CAPITOLO IX. Sull'“Hirosina”

— Guardai dallo spiraglio – seguitò la stella di Hollywood, mentre in attento silenzio attorno a Mister Giga i naufraghi dell'Edison ascoltavano. – Vidi il mare incendiato dal tramonto sollevarsi verso di me velocemente. Una macchia grigiastra pure si avvicinava. Non tardai a riconoscere la sagoma di un yacht.

Il pipistrello infernale, sempre abbassandosi, compiè alcuni giri concentrici sopra lo yacht finchè un urto rumoroso mi annunziò che il Gigante era sceso sul ponte. Chiamata al telefono: «Pronto?... Miss Tanagra, abbiate la compiacenza di cercare sotto la cuccetta: troverete una scala di seta, agganciatela alla soglia del salottino, appena aperta la porta: vi servirà a discendere i due metri che vi separano dall'impiantito... Vi chiedo scusa se ora sentirete la mia voce coll'altoparlante... Vi sarà un po' sgradita all'orecchio... ma non posso moderarla».

La porticina s'aprì: agganciai la scala e scesi. La porticina si richiuse ed io mi trovai sul ponte dell'Hirosina, piccola ragazza smarrita accanto al Gigante, che ritto dinanzi a me, dominava la nave e lo spazio!

Il ponte era deserto. Non c'era anima viva sulla nave. Questa sembrava andare alla deriva, senza nocchiero, le vele ammainate.

Il Gigante m'indicò colla mostruosa mano una rocking-chair.

«Sedete o passeggiate, come meglio vi aggrada – urlò la boccaccia oscura, una specie di diffusore radiofonico – io vado a regolare la rotta ed a spiegare le vele. Sono il capitano e l'equipaggio insieme».

A passi rigidi e pesanti i quali facevano traballare l'impiantito, il Gigante si recò al timone, afferrando la ruota.

Il yacht virò lentamente di bordo. Poi il Gigante lasciò la poppa e si diede a spiegare le vele di maestra, con movimenti goffi che, pur nella tragica situazione in cui mi trovavo, mi costrinsero al sorriso.

L'aria si era fatta oscura, il cielo si copriva di nubi senza però che il vento minacciasse qualche sorpresa. Il Gigante lavorò in silenzio finchè non ebbe regolata la velatura a suo talento: di quando in quando si fermava, come per meditare. Quando, più tardi, compresi quale complicata attenzione richieda il ditaggio della tastiera con cui si manovra il mostro, mi resi ragione di quelle soste. Terminata la sua bisogna, il Gigante ritornò presso di me.

«Avete senza dubbio bisogno di mangiare – urlò. – Scendete in cucina e degnatevi di prepararvi voi stessa qualche cosa... Troverete nella dispensa tutto quanto potrà servire ad un pranzetto decente... Vi chiedo scusa, sarei lieto di farvi da cuoco e da cameriere, ma le mie proporzioni m'impediscono di circolare liberamente in cucina e nella saletta».

— «Non ho appetito, ora – risposi. – Ho consumato tutti i vostri sandwiches».

— «Allora sedete e facciamo un po' di conversazione – propose. – Noi non arriveremo all'Isola di Granata che fra sei giorni, se il vento si manterrà favorevole. Saremmo arrivati in un solo se avessi potuto continuare a portarvi per via aerea. Ma sono costretto ad economizzare l'energia elettrica per motivi d'indole tecnica, che poi vi spiegherò».

— «Non mi interessano affatto» osservai.

— «Se vi dico subito a che cosa voglio adibire l'energia risparmiata, son certo che ve ne interesserete. Il Gigante dell'Apocalisse, come tutti lo chiamano, non è soltanto un perfetto androide che parla, sente, vede, agisce, vola, ecc., è anche un produttore di fulmini».

— «Fulmini? – mormorai: – E per che farne?».

— «Per distruggere tutti coloro che tentassero di avvicinarsi all'isola in cui ho l'onore di ospitarvi – rispose il Gigante. – Si faranno senza dubbio spedizioni per tentare di rintracciarvi. Vostro cugino aviatore non mancherà di percorrere i cieli con tutto l'entusiasmo della sua giovane età. Vi cercherà per mare e per terra. Ma credo che nessuna nave e nessun velivolo si avvicineranno all'isola nella quale vi attendo. I miei fulmini, che dal mio gabinetto, posso inviare loro, li convinceranno a tornare indietro, se pure lo potranno. La produzione di questi fulmini richiede una ingente quantità di energia. Ora, l'energia elettrica io l'ottengo con dinamo speciali e potentissime: ma per farle agire mi occorre una sostanza di cui sono oggi scarsamente provvisto. Tuttavia voglio dimostrarvi che non sono uno spaccone nel dire che invio, come Giove, fulmini a distanza. Ve ne dò un saggio. Oh! Un semplice fulminetto, per non dilapidare inutilmente l'energia.

«Guardate a babordo – soggiunse alzando la mano enorme – un pescecane certamente affamato tenta un salto verso di voi. Desidera una bistecca della vostra fresca carne, il ghiottone».

Mi alzai, mi avvicinai al parapetto. Nella penombra scorsi una forma oscura che nuotava: una bocca enorme si spalancò come per invitarmi a servir da bocconcino.

— «Attenta!» gridò il Gigante.

Puntò il braccio destro verso lo squalo: una palla di fuoco si staccò dalla mano e con rapidità vertiginosa volò nella bocca del pescecane. Questo diede uno squassone e si capovolse, il ventre in aria, fulminato.

— «Voi vedete, miss Tanagra, che io posseggo poteri che, senza falsa modestia, chiamerei eccezionali per convincere il mondo a rispettare la mia volontà».

— «Voi intendete usare i vostri fulmini per convincermi a sposarvi?» chiesi.

— «No, miss... Spero che ve ne convinciate da voi stessa – rispose. – Ora vi lascio in libertà».

— «In libertà?» chiesi.

— «Per modo di dire – ghignò. – Potete recarvi nella vostra cabina. Ho anch'io bisogno d'un po' di riposo. La rotta è stabilita. Dormo qualche ora».

— «E lasciate che la nave viaggi senza nocchiero? chiesi meravigliata. – Se qualche altra nave l'investe? corre verso uno scoglio?».

— «Miss Tanagra, tutto è previsto. Sulla rotta non vi sono scogli: possono trovarsi navi, ed in questo caso sono esse che schiveranno l'Hirosina».

— «Ma il vento?» chiesi.

— «La timoniera è costrutta in maniera che la ruota automaticamente regola la posizione del timone... Comunque, in caso di sinistro, una suoneria mi risveglierà e allora provvederò a salvarvi, riprendendovi nel mio seno e sotto la protezione delle mie immense ali. Volete favorire?».

Il Gigante mi accennò il boccaporto vicino.

Scesi la scala e sentii che il boccaporto si chiudeva sopra di me. Non avrei potuto fuggire, anche se durante il sonno del giapponese, il Gigante fosse stato immobile e si fosse presentata a me qualche possibilità di salvarmi.

La luce elettrica rischiarava il corridoio. Trovai la mia cabina. Era elegantemente arredata in stile giapponese. Bibliotechina, scrittoio, cuccetta, piccolo armoire à glace. Una porticina metteva nel bagno e gabinetto di toilette. Prima di coricarmi volli fare un giro in cucina. Bella e ben provvista. Non c'è che dire; lo yacht era confortable. Ma io mi trovavo prigioniera, senza possibilità di fuga.

Mi coricai. L'emozione mi ritardò il sonno, ma alla fine questo scese sulle mie pupille che in quel giorno avevano veduto tante cose straordinarie.

Al mattino, una voce altosonante che proveniva dal boccaporto, mi svegliò:

— «Avete dormito bene, Tanagra?».

— «Benissimo, se non vi dispiace» risposi.

— «Ne sono lieto, perchè nessuno al pari di me è premuroso per la vostra salute. Recatevi in cucina e fate una colazione all'inglese».

Mi vestii e mi preparai uno spuntino gustoso: poi raggiunsi il ponte.

Il tempo era splendido.

Una cerulea immensità avvolgeva lo strano yacht dove una stella di Hollywood viaggiava nella compagnia poco gradita di uno spaventoso fantoccio.

Mentre il Gigante lavorava con comico impegno attorno alla velatura, io scorsi all'orizzonte il profilo di una nave. Un sottile filo di fumo mi convinse trattarsi di un piroscafo, ed un'ora dopo, questo era abbastanza vicino a noi. Se avessi urlato, sarei senza dubbio stata udita.

Ma a che mi avrebbe servito?

Il mostro, messi in azione i suoi fulmini, l'equipaggio del piroscafo ne sarebbe forse perito, o quanto meno, impossibilitato a porgermi aiuto.

Un fatto strano mi indusse però a tentare di salvarmi in altro modo. Mi accorsi che, improvvisamente, il Gigante si era reso immobile vicino all'albero maestro gli occhi spenti.

Che era successo?

Probabilmente il giapponese aveva dovuto abbandonare la tastiera...

Non mi arrischiai a gridare, perchè sospettavo che, pur essendo momentaneamente impossibilitato di far agire il Gigante, Yoko-Hito poteva trovarsi in grado di udire la mia voce.

Quindi, non gridai: ma feci segnali, agitando disperatamente le braccia. Pensai che i miei segnali fossero stati visti.

Non mi sbagliai. Poco dopo una scialuppa veniva calata in mare ed in essa sei marinai prendevano a vogare vigorosamente verso l'Hirosina.

La scialuppa era a pochi metri dal yacht, quando il Gigante si scosse: vide, urlò un: «Fermatavi», che certo dovette essere sentito dai vogatori.

Mi gettai in acqua, nuotando incontro alla scialuppa da cui attendevo la salvezza. Ma un fatto inatteso si produsse.

Udii un tonfo in acqua e poco dopo la scialuppa, come sollevata per un lato da una forza invisibile, si capovolse e venne trascinata lontano, vuota dei suoi rematori...

Mi sentii poco dopo afferrare alla vita e portare alla superficie dell'acqua fino al yacht...

Il Gigante mi depose sul ponte e si fece al timone, mettendo l'imbarcazione in fuga...

Dopo una mezz'ora mi si accostò.

Il piroscafo non ci inseguiva. Forse era impegnato nel salvataggio dei sei marinai.

— «Perchè avete tentato la fuga? – chiese in tono beffardo il Gigante. – Quale profitto ne avete tratto? Di prendere un bagno e di guastarvi i vestiti. Imprudente! Nell'Isola di Granata non vi sono sarte ed io dovrò farvi cercare a Parigi i vestiti».

Ero sbalordita

Dovevo dunque rimanere per sempre prigioniera del cinico giapponese?

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