CAPITOLO II. Periodo aureo della «gnosi».

Iniziato vigorosamente col secondo secolo, il movimento gnostico raggiunge il suo più alto sviluppo all'epoca degli Antonini, poi decade adagio adagio e quasi si spegne poco dopo la metà del terzo secolo, come una fiamma cui viene a mancare nutrimento: più tardi è una debole sopravvivenza di sè stesso. È necessario, sulle soglie stesse del nostro studio, che noi rievochiamo rapidamente l'ambiente morale e religioso nel quale la gnosi ha origine e successo. Non ci fermeremo a descrivere l'evoluzione politica dello Stato romano in questo periodo di tempo: l'argomento è noto, e, a ragione, estraneo al nostro compito.

A noi basterà osservare i caratteri peculiari del pensiero religioso e morale in questo singolare periodo di tempo, che vide fiorire in seno al paganesimo tutto un nuovo indirizzo sincretistico della speculazione e delinearsi una profonda tendenza all'ascesi; nel quale tutte le vecchie tradizioni classiche sembrarono offuscarsi dinanzi a un imperialismo di nuovo genere, avido di fondere, attraverso un'unica atmosfera spiritualistica, le idealità, le memorie, i culti degli innumerevoli paesi, soggiogati da Roma. Lo gnosticismo è fatalmente mal compreso, e ne è esagerata l'importante efficacia sul cristianesimo, da chi non tenta di gettare l'occhio indagatore in quel vasto turbinio di coscienze che fece dell'impero dei Severi uno dei periodi religiosamente più fervidi della storia romana. Tale indagine è senza dubbio difficile: si tratta di abbozzare un quadro, dove le figure sono vive anime e lo sfondo su cui si muovono, le astrazioni del misticismo: noi non pretenderemo di ridonare a quelle la loro concreta animazione, e a questo la sua iridescente precisione. Noi accenneremo a rapidi tratti quale contenuto sugli albori del secondo secolo venne riempiendo di sè la filosofia romana, che non era stata mai straordinariamente assalita dalle cure del soprasensibile; e in quale radicale evoluzione vennero ponendosi le aspirazioni religiose collettive. In questi argomenti l'abilità dello storico non deve consistere tanto in una erudita raccolta ed esumazione di testi, ma in una oculata scelta di essi, perchè ci sono talora delle brevi massime che rivelano tutto uno stato d'animo e rapide parole accennanti a tutta una psicologia.

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Che la formazione unitaria dell'impero costituisca un fatto di capitale importanza, principio di una nuova storia per i paesi soggiogati da Roma, è cosa evidente. Quando questo colossale sforzo imperialistico fu compiuto da Roma, un problema nacque spontaneo: dare saldezza alla vastità delle conquiste, favorire la circolazione della linfa nel tronco superbo, alimentare gli scambi, proteggere i diritti comuni, salvaguardare le tradizioni particolari, raggiungere l'unità degli spiriti, più preziosa che l'unità dei corpi. I cittadini dell'impero sentivano più o meno i benefizi dell'unità imperiale. Aristide di Smirne, sotto il regno dei primi Antonini, scriveva: «Non ci è lecito portarci liberamente dovunque più ci talenta? Non regna in tutti i porti la più grande operosità, non sono i monti sicuri per i viaggiatori, quanto le città per i loro abitanti, non regna la civiltà in ogni regione, non è dovunque bandito il timore? Quali sono i fiumi che non si possano varcare, quali i mari chiusi? Tutta quanta la terra ha deposto il ferro di cui era coperta, ed ora compare vestita a festa. Ora elleni e barbari, possono tutti uscire dalle loro contrade, portarsi dove vogliono recando seco i loro averi, quasi che da una patria passassero in un'altra. Ora non sono più a temersi le porte cilicie nè i sentieri malagevoli e sabbiosi dell'Arabia e dell'Egitto; non vi sono più monti i quali non si possano superare, nè fiumi che non si possano varcare, nè paesi barbari che non si possano visitare; per essere sicuro, basta essere cittadino romano; ed anzi, suddito soltanto dell'imperatore. Voi, o principe, avete ridotto a verità il detto di Omero: "la terra è comune a tutti". Voi avete misurata la terra tutta quanta, gettato ponti su tutti i fiumi, aperte strade in tutti i monti, popolate tutte le contrade disabitate, introdotto dovunque l'ordine, la disciplina. Ora non è necessaria più veruna descrizione del mondo; non occorre più annoverare le leggi e i costumi dei vari popoli. Voi avete raggiunto la signoria di tutto il mondo; avete atterrate tutte le porte, avete dato facoltà ad ognuno di tutto vedere con i propri occhi. Voi avete dato leggi uguali a tutti; richiamate in vigore quelle benefiche, tolte di mezzo quelle dannose; e con la paternità di tutti quanti i popoli, reso il mondo simile ad una grande famiglia. Così possa questo impero continuare a fiorire come al presente, fino a che il ferro galleggi sul mare o gli alberi non fioriscano più a primavera».

Ma le conquiste economiche si traducono sollecitamente in conquiste ideali, e i successi politici sono effimeri se non sono seguiti dall'opera conservatrice del pensiero, rinnovato con esse. Al trionfo militare dell'impero, che raccoglieva ad unità intorno al bacino del Mediterraneo la vita di tutto il vecchio mondo, seguì l'opera unificatrice della filosofia e della religione: fu l'ultimo sforzo del paganesimo, mentre la Chiesa, per suo conto, si accingeva a raccoglierne la eredità. La storia dei primi tre secoli dell'era nostra è tutta nel tentativo sincretistico di erigere la religione e il dominio di Roma su di una nuova unità di pensiero e di culto compiuto dal paganesimo, e nella tenace aspirazione cristiana di raggiungere invece l'unione cattolica delle anime, pure nel particolarismo delle razze e degli aggruppamenti nazionali.

Noi dobbiamo innanzi tutto osservare quel tentativo sincretistico, di cui lo gnosticismo non fu che un germoglio. Possiamo distinguerlo in due periodi: nel secondo secolo, la società imperiale, fra il cozzo delle tendenze più disparate, sente vacillare la sua fede e cambiare le basi della sua morale; di quella segue una interpretazione soggettivista, questa piega lentamente verso l'umanitarismo. Ma su questa via sarebbe stato impossibile raccogliere gli spiriti incolti e unire in una vasta federazione di scettici intellettuali e tolleranti le anime avide di superstizione. La coscienza collettiva, dolorosamente delusa, abbandona nel terzo secolo le pallide speculazioni stoiche, ricercanti dei moti politeistici la significazione estetica o etica; e allora si dona senza ritegno alle rivelazioni seducenti della magia, alle febbri inebrianti del misticismo, alle pratiche indistinte di tutti i culti, agli spasimi sensuali di tutti i riti d'Oriente, pieni di mistero e di allettamento. Ogni distinzione fra natura e soprannaturale è smarrita, e noi assistiamo come ad una solidificazione improvvisa di tutte le astrazioni religiose che assumono agli occhi malati dei decrepiti romani, avviati all'estinzione del paganesimo, forme e colori, che occupano la loro vita quotidiana, che offrono alle loro anime raffinate ed ansiose l'illusione del possesso divino, e alle assurdità della loro vita il modo di redimersi con l'assurdità delle espiazioni.

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La lotta per la dominazione del mondo aveva cominciato per i romani dopo le guerre puniche: era cessata sotto Augusto. A datare da quest'epoca, le differenti parti dell'impero unite politicamente, ma formanti tuttavia un tutto disparatissimo, entrarono in relazione le une con le altre. Roma fu il centro a cui affluirono i prodotti di tutte le regioni e le idee di tutti i paesi. Alla instaurazione dell'impero, seguì una reviviscenza di religiosità; come alla fatica segue il desiderio di riposo, e a un grande rinnovamento sociale il bisogno di una sanzione e di una garanzia: non è forse la religione uno dei più efficaci elementi morali di conservazione? I romani non avevano mai limitato la libertà di coscienza nei paesi soggiogati, se non in quanto lo esigeva la ragione di Stato: ma la religione loro, screditata a Roma, non aveva alcuna presa sugli altri popoli. Quindi i culti nazionali persistettero tenacemente, non solo, ma invasero Roma e vi s'installarono. Il culto d'Iside e quello connesso degli altri dèi egiziani di Serapide, di Osiride, di Anubi, conosciuto dopo la seconda guerra punica, combattuto dal senato, dopo una lunga vicenda di proscrizioni e di riconoscimenti legali, fu autorizzato sotto Augusto, fuori del pomerio, sotto Domiziano, anche dentro. Dopo i culti egiziani, fu la volta dei greci e degli asiatici: onori furono tributati a Sabazio, a Adone; Adriano introdusse i misteri di Eleusi; dopo gli Antonini, il dio del sole d'Emesa e il dio persiano del sole, Mitra, ebbero un culto straordinario. Roma, il centro del mondo civile, doveva fatalmente divenire, secondo la conosciuta frase d'Arnobio, «omnium numinum cultrix». Due sole religioni mancarono all'appello sincretistico di Roma pagana: il giudaismo e il cristianesimo. Ma quest'ultimo possedeva in sè i germi di una giovinezza conquistatrice e poteva rinunziare al fittizio riconoscimento dell'autorità. Roma invece non faceva che assicurare il suo predominio, innalzando nel suo Pantheon a tutte le divinità della terra, are ed incensi.

La speculazione teologica, abbiamo detto, seguì a Roma due opposti indirizzi: da prima cercò di ridurre ad unità le varie religioni, interpretandone saggiamente i simboli; poi mirò a raggiungere lo stesso scopo con la sfrenata pratica di tutti i loro cerimoniali. Fu aristocratica e finemente dialettica prima; brutalmente irragionevole, cieca e superstiziosa poi.

Il Boissier dimostra molto bene, con la sua abituale lucidezza, le differenze che distinguono la filosofia prima e dopo Seneca (4-65). La filosofia dei primi anni dell'impero è scettica e areligiosa: Sestio, Papirio Fabiano, Sozione, Demetrio, pur appartenendo a scuole diverse, tutti convengono nel ritenerla piacere delicato ed esercizio utile dello spirito. Hanno sì delle preoccupazioni morali e si atteggiano talora a direttori di coscienze: ma non si accingono mai a speculare sulla natura della divinità, e lasciano insoluta ogni questione sacra. Con Seneca, la filosofia invece assume carattere più religioso e s'impregna fino al midollo di tendenze morali aristocratiche. La filosofia, egli dice, promette di far l'uomo uguale a Dio: «philosophia promittit ut parem Deo faciat» (Ep. XLVIII, 11). In questa ferma fiducia, in questo solenne augurio, egli si abbandona alla speculazione razionale: per lui, questa speculazione, accompagnata da una retta pratica morale, sostituisce degnamente ogni culto e ogni fede: «non c'è bisogno di levare le mani al cielo, nè di pregare un sacerdote affinchè ci permetta di accostare le labbra alle orecchie di una statua, per far meglio intendere la nostra preghiera: Dio è vicino a ciascuno di noi, ciascuno lo porta in sè stesso. Guardatevi dal costruire tempi, sovrapponendo cumuli di pietre: bisogna che vi contentiate d'innalzargli un altare nel vostro cuore. Dio non ha bisogno di servi; che cosa mai ne farebbe? È egli stesso il servo del genere umano, e provvede a tutti i suoi bisogni. Il primo omaggio da fare agli dèi, è di credere alla loro esistenza; il secondo, di riprodurre la loro maestà e la loro bontà. Se volete che vi siano propizi, siate virtuosi: il solo culto che essi esigono, è quello che sta nell'imitarli». Penetrazioni religiose così elevate, concezioni così fini, non erano fatte per far presa sul gran pubblico, dedito alle superstizioni del politeismo. Seneca rimane un aristocratico, anche ne' suoi sentimenti umanitari che sono talora nettissimi, e che l'hanno fatto nella leggenda passare per cristiano. Dopo di lui, la filosofia attraversò una dura crisi: il potere imperiale sembrò adombrarsi de' suoi possibili successi in seno alle classi elevate di Roma, di cui avrebbe potuto fomentare gli istinti d'opposizione. Dopo parziali persecuzioni di Nerone e di Vespasiano, Domiziano, cogliendo l'occasione offerta dal processo di Aruleno Rustico, fece emanare un senato-consulto col quale tutti i filosofi erano cacciati da Roma e dall'Italia. Al solito, la persecuzione accrebbe la forza di espansione della filosofia, la quale tornò a diffondersi con una rapidità crescente, fino ad impregnare di sè tutto il mondo romano, fino a salire sul trono nella persona di Marco Aurelio. Ma come profondamente ne è cambiato il contenuto, e con esso la forma! Con Seneca, la lingua latina, questo dolce, armonioso, ridondante idioma, aveva dato di sè le ultime, migliori prove: ora il greco diviene la lingua abituale, ordinaria, di tutta l'élite intellettuale; tutti, tranne Apuleio, anche Marco Aurelio, scrivono in greco, lingua universale, simbolo delle medie correnti unitarie che fondono in un'unica psicologia la psicologia di tutti i paesi soggetti a Roma. L'attitudine fondamentale dei filosofi è identica: aspirazione appassionata verso il possesso della verità, ricerca ansiosa di questa manifestazione divina, ritenuta come il dono più eccelso, concesso agli umani; coscienza intima e costante della provvidenza benefica della divinità nei nostri atti quotidiani. Come Seneca, Epitteto ha un sentimento nobilissimo e spirituale dei rapporti con essa. «Ed io, vecchio ed infermo, che cosa posso fare di meglio di lodare Iddio? Se io fossi un usignuolo o un cigno, io farei quel che fanno il cigno e l'usignuolo. Ma perchè io sono un essere ragionevole, bisogna che io canti Iddio: questo è il mio compito, e io lo compio; e non cesserò mai dal compierlo, finchè mi sarà possibile: vi esorto ad accompagnarmi nel canto». Ma la maniera di considerare i culti popolari, l'attitudine di fronte alla religiosità ordinaria e superstiziosa, sono radicalmente cambiate. Lo stoicismo, accingendosi ad armonizzare i suoi principî teologici con i culti popolari, sopraffà le soluzioni evemeristiche, che diffuse a Roma da Ennio, riducevano a un realismo grossolano e freddo le seducenti immaginazioni della mitologia. Gli stoici concepiscono Dio come un'anima universale, informante di sè la vita del cosmo: e lo chiamavano, senza scrupolo, Giove. Da questo principio, sapientemente applicato, era agevole il passo ad una giustificazione pratica delle varie personificazioni della divinità, delle variamente intense sue manifestazioni. In realtà l'attitudine di spirito, sottostante alla concezione intellettuale del divino, era molto diversa nello stoico e il fedele praticante della religiosità ufficiale. Lo stoico considerava le molteplici divinità come emanazioni dell'unico principio divino, la fede popolare riteneva la reale e personale distinzione di esse. Ma nell'applicazione pratica lo stoicismo mostrava tanta condiscendenza, era così ricco di risorse nel dare interpretazioni fisiche ai miti e d'altra parte corrispondeva così adeguatamente alle primitive credenze dei latini, soggiogate dinanzi alle forze misteriose della natura, considerate come multiformi appariscenze di un unico genio universale, che la fusione dei due concetti fu profonda e valse a intensificare la corrente mistica, già così diffusa. A tutto ciò si aggiunse il platonismo. Il platonismo del secondo secolo è la formulazione riflessa di uno stato d'animo largamente diffuso e caratterizzato dal desiderio profondo di raggiungere una giustificazione ragionevole della sete di mistero e di divino, che travagliava gli spiriti. Allo stoico, che abbandonando le pose lievemente scettiche della vecchia speculazione romana, schiva di superstizioni e seguace di Evemero, aveva indulgentemente tollerato la molteplicità degli dèi, come emanazioni dell'unica anima mondiale, succede il neo-platonico che, rinnegando ogni distinzione di filosofia e di teologia, portando nel dominio della ragione sognatrice la sfera del soprannaturale, riconosce nelle divinità popolari che vanno vertiginosamente moltiplicandosi nel Pantheon romano, gli esseri intermedi fra la divinità ineffabile, accennata da Platone nel Timeo, e la materia cosmica. Plutarco (130) ci offre i primi eloquenti sintomi della trasformazione spirituale; Apuleio (nato nel 125), il più singolare scrittore del paganesimo decadente, accoppiante oscenità volgari a raffinatissime e devote speculazioni teologiche, ce ne dà il quadro completo. Per Plutarco, lo stesso atto della conoscenza del divino, è frutto di un'elargizione degli dèi, non risultato delle nostre forze intellettive. E gli dèi accordano il segnalato favore «della comprensione di sè stessi» solamente a coloro che con una sapiente disciplina della loro vita interiore se ne rendono degni, a coloro che «perseverano in una vita sobria, lontana dai piaceri dei sensi, che si esercitano nei templi in quelle pratiche severe, in quelle astinenze rigorose il cui fine è la conoscenza del primo e sovrano essere che lo spirito solo può conoscere»; a coloro che «sono gli iniziati della scienza divina». Per questi spiriti delicati, avidi di una quasi sensibile percezione dell'influsso divino, pronti quindi ad accogliere con riconoscenza ogni esotica indicazione di riti magici e rivelazione di culti originali, lo stoicismo, così in fondo novatore con le sue spiegazioni accomodatrici, appariva necessariamente grossolano e freddo. Ben altro ci voleva, per satollare le loro anime inquiete, che le contemplazioni difficili del panteismo, applicato alle religioni dell'impero.

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La teologia di Platone, opportunamente modificata, prese uno straordinario sviluppo. Ecco come essa è esposta da Apuleio. Dio, «unico e solitario, spirito vivente al di fuori del mondo, padre e architetto di questo divino universo» è talmente superiore a noi, che ci è quasi impossibile concepirne una pallidissima idea. «A pena i più saggi, coloro che riescono più felicemente con uno sforzo dello spirito a liberarsi dal loro corpo, sono riusciti a intenderlo per un istante, come si percepisce al suo passaggio un rapidissimo lampo che solca le nubi oscure» Sotto il Dio supremo stanno, suoi ministri, suoi servitori, «suoi satrapi», gli dèi inferiori, ripartiti in due categorie: le divinità fisiche, il sole e gli astri, e le divinità mitologiche. Ma queste divinità inferiori, di cui Apuleio afferma, senza dimostrarla, la conciliabilità con l'unità divina, non possono venire in contatto col mondo, e impassibili nella pienezza della loro beatitudine, assisterebbero indifferentemente ai contrasti degli uomini nella vita mortale, se i demoni non si stabilissero intermediari fra gli dèi e il mondo, e non portassero a quelli le preghiere degli uomini, a questi, i benefici superiori. «Vi sono delle potenze divine che risiedono fra l'etere e la terra, e ne occupano l'intervallo: lo attraversano senza interruzione;... esse sono gli interpreti e i messaggeri, per mezzo dei quali il cielo e la terra possono comunicare insieme». Orbene: tutte le religioni popolari, senza distinzione, intendono, più o meno consapevolmente, propiziarsi qualcuno di questi demoni, il cui numero è sterminato, la cui potenza d'intervento è grandissima, la cui protezione è preziosa come l'astio è malefico, la cui vigilanza su di noi è continua, sospettosa, di tutti i momenti e di tutti i luoghi. Perciò occorre essere ben disposti verso tutte le religioni, perchè tutte obbediscono ad un'opera di preservazione e di assistenza pubblica e privata: occorre con diligenza scrupolosa attenersi alle pratiche di culti vecchi, nuovi, nuovissimi, impetrare per mezzo di esse, con animo docile e pensiero sottomesso, le operazioni soprannaturali, inondanti il nostro spirito di gioia e di salvezza, nonostante le nostre possibili indegnità. L'opera dei demoni, collettivamente considerata, è la Provvidenza governante il mondo.

Questo rozzo rifacimento del pensiero religioso platonico, sembrò soddisfare le velleità spirituali delle classi colte. Ma giunta a questo punto di esaltazione mistica la filosofia romana era diventata necessario focolare di quelle degenerazioni morbose di fanatismo e di superstizione, che caratterizzarono la società dei Severi: di quel vasto movimento che credette assicurare la persistenza del paganesimo, con la febbre morbosa dell'ascesi mistagogica. Quel vecchio spirito di fronda della filosofia, lietamente schernitrice di dèi; quell'antico vezzo dei filosofi di neutralizzare l'opera dei sacerdoti; quel sentimento diffuso dell'opportunità sociale della religione, ma nello stesso tempo della sua insussistenza teorica, che aveva fatto ad atei accettare il pontificato e aveva impresso sulle labbra di sacerdoti, incontrantisi sotto gli archi vetusti del Campidoglio, sorrisi ironici di spregiudicati, scomparivano dinanzi al dilagare di un sentimento religioso formalistico ma violento, scisso dalla pratica della vita, ma profondamente consapevole, perduto nelle nebbie dell'astrazione, ma nello stesso tempo vincolato ai propri sogni e aspettante redenzione dai propri fantasmi. Come in tutte le forme religiose prossime all'agonia, l'aspetto cultuale e dottrinale del paganesimo sincretistico, sopraffacevano, fino a dimenticarlo, l'aspetto morale: il fanatismo copriva e faceva perdonare la corruzione, l'intransigenza bigotta il desiderio della liberazione, il rito promiscuo accumulato senza stanchezza sostituiva la linfa della vita interiore, prossima ad essiccarsi per sempre, vinta dalla giovinezza cristiana. I coefficienti della rapida decomposizione morale in cui cominciò a cadere la religiosità romana, furono i culti orientali, con le loro pratiche oscene, con le loro seduzioni magiche, con le loro teodicee raffinate, verso i quali, introdotti già più o meno clandestinamente a Roma ai tempi della conquista, si delinea ora una corrente di simpatia follemente esagerata; suoi esponenti, la mania prevalente nelle famiglie più alte dell'impero, e quindi capaci di imprimere col loro esempio una moda al pensiero pubblico, di fondere in un sincretismo di nuovo conio, filosofie esotiche e superstizioni grossolane.

Il più diffuso, il più avidamente ricercato fra i culti orientali, sullo scorcio del II secolo, è quello d'Iside. E se ne capisce la ragione: Iside riassumeva in sè gli attributi di parecchie vecchie divinità indigene: Giunone, Cerere, Proserpina, Venere. Essa personifica il principio recondito della vita universale, la fecondità persistente: ad essa, le donne erano particolarmente devote. In tutti i paesi dispersi intorno al bacino del Mediterraneo essa proteggeva il traffico, e vigilava i difficili viaggi di mare: i suoi templi rigurgitavano di voti, deposti dalle promesse dei marinai. Il culto d'Iside aveva qualcosa di solenne e di rituale, capace di esercitare un'efficacia profonda sugli spiriti: esso era esercitato due volte al giorno da un clero numeroso. Al mattino, non a pena le porte del tempio si aprivano, il velo bianco, che ricopriva la statua della dea, era tolto. I fedeli si avvicinavano per recitare le loro preghiere mattutine; il sacerdote, con la testa rasa compiva il giro degli altari, celebrava un sacrificio, compieva i riti misteriosi con le preghiere d'uso, e versava da un vaso sacro l'acqua attinta a una fontana segreta. Durante l'anno, a primavera e ad autunno, nelle due epoche cioè della inaugurazione e della chiusura della stagione dei viaggi, si celebravano feste solenni, pregne di significato naturalistico, iniziantisi con manifestazioni eccessive di dolore, simbolo di lavoro e di sforzo, e terminanti fra i gridi di gioia, di vittoria, di benessere esuberante. Al culto di Iside si riannodano il culto di Anubi e di Serapide. Allato ad essi si svolgono i culti della Frigia, di Cibele o Grande Madre, e quelli siro-fenicii, di Giove Damasceno, di Giove d'Eliopoli, dei Baal, della Dea Syra. I primi, notevoli per la stranezza invereconda dei riti, accompagnati da folli orgie notturne, dove gli iniziati al sacerdozio, galli di nascita in genere, sacrificavano la loro virilità, e da processioni fantasmagoriche, in onore della pietra di Pessinunte, testimonio di vecchie reminiscenze falliche. I secondi, più dediti alla magia, con il loro clero ignorante e imbroglione, pronto ai ricatti e alle estorsioni.

Ma la religione barbaramente esotica che, dopo avere oscuramente vegetato per secoli in Roma, assume maggior forza di proselitismo, e predomina sopra tutte le altre, fra il III e il V secolo, è il mitriacismo. Essa è tanto più interessante per noi, in quanto se tutti i culti a cui abbiamo accennato rivelano la psicologia malata di mania religiosa della società romana in questo tempo, e illuminano lo stato di psicopatia da cui potè sbocciare lo gnosticismo, il culto di Mitra, simbolista più che tutti gli altri, offre nettissimi punti di contatto coi riti delle sette a cui è dedicato questo studio. Questa vecchia divinità delle genti ariane, personificante la luce benefica del sole nascente, aveva preso posto nel mazdeismo allato ad Ahura, e, solo fra tutti gli idoli di questa religione, si era imposta ai romani. Al terzo secolo, e prova ne sono gl'innumerevoli monumenti mitriaci, questa religione, piena di seduzioni e di misteri, svolgentesi intorno a un'idea fondamentale di redenzione, acquista un posto di primo ordine nella religiosità pubblica. Mitra, autore della vita e suo munifico conservatore, distributore provvido d'immortalità, appare come il genio che presiede alla evoluzione secolare delle anime. La sua figurazione consueta è quella che lo rappresenta in atto d'immolare il toro. «In fondo ad una grotta o ad un antro a volta, Mitra, nell'aspetto di giovane frigio, col berretto nazionale, la tunica breve, e il pallio svolazzante all'aria come di uomo che si slancia alla meta, poggia un ginocchio sul dorso del toro accovacciato, e ficca la mano sinistra nelle narici della bestia per sollevargli la testa, mentre con l'altra mano gli caccia un pugnale nel collo. A destra e a sinistra del toro, la cui coda termina in un fascio di spighe mature, due giovani, parimente vestiti alla frigia, impugnano due torcie accese, l'una diritta, l'altra rovesciata. Cinque animali simbolici figurano nella maggior parte di simili monumenti: in alto un uccello; in basso, allo stesso piano del toro, uno scorpione che punge i suoi testicoli, un cane che lecca avidamente il sangue spillante, un serpente, un leone». Era un concetto fisico, astronomico o morale simboleggiato in queste complicatissime rappresentazioni? È difficile dirlo: questo è certo: che la religione che affidava a simboli così raffinati nel loro realismo vitale, che prometteva poi attraverso iniziazioni cruente (ricordiamo il taurobolio e il criobolio), una promessa di futura redenzione e la certezza di una attuale purificazione, era adattatissima a soddisfare le brame di queste anime romane decadenti del III secolo, che l'ampiezza delle conquiste, il lusso dell'esistenza, il colossale sforzo dell'unificazione mondiale, aveva reso ebbre di misticismo e di sensazioni inverosimili, e avide di redimere in una espiazione assurda le assurdità della loro vita quotidiana. Le così dette classi alte, quei ceti cioè che per cultura più elevata possono talora opporsi con frutto alle manìe superstiziose che sconvolgono la rude psicologia delle plebi, non si sottrassero all'andazzo: anzi, coi maggiori mezzi di cui disponevano, si abbandonarono più febbrilmente ai sogni della speculazione e alle intense sensazioni dei culti orientali. La donna romana nobile del III secolo, come in ogni tempo di rapida decomposizione e ricomposizione sociale, diviene propulsore di questo movimento religioso. Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, raccoglie ne' suoi salotti del Palatino, l'élite intellettuale del tempo: i poeti Oppiano e Gordiano, scienziati ed eruditi come Galieno e Sereno Sammonico, romanzieri come Eliano, giurisperiti come Papiniano, Ulpiano e Paolo, storici come Diogene Laerzio e forse Mario Massimo. Ma il suo consigliere prediletto, il dicitore che rende più fini e spirituali le sue conversazioni, è Filostrato, re dei sofisti, anima malata di sognatore, che aiuta la riforma neo-pitagorica iniziata dall'imperatrice, con quel suo strano romanzo di avventure che è la biografia del sapiente Apollonio di Tiana.

Con l'avvento di Elagabalo (218-222), che è favorito dalle cospirazioni di un'altra donna, Giulia Mesa, il culto siro di El-Gabal riporta il più segnalato trionfo. L'imperatore è innanzi tutto sacerdote, e la sua esistenza passa come un'oscura parentesi di rozza oscenità, sul trono già tante volte bruttato dalle follie di uomini, cui l'altissimo potere e il culto imperiale hanno sconvolto la ragione. Ma anche l'impero di Elagabalo ha avuto il solito fine politico: l'unificazione del culto, nella subordinazione alla religione orientale. Alessandro Severo che gli succede, e la sua madre Giulia Mammea, proseguono la stessa missione sincretistica, con il riconoscimento e la venerazione spirituale di tutti gli eroi.

Infine, come sistemazione psicologicamente normale e filosoficamente definitiva di questo vago sentimentalismo religioso, che aveva assunto così spesso forme parossistiche, sorse la scuola neo-platonica, fondata da Ammonio Sacca, ex-gnostico, continuata da Plotino, che fra il 244 e il 270 fece assidua propaganda delle sue idee a Roma e vi combattè lo gnosticismo e insieme il cristianismo, come se le due correnti si identificassero: e forse ciò era parzialmente vero, quando lo gnosticismo era cadente e il cristianesimo, sopraffacendolo, ne aveva preso qualche parvenza. Le dottrine caratteristiche della scuola furono la semplificazione e l'annichilamento operativo come mezzo di unione col divino, l'estasi come manifestazione di tale unione, l'assorbimento integrale dell'individuo nell'unità assoluta. La psicologia poi sottostante a queste varie concezioni è una psicologia profondamente ascetica, che intravede al di là di una radicale estirpazione degli istinti umani e delle umane velleità, il possesso indefinito e assoluto, della divinità. Scelgo a caso un tratto delle Enneadi: «Non dobbiamo far le meraviglie se considerando la fonte da cui siamo invincibilmente tratti in tutta la nostra esistenza, noi la scorgiamo lontana e immune da ogni elemento intelligibile. Quando l'anima è affaticata intimamente dal suo ardente desiderio, depone ogni propria forma. È infatti assurdo che colui che possiede ancora qualcosa, o operi ad un fine, o lo scorga, o convenga e tenda a qualche oggetto, raggiunga da solo, l'Unico: ma si richiede a ciò che sia povero di ogni bene e di ogni male. E quando l'anima si sarà studiata di abbellirsi e di rendersi simile all'oggetto de' suoi sogni, quando lo spirito avrà realmente affrancato sè stesso, allora vedrà in sè subitamente corruscante Iddio: senza intermediario, di due già fatti uno... L'animo fisso in Dio non sente più il gravame del suo corpo, nè si accorge di essere in un corpo, nè cura la conoscenza delle cose inferiori, rinunzia, per l'ineffabile dolcezza del possesso presente, ad ogni dono, ad ogni tesoro, anche al cielo. Allora l'animo raggiunge un criterio onninamente vero...». In realtà l'ispirazione che anima queste parole è la più alta che abbia mai irrorato il pensiero pagano. Il neo-platonismo, in una sete insaziabile d'infinito, sembrava voler comporre le migliori idealità del paganesimo morente.

Concludendo, la storia spirituale dell'impero nel II e III secolo, che noi abbiamo dovuto così rapidamente tracciare, offre particolari di singolare interesse. Sulla società romana, spinta dalla necessità pratica di fondere in un'unica atmosfera le tendenze di tutto il mondo soggiogato, è passato un soffio potente di misticismo. Il quale, abbandonato a sè stesso, ha fatto avidamente abbracciare vecchi e nuovi culti, indigene e straniere fedi, pur di avere una tessera di salvezza e ascoltare, nel turbinio della società cosmopolita, un identico e condiscendente linguaggio religioso. Roma ha invocato, con esempio di tolleranza unico, il soccorso di tutti gli dèi per compiere la sua missione imperialistica. Due sole religioni non hanno accettato l'invito: il giudaismo, religione perduta nella tragica aspettativa di una speranza irraggiungibile perchè già raggiunta, il cristianesimo, forte di una fede viva e di una volontà tenace, pronta alla conquista. In questo ambiente di sovraeccitazione religiosa, è apparso lo gnosticismo: frutto, esponente, ed insieme propulsore ed elemento di esso. Posto tra il paganesimo e il Vangelo, ha fuso stranamente le concezioni lottanti, e ha in realtà concepito il più ardito sogno sincretistico che fosse dato concepire: perchè mentre il sincretismo ufficiale univa tutti gli sforzi e le idealità del passato, lo gnosticismo ha voluto fondere il passato con l'avvenire: il paganesimo col cristianesimo, strappato alle sue origini giudaiche. Non ha negato alcun domma cristiano: e insieme li ha negati tutti, perchè è pregno di mitologia e germoglia su una vagamente pagana concezione religiosa: non ha direttamente oppugnato il paganesimo e non ha sfidato la società imperiale, e pure ha confessato comunque il Cristo e gli ha sempre riserbato un posto elevato nella sua teodicea. Così ha preparato il passaggio dal vecchio al nuovo mondo, con opera lenta di penetrazione intellettuale e morale. Le sue parole sono oscure e i suoi teoremi paradossali. Ma tutte le età di transizione han questo di caratteristico, di smarrire la lucidezza, attraverso lo sforzo faticosissimo di aiutare la gestazione del nuovo, senza urti, senza violenze, senza fragorose infrazioni ai vecchi involucri del pensiero. Chi, più tardi, tenta di interpretarne gli ideali, si arresta titubante: non ne scorge di precisi. E non pensa che il loro carattere è di non averne, è di lavorare in una nebulosa inconsapevolezza a più ampio trionfo di luce. Lo gnosticismo ha gettato nell'atmosfera intellettuale una quantità d'idee teologiche e di propositi morali, che hanno contribuito potentemente alla diffusione del cristianesimo dopo averne minacciato l'esistenza: perchè, l'atmosfera sociale è una cera sensibile, in cui ogni uomo di buona volontà lascia la sua modesta, forse invisibile, ma reale e non inutile impronta.

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