CAPITOLO X. Il Covo del Gigante

— «Ecco l'Isola che sarà vostra... se voi sarete ragionevole», disse il Gigante alato puntando una mano verso una striscia lontana che sembrava dividere il cielo dal mare.

Eravamo in vista dell'Isola di Granata, ove il Gigante mi conduceva perchè mister Yoko-Hito aveva voluto così.

Per quanto mi sforzassi di mantenermi calma per fronteggiare la situazione in cui mi trovavo, non raggiunsi completamente lo scopo.

Il mio terribile rapitore, il giapponese dallo sguardo inquietante e dal sorriso orribile col scintillio dei due denti di diamante, mi attendeva...

Che ne sarebbe stato di me?

Chi mi avrebbe salvato?

Il Gigante gettò l'àncora; staccò come una piuma un canotto, lo calò in acqua, mi invitò a prendervi posto: poi scomparve.

Scomparve sott'acqua ed io sentii la barca trascinata rapidamente a riva, dove il Gigante, emergendo, la ormeggiò.

— «Il mio compito per ora è terminato» disse il Gigante.

E sedette sopra un rialzo del terreno, rimanendo immobile. Gli occhi verdastri parvero spegnersi. Rimasi stupefatta dall'enorme silenziò che mi avvolgeva.

L'isola appariva deserta.

Oltre la riva sabbiosa, incominciava una radura scabra, poi una specie di giungla dalle erbe diritte e laminose: più in là ancora, una foresta di alberi del cocco.

Dopo un po' di tempo, dalle erbe della giungla uscì una figura umana. La riconobbi subito.

Era Yoko-Hito.

Egli portava una specie di pigiama azzurro. Emaciato, pallido, il viso più rugoso che mai, il giapponese si avanzò verso di me, sorridendo. Nei suoi piccoli occhi lessi il trionfo, il piacere della vendetta e la passione che lo urgeva.

L'espressione del suo viso sembrava essersi fatta più crudele.

Si inchinò leggermente. Sorrise facendo scintillare i due denti di diamante ed indicandomi il Gigante che sedeva inerte, disse:

— «Non è stata una compagnia molto allegra, per voi, mi figuro...».

Lo guardai con occhio di sfida e gridai:

— «Voi vi illudete, se pensate di piegarmi col terrore ai vostri disegni... Ho detto che non sarò mai vostra moglie, anche se mi faceste danzare attorno tutti i giganti della terra».

— «Vedremo, miss Tanagra – disse il giapponese. – Voi siete coraggiosa, lo so, ma non vi trovate in grado di lottare con Yoko-Hito».

Debbo confessare che due sentimenti lottavano in me. Desideravo di fuggire quell'uomo e nel medesimo istante una immensa curiosità mi dominava.

In silenzio lo seguii nella giungla in mezzo alle altissime erbe.

Dopo un quarto d'ora di cammino, il giapponese si scusò di dover prendere una precauzione: quella di bendarmi gli occhi.

Non compresi il motivo di tal precauzione. Comunque, mi lasciai bendare e condurre per mano.

I miei piedi si posarono sopra un impiantito.

Ebbi la sensazione di discendere rapidamente. Pochi secondi, e poi mi sentii immersa in un'atmosfera fresca ed umida.

I miei piedi poggiavano su un pavimento di pietra.

— «Sedete, miss» disse Yoko-Hito avvicinandomi una sedia.

Ubbidii. Il giapponese mi sbendò.

Percorsi con lo sguardo l'ambiente dove mi trovavo.

Era una camera semplice, dai muri smaltati, ma elegantemente arredata con sobrietà.

— «Questa è la vostra camera – disse. – Volete riposare, oppure desiderate che vi conduca direttamente al Gabinetto di trasmissione?».

Alzai le spalle, come per dire che non mi importava nulla di nulla: ma era forte in me il desiderio di conoscere per quali diavolerie agiva il Gigante alato.

— Fatemi vedere il covo delle vostre malvagità – dissi sforzandomi di sorridere e di conservare la mia calma.

Attraversammo un lungo corridoio illuminato a luce elettrica, come tutti gli altri ambienti.

Senza dubbio, ci trovavamo in un sotterraneo.

Ad un certo momento mi parve di udire delle urla attenuate dalla lontananza ed un trapestio di piedi.

Yoko-Hito ascoltò per qualche istante, poi scrollò le spalle e mi invitò a proseguire.

Giunto all'estremità del corridoio il Giapponese aprì una porta e subito ci trovammo nel Gabinetto delle meraviglie.

Era quadrato: pareti nude e grigie: pavimento in cemento.

Nel mezzo si trovava un tavolo quadrato su cui poggiava lo strano apparecchio a cui ho già accennato: l'enorme tastiera a tasti multicolori. Dietro di essa, il nano dell'Apocalisse, riproducente il Gigante alato nella stazione eretta: sulla parete di fronte uno schermo di metallo levigato.

A destra della tastiera si vedeva una manovella di porcellana. L'ambiente era illuminato da otto lampadine ad incandescenza.

— «Accomodatevi – disse accennando ad una poltrona a fianco del tavolo. – Vedrete come agisce il vostro ingegnoso rapitore».

Premette un bottone e il gabinetto si immerse nell'oscurità.

I tasti innumerevoli diventarono fosforescenti. Ciascuno di essi portava un numero, lo stesso numero corrispondeva a un punto fosforescente segnato sul nano.

Le due mani sottili e diafane del giapponese si posarono sulla tastiera come per suonare un pezzo di musica. Le dita incominciarono il loro lavoro con una straordinaria agilità.

Ecco sullo schermo apparire la spiaggia dell'isola, al punto a cui avevo approdato. Ecco sul rialzo sedere il Gigante: ecco il mare ed il yacht ancorato.

Ecco il Gigante alzarsi in piedi e camminare sulla spiaggia...

Eccolo salire sopra uno scoglio e volgere lentamente il capo, come se perlustrasse il mare e l'isola...

Ed ecco pervenire dallo schermo il rumore delle onde frangentesi sugli scogli, il grido d'un uccello marino in fuga...

Ecco il Gigante procedere lungo la spiaggia, raccogliere da terra una rete, gettarla in mare e poco dopo ritrarla con un'abbondante pesca che rovesciò in un canestro...

— «La frittura per il pranzo, miss» disse il giapponese, sospendendo il diteggiare sulla tastiera...

La fosforescenza si spense. La proiezione sparì. Il Gabinetto ritornò rischiarato dalle lampadine.

— «Non è stato un lavoro facile per me, apprendere a far vivere il Gigante per mezzo di questa tastiera... Ma oggi mi vanto di usarla con speditezza... Avete veduto con quale precisione agisce il mio ubbidiente surrogato... È un po' goffo nei suoi movimenti, anche per la sua figura gigantesca: ciò non toglie che il mondo si sia impressionato di lui... Ma ciò è nulla in confronto dell'impressione che dovrà subire in seguito».

Premette un bottone, fuori della tastiera, su un piccolo quadrante fissato al tavolo.

Dopo qualche istante comparve un uomo vestito di bianco, dai tratti giapponesi.

Era piccolo, secco, con un'età indefinibile.

Si avanzò rigidamente, con movimenti precisi e calcolati.

Lo guardai e non potei trattenermi dal chiedere:

— «Un uomo meccanico anche lui?».

Yoko-Hito rise:

«No, miss... Carne ed ossa: più ossa che carne, ma vero uomo. È Siko. Siko – disse poi – va a prendere i pesci».

Siko non rispose: non mi guardò. Uscì.

— «È muto?» chiesi.

— «Come se lo fosse – rispose il giapponese. – È la mia fidatissima creatura. È l'unica persona che viva qui, oltre noi due ed... un altro».

— «Chi?» domandai vivamente incuriosita.

— «Non importa che lo sappiate» rispose.

— «È la persona che abbiamo sentito urlare quando percorrevamo il corridoio?».

— «Mi pare perfettamente inutile che discorriamo ora di questo – disse in tono indispettito il giapponese. – Parliamo di noi: voi vedete quali possibilità si aprano dinanzi a me. Io sono immensamente ricco ed il mondo può essere mio. Io posso, volendolo, rapire uno ad uno tutti i potenti della terra e farli miei prigionieri».

«Senza muovermi da questa seggiola girevole, io conosco tutto quanto succede nel mondo e posso, col mio Gigante, scompigliare tutta la vita sociale. Volete che sentiamo qualche pettegolezzo, Miss Tanagra?».

Premette un bottone del quadrante laterale.

Da un angolo del Gabinetto, un diffusore attaccò un jazz, poi un pezzo d'opera, poi, dopo un breve intervallo di silenzio, diede parecchie notizie politiche.

Poi Tanagra sussultò...

Si parlava di lei.

«Il mistero del Lago d'Oro turba il mondo per la sua incomprensibilità...

«È stato rinvenuto in mare in un flacone d'acqua di Colonia un messaggio di Tanagra...».

Yoko-Hito pure sussultò.

Fermò la radio e chiese:

— «È vero? Vi è stato possibile far pervenire un messaggio?».

Dissi di sì e spiegai come avevo fatto.

Egli rimase alquanto pensieroso: poi diede una scrollata di spalle.

— «Non troveranno l'isola, ed in ogni caso ritenete per certo che non vi potranno approdare», mormorò.

Si mise a descrivere con entusiasmo le prodezze del Gigante.

Siko venne a presentarsi, senza aprir bocca.

Era il segnale che il pranzo attendeva.

Ci alzammo. Il giapponese mi fece entrare in una saletta, ove una tavola era imbandita per due persone. Mangiai con sufficiente appetito, cercando di non lasciar scorgere sul viso i sentimenti che mi agitavano. Parecchie volte, durante il pranzo, mi parve di udire l'urlo di cui vi ho parlato; ad ogni ripetersi di esso, Yoko-Hito aveva un movimento di dispetto e di noia.

Il pranzo fu ottimamente servito da Siko, di cui non avevo ancora udito la voce.

Mentre mi versava del vecchio Bourgogne, un urlo più accentuato si fece udire; Siko interrogò cogli occhi il padrone.

Questi, come se rispondesse ad una muta interrogazione, rispose

— «Hai ragione, Siko. Bisognerà mettergliela... se continua».

Il misterioso Siko abbassò il capo in segno d'assentimento ed uscì.

Studiai il viso del giapponese.

Yoko-Hito disse

— «Ebbene, sì... se il pazzo continua, bisognerà mettergliela!».

— «Cosa?» chiesi.

— «La camicia di forza».

Rabbrividii.

C'era un pazzo prigioniero di Yoko-Hito al quale si stava pensando di mettere la camicia di forza!

— Chi è?» chiesi.

— «Che v'importa di saperlo? – disse. – Quando avrete accettato di diventare mia moglie, saprete chi è e molte altre cose...».

— «Non soddisferò mai la mia curiosità, perchè non sarò mai vostra moglie» esclamai...

— «Peggio per voi – mormorò Yoko-Hito. – Non uscirete più di qui».

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