Coreglia

Il nome che questo paese ancor reca, cioè Coreglia Antelminelli, dice da sé com'esso sia stato baluardo importante e residenza preferita della famiglia Castracane degli Antelminelli, alla quale appartenne Castruccio. Ma le memorie del luogo risalgono ad epoca molto anteriore giacché ne troviamo menzione perfino in documenti del secolo X. Dipendeva allora dalla Pieve di Loppia, nel Barghigiano; e un atto del 994 prova che le rendite ecclesiastiche dovute dagli abitanti di Coreglia alla detta Pieve, furono dal vescovo Gherardo cedute in enfiteusi ad un Rolando di Giovanni, progenitore dei Rodalinghi di Loppia. Nel 1048 ne era signore Uberto di Rodilando che ne donò parte a un Giovanni detto Ghezio e a un Guidone figlio di [91] Tenzio: nel 1272 era già capoluogo di Vicaria e contendeva con Castiglione e con Barga, provocando più volte l'intervento del Comune di Lucca. Finalmente, salito al potere Castruccio, Coreglia divenne sulle prime centro dei suoi avversarî: ma il gran capitano la strinse d'assedio e dopo 58 giorni la costrinse ad aprirgli le porte. Morto Castruccio, ebbe Coreglia per vicario Santi Castracane dei Falabrini di Lucca: ma il re Giovanni di Boemia lo destituì e pose in suo luogo Francesco Castracane degli Antelminelli. A lui, verso il 1340, il castello fu tolto dai Fiorentini: se non che, nel 1352, egli riuscì a riconquistarlo e assunse allora il titolo di Conte di Coreglia, riconfermatogli nel 1355 da Carlo IV. A lui, i Pisani, divenuti padroni di Lucca, avevano assegnato per anni quindici il profitto delle gabelle del Bagno a Corsena.

Pochi giorni dopo avvenuta tale solenne investitura, Francesco Castracane moriva ucciso, con un de' figliuoli, per mano di Valeriano e di Arrigo, figli del grande Castruccio. Successe allora nella signoria di Coreglia l'altro figliuolo di Francesco, Nicolò: poi il castello, alla morte di Paolo Guinigi signore di Lucca, tornò in potere dei Fiorentini, i quali peraltro, nel 1438, lo rilasciarono alla Repubblica di Lucca, cui rimase lungamente soggetto, con tutti i paesi della sua Vicaria. Successivamente una parte di tal Vicaria passò al Comune del Borgo a Mozzano e l'altra formò quello che è anc'oggi il Comune di Coreglia, circoscritto dalla Fegana che lo separa dai Bagni di Lucca, dall'Ania che lo separa dal Barghigiano, e dal Serchio che lo divide dal Comune del Borgo a Mozzano.

In questi tre corsi d'acqua passano, ai punti di confine, tre ponti che meritano di essere qui ricordati. Il primo a incontrarsi, da chi si rechi dai Bagni di Lucca a Coreglia, è quello sulla Fegana, torrente che scende dalle vette dell'Appennino e si getta nel Serchio.

Il ponte, ideato con ardito disegno dall'architetto Nottolini cui si debbono molti pregiati lavori nel territorio lucchese, fu cominciato a costruire sotto il Governo Borbonico, nel 1841. Gli avvenimenti politici del '47 ne fecero sospendere i lavori, né il Governo Lorenese si curò mai di riprenderli. Finalmente, dopo ben 27 anni, nel 1874 la grandiosa opera fu tratta a compimento e riuscì degna di vera ammirazione, poiché consta di un unico arco avente metri 48,50 di luce e 7 di saetta, senza alcun appoggio, per modo che il Ponte alla Fegana occupa, per la sua ampiezza, uno dei primi posti fra i ponti d'Italia.

L'altro ponte che successivamente s'incontra, cioè il Ponte a Calavorno, merita di essere ricordato per altre ragioni: cioè per la sua antichità e per la bizzarra sua architettura. Il nome gli derivò dal Castello di Calavorno anticamente esistente in quel luogo. Si argomenta che sia stato costruito dagli Orlandinghi o Rodalinghi, signori feudatarî di Loppia, i quali erano patroni dell'ospedale di S. Leonardo in Calavorno.

È noto che, nel medio evo, gli ospedali si costruivano abitualmente in vicinanza dei ponti, per renderne più facile l'accesso, ed è quindi probabile che i Rodalinghi curassero la edificazione sì del ponte e sì dell'ospedale. Si opina da taluni storici, ma non è certo, che il primitivo ponte a Calavorno venisse distrutto dall'incendio che i Lucchesi appiccarono a quel Castello nel 1171: certo, nel secolo XIV, il ponte era così mal ridotto che, nel 1376, gli ufficiali delle varie Vicarie circostanti chiesero [92] più volte, alle pubbliche autorità, sussidî per effettuarne il restauro: e i sussidî furono in parte concessi e il ponte ricostruito nella forma che anc'oggi conserva.

La sua architettura ricorda quella del Ponte del Diavolo per lo sbilancio di altezza tra i soli due archi che lo compongono: l'uno de' quali ha 47 braccia di luce e una curva molto accentuata, mentre l'altro, a sostegno della parte pianeggiante, è appena un terzo del principale: ponte, per conseguenza, assai scomodo al valico: ma bello e pittoresco alla vista, tanto più perché incorniciato dalle alte e verdi montagne, dall'alto delle quali lo guardano i paesi di Ghivizzano, di Coreglia, di Vitiana, di Lugnana da un lato, di Gioviano, di S. Romano, di Cardoso dall'altro. — Meno notevole è il terzo dei ponti su ricordati, cioè quello in pietra sull'Ania, ove è anche un popoloso borgo di cui dovremo far parola tra breve. — Ora torniamo a dire di Coreglia.

BAGNI DI LUCCA — PONTE A CALAVORNO. (Fot. Spooner).

Le case del grosso paese si aggruppano fitte tra loro e stanno, a dir così, scaglionate lungo le vie ripide e anguste: una volta eran difese da solide costruzioni militari, giacché Coreglia, come sappiamo, fu castello e fortilizio di molta importanza al tempo dei Castracane. — Ora sono state ammodernate e ritinte in varî colori ed hanno, per buona parte, assunto un aspetto di pulitezza ed eleganza, indizio delle floride condizioni economiche de' lor proprietarî. Delle antiche fortificazioni non mancano [93] resti, specialmente nella rôcca o fortezza, che domina il paese dal vertice del monte e che mostra ancora i ruderi de' suoi muraglioni. — Fino al principio del secolo XIX vi esisteva accanto una bellissima torre, che un prete insipiente, divenutone possessore, distrusse per adoprarne le pietre come materiale da costruzione.

All'ingresso del paese è una delle più antiche tra le chiese della provincia di Lucca, cioè la chiesa dedicata a s. Martino e costruita nel secolo VIII, come si rileva da un documento dell'archivio parrocchiale.

Questa però non è la chiesa principale di Coreglia: la principale è quella di S. Michele, costruita nel 1200. Doveva esser bellissima di architettura, come si rileva da qualche tratto del lato destro in cui le antiche forme non sono del tutto scomparse; ma le modificazioni apportatevi col rialzarne il soffitto, coll'aprirvi dei finestroni barocchi, sostituendoli alle primitive finestre a feritoia, col sopraccaricarne le pareti di stucchi, ne hanno alterata la fisonomia e guastato l'aspetto.

Per fortuna si rispettò la facciata, ove fa ancora bella mostra di sé una statua di s. Michele, attribuita a Matteo Civitali. Il campanile, invece, fu deturpato e ai vecchi suoi merli fu sostituito un terrazzo a colonnine che, dice il Pierotti, è, dal punto di vista dell'insipienza, una meraviglia a vedersi! Meno male però che gli sono rimaste tre antiche pregevoli campane. — Nell'interno della chiesa colpiscono l'occhio del visitatore due statue rappresentanti l'Annunziazione, statue che per la grazia delle forme, per l'espressione nei volti della Vergine e dell'Angelo, per la nobiltà dello stile, furono attribuite a Nino pisano o, per lo meno, alla scuola ed al tempo del celebrato scultore. La stessa chiesa possiede una magnifica croce processionale del secolo XV, nella quale non sai se più ammirare l'originale genialità del disegno o la finezza del cesello; un calice, pur cesellato, del secolo XVI ed una ricca pianeta.

Sott'altro aspetto è pur meritevole di esser visitato, a Coreglia, il palazzo Rossi, nel quale è accolta una ricca collezione etnografica di oggetti svariatissimi, ma specialmente di armi, appartenenti a popoli selvaggi. La vista di questi oggetti, portati direttamente a Coreglia da abitanti del luogo tornati da regioni lontane, ci fa subito ricordare che siamo nella patria degli emigranti, oltre che nella metropoli dei «figurinai», come la definisce Matteo Pierotti in un gustoso suo scritto, al quale mi permetto di attingere qualche notizia e di stralciare qualche periodo.

Se l'arte di formare in gesso è diffusa nella maggior parte dei paesetti del territorio lucchese, essa ebbe peraltro le origini sue e il suo maggiore sviluppo in Coreglia. Pensa il Pierotti che le figurazioni simboliche sui frontoni delle chiese, gli angeletti preganti sui tabernacoli e sulle urne per gli olii santi, le fonti battesimali scolpite con figure di re e di guerrieri, di papi e di martiri, i capitelli aggraziati in tutte le forme più varie e più singolari, le terre vetrinate robbiane che nelle chiese dei paeselli più umili gettano un sorriso di cieli azzurri e di figure bianche fra le colonne marmoree degli antichi altari, sieno stati pei figurinai una scuola perenne di sentimento d'arte e di visioni poetiche.

Lo stesso scrittore riferisce un suo colloquio col nestore dei figurinai di Coreglia, dal quale resulta che l'arte del formare in gesso esiste in quel paese da due o tre secoli e che fu trovata — secondo la tradizione — da un frate, per caso.

Questo frate tentava di restaurare alla meglio, con un po' di gesso, una figura robbiana della chiesa, quando il gesso, cadendo, andò a posare sulla faccia di un [94] piccolo Crocifisso, disteso sopra l'altare. Quando il frate andò a riprendere il gesso, lo trovò secco e, con sua grande meraviglia vide, dopo averlo staccato, che vi era rimasta una impronta nitidissima del volto di Gesù Cristo. Così si sarebbe trovata l'arte del formare in gesso, arte che a Coreglia si diffuse ben presto e andò a mano a mano perfezionandosi.

BAGNI DI LUCCA — COREGLIA.

Si cominciò, come comportavano l'indole dei tempi e il desiderio degli acquirenti, dalla riproduzione di soggetti sacri o allegorici: poi si passò ai busti di sovrani e di uomini illustri: finalmente ai monumenti e alle opere d'arte, non senza trascurare, per il pubblico minuto e volgare, le figurine dozzinali di uomini, donne e animali... specialmente di animali; onde il Fucini poteva ricordare, nel noto sonetto,

.... l'amìo di Lucca che fa' gatti

(li fa cor gesso, creda da sbagliassi!)

Del resto, i figurinai si dedicano anche alle decorazioni in gesso; e quelle, ad esempio, dei padiglioni che figuravano all'esposizione di Chicago erano tutte opera [95] loro. Taluno di essi ebbe realmente valore d'artista: e si ricorda quel Pier Angelo Sarti che fu ammirato dal Canova e che, nominato dal governo inglese formatore del British Museum, formò in gesso tutte le sculture del Partenone e ne presentò, sempre per incarico del governo, la riproduzione a Luigi Filippo. Il Sarti fu pure poeta ed ebbe l'amicizia del Foscolo.

Anche Vincenzo Barsotti di Tereglio (Comune di Coreglia) vissuto nella seconda metà del secolo XVIII, divenne formatore abilissimo ed ebbe studio a Roma e riprodusse le più celebrate sculture classiche, per incarico di Pio VI e di Luigi XIV.

IL MONTE “LA PANIA„.

I figurinai cominciano da ragazzi, come garzoni: poi divengono padroni e formano la compagnia. — Vanno in ogni parte del mondo: in Germania, in Russia, in Oriente, ma più specialmente in America. Perciò, al loro ritorno, sono designati col nomignolo di americani: e perciò, come scrive il Pierotti, «Le osterie, i caffè, le rivendite portano il nome di qualche città americana: passa il Caffè Nord-America, la Trattoria Buenos-Ayres, la Drogheria Brasiliana, tutti esercizî che si aprono in casette e villini nuovi e puliti, fabbricati per lo più da figurinai che hanno lasciato di girare il mondo e si sono ritirati in patria a godersi le sudate agiatezze. Sulle porte e per la strada si vedono a colpo d'occhio questi fortunati possessori di migliaia di dollari e di milioni di reis, si indovinano dal taglio degli abiti, dalle forme esotiche dei cappelli, dall'aria di lavoratori in vacanza, occupati tutt'al più a sorseggiare il punch nero e l'arzillo vinetto montanino, che offrono liberalmente, con una curiosa passione anfitrionica, agli amici del paese ed ai forestieri che non conoscono né di [96] nome né di vista. Nei giorni di festa anzi, troneggiano nei caffè e nelle osterie, attorniati dagli ammiratori trincanti e pagano invariabilmente le consumazioni di tutti gli avventori noti ed ignoti che si trovano agli altri tavolini».

IL MONTE FORATO.

Dal lavoro dei figurinai è derivata a Coreglia quell'agiatezza che spira da tutto il suo aspetto. — Essi, per lo più, riescono, in varie serie di viaggi, a mettere insieme discrete fortune e tornano poi a godersele nel loro paese, ove comprano e edificano o restaurano qualche villetta e vivono e muoiono in pace. Taluno è anche riuscito ad ammassare vistose sostanze, mettendo negozî di lusso nelle principali città d'Europa e d'America. Tra questi il Barone Vanni, già figurinaio egli stesso ed oggi lor mecenate, fondatore di una scuola di plastica e di disegno pei figurinai, nominato barone dall'imperatore d'Austria e commendatore dal Re d'Italia, raccoglitore di opere d'arte da servir di modelli, di quadri, di medaglioni robbiani, di sculture e maioliche, con cui ha formato un Museo che è al tempo stesso un'Accademia di Belle Arti pei formatori in gesso o, come il Pierotti li chiama, per gli scultori del popolo.

Ma una visita a Coreglia non sarebbe compiuta, da chi non salisse al luogo detto La Croce per ammirare di lì la distesa delle Alpi Apuane che, in quel punto, sono battezzate col nome di Uomo morto, sembrando che dalla Pania della Croce si distenda una figura umana colle mani giunte, e per ammirarvi altresì l'effetto di quello [97] che Giovanni Pascoli chiamava il secondo tramonto: cioè l'infiltrarsi dei raggi solari, dopo che l'astro è scomparso dietro le montagne selvose, a traverso il fóro di quel monte che fu per questo chiamato Monte forato.

Come in quasi tutti i paesi di montagna, così, anche a Coreglia, il ceppo del paese collocato sull'altura ebbe le sue propaggini al piano: e così, al di sotto del paese primitivo se ne formò un altro che reca appunto il nome di Pian di Coreglia. — Ma di questo nulla è da dire: né molte parole occorreranno per alcuni degli altri paeselli formanti il Comune di Coreglia. — Così di Vitiana basterà ricordare l'antica esistenza, se uno strumento del 994 parla delle decime pagate dai suoi abitanti e cedute a Rodilando dal vescovo Gherardo di Lucca. — Vitiana rientrava anticamente nel piviere di Loppia e passò in quello di Coreglia più tardi. — Piccoli borghi, ma pur essi di antica origine e tutti ammirevoli per la graziosa posizione e per le belle vedute, sono Grumignana e Lucignana o Lusignana, anche quest'ultimo passato dal piviere di Loppia a quel di Coreglia e ricordato tra i casali o castelli concessi a titolo di contea dall'imperatore Carlo IV a Francesco Castracane degli Antelminelli. Più interessante di tutti, per l'aspetto suo e per le memorie storiche, è certamente Ghivizzano. Il visitatore che vi si rechi ha l'impressione di trovarsi dinanzi un pezzo di medio evo rimasto quasi immutato nei secoli: quasi, perché, in questi ultimi tempi, qualche stonata ritintura alla facciata di alcune case, qualche intonacatura delle vecchie pietre e qualche altro infelice racconciamento hanno un po' alterato le linee del quadro: ma ancora l'interna struttura del paese e i viottoli tortuosi e gli oscuri sotterranei nei quali si aprono di quando in quando gli spiragli delle feritoie, e i ruderi delle mura e la rôcca ridestano i ricordi e l'immagine della vita medievale e riconducono il pensiero a quell'età di delitti e di fede, di battaglie e di amori.

Il documento più antico in cui si trovi notizia di Ghivizzano è l'atto del 994 col quale il vescovo di Lucca Gherardo II ne faceva cessione ai Rolandinghi di Loppia. — Allo stesso anno 994 risale la costruzione della chiesa, primamente dedicata a s. Martino, ma successivamente passata sotto la protezione dei santi Pietro e Paolo. In questa chiesa è una pittura di ignoto maestro, rappresentante la Circoncisione. Vi si trovano pure, incastrate nel pavimento e ben conservanti gli antichi intagli e le antiche sculture, le tombe di Giovanna e di Filippo Castracane: moglie la prima di Francesco, cugino del gran Capitano, e figlio l'altro di lei. Queste tombe serbano ancora le loro iscrizioni che, rispettivamente, son le seguenti:

Sulla tomba di Giovanna:

Sepulcrum Nobilis Dominae Dominae Giovannae Uxoris Nobilis Comitis Domini Francesci Kastrakanis Quae Obit De Mense Maii. A. D.
MCCCXXXVI

Sulla tomba di Filippo:

Hic iacet Filippus filius D. Francesci Comitis Coreliae qui obit A. D.
MCCCLXVII
Die XXI Mensis Augusti.

[98]

LAGO SANTO (M. 1501 SUL MARE). (Fot. Pellegrini).

Il castello di Ghivizzano che, come vedemmo, andò nel 994 in possesso dei Rolandinghi, rimase sotto la giurisdizione di quelli fino al secolo XIV, nel quale passò ai Castracane, che lo elessero a lor residenza e a centro delle loro operazioni guerresche, dalle quali gli derivarono insieme penose agitazioni e fulgida gloria.

Occupato, poco dopo la morte di Castruccio, dai Fiorentini, fu nel 1357 ripreso da Francesco Castracane, che vi dimorò lungamente e vi condusse, dopo perduta la prima moglie Giovanna e il figliuoletto Filippo, la sua seconda moglie Tobiola, figlia di Bandino dei Conti Guidi di Romena, dalla quale ebbe più figli. Dopo di lui, vi dimorò il figlio Nicolao fino al 1369, nel quale anno, Carlo IV, che aveva liberato Lucca dalla signoria dei Pisani, tolse ai Castracane il possesso di Ghivizzano e lo passò alla Repubblica lucchese, lasciando a quelli solo pochissime terre tra cui il castello di Tereglio. — Fu allora che i Castracane emigrarono a Fano, ove tuttora dura la lor discendenza. Dopo varie vicende, alla morte di Paolo Guinigi tiranno di Lucca, il castello di Ghivizzano fu assalito e conquistato dai Fiorentini guidati dal conte Francesco Sforza, il quale lo tenne fino al 14 maggio 1441, nel qual giorno ne fece restituzione alla Repubblica di Lucca, ai cui Anziani gli abitanti di Ghivizzano, al pari di quelli di tutta la Vicaria di Coreglia, fecero giuramento di fedeltà. Né la storia di quel castello registra, da allora in poi, altri eventi di speciale importanza. Solo gioverà ricordare che nel 1592 la famosa rôcca, testimone di tante guerre sanguinose e di tante cavalleresche avventure, fu ceduta a un Marcantonio lucchese per abitarvi avendo promesso di racconciarla, e che oggi vi si trova collocato, molto praticamente se anche molto prosaicamente, un granajo! — Ebbe, in quei tempi, Ghivizzano molti uomini preclari o nelle armi o nella diplomazia o nelle leggi: tra i quali i Nucchi o Nucxi da Ghivizzano che si distinsero nei servizî prestati alla Repubblica di Lucca e dai quali derivò la nobile e ancora esistente casata dei Ghivizzani, e ser Nicolò notaro della Repubblica e Giovanni ambasciatore al Duca di Milano e Arrigo giureconsulto, uno dei compilatori dei nuovi Statuti della Repubblica ordinati dal re Giovanni di Boemia.

[99] Veramente stupenda è la veduta che dal piazzale della chiesa di Ghivizzano si gode: ché, mentre al di sotto si stende il paese cupo e severo nella sua antichità pittoresca, dinanzi si scoprono verdi praterie ed ampie vallate in mezzo alle quali si snoda tortuosamente il Serchio come un immenso serpe d'argento e il quadro s'incornicia di alte montagne sparse di numerosi villaggi e in fondo s'innalza maestosamente la catena delle Alpi Apuane. Onde non a torto il castello di Ghivizzano fu considerato come uno dei più belli ornamenti delle pendici appennine della provincia lucchese.

L'ultimo paese del Comune di Coreglia, al quale dobbiamo accennare, è Tereglio: grosso borgo disteso sul vertice d'una montagna in guisa tale da aver dato origine al detto popolare

Tereglio lungo lungo

Se avesse la cappellora somiglierebbe un fungo.

Vi si accede da una strada ruotabile che aveva fatto costruire, spendendovi ingenti somme, la duchessa di Lucca Maria Luisa, e che avrebbe dovuto continuar fino a Modena, passando al di sotto del Rondinajo. Ma rimase interrotta e anche il tratto esistente è in condizioni deplorevolissime.

Tereglio, nel secolo XIV, fu un castello continuamente disputato fra i Guelfi e i Ghibellini: passò poi, come vedemmo, ai Castracane per cessione fattane loro dal re Carlo IV: quindi seguì le vicende del Comune di Coreglia e fu poi ceduto alla Repubblica di Lucca per 11000 fiorini d'oro. Nel 1848 fu punto di sosta alle truppe toscane moventi alla guerra. La chiesa serba reliquie di s. Bonifazio e contiene alcuni dipinti non ispregevoli e un Crocifisso dipinto, del secolo XIII, opera di uno dei Berlinghieri di Lucca. Devonsi pure notare: un ciborio in marmo (sec. XIV), un bel lavabo in pietra serena del sec. XV con ornamenti scolpiti a bassorilievo e infine una statua dell'Angelo annunziatore da assegnarsi al sec. XIV sebbene porti la data 1588 che sta certo a indicare un posteriore restauro.

Fanno generalmente capo a Tereglio coloro che vogliono tentare l'ascensione del Rondinajo, la cui vetta, alta 1964 m. sul livello del mare, dista da quel villaggio circa 10 chilometri, ed è la più elevata dell'Appennino toscano.

Una strada scabrosa e difficile, ma rallegrata dall'alternarsi di panorami svariati e stupendi, conduce innanzi tutto al luogo detto Sasso a Mottone, e così chiamato per essere appunto un masso colossale tagliato nella viva roccia ed alto circa 40 metri. Più di una volta ne precipitarono le povere contadine che si arrischiarono a salirvi per farvi erba.

L'incantesimo principale dell'ascensione consiste nei contrasti che presentano le diverse vedute: ora burroni scoscesi e precipizî spaventosi in fondo ai quali rumoreggiano le acque di impetuosi torrenti: ora praterie verdeggianti e valli incantevoli e poggi vestiti di selve maestose. — Oltrepassato l'Albero della Madonna del quale narra la leggenda che fu improvvisamente fatto sorgere dalla Vergine del Soccorso per salvare un uomo che stava per precipitare nel fondo, si giunge all'Ospedaletto, ove erano l'antica dogana e un ricovero pei viandanti, donde il nome del luogo, cioè Ospitale, Ospitaletto e poi Ospedaletto. Superiormente s'incontra il Belvedere, del quale veramente può dirsi che il nome gli fu con ragione attribuito, giacché più bel vedere di quello che presenta quel punto non si potrebbe immaginare, mentre l'occhio [100] raggiunge la pianura fiorentina e i monti del Casentino e quei del Valdarno. Traversato il Ponte del Poeta, oggimai rovinato, ma serbante i segni della vecchia architettura pregevole, si raggiunge la Foce a Giovio, dalla quale lo sguardo spazia per la vallata modenese, riconoscendone varî paesi, quali Fiumalbo, Sant'Andrea, Le Tagliole, Pieve a Pelago etc. — Di là, per raggiungere la vetta del Rondinajo, occorre girar la montagna, che dal lato di mezzogiorno è assolutamente inaccessibile: e così s'incontrano i resti di una antichissima via, costruita di ciottoli, che reca il nome di Strada d'Annibale e che la tradizione afferma costruita dal grande guerriero cartaginese. Poi, superando passi difficili e talora anche pericolosi, sì che i contadini, in certi punti, prima di passare si fanno il segno della croce, e traversando rupi e massi e macchie e frane innumerevoli, si arriva alla vetta del Rondinajo, dalla quale sembra infinito il mondo che si svela allo sguardo. La grandiosità dello spettacolo è tale che non solo la parola sarebbe impotente a descriverla, non solo la fotografia sarebbe incapace a ritrarla; ma anche l'arte del pittore rimarrebbe sgomenta, come dinanzi ad impresa soverchiante le sue forze.

RONDINAJO. (Fot. Pellegrini).

Lassù pare quasi istintivo il silenzio. Chi oserebbe parlare, dinanzi a quella solennità, che vorrei dir religiosa, della natura? Chi oserebbe turbare col suon della voce quei misteriosi silenzî, quella pace profonda, infinita? L'anima si riempie dello stupefacente spettacolo e, in sé raccolta, ammira, palpita, gode: pure è un godimento che porta in sé una strana mestizia.

E poi, anche quando si è giunti ben alto, è pur fatale e necessario discendere.

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