2 Premessa dell'autore

Questo libro è un po' un fuoruscito che ritorna.

Si era a cavallo tra il 1924-25 e si tornava allo sbaraglio degli esilii. Si era a Parigi numerosissimi in condizioni senza confronto con i tempi delle passate persecuzioni umbertine. Non si osava concedere lunga vita al fascismo; ma tuttavia si era nella certezza che questa volta non c'era da aspettarsi l'amnistia per il parto della regina o di... donna Rachele.

Si era per giunta nel turbine polemico di tutti contro tutti. In tanto scompiglio d'esilio molte teste erano in delirio. Ferveva poi in tutti l'ansia del riesame per scoprire le cause della rivoluzione mancata.

La buona sorte mi venne incontro: un compagno francese, Cristiano Cornelissen, una vecchia conoscenza della scuola malatestiana, divenne ben presto un polo di attrazione godevole per noi poveri ma allegri sbandati in una città così avara di intimità.

Cornelissen – un eccellente studioso e poliglotta – aveva curato a Parigi per un decennio il servizio stampa estera presso il quotidiano La Bataille, organo della Confederazione Generale del Lavoro. Egli aveva ammassato in un'ampia soffitta la stampa di «cambio» riscontrata lungo un decennio. Ottenni da lui il gran dono di frugare in quel materiale per riesaminare il recente passato politico delle cose d'Italia. Mi posi voracemente al lavoro. In mancanza di scaffali escogitai l'espediente delle corde tese per asciugare il bucato e in qualche mese la cernita era compiuta e il manoscritto era pronto per un libro sulla rivoluzione mancata col titolo «L'Italia fra due Crispi – Cause e conseguenze di una rivoluzione mancata».

Il primo passo era fatto. Con un gruppo di compagni, a forza di ripeterci che volere è potere, trovammo una tipografia italo-francese, racimolammo tremila franchi per un anticipo al tipografo, e via di corsa. Eravamo giovani... Ma quando tutto sembrava sorridere al nostro piano di lavoro, incominciava la peggio. Il tipografo esigeva altri acconti, ma il lavoro, incominciato, non procedeva. Ahinoi! Tra una chiacchiera e l'altra con gli operai tipografi italiani, finimmo con lo scoprire in che specie di trappola eravamo caduti: il proprietario della tipografia – che si faceva chiamare monsieur Klein – non era né tipografo né uomo d'affari; era un professionista delle trappolerie, che presto avrebbe fatto ritorno alla Santé e noi avremmo trovato la tipografia sprangata dalla polizia. Non c'era da perdere tempo. La peggio sarebbe stata di perdere il manoscritto. Ne avevamo una sola copia e il furfante lo sapeva. Ci ponemmo sulla difensiva con abili trattative diplomatiche con lui. Agli estremi delle nostre conversazioni, l'elegante imbroglione credette di poter metterci al muro con questo ultimatum: o mi versate altri tremila franchi subito o fermo il lavoro e vi sequestro il manoscritto. Ma... ma va per aprire il tiretto della scrivania e lo trova vuoto. Un mio sogghigno gli fa capire con chi aveva da fare. Il manoscritto era già nelle mie mani per mezzo degli operai tipografi. Con gli stessi operai tipografi riuscimmo a salvare in piombo la parte già fatta della composizione del lavoro. Un bel mattino tre di noi – il compagno Ferandel, spagnolo, il compagno Ugo Fedeli, scomparso nei giorni scorsi a Ivrea dove lavorava come bibliotecario presso Olivetti, e il sottoscritto, provvisti di una carrettella a mano a due ruote sono là, alla tipografia – quando monsieur Klein dorme ancora – per caricare il piombo lavorato. Non era un furto, perché era roba nostra, ultra-pagata; ma in ogni modo rilasciammo una dichiarazione al proto, che ne fu tranquillissimo, impegnandoci alla restituzione del piombo a tiratura compiuta.

Adesso mi aiuti l'inferno a raccontare il resto. Mi rivedo attaccato alle stanghe della carretta, lungo le vie, né facili né piane di Montmartre, verso rue Jean Jaures, dov'era la nuova tipografia scelta per finire il lavoro. Ci assisteva la fede e un sole d'agosto da morirne. Ci scambiavamo a turno la parte dell'asino e quella del cocchiere a piedi. Nelle discese uno si attaccava di dietro per frenare. Quante miglia ci separassero dalla meta non saprei dire, ma eravamo ancora lontani, quando il carretto incominciò a traballare su se stesso e le ruote andare a sghimbescio; infine ecco là il carretto a terra sfasciato e tutto il piombo un rimescolìo da farsi chiedere se non valesse la pena di abbandonare tutto.

Ci trovavamo al centro di un piazzale di incrocio così carico di traffico dove c'era da lasciarci la pelle. Il poliziotto di guardia ci minacciava; trombe, fischi, bestemmie, maledizioni agli stranieri. Io mi difendevo e supplicavo nella mia superlingua delle arrabbiature: il romagnolo. Le colonnette della composizione si sbandavano sempre più. Tentai l'ultima carta rivolgendomi all'autista di un grosso camion, imbottigliato anche lui nel traffico. Andò bene. Dieci franchi alla mano e tutto venne ricaricato nel camion ed arrivammo rapidamente a destinazione. Il lavoro necessario al riordinamento tipografico fu tale che ci sarebbe stato da preferire di perdere il tutto se non ci fosse stata l'impossibilità di una ripresa da capo, perché il manoscritto della parte composta ci mancava.

Quel povero libro era nato male e finì male. Io partii per l'America. Gli incaricati di spedirlo in Italia per via clandestina, non poterono fare il miracolo che si proponevano. La polizia fascista si impossessò di tutta quella carta e mandò tutto al macero. Il libro non è mai nato.

Ora, dopo tanti rovesci, in un mondo che dannerebbe all'oblio la presenza del mondo, ecco approssimarsi l'ora di un frutto compiuto di quel mio lavoro lontano? Ecco il «fuoruscito» che ritorna. Ritorna e trova che tutti sono intenti a discorrere delle stesse cose, come se non fosse passato quel... millennio che sappiamo.

Non dirò che io non abbia usato del mio diritto di rivedere quel mio lavoro; ma certo senza tentare di togliere alla mia prosa di quarant'anni fa quel tono un poco comiziaiolo che era un po' del tempo e un po' della situazione.

Lettor mio, vuoi accordare il tuo bentornato al mio fuoruscito, che torna sconosciuto?

Roma, aprile 1964

Armando Borghi

NOTA

Il lettore troverà spesso in queste pagine la sigla USI (Unione Sindacale Italiana). Si tratta di una organizzazione sindacale di estensione nazionale che venne creata a Modena nel 1912, come è già accennato al debito punto cronologico del libro. Questo organismo operaio era una specie di Federazione di Camere del Lavoro e di sindacati locali di categorie varie, che non aderivano – né direttamente né indirettamente – alla Confederazione Generale del Lavoro, creata nel 1906 a Genova, la quale – come si sa – era allora sotto la tutela del Partito socialista italiano.

La sede centrale d'origine fu la Camera del Lavoro di Parma, con segretari Alceste De Ambris e Tullio Masotti. Più tardi, verso la fine del 1915, la sede centrale passò a Bologna, con segretario Armando Borghi, e questo per la scossa provocata dai dissensi scoppiati a causa dell'interventismo, del quale i dirigenti parmensi divennero immediatamente dei sostenitori impegnati, fin da quando lo stesso Mussolini non si era deciso sull'interventismo.

L'USI fu detta – o creduta – «anarchica», forse perché il nuovo segretario Borghi era già noto sin da allora come un militante anarchico attivo. In realtà, l'USI era un «sindacato» e non poteva dirsi né essere «anarchico», per il fatto stesso che non risultava da una selezione ideologica ma da un reclutamento operaio sulla base del «mestiere». Ciò non toglie che, quando il sindacato si poneva fuori della linea della conquista dello Stato e respingeva la partecipazione sindacale alle gare e alla conquista parlamentare, per far sua la tattica dell'azione diretta, generalmente in Europa e in America questo sindacato era considerato e considerava se stesso ispirato alle vecchie idee dell'Internazionale, e cioè all'ispirazione anarchica.

La buona fama di movimento rivoluzionario dell'USI (anche per la campagna antinterventista sostenuta sin dall'inizio della guerra e subito dopo per la lotta diretta contro il mussolinismo e il fascismo) fece sì che da Mosca nel 1920 si chiese che un suo rappresentante facesse in modo di prender contatto coi fautori della Terza Internazionale Sindacale (comunista) e si recasse al Congresso che aveva luogo in quel tempo nella capitale russa. L'USI accettò l'invito e incaricò il sottoscritto di recarsi a Mosca. Vi riuscii con mezzi di fortuna che sono spiegati estesamente nel mio libro Mezzo secolo di anarchia.

A cose viste sul luogo e dopo colloqui e incontri e discussioni con Zinoviev, con Tomsky e infine con Lenin al Kremlino, tornai da Mosca con l'opinione, sempre permanente, favorevole alla rivoluzione russa; ma più che mai contrario al partito della dittatura ed alla subordinazione del movimento rivoluzionario italiano alla dittatura sovietica, nonché contrario alla subordinazione del sindacato operaio ai partiti politici ed al nascente Partito comunista. La nostra divisa era: solidarietà nella lotta antifascista e nella montante preparazione rivoluzionaria; autonomia e autodecisione senza alcuna subordinazione.

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