CAPITOLO I. Gl'inizi della speculazione gnostica nel Nuovo Testamento.

La critica liberale moderna è inclinata a scorgere in s. Paolo il capostipite o almeno uno dei capostipiti degli gnostici. Gli elementi metafisici che incontestabilmente sono diffusi nei suoi scritti, il suo pensiero teologico così maturo e così categorico, la concezione così coerente del mondo e dei suoi destini, rivelano senza dubbio una personalità spiccatamente innovatrice e avida di imprimere alle correnti idealistiche di cui si è fatta voce, una unità organica di sistema. Ma qui, come in tanti altri punti, la critica moderna è solleticata dal suo amor proprio ad esagerare o schematizzare i suoi risultati. Come solo per iperbole il Weinel ha potuto affermare che «la figura genuina di s. Paolo è la grande scoperta della teologia nel secolo xix», così solo per iperbole può affermarsi la legittima dipendenza dello gnosticismo dalla speculazione paolina.

Noi esorbiteremmo dal nostro compito, se ci arrestassimo qui ad esaminare i rapporti che intercedono fra la predicazione di Gesù e quella di s. Paolo, se volessimo sottoporre ad esame l'opinione di critici, come il Goguel, che del resto non è dei più radicali, i quali ritengono che s. Paolo in fondo abbia contraffatto il Vangelo, facendone scomparire il carattere eminentemente morale, trasformando in una teologia complicata, «in una teoria della salvezza, la predicazione del Regno!». Noi dobbiamo far rilevare soltanto che s. Paolo ha nettamente enunziato alcuni principî cosmologici, soteriologici, escatologici, da cui lo gnosticismo ha preso senza dubbio lo spunto, esagerandoli e travisandoli. Quella così singolare fusione di sentimento e di pensiero che rende tanto difficile la penetrazione del pensiero paolino, vieta, s'intende, di raccogliere questi principi, come in schema, dalle lettere dell'apostolo. Ma rintracciarli ed enunciarli con qualche approssimazione non è arduo.

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Innanzi tutto s. Paolo ha una teoria completa dei doni dello Spirito (Ia Col. XII), e fra essi colloca la sapienza e la scienza (λόγος σοφίας e λόγος γνώσεως). La distinzione fra i due doni sembra consistere in ciò: che la sapienza è discorsiva, la conoscenza è intuizione. L'apostolo dà dunque ai liberi movimenti dello spirito verso la naturale percezione delle verità religiose, una importanza notevole. E nel mondo sociale, la giustificazione del conoscimento intuitivo è sempre piena di pericoli.

L'unità di Dio, la creazione di tutte le cose, la conservazione di esse, la base offerta da Dio a tutta la legge morale, sono affermate da Paolo, insieme a una tesi complessa circa la conoscibilità di Dio. Che essa non sia puramente intellettuale è espresso in quelle magnifiche parole: «Tunc quidem ignorantes Deum, iis, qui natura non sunt dii, serviebatis, nunc autem, cum cognoveritis Deum, immo cogniti sitis a Deo: quomodo» ecc. (Gal. IV, 8-9); e nelle altre: «Si quis autem diligit Deum, hic cognitus est ab eo» (Ia Cor. VIII, 3). Ma d'altra parte la visione del cosmo, recante in sè le vestigia dell'atto creativo, appare veramente a s. Paolo come un argomento della divinità, irrecusabile (Rom. I, 20). Dei due argomenti è arduo ritrovare il vincolo unitivo nel pensiero paolino: l'occasione varia che ha provocato le lettere, la forte efficacia delle idee, non permettono al pensiero di fondersi in un tutto.

Ben altra è invece l'armonia luminosa e intima della dottrina cristologica, vera chiave di volta di tutto il pensiero paolino. Nelle intense elaborazioni mentali che dovettero seguire la sua conversione, s. Paolo ha intuito tutta la novità dell'opera messianica, e ha arditamente e logicamente tratto tutte le conseguenze possibili dalla apparizione del Messia fra gli uomini. Il Cristo storico è per lui il principio di tutta una metafisica: ed egli afferma recisamente, che dinanzi al Cristo glorificato, principio di redenzione nel fedele, gli episodi dell'apparizione del Cristo nella carne perdono ogni valore: «Itaque nos, ex hoc, neminem novimus secundum carnem. Et si cognovimus secundum carnem Christum: sed nunc iam non novimus» (2a Cor. V, 16). Riconosciuto il carattere messianico di Gesù, s. Paolo afferma nettamente la sua figliuolanza da Dio, e quindi la sua preesistenza: «At ubi venit plenitudo temporis, misit Deus Filium suum factum ex muliere, factum sub lege, ut eos qui sub lege erant, redimeret, ut adoptionem filiorum reciperemus» (Gal. IV, 4-5). Le frasi di «Figlio di Dio» e di «Padre di Nostro Signor Gesù Cristo» son di frequente attribuite rispettivamente da Paolo a Gesù e a Dio (Gal. I, 16; II, 20; Ia Cor. I, 3, 9; XV, 24, 28; 2a Cor. I, 2, 19; XI, 31; Rom. I, 3, 7; IV, 9; V, 10; VIII, 3). L'idea poi di preesistenza è inclusa nel passo ai Galati citato, e precisamente nella parola misit, ἐξαπέστειλεν; ed è confermata da due passi della lettera ai Romani: «Nam quod impossible erat legi, in quo infirmabatur per carnem: Deus Filium suum mittens in similitudinem carnis peccati» ecc. (VIII, 3).

«Qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum: quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit?» (VIII, 32).

La concezione di un rapporto speciale di figliuolanza fra Dio e il suo Cristo, la affermata trascendenza di questi, conducono s. Paolo al riconoscimento esplicito e solenne della sua divinità: il Cristo è Dio sopra tutte le cose benedetto per l'eternità, ὁ ὤν ἐπὶ πάντων Θεὸς εὐλογητὸς εἰς τοὺς αἰῶνας; (Rom. IX, 5). La Sua opera, di cui s. Paolo scorge con una luce speciale brillare la morte e la risurrezione, ha consistito nel rinnovare un antico patto di adozione fra l'umanità e il creatore (Rom. V). Questa opera di rinnovamento profondo, implica una espiazione, una redenzione. Il Cristo l'ha offerta con la sua morte e il dolore, subìto non solo per una sostituzione sua all'uomo peccatore, ma per un atto libero di amorosa abnegazione. I due termini, di sostituzione vicaria, e di sacrificio volontario, sono inseparabili nella cristologia paolina: Dio ha inviato il suo Figlio in una carne simile alla carne peccatrice, e in causa del peccato, ha condannato il peccato nella carne: «ὁ Θεὸς τὸν ἐαυτοῦ ὑτὸν πέμψας ἐν ὁμοιώματι σαρϰὸς ἁμαρτίας ϰαὶ περὶ ἁμαρτίας ϰατέϰρινεν τὴν ἁμαρτίας ἐν τῇ σαρϰί (Rom. VII, 3). Vivo nella fede del Figlio di Dio, il quale mi amò e offrì sè stesso per me (Gal. II, 20). Egli offrì sè stesso per i nostri peccati, per sottrarre noi alla malvagità del secolo presente, secondo la volontà di Dio Padre nostro (Gal. I, 4). Il Cristo è morto per i nostri peccati, e secondo le Scritture (Ia Cor. XV, 3)». Dal sacrificio del Golgota è disceso su tutte le membra addolorate dell'umanità un'onda di sangue purificatore: in esso noi tutti abbiamo conquistato la nostra giustificazione (Rom. VI, 9). E poichè alla morte è seguita la risurrezione, poichè la suprema ed eroica abiezione è stata coronata da un luminoso trionfo, poichè il Cristo ha vissuto e vive oltre i confini del sepolcro, noi viviamo in lui e con lui, in una unione mistica, come in un'atmosfera che ci sublima. La frase ἐν Χριστῶ o ἐν ϰυρίῳ si trova non meno di 164 volte negli scritti paolini di certao di dubbia autenticità; e questa stessa insistenza è segno del predominio che nella predicazione di s. Paolo questo rapporto del fedele col Cristo resuscitato, rapporto iniziato col battesimo, ha esercitato costantemente (Rom. VI, 3). Le più varie espressioni, le più realistiche similitudini servono a s. Paolo per significare questa misteriosa ma reale e sentita comunicazione interiore: «I vostri corpi son le membra del Cristo (Ia Cor. VI, 15). Tutti noi non formiamo che un corpo in Cristo (Rom. XII, 5). Voi siete stati battezzati in Cristo, voi avete rivestito Cristo, non v'è più nè ebreo, nè greco, nè schiavo, nè libero, nè uomo nè donna; tutti voi siete una cosa sola in Cristo Gesù» (Gal. III, 27-28; cf. Ia Cor. XII, 12). Per questa unione, l'uomo è innalzato su sè stesso, elevato ad una condizione superiore, allo stato pneumatico: «L'uomo animale non percepisce le cose che emanano dallo Spirito di Dio:... ma l'uomo spirituale giudica tutto, e non è da nessuno giudicato. Poichè chi conobbe lo Spirito del Signore che l'istruisca? Noi invece possediamo lo Spirito del Cristo» (Ia ad Cor. II). Ed è questo Spirito, identificato dall'apostolo col Signore stesso (2a Cor. III, 17), gridante a Dio dal profondo del nostro cuore «Abba, Pater» (Gal. IV, 6), quegli che ci fa respirare e possedere la libertà: «ubi Spiritus Domini, ibi libertas» (2a Cor. III, 17). Ma la vita di Gesù è pegno della nostra risurrezione: e la sua morte fu varco all'avvento trionfale. Come l'immagine del Cristo sofferente sulla croce domina nella fantasia di s. Paolo, quale causa efficiente del nostro riscatto, il sogno lusinghiero della parousia brilla nella sua fiduciosa aspettazione. «Si quis non amat Dominum nostrum Iesum Christum sit anathema, Maran Atha» (Ia Cor. XVI, 22).

Il concetto della parousia ha subito in Paolo forse dal principio alla fine del suo apostolato, qualche modificazione. Nella Ia Cor. essa appare come un avvenimento imminente, che coinciderà con la resurrezione di quelli morti prima: «suonerà la tromba, i morti risorgeranno incorrotti, e noi saremo trasformati» (Ia Cor. XV, 52). Fra la prima e la seconda ad Cor. accadde qualcosa di terribilmente grave per la psicologia dell'apostolo, e tutto il suo pensiero posteriore ne risentì. Forse egli ha corso pericolo di morte: la seconda ad Cor. una delle lettere paoline più ampiamente rivelatrici della coscienza del suo autore, ha in proposito solo brevissimi e vaghi accenni. In questa lettera, l'autore afferma recisamente che la morte stessa è incapace di spezzare il vincolo che unisce il credente al suo Cristo, e che, nell'attesa, il cristiano abiterà una dimora incorruttibile; «Poichè noi sappiamo che quando la casa terrestre della nostra dimora si dissolverà, noi avremo un edificio da Dio; una dimora non opera della mano degli uomini, ma incorruttibile, nei cieli» (2a Cor. V, 1).

Ma se questo sommariamente è il piano generale dell'opera redentrice, resta a sapere come quest'opera sarà applicata agl'individui. S. Paolo risponde anche al secondo quesito. Passando allo stato pneumatico, facendo aperta professione di fede, abbandonando le insulse pratiche della legge e abbracciando con l'entusiasmo della convinzione mistica la sequela di Gesù, l'uomo acquista la giustificazione, riconciliandosi con Dio, e la santificazione, rivestendo quasi una nuova personalità, un nuovo atto operativo: «Noi rivestiamo qualità di legati in nome di Cristo, come se Dio stesso vi esortasse per bocca nostra. Vi scongiuriamo in nome di Cristo, riconciliatevi con Dio... (2a Cor. V, 20). Noi crediamo che l'uomo sia giustificato dalla fede, senza le opere della legge... (Rom. III, 28)... In Gesù Cristo, non han valore nè la circoncisione, nè l'incirconcisione, ma la fede operante per mezzo della carità...» (Gal. V, 6).

Noi non dobbiamo fare un'esposizione della teologia paolina, nè è quindi il caso di insistere e arricchire di citazioni, questi brevi richiami alle idee fondamentali, svolte dall'apostolo con la sua eloquenza nervosa, appassionata, così irregolare e pure così efficace. A noi premeva di far vedere che la mente feconda di questo reduce dalle scuole rabbiniche ha intravisto nella persona e nell'opera di Gesù aspetti inattesi e teoremi non ancora formulati. Egli, realmente, per primo, ha elevato un edificio teorico intorno ai fatti della vita del Redentore. In questo modo, ha offerto il varco a tutta la speculazione posteriore, anche alla gnostica.

Noi non diciamo che quest'ultima dipenda dalla dottrina paolina, come da causa efficiente: vogliamo osservare solamente che alle menti esaltate del II e del III secolo, sature di neo-platonismo, il pensiero di Paolo, sorto per far risaltare l'opera universale del Redentore, offrirà lo spunto a speculazioni febbrili e a sistemi complicatissimi. Le potenze sovrumane operanti nel mondo, si trasformeranno negli eoni; la fede si trasformerà in una gnosi superba; la giustificazione e l'elevazione pneumatica, in una differenziazione dell'umanità, in una vana fiducia nelle potenze della ragione, ripudiante il mistero e avida di dar veste pseudo filosofica al progresso religioso e alla rivelazione; la Chiesa stessa in un essere metafisico. L'intuizione rapida dell'apostolo previde il pericolo? Nella Ia Cor. (III, 18) egli distingue vari modi di edificare (ἐποιϰοδομὴ) sulla prima base cristiana, e mette in guardia dalle facili deduzioni della sapienza terrena: «Perchè la sapienza di questo mondo è sciocchezza al cospetto di Dio. Perchè è scritto: Confonderò i sapienti nella loro astuzia. E di nuovo: Dio sa come i pensieri dei sapienti siano vani». Le raccomandazioni dell'apostolo erano tutt'altro che superflue.

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Ben presto nelle giovani comunità della Lidia, della Frigia e della Caria fu come una esplosione di pensiero raffinato e curioso, commisto a una pratica giudaizzante contraria a tutte le raccomandazioni dell'apostolo. S'ingaggiò naturalmente una polemica, di cui rimane l'eco viva e persuadente nelle Lettere agli Efesini e ai Colossesi. La prima, come la sua stessa natura dovette suggerire, ha ammonizioni generiche e suggerimenti vaghi. La seconda invece ha un'esposizione dettagliata dell'idee che cominciano a serpeggiare nella comunità, e contro le quali l'autore mette severamente in guardia i fedeli (Col. I, 15-20; II, 1-4; 6-9; 16-23).

«Il quale (Cristo) è l'immagine di Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura: poichè in Lui sono state create tutte le cose, in cielo, e in terra, visibili ed invisibili, sia i troni, e le dominazioni (ϰυριότητες), e i principati (ἀρχαὶ), e le potestà (ἐξουσίαι): tutto per lui e in lui è stato fatto. Egli è innanzi a tutto, e tutto poggia in lui... In lui piacque (a Dio) di far abitare ogni pienezza (πλήρωμα)».

«Io desidero che sappiate quanta sollecitudine nutro per voi. Io vorrei consolare i vostri cuori, fortificarli nell'amore, (donar loro) tutte le ricchezze della piena intelligenza, (elevarli) a una conoscenza superiore (ἐπίγνωσιν) del mistero di Dio Padre del Cristo Gesù: in cui sono tutti i tesori della sapienza e della scienza (σοφίας ϰαὶ γνώσεως). E questo vi dico, affinchè nessuno vi inganni con parole sofistiche... Sicchè come avete ricevuto Gesù Cristo Signore, in Lui camminiate, radicati, e poggiati in Lui, e fermi nella fede, quale avete appreso, abbondando in essa con cuore riconoscente. Vigilate affinchè nessuno vi seduca con della filosofia, e qualche vana menzogna, secondo la tradizione degli uomini, conforme agli elementi del mondo, non a Gesù Cristo. Nel quale ospita corporalmente tutta la pienezza della divinità (τό πλήρωμα τῆς Θεότητος σωματιϰῶς)...»

«Che nessuno dunque abbia che ridire sul vostro cibo, o bevanda, o per le feste, o per le neomenie, o per i sabati: le quali cose sono ombra dell'avvenire: che appartiene a Gesù Cristo. Che nessuno vi condanni, nè vi umili nel culto degli angeli nè vi s'imponga con le sue visioni, gonfiati come sono dall'orgoglio della loro carne (ϑέλων ἐν ταπεινοφροσύνῃ ϰαὶ ϑρησϰείᾳ τῶν ἀγγέλων, ἄ ἑόραϰεν ἐμβατεύων, altri ms. ὅ μὴ ἑόραϰεν). Essi non aderiscono al capo, al quale tutto il corpo è unito per le giunture e alimentato cresce nel progresso di Dio. Se dunque siete morti con Cristo agli elementi di questo mondo: a che dunque, come se foste viventi nel mondo, stabilite: Non prendete, non mangiate, nè pure toccate quelle cose il cui uso macchia? Ciò è secondo i precetti e le dottrine degli uomini: che ha certamente qualche parvenza di ragione nella superstizione, nell'abbassamento, nell'asprezza verso il corpo; ma nulla di onorevole e nulla di non carnale».

Come le incipienti fermentazioni eretiche, a cui la lettera vuole con sollecitudine porre argine, le parole sono vaghe. Noi vi apprendiamo solamente che la comunità frigia era afflitta da alcuni teorizzanti, che ne volevano manomettere la libertà cristiana con l'imposizione di pratiche giudaiche, e insieme turbare la fede con l'abbassare la figura del Cristo al di sotto delle potenze sovrumane, di cui si fa una enumerazione. Se questo secondo tratto dell'eresia combattuta è nettamente gnostico, il primo, cui più tardi si darà il nome di ebionitismo, è anti-gnostico per eccellenza: il Vecchio Testamento non ha avuto avversari più accaniti degli gnostici. Infine è notevole che l'autore della lettera parla di πλήρωμα, usa cioè una parola frequentissima sulle labbra degli gnostici.

Le pastorali rincalzano le raccomandazioni e descrivono con maggior precisione di dettagli l'eresia nascente, nell'ambiente asiatico (1a e 2a ad Tim.). Ma se da esse noi siamo informati sul nome dei seminatori di zizzania (...Hymenaeus et Alexander, quos tradidi Satanae ut discant non blasphemare... 1a ad Tim. I, 20), non siamo altrettanto bene informati sui caratteri, le finalità, il contenuto delle dottrine combattute.

— Io ti rammento l'esortazione che ti feci partendo per la Macedonia, di rimanere ad Efeso, affine d'imporre ad alcuni di non insegnare altre dottrine, e di non perdersi in favole e in genealogie senza fine, più adatte a eccitare dispute, che a far progredire l'opera di Dio, che riposa sulla fede. Lo scopo di questa raccomandazione è una carità che viene da un cuore puro, da una buona coscienza, e da una fede sincera. Alcuni, avendo smarrito di vista queste cose, si son messi a vaneggiare. Han la pretesa di essere dottori della legge, e non comprendono nè ciò che dicono nè ciò che affermano (1a ad Tim. I, 3-7).

— Rigetta le insulse e senili favole (Ib. IV, 7).

— Fuggi le questioni stolte e indisciplinate, sapendo che provocano le liti (2a ad Tim. II, 23).

— Rifiuta le questioni sciocche, le genealogie, le dispute e le contese legali: esse sono inutili e vane. Abbandona l'eretico dopo la prima e seconda correzione: sapendo ch'egli è un pervertito (ad Titum III, 9).

La 2a Petri e la lettera di Giuda hanno anche esse parole di biasimo severo contro i «maestri menzogneri, che introducono sètte di perdizione e negano quel Signore che ci riscattò» (2a Pet. II, 1): contro quegli «empi che mettendo la grazia al servizio della lussuria, negano il solo Dominatore e Signore nostro Gesù Cristo» (Jud. 4). L'Apocalissi accenna alle immoralità dei nicolaiti, e ai pretesi giudei che costituiscono invece la sinagoga di Satana (II).

Una tradizione, raccontata da Policarpo, e raccolta da Ireneo, diceva che Giovanni, recatosi al bagno in Corinto, ne uscì quando scorse Cerinto nell'edificio: «dicens, quod timeat ne balneum concidat, quum intus esset Cerintus inimicus veritatis». Di Cerinto, lo stesso Ireneo afferma che insegnava l'origine del mondo non da Dio creatore, ma da una Virtù separata; la nascita di Gesù, uguale a quella degli altri uomini, da Giuseppe e Maria; la discesa in lui dell'eone Cristo, al momento del battesimo; la partenza del Cristo al momento della passione. Ma questi particolari sono senza dubbio influenzati dallo stato delle dottrine gnostiche, quali Ireneo conosceva: come vedremo.

In complesso, sul movimento eretico del primo secolo, il Nuovo Testamento offre scarse e aride informazioni. Non già perchè gli scrittori di esso abbiano ignorato i veri caratteri dell'eresia o abbiano voluto tacerli: ma per la condizione stessa delle cose, per lo stato amorfo in cui si rivelava la speculazione nascente. Sulle comunità fondate dai dodici era passato come un turbine l'annunzio della dottrina universalista paolina: innumerevoli altre il convertito di Damasco ne aveva fondate personalmente nell'Asia, saturandole con maggiore facilità del suo spirito e del suo entusiasmo intellettualistico. I giudeo-cristiani, sorpresi dell'evento, cercavano di legare al mosaismo la nuova mèsse di credenti. Il conflitto si annunziava acuto e insanabile. La mite speranza messianica, il luminoso sogno parousiaco, veniva nutrendosi spontaneamente di pensiero riflesso, nel momento stesso in cui guadagnava in estensione. Una profonda crisi di coscienze, un vasto turbamento d'anime, dovette seguire il cozzo delle due tendenze. E il cristianesimo, che tante anime abbracciano come vaga certezza di prossima redenzione, si svolge fra le inattese polemiche verso la determinatezza concreta di una vasta dottrina. Le nostre parole sono incapaci a ricostruire l'ambiente religioso su cui sbocciò poi l'eresia: con la fantasia però riusciamo in qualche modo a immaginarci queste comunità che, già ebraiche, sentivano la necessità di abbandonare il mosaismo, e aperte ai gentili convertiti, si assimilavano elementi dalla tradizione religiosa pagana. Il periodo iniziale dell'eresia doveva necessariamente essere caratterizzato dall'impossibilità di distinguere le varie correnti, che più tardi saranno fra loro radicalmente antitetiche. Ecco perchè i perturbatori di cui troviamo traccia nel Nuovo Testamento difendono a volta a volta pratiche giudaiche, la natura del tutto umana di Gesù, o interminabili genealogie per riconnettere il Cristo a una serie di entità superiori, dotate di energie sovrumane. Noi sentiamo che queste idee vaghe, fluttuanti, contradditorie, esprimono a sprazzi una polemica acre, tenace, che si dibatte fra i giudei neo-cristiani fedeli a Mosè e quelli che conquistati dalla metafisica paolina e dalla sua esaltazione mistica, credono di essere in diritto di continuare l'insegnamento dell'Apostolo. E fra l'incrociarsi degli argomenti, fra l'ardore delle dispute, fra le discussioni pungenti, è difficile fissar nettamente un pensiero organico che si discosti su determinati punti in modo chiaro dalla parola ricevuta. Delle dispute, giunse l'eco agli apostoli e a chi ne prende il nome: ma l'ammonimento non può esser preciso, perchè nessun errore è nettamente formulato. È lo stato di fermentazione.

Più tardi il giudaismo si arresterà sempre più nelle sue rivendicazioni mosaiche, nella sua concezione terrena del Cristo, nel suo contenuto morale rivoluzionario, e sarà l'ebionitismo. L'anti-giudaismo, l'universalismo, la metafisica, guadagnerà più alte astrazioni, si perderà nella nebbia di una mistagogia sfrenata, e sarà lo gnosticismo.

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Nelle lettere di s. Ignazio l'eresia comincia ad assumere contorni delineati e a manifestarcisi nei suoi metodi di propaganda. Andando da Filadelfia a Smirne, egli incontra dei predicatori, reduci da Efeso: «Cognovi autem quosdam inde transeuntes, habentes perversam doctrinam, quos non permisistis seminare inter vos et obturastis aures, ne reciperetis quae ab ipsis sunt disseminata», etc.

Abbiamo delle indicazioni sufficientemente chiare sulla loro dottrina cristologica. Ignazio così la descrive:

— Chiudete le vostre orecchie, quando qualcuno vi parla fuori di Gesù Cristo, discendente di David, figlio di Maria, che veramente nacque, mangiò, bevve, patì la persecuzione sotto Ponzio Pilato, realmente fu crocifisso e morì, a vista del cielo, della terra, degl'inferi: che realmente risorse dai morti, avendolo risuscitato il Padre suo, precisamente come, a somiglianza di Lui, il Padre anche noi credenti risusciterà in Cristo Gesù, senza del quale non possiamo avere la vera vita.

Che se, come dicono alcuni atei, vale a dire infedeli, viventi solo in apparenza, Egli ha sofferto solo apparentemente; a che dunque porto io le catene, perchè son roso dal desiderio di combattere con le belve? Muoio dunque invano: parlo dunque di Dio parole menzognere! (Ad Trall. IX, X).

L'errore che traspare dalla invettiva, calda e irruente, come al solito, d'Ignazio, è il docetismo: la negazione della realtà della carne del Salvatore, l'attribuzione a Lui fatta di un corpo fantastico: negazione che noi ritroveremo in Saturnilo e in Marcione. Ma che tale errore apparisca più come sporadica elucubrazione di pochi esaltati, che in forma di contagioso, consistente sistema, risulta dalla magra esposizione di fede ortodossa che Ignazio crede di dovergli contrapporre, a frammenti.

S. Ignazio, l'elegante ed immaginoso apologeta della gerarchia, l'illustre vescovo che marciando verso il martirio intuisce tutta l'importanza dell'episcopato monarchico nell'avvenire cristiano, ha visto principalmente in questi tentativi amorfi di speculazione doceta una causa di indisciplinatezza, e un fomite alla discordia. E solo perciò ha voluto mettere in guardia i fedeli che, lungo il viaggio, apportavano a lui i segni della loro ammirazione.

Perciò non l'ha combattuto da dottore, ma da Padre. Il suo sogno era ridurre ad armonica vita le comunità cristiane: stabilire l'accordo perfetto fra le varie corde della cetra, destinata a render gloria al nuovo Dio! (Eph. IV, 1).

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