CAPITOLO VI. Lo spuntino interrotto

L'equipaggio ed i passeggieri del disgraziato Edison, affondato per la formidabile speronata della nave infernale, furono risvegliati dai raggi del sole, già cocenti, pur nel primo mattino. Uscivano quasi tutti da sogni incoerenti e rientravano in una realtà forse più incoerente ancora, almeno ai loro occhi.

— Che pensarne della nave maledetta che ha ucciso il mio Edison? – chiese il capitano Haver fregandosi gli occhi.

— Nessuno ha potuto vederla – rispose Murray – ma doveva certamente essere provveduta di uno sperone terribile.

— Secondo tutte le probabilità è lo stesso yacht di Yoko-Hito – disse Tom Fred. – Noi sappiamo che il giapponese ne possedeva uno, sul quale appunto voleva portare Tanagra.

— E che davvero egli l'abbia portata? – chiese Nello Sorasio con un brivido, – pensando che la sua affezionata cugina era prigioniera dell'orribile gigante e che questo, secondo ogni logica deduzione, non era altro che uno strumento di Yoko-Hito.

— Non credo – opinò Murray. – Il mostro meccanico è azionato a distanza e forse anche la nave ci ha speronato in virtù dello stesso principio.

— È indubitato però che a bordo di essa si trovava il Gigante – osservò Din Gimmy. – Tom Fred ed io ne abbiamo riconosciuto la voce.

— Tal quale! – confermò l'acrobata – È fuor di dubbio che Mister Giga si trovava sulla nave speronatrice. In causa della luce abbacinante, noi siamo stati ancora una volta scemi come tanti allocchi. Se no, era proprio il caso di agire...

— In qual modo? – chiese l'aviatore.

— Nel modo che sarebbe stato più logico agire – seguitò Tom Fred. – Appena abbiamo avuto sentore che la nave si avvicinava, occorreva assalirla alla maniera dei pirati malesi...

— E cioè?

— E cioè gettarci in acqua tutti quanti, salvo il timoniere ed il macchinista, arrampicarci sui fianchi della nave o sul bompresso, coi nostri bravi coltelli stretti tra i denti e, raggiunto il ponte, colpire a destra, e sinistra, senza pietà...

— Non credo di sbagliarmi ritenendo che la nave speronatrice non aveva a bordo anima vivente – disse Murray. – Il Gigante dell'Apocalisse ne era il capitano, il pilota e tutto l'equipaggio... Ed a molte, molte miglia da essa, un uomo – il genio infernale che noi dobbiamo catturare – ne guidava l'azione distruggitrice.

Un brivido percorse i marinai naufraghi dell'Edison. Il pensiero che una nave, azionata a grande distanza, potesse compiere simili flagelli, operava potentemente sull'immaginazione di quegli uomini, pur usi ad affrontare pericoli d'ogni sorta. Essi scorgevano il terribile pirata correre spaventoso il mare, assalire le navi, predarle, affondarle, fare del fondo dell'oceano un immenso cimitero di imbarcazioni d'ogni genere.

Chi mai avrebbe fermato il pirata invulnerabile che un uomo lontano poteva far agire a suo piacimento, seminando il terrore sugli oceani?

Se simili pensieri si affacciavano alla fantasia scossa di quei semplici e rozzi marinai, quale forma dovevano avere nel cervello colto di Murray, l'agente segreto della Casa Bianca che aveva preso parte alla spedizione per motivi riguardanti la salvezza dell'America?

Murray rimaneva profondamente pensoso all'evocazione delle gesta passate del mostro e di quelle che poteva compiere in avvenire.

Quelli non erano che timidi saggi, che tentativi isolati, per così dire, ed eseguiti, secondo tutte le apparenze, per uno scopo puramente personale: ma se da questo scopo che sembrava soltanto rivolto ad impedire il ritrovamento di Tanagra, il mostro passava ad uno più vasto, gravi conseguenze ne avrebbero potuto derivare per il mondo.

Bisognava ad ogni costo impedirlo: bisognava porre il genio infernale nell'impossibilità di allargare la cerchia dei suoi esperimenti apocalittici.

Nello Sorasio lesse negli occhi del compagno questi pensieri e sentì che forse il destino voleva servirsi di lui e di Tanagra, non solo per mettere alla prova di tanti rischi il loro affetto, ma per impedire che l'umanità diventasse schiava di un genio demoniaco.

Da questo stimolo generoso il suo fervore di lotta ebbe un nuovo impulso. Un vago pensiero che lo aveva già sfiorato, si delineò e precisò nella mente. Bisognava combattere e vincere il mostro meccanico anche per amore della propria razza, della razza latina, che deve significare il trionfo dell'uomo e non della macchina.

Il mostro dell'Apocalisse rappresentò ai suoi occhi il genio orridamente meccanizzato che chiede alla materia tutto il bene e tutto il male: una caricatura ossessionante della vita per sostituire a questa il movimento bruto della macchina. Riconquistando la sua fidanzata, liberandola dalle strettoie del mostro apocalittico, fatto di acciaio e di cellule fotoelettriche, egli conquistava anche la vera umanità, liberandola dalle strettoie prepotenti e brutali della meccanicità spinta fino al parossismo...

Ma il capitano Haver e l'acrobata Tom Fred non pensavano a tutto ciò: essi si agitavano semplicemente per la rabbia di essere stati giuocati da un fantoccio, dal dispetto di non poter trovarsi a tu per tu col gigante...

Tom Fred sentiva un bisogno irrefrenabile di dare la stura ad una importuna quantità di pugni che si addensavano nei suoi muscoli...

E non c'era nemmeno un marinaio che si prendesse beffe di lui, che gli dicesse qualche parola sgarbata per porgergli l'occasione di liberare i suoi bicipiti degli swings che li ipertrofizzavano.

Nemmeno a farlo apposta, tutti erano con lui cortesi ed affabili: tutti andavano a gara nel complimentarlo pei bellissimi films da lui eseguiti e che essi avevano ammirato nei vari porti dove la vita errante li aveva sbattuti...

Tom Fred era popolare, di una popolarità indiscutibile; quindi anche i naufraghi dell'Edison lo conoscevano e lo ammiravano.

Impossibile che qualcuno di loro gli porgesse l'occasione di «lavorare sodo»!

— Verrà il momento in cui mi sfogherò: oh, verrà! —egli esclamò. – Voglio ridurre Yoko-Hito ad una focaccia.

— In attesa di quel momento ed a proposito di focaccia – disse Murray – vediamo quante sono le nostre provviste e per quanto tempo esse ci permetteranno di rimaner qui.

— Abbiamo caricato un intero canotto di cibarie – osservò Topler – ho già calcolato che possiamo rimaner qui una settimana. Siamo in diciotto.

— Non vedo il motivo perchè si debba attendere tutti in questa terra che sembra poco ospitale – disse Nello Sorasio.

— Infatti, l'Umberto potrebbe diminuire di cinque o sei persone i consumatori di queste cibarie – fece Murray.

— I tre moschettieri che sono quattro – gridò Tom Fred – partono sull'idrovolante e vanno a rintracciare l'Isola di Granata. Gli altri rimangono qui in attesa di soccorso, sotto la vostra direzione, poichè ne siete il capitano, mister Haver. Non avete nulla in contrario?

— Nulla – rispose Haver. – Avrei però desiderio di recarmi anch'io a toccar con mano il Gigante, benchè oramai non abbia più alcun dubbio sulla sua esistenza. Ma se qualche nave approda...

— Senza dubbio, qualche nave approderà – disse Nello Sorasio – perchè sarà nostra premura segnalare la vostra presenza qui...

— Ebbene – fece il capitano Haver – non è escluso che io faccia una capatina all'Isola di Granata...

— In che modo? – chiese Sorasio.

— Non lo so ancora... ma se la nave che ci ospiterà farà rotta per la Nuova Zelanda... lasciate fare a me, ci rivedremo ancora.

— Me lo auguro – disse Nello Sorasio.

— Ed io? – chiese Pepy.

— Ah! è vero! – fece Tom Fred. – Che vuoi fare, rima

nere qui o venire con noi?

— Con voi – fu la laconica risposta di Pepy.

E dopo un istante:

— Intanto, non si potrebbe fare un po' di colazione? – chiese.

Tutti scoppiarono in una risata, che poteva anche essere interpretata come un'approvazione alla proposta del monello.

Infatti, le emozioni straordinarie della vigilia non avevano guastato l'appetito all'equipaggio.

Motho, aiutato da tre marinai, si avviò verso le cibarie, mentre gli altri si inoltrarono nell'isola alla ricerca di un sito ombreggiato.

A qualche centinaio di metri dalla spiaggia una vegetazione rada si iniziava ed andava facendosi sempre più folta.

Tutti vi si recarono. L'ombra era densa perchè gli alberi a larghi e spessi fogliami, non lasciavano penetrare i raggi del sole.

Motho ed i tre marinai li raggiunsero colle provviste e la distribuzione venne subito fatta, con grande delizia di Pepy che era ghiotto della marmellata.

Mentre i naufraghi mangiavano, uno strano rumore di rami spezzati li colpì.

Tutti si rivolsero dalla parte d'onde veniva: e l'istante successivo balzarono in piedi, muti e cogli occhi sbarrati.

— Buon appetito, signori – gridò la voce alta, sonante, meccanica che uscì dall'orribile spaccatura rettangolare che tracciava una linea nera sul viso grigio-ferro del Gigante, mentre i due immensi occhi di cristallo mandavano riflessi verdastri e tutto il corpo enorme, rigido, grottesco e spaventoso usciva da un groviglio di liane e di foglie.

— In circolo! Circondiamolo! – gridò Tom Fred.

Tutti si allontanarono a ventaglio, cercando ognuno di rompere qualche robusto ramo per farsene un'arma.

Tom Fred, tratta la rivoltella ne sparò rapidamente i sei colpi sul corpo del mostro.

Questo rimase immobile, fermo sulle gambe enormi, colle braccia penzoloni terminanti in mani rudimentali ad uncino. Si scorgevano nettamente ai due lati le ali ripiegate la cui estremità sfiorava il terreno.

Quasi tutti i marinai si erano provvisti d'un bastone, rapidamente spezzato, o tagliato col coltello, dagli arbusti nodosi della foresta.

Il Gigante fece alcuni passi avanti e si portò nello spiazzo dove i naufraghi avevano incominciato il loro pasto così inopinatamente interrotto.

Ad un segnale di Murray, tutti circondarono il mostro e si gettarono sopra colpendolo violentemente coi bastoni e coi rami, ma i colpi risuonarono sul metallo senza rovesciare il Gigante.

Questo ebbe una risata stridula ed orribile che si prolungò sotto la volta della foresta.

Allungò le braccia di sotto le ali e le agitò grottescamente: due marinai, colpiti da esse, rotolarono a terra: una mano del gigante riuscì ad acciuffare il grasso Motho e lo lanciò a quattro passi di distanza.

Tom Fred e Din Gimmy da una parte, Murray ed un forte marinaio dall'altra, dopo essersi rapidamente concertati, si precipitarono nel medesimo istante verso Mister Giga e si attaccarono alle sue braccia, due per parte. Ma il Gigante le scosse così violentemente, che i quattro uomini furono gettati a terra...

Subito i naufraghi compresero che era inutile, coi soli mezzi di cui erano provvisti, lottare col Gigante di ferro: sarebbe occorso loro qualche tronco d'albero da maneggiare come catapulta.

Mister Giga si avventò contro i marinai: questi si sbandarono, imboscandosi e sparandogli contro vani colpi di rivoltella....

Allora il Gigante corse verso Tom Fred, Din Gimmy e Murray, cercando di acciuffarli: ma i suoi movimenti erano lenti e grossolani, in confronto all'agilità dei tre inseguiti...

Nello Sorasio meditava qualche colpo capace di annientare la potenza del mostro. Egli si imboscò un istante con Tom Fred.

— Bisogna far saltare il Gigante.

— In che modo?

— Vedi quell'apertura in mezzo allo stomaco?

— Sì... deve essere l'oblò di cui ha parlato Tanagra nel suo messaggio...

— Bisogna introdurre nel petto del Gigante una piccola bomba...

— Dove la prendiamo?

— La fabbrichiamo con la polvere delle nostre cartuccie... – All'opera, mentre egli si diverte a rincorrere i marinai!... Ed infatti si misero all'opera lavorando di coltello per fabbricare la piccola bomba...

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