I.

Per ben comprendere il carattere del movimento geografico che si è accentuato in Italia nell'ultimo quarto di secolo, più o meno prossimamente fissato dalla data del secondo Congresso di Parigi, giova rifarci alquanto sui periodi che precedono, prendendo le mosse da quei benemeriti e ancor poco noti geografi e naturalisti italiani che, pur nei tempi di maggior depressione dello spirito nazionale, seppero tener desta, quasi di nascosto, la fiamma del sapere in questa Italia creduta spenta da secoli.

Non alludo qui agli storici nostri e filosofi che l'idea geografica nel concetto della storia e nello sviluppo della civiltà in vario modo agitarono in Italia assai prima che in Francia l'Espinard e il Montesquieu, a partire da Giovanni Battista Vico (1668-1774).

Se lo spirito geografico del Rinascimento fu una delle più spiccate caratteristiche del genio italiano nell'epoca delle grandi scoperte marittime, non si può dire che esso abbia, come parve, abbandonato del tutto la sua terra di origine per trasmigrare di là dalle Alpi sulle rive del Reno e della Schelda. In Italia rimase quasi latente dopo i tempi nei quali splendettero Paolo Toscanelli, Bernardo Silvano e Giacomo Gastaldo; quando Giovanni Botero fu realmente, come ce lo ha dimostrato nella sua opera geniale Alberto Magnaghi, quasi una seconda incarnazione di Strabone nutrita di statistica. La libera osservazione dei fenomeni naturali che da Leonardo a Galileo aveva potuto maturare in Italia, dopo l'Aldrovandi, il tipo del naturalista nuovo con Marcello Malpighi, e, più tardi, quello del più perfetto fisico-geografo con Luigi Ferdinando Marsigli, non fu senza effetto anche in tempi più a noi vicini, quando la Geografia pareva completamente trasandata fra noi, cioè nel secolo XVIII e nella prima metà del secolo XIX.

Sorvolando sul periodo storico fra il Redi e il Valli-snieri, ancor troppo scarsamente studiato, i nomi di Giovanni Targioni-Tozzetti e di Lazzaro Spallanzani bastano, nel secolo XVIII, ad attestare la continuità di una sagace opera di osservazione fra noi, non disgiunta da intenti e da risultati geografici. E pure intorno alla metà di quel secolo l'istriano Giov. Rinaldo Carli aveva dichiarata la Geografia nello studio di Padova, proclamando il dovere dell'uomo incivilito di sapere dove egli viva, e del cittadino di conoscere la patria per accrescerne la ricchezza e la gloria. Ma non posso passare sotto silenzio, pure in questa fugace rassegna retrospettiva, un altro nome, che è ben degno di tutta la nostra attenzione: Vitaliano Donati, il viaggiatore dell'Oriente classico fra il 1759 e il '62, messo in rilievo con particolare diligenza e ricchezza di documenti, da Paolo Revelli; voglio dire il viaggiatore naturalista e archeologo che contende a Carsten Niebuhr e a James Bruce il vanto di iniziatore dei viaggi scientifici moderni.

Un giovane geografo italiano, la cui forte operosità in tutti i rami della nostra disciplina è stata parte notevole dei progressi di questa in Italia nell'ultimo ventennio, in alcune sue memorie sui nostri vecchi geografi di un tempo, lamentava che non fosse stata continuata la tradizione dei naturalisti di cui fu ricca l'Italia nell'epoca della sua depressione politica. Alcuni di quei naturalisti, come Targioni-Tozzetti e, più tardi, Emanuele Repetti, erano veri geografi, e sapevano estendere il campo di loro ricerche al dominio storico-economico delle conoscenze umane. Da quei nostri maestri, egli osserva, avrebbe potuto discendere a noi una vera scuola geografica nazionale. Oggi, invece, ci sono dei botanici, dei zoologi, dei mineralogisti, dei geologi; ma accanto ad essi dovrebbe sedere un altro tipo di studioso, il quale abbandonando a quegli specialisti un gran numero di ricerche direttamente inerenti ai loro campi di attività, rappresentasse, nell'attuale economia delle scienze, quella parte di complemento e di sintesi che non compete a nessuno di essi. È questi il geografo.

Ma non pare che in questo modo fosse inteso dai nostri geografi ufficiali il compito largamente comprensivo della nostra scienza nella prima metà del secolo ora scorso quando in Italia primeggiava Adriano Balbi, che soggiacendo all'influsso del Büsching, non riconobbe nella disciplina da esso medesimo professata altro indirizzo che quello di una constatazione statistica localizzata. Anche il Marmocchi, la cui opera si svolse intorno e poco dopo la metà del secolo, rappresenta il medesimo indirizzo: la geografia cerca di tirare a sè il materiale statistico-politico senz'alcuna ragione di dipendenza organica, come nelle vecchie enciclopedie geografiche del Medio evo.

Mentre così andavano le cose in Italia e anche in Francia, la Germania era tutto un fermento non prima veduto di operosità feconda intorno al pensiero rivelatore del Ritter. Emanuele Kant sulla fine del secolo XVIII aveva rivolto l'alto intelletto alla Geografia che era per lui la «cognizione generale della natura secondo lo spazio». Carlo Ritter questa cognizione volle dirigere alla spiegazione delle società umane nella loro distribuzione spaziale e diede alla Geografia l'indirizzo che si chiamò «storico» e che meglio direbbesi «antropico». Nel 1867 Oscar Peschel accentuò l'indirizzo fisico adombrato dal Kant ed effettuato da Humboldt, fissandolo sull'origine e sullo sviluppo delle forme terrestri.

Non può dirsi tuttavia che in Italia fosse interamente obliata la vecchia tradizione geografica, che, senza partire da un concetto organico informatore, si proponeva dei fini pratici in un ristretto gruppo di valorosi scienziati, o sia che si dedicassero alle esplorazioni lontane come G. B. Brocchi, G. B. Belzoni e Carlo Vidua, o sia che si occupassero di preferenza della rappresentazione a base geometrica di qualche parte della regione italiana, come Antonio Rizzi Zannoni e Giovanni Inghirami, o mirassero in modo vario alla illustrazione di essa, come Carlo Gemmellaro, Emanuele Repetti, Zuccagni-Orlandini, Pure alla Geografia si volsero insigni patrioti, storici, filosofi, sociologi, economisti, oratori, come Vittorio Fossombroni, matematico, ingegnere idraulico, uomo di Stato, il conte Annibale Ranuzzi, che tentò la fondazione di una Società geografica in Bologna, Melchiorre Gioia, G. D. Romagnosi, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Giuseppe La Farina, Luigi Cibrario, Pasquale Stanislao Mancini. Fra tanti illustri uomini, in quei Congressi di scienziati nei quali aveva nome e posto onorevole la nostra disciplina, il Balbi, il De Luca (Ferdinando), il Marmocchi la rappresentavano direttamente, come scienza autonoma, non senza atteggiamenti e aspirazioni politiche.

Per tutti questi valentuomini (fatta forse eccezione del Gioia, secondo quanto dimostra il Jaia in un suo pregevole studio), la Geografia comprendeva l'elemento politico e statistico, restringendosi ad un lavoro di semplici constatazioni numeriche fissate sulle relative localizzazioni, ma senza alcuna ricerca sistematica di rapporti causali. La Geografia era per essi, come è ancora per molti oggidì, il repertorio più vario e più ricco di quanto trovasi alla superficie terrestre, utile agli studiosi in qualsiasi ramo del sapere. E questo repertorio, come italiani, essi amavano spesso di associarlo al sentimento dell'unità nazionale consacrata appunto dalla forza oramai incoercibile dell'espressione geografica».

Su questo periodo che precede immediatamente la rivoluzione italiana, mi sia lecito aggiungere ancora due parole per quanto riguarda la cartografia, prescindendo dall'opera dei Governi che, in special modo il Governo piemontese e quello austriaco del Lombardo-Veneto, avevano preparato un ottimo materiale di confronto alla nuova grande opera di rilevamento votata dal Parlamento nazionale nel 1861. Ai lavori cartografici di Rizzi-Zannoni nel territorio padovano e nel regno di Napoli, e a quelli dell'Inghirami in Toscana, facevano riscontro fuori d'Italia i laboriosi e colossali rilievi di G. B. Codazzi nel Venezuela e nella Colombia, tanto ammirati da Alessandro Humboldt, e più tardi l'opera non meno vasta e ponderosa del milanese Antonio Raimondi, che eseguiva il rilievo geologico del Perù.

Ma fra tutti si leva gigante sulla Sardegna la figura di Alberto La Marmora, che con forte e paziente lavoro, seppe compiere il primo rilievo topografico e geologico della grande isola, dandone la illustrazione più completa in quattro grossi volumi e altri due di itinerari, un vero modello di Geografia regionale, pubblicata a Parigi nel 1857, con tavole, carte e incisioni accuratissime.

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