo e senza legame razionale, in libri pieni zeppi di forme grafiche simili a piccoli insetti svolazzanti, intelligibili soltanto ai pochi iniziati in quel dato ramo del sapere. La Libertà infine, nel senso civile e politico, sembra essere una concezione perfettamente estranea all'anima sinica.

2. Eppure l'Estremo Oriente, vale a dire mezza l'umanità politicamente organizzata, offre ne' suoi costumi, nelle sue istituzioni, nelle sue industrie e manifestazioni artistiche, dei singolari contrasti, che non potremmo sempre, senza ingiustizia, giudicare come segni di inferiorità di razza. Dirò di più: mentre l'Occidente, avviluppato nei mitici veli delle origini, fantasticava divinità simboliche dando forma all'epopea e creando la materia dell'estetica, l'Oriente Sinico aveva già varcato i primi due dei tre stadi fissati da G. B. Vico nella vita delle nazioni: Dei, Semidei, Uomini; e sembrava aver già esaurito il periodo «teologico» e anche il «metafisico» in molta parte della sua attività, per essere entrato in quel «periodo positivo» che Augusto Comte aveva fissato quale termine metodico dello sviluppo dell'esperienza umana. La Cina era giunta al «periodo positivo» molti secoli prima dell'Europa, non però nella scienza, bensì nella sua storia e nei suoi ordinamenti. All'incirca 2000 anni av. C., vale a dire presso a poco 10 secoli prima della guerra di Troia, un imperatore cinese, Iao, fece fondere nove vasi di rame su cui erano stati incisi i disegni delle nove provincie dell'Impero – non altrimenti che su tavole in bronzo, tanti secoli dopo, aveva fatto, sulle rive dell'Asia Minore, Anassimandro, per il mondo conosciuto dai Greci, secondo ci riferisce Strabone. In Cina esisteva già fin da quel tempo un «tribunale di Matematici» e un «ufficio di Storiografi» e i primi atti di quel governo furono una vera e propria inchiesta sull'amministrazione delle Provincie, cioè una descrizione statistica, geografica ed economica dello Stato. Eppure noi, Occidentali, non eravamo neanche arrivati alla spedizione degli Argonauti, cioè al mito del ciclo Orfico!... Più tardi, 11 secoli avanti l'E. V., sotto la dinastia dei Ceu, i Mandarini cinesi erano regolarmente provveduti di carte particolareggiate delle loro provincie.

3. Quel popolo, ad ogni modo, ha sentito, forse 12 secoli prima di noi, cioè prima dei geografi della Scuola Ionica, il bisogno di vedere sè stesso nella carta geografica, e di vedersi, ben inteso, nel centro dell'Universo. E siffatto egocentrismo non punto dissimile da quello dei nostri progenitori Greci e Romani, era ben giustificato in un popolo, che aveva saputo arginare uno dei più potenti fiumi del globo, l'Huang-ho, da tempi remoti, bonificare le paludi, praticare una rete di navigazione interna, che è tuttora la prima del mondo, costruendo strade e ponti in muratura ad archi arditissimi, trasformando il suo territorio come nessun popolo mai: mentre invece intorno a sè non vedeva che altopiani immensi e gelidi, abitati da popolazioni rare, nomadi o semi-selvaggie. E questo suo territorio, divenuto un tesoro dell'industria umana, egli aveva difeso colla «Gran Muraglia» munita di torri e lanciata per 2400 K. su monti e fiumi, dai confini del Turkestan fino alle rive del golfo di Liao-tung, per tutta la frontiera della Tartaria, così da escludere, con opera paziente, meravigliosa, tutta quella fuga interminata di deserti e di steppe, che fu la patria delle rapaci stirpi mongole e il temuto focolare delle invasioni devastatrici.

Ma l'opera monumentale non sortì l'effetto che si sperava, poichè la prima e più efficace difesa di uno Stato è il petto dei cittadini liberi. E appunto ad una delle grandi irruzioni tartare che dilagò per tutta la Cina e minacciò persino l'Europa, è dovuta la penetrazione dell'Estremo Oriente da parte degli Occidentali. Quel terribile periodo di invasioni Mongoliche, iniziato da Gingis Kan, fu uno dei grandi uragani storici che sfondano, a così dire, porte e finestre e, dopo l'enorme sconquasso, lasciano l'aria più chiara e aperte le vie. Per tal modo la Cina, questo mondo così diverso e nuovo, venne rivelato all'Europa in tutta la sua estensione e possanza, da un italiano: Marco Polo.

Bene accolto da Kublai Kan, l'invasore Mongolo della Cina nel ventennio fra il 1260 e l'80, come già il padre e lo zio, il nostro viaggiatore s'intrattenne nella grand'Asia fino al 1295 percorrendola in tutti i sensi e dando di molti paesi le notizie che, ritenute favole in Europa, ancor oggi, dopo sei secoli, sono le più vicine al vero. Ritornò compiendo quel gran periplo marittimo che ha dato all'Occidente, dell'Arcipelago Malese, di Seilon, dell'India, la conoscenza più accertata dopo quanto sapevasi vagamente dagli ultimi geografi dell'Antichità classica.

Ma nulla egli ci disse della Gran Muraglia, senza dubbio devastata dai Mongoli, e solo ricostruita più tardi dalla dinastia nazionale dei Ming; nè certo era al caso di potersi interessare delle letterature delle varie nazioni asiatiche e meno ancora della Cinese, egli che parlava soltanto gli idiomi dei Tartari e, per incarico di un imperatore Mongolo, visitava le provincie conquistate, assumendo anche, per ben tre anni, il governo di una di esse. Egli, figlio di mercanti, partito da Venezia all'età di soli 15 anni, educato ai più lunghi viaggi (non certo in automobile!) attraverso tutta la massa dell'Asia da Costantinopoli a Pechino, era ben lontano dal poter rilevare l'importanza di quella singolare scrittura ideografica che a noi doveva nascondere ancora per ben tre secoli l'anima cinese. Ma dotato di intelligenza viva e di acuto spirito d'osservazione, nulla si lasciò sfuggire di tutto ciò che si riferisce alle forme esteriori di quella immensa organizzazione sociale. E il suo libro, pubblicato in edizioni critiche di alto valore, sapientemente illustrato dal Pauthier e dal Yule, ci offre la rapida e ingenua, ma sempre fedele pittura di quel mondo maraviglioso: dalla fastosa Corte del Gran Kan in Pechino (la Kanbalik di allora) alla bellissima metropoli del Sze-Ciùen, il centro dell'industria serica, Sindafù, col suo magnifico ponte sul Min; dall'estremo Burma colle sue pagode d'oro e le tintinnanti corone, alla città marittima di Quinsai, la stupefacente Venezia dell'Estremo Oriente, l'Hang-ceu dei moderni.

4. Un altro italiano, Giovanni Pian de' Carpini, nato nei pressi di Perugia, fin dal 1246 l'aveva preceduto nella Grande Tartarìa passando per la Moscovia. Egli ci lasciò una relazione preziosa dei costumi dei popoli dell'Alta Asia e della Corte del Gran Kan Guiuk alla cui incoronazione in Karacorum ebbe la ventura di assistere fra gli invitati, in un immenso padiglione d'oro, fra innumerevoli cavalieri scintillanti di gemme.

E italiani furono i Missionarii della regola di S. Francesco, che tennero vive, dopo Marco Polo, per circa un secolo, le relazioni dell'Europa con l'Estremo Oriente: Giovanni da Montecorvino fu bene accolto da Kublai e morì nel 1328 arcivescovo di Kan-Balik «Città del Kan», che fu poi la Pe-King «Residenza del Nord», la Pechino dei Cinesi; – Andrea da Perugia vescovo di Zaitun nel 1322-26, fin dal 1308 era compagno del Montecorvino nell'Apostolato di Kan-Balik, e attestava ingenuamente, non senza sorpresa, l'opinione comune nel paese che ognuno può salvarsi nella propria religione; – Oderico da Pordenone, che fra tutti emerge, fu a Trebisonda, sul mar Nero, nel 1314, a Erzerum, nell'Armenia, a Tauris allora gran centro di commercio nella Persia; per Ormuz passò nell'India, di cui rivelò il culto braminico, i templi colossali, il fanatismo atroce, senza trascurare la ricca vegetazione e i prodotti naturali di quei paesi da Seilon a Sumatra; primo Europeo pose il piede in Borneo e nel Regno degli Zampa, nell'Indocina; toccò finalmente Canton, la gran città cinese sul «Fiume delle perle», la metropoli da lui calcolata tre volte più grande di Venezia. Dopo Zaitun e Fu-ceu visitò la famosa King-sai, già descritta da Marco, la magnifica capitale della Cina al tempo dei Sung e prima delle invasioni Mongoliche, che girava 100 miglia, aveva 12 porte e 12.000 ponti, gran mercato del tempo, già frequentato da trafficanti Veneti.

Fu a Nan-king, la «capitale del Sud» sul Iang-tzè, il Kiang di allora, a Ning-po sul Fiume Giallo, il Caramuren dei Tartari, raggiunse infine Kan-Balik, o «Città del Kan» (la Pechino dei Cinesi), notò la splendidezza dei conviti, le particolarità delle cerimonie di Corte, l'uso della carta moneta, già riconosciuto dal grande Veneziano. La sua relazione, dopo quella di Marco, non ha uguali nel Medio Evo prima dell'altro Veneziano, Nicolò dei Conti, e dell'arabo Ibn Batuta. Non ostante qualche disordine, dovuto senza dubbio a interpolazioni di amanuensi ignoranti, è la più importante del secolo XIV, e fornì abbondante materia all'inglese Mandeville, il viaggiatore bugiardo, di cui più tardi si scoperse il trucco fortunato. Il colonn. Yule ne condusse la traduzione inglese sui due migliori testi, quello latino della Nazionale di Parigi e quello volgare della Palatina di Firenze.

5. Nel 1338, cioè pochi anni dopo il ritorno di Oderico, il fiorentino Giovanni Marignolli partiva da Avignone e passava nella Grande Tartarìa, non già per il Pamir e per il Cotan, come il Polo, ma per la valle dell'Ili e la Zungaria, cioè per la via descritta da Francesco Balducci Pegolotti, che delineò l'itinerario del viaggio al Cataio, seguito dai mercanti italiani dalla Tana (Mare d'Azof) a Pechino, e diede nel suo libro «la Pratica della Mercatura» il primo trattato di Geografia commerciale. Il Marignolli fu per tre anni a Pechino, visitò Kinsai, Zaitun e Canton, tornando per la via delle Indie, come Marco Polo, con viaggio inverso a quello di Oderico, che forse tornò in Europa per la via interna.

Chiude questo primo periodo delle relazioni fra l'Europa e la Cina il già menzionato veneziano Nicolò dei Conti, che dal 1428 al '53 percorse l'India, l'Arcipelago Malese, la Cina; e la sua narrazione, raccolta da Poggio Bracciolini per ordine del Papa Eugenio IV, forma uno dei più importanti documenti della Geografia esploratrice nell'Epoca umanistica.

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