Ma dobbiamo ancora esaminare la posizione della Geografia nella nuova fase della Scienza, che è quella della Teoria di evoluzione.
È questa una forma di generalità superiore così viva e potente che, quando si annunziò, un brivido corse per le membra di tutto lo Scibile, dalla Geologia fino alla Scienza del linguaggio, dalla Biologia all'Economia politica, culminando infine con l'idea suprema dell'Evoluzione della materia, confermata oggidì sotto la forma della disaggregazione degli atomi.
Tutti sanno che il concetto di evoluzione non è nuovo: se ne possono trovare le traccie nell'Antichità e anche nel Medio Evo. Lo stesso Cristianesimo, secondo l'Eucken, porta il germe di una teoria di evoluzione: e questo principio, che traspare forse da alcuni passi della Divina Commedia, circola nell'idealismo teologico dell'Herder. Ne ebbe l'intuito Andrea Cesalpino, il primo filosofo moderno della natura.
Dallo stesso concetto prese le mosse la filosofia cartesiana in quanto si riferisce ad una formazione graduale dell'Universo, che non fu certo estranea alla teoria cosmogonica di Kant e di Laplace. La quale, non ostante le molte imperfezioni e lacune riconosciute più tardi, ha pur tanto allargato il concetto della formazione naturale nelle opere dello Spencer e dell'Ardigò.
Questo concetto, prima e dopo Leibnitz, rimaneva chiuso nel campo della pura speculazione filosofica, perché urtava contro la creduta immobilità e inderivabilità delle forme organiche, affermata da due colossi della Scienza: Linneo e Cuvier, i fondatori della storia moderna delle classificazioni. Ma nessuno ignora come Lamarck e Darwin rimossero l'ostacolo ponendo sulla base dell'osservazione il principio di un graduale divenire degli organismi da forme più semplici.
L'idea iniziale di Lamark fissata, come ognun sa, sull'adattamento alle condizioni dell'ambiente, arricchita di nuovi fatti e di nuove vedute dal genio di Goethe, difesa contro gli attacchi di Cuvier, da Geoffroy de Saint-Hilaire, portata da Lyell nel campo della Geologia, ove la Paleontologia forniva il documento delle formazioni graduali delle specie organizzate, smisuratamente ampliata sulla molteplicità degli esseri organici e in ispecial modo fecondata da Carlo Darwin con la teoria della discendenza e della selezione naturale, rinvigorita di osservazioni originali, tra le foreste dell'arcipelago indiano, dal Wallace, levata da Ernesto Haeckel, con logica audace,oltre i confini segnati dallo stesso Darwin, venne, così cresciuta, trapiantata nel campo della Filosofia da Herbert Spencer, il pensatore nuovo, onde si è compiuta la grande opera di trasfusione in tutti i rami del sapere.
Ma le idee del Nägeli sull'idioplasma specifico delle cellule germinali e sulla evoluzione per cause interne, le scoperte dell'ab. Gregorio Mendel, il «Newton della Biologia» che diede la prima applicazione di una legge matematica ai fenomeni della vita organica, le osservazioni del De Vries sulle variazioni saltuarie nelle piante, onde pare intaccato profondamente il principio delle cause lente, gli stessi concetti fondamentali dell'adattamento e della selezione, appaiono dottrine incomplete senza la esplicita integrazione nella forma geografica dovuta alla teoria biologica della emigrazione di Moritz Wagner, che Federico Ratzel ha così largamente applicata alla Geografia dell'Uomo.
Può forse osservarsi che la «formazione di nuove specie per segregazione», com'è il titolo dell'opera del Wagner, oltre che nella tendenza a variare, insita in ogni organismo, per quanto riguarda l'emigrazione, trovasi inclusa nella stessa legge di adattamento, che implica le modificazioni dovute al mutato ambiente geografico da parte degli esseri organici allontanati dal loro primitivo centro di diffusione.
Così la Biogeografia ha reso importanti servigi alle scienze naturali in genere e alla Teoria di evoluzione in ispecie, riverberando nuova luce sul principio Lamarckiano del mancato adattamento delle specie scomparse o non nate, e proiettando nello spazio geografico il principio della selezione naturale: poichè la «lotta per l'esistenza» si riduce infine a «lotta per lo spazio».
Nè dobbiamo nasconderci le gravi obiezioni mosse alla teoria del «trasformismo» da illustri scienziati come Forbes, Murchison, Barrande, Agassiz, e le varie sue limitazioni ammesse dallo stesso Giorgio Darwin, figlio dell'immortale naturalista; e la reazione non del tutto ingiustificata contro certe esagerazioni, come si può vedere dal discorso del prof. Di Stefano all'Università di Palermo. Ma non bisogna correre troppo nel senso opposto, nè credere che, dopo essere entrata in tutte le correnti del pensiero moderno con l'opera unificatrice dello Spencer, la Teoria di evoluzione debba già quasi passare agli archivi della scienza, insieme col flogisto e coi quattro elementi aristotelici e, solo per darla vinta al vecchio filisteismo scientifico, debba essere impagliata in quello stesso museo zoologico nel quale ha avuto la virtù di far rivivere le forme morte nella infinita molteplicità delle forme nuove e nel perpetuo divenire dell'Universo.
Ma sulla realtà della Evoluzione, osserva il Di Stefano, non vi dovrebbe essere ragione di controversia fra i naturalisti; i dispareri si accentuano quando si tenta di stabilire le cause delle trasformazioni organiche.
Da quanto ho detto credo risulti sufficientemente delineata la posizione della Geografia e il suo ufficio sistematico nel periodo attuale della cultura, non solo come dottrina a sè, con metodo proprio, ma anche come forma che compie e integra il concetto di evoluzione. Essa ha saputo mostrarci nella vasta coesistenza degli attuali organismi sulla superficie del globo ciò che la Geografia – fra le pagine aperte del meraviglioso libro della storia della Terra – ci ha fatto vedere attraverso la successione lenta delle più lontane età.