3 Giolitti, il dittatore pacifico

Bresci arresta il crispismo – La monarchia si salva nel giolittismo – Re... rosso e socialismo regio – L'ora delle masse sindacate – Tripoli sabota il riformismo – Mussolini apologista del regicidio – Gli «intransigenti» alla riscossa – Concordia di sinistra per l'azione.

La nostra esposizione sarebbe mozza, il nostro quadro mancherebbe delle tinte di sfondo se non ci volgessimo indietro a riguardare, con un rapido colpo d'occhio, il passato che più si ricollega agli avvenimenti presenti, e cioè l'inizio del periodo storico che è contrassegnato dalla scomparsa di Umberto I.

È agli inizi del nuovo regno che si rivelano due fenomeni caratteristici della fase storica che ci interessa: il giolittismo ed il riformismo parlamentare dei socialisti.

È qui la chiave d'istrumentazione, se è permesso di dire in tal modo, della nostra disamina storica, e, al lume di questi svolgimenti politici e degli insegnamenti che ne sono derivati, riusciremo a comprendere lo sbocco posteriore del fascismo nella politica dello Stato monarchico. Di quel fascismo che, essendo venuti a mancare i risultati del socialgiolittismo a causa del turatismo parlamentare, ed essendo venuti a mancare i risultati di una rivoluzione, a causa del parlamentarismo più o meno blanquista, ha trovato davanti a sé la via sgombra da ostacoli e da resistenze istituzionali, e col favore della vecchia macchina di oppressione, la monarchia, ha potuto ricacciare la società italiana al punto in cui l'aveva arrestata la scomparsa di Umberto.

Insistiamo: non si capirebbe la possibilità di un simile ritorno senza porre nel bel mezzo di questo ventennio il ricordato pilone dell'ordine monarchico, che fu Giolitti e il suo complice: il cosiddetto «evoluzionismo» socialista, il quale, dalla condanna che la critica socialista d'ogni scuola aveva formulato fin dalle sue origini contro il conservatorismo della classica concezione repubblicana di partito, ne dedusse solo vigor di polemica e iniziativa di adattamento politico, atti ad evitare quella che si diceva la «pregiudiziale» repubblicana.

La monarchia venne in tal modo puntellata dal socialismo legalitario, imitato, in ciò, da quanto di addomesticato andava sorgendo nel partito repubblicano, che già andava impaludandosi nelle meschine manovre e rivalità antisocialiste di partito.

Il giolittismo dopo Umberto fino alla prima guerra mondiale evitò la rivoluzione repubblicana nonostante il blanquismo mussoliniano del tempo. I postumi del giolittismo nel dopoguerra e i postumi del mussolinismo fino al 1914 nel partito socialista, impedirono, dopo il 1918, che una situazione rivoluzionaria per eccellenza trovasse il proprio sbocco storico in una rivoluzione che sarebbe stata permeata in quell'epoca da larghi caratteri sociali e che avrebbe costato meno assai di violenza di quanta ne ha scatenato dopo il fascismo. Senza contare che, con tutti i suoi orrori, il fascismo riesce a sostenersi specialmente perché tutti capiscono a quali fatali rappresaglie si scatenerebbero se domani le camicie nere non avessero più la forza per imporre il loro ricatto alla libertà del popolo italiano. Violenza di repressione subita ieri, violenza di difesa e di liberazione domani; sempre per ritornare all'incirca ad un punto che avremmo potuto aver superato da lungo tempo, demolendo noi delle istituzioni reazionarie quello che gli altri hanno demolito di noi, aggiungendovi i fascisti quella crudeltà non necessaria alle rivoluzioni, ma inseparabile dalla controrivoluzione.

Il giolittismo, che si basava sulla finzione democratica e gradualistica (che prescinde nei suoi calcoli dalle previsioni delle guerre nello sviluppo politico degli Stati), nelle condizioni previste dalla propria finzione ci avrebbe dato un nostro «millerandismo». Sorpreso invece lungo il cammino dai cicloni europei, di cui la guerra tripolina era un salasso precursore, il giolittismo non ha potuto raccogliere che i frutti acerbi di un parlamentarismo sempre in fregola e sempre zitellone, del che egli si vendicherà più tardi con lo sfregio dell'amante ripudiata.

Il terrore reazionario monarchico, quindi, sviluppato ed inasprito dalla fregola imperialista (non potendo partire ora di iniziativa propria dello Stato, non essendovi stata che una minaccia di rivoluzione ed essendo ancor fresca l'esperienza del '98 e del '900) venne surrogato dal terrore «irresponsabile» ma protetto dalla monarchia e poté prendere a pretesto la rivoluzione minacciata, per soddisfare le brame di dispotismo economico che veniva su dalle malredente campagne, dove sembrano rivivere i malfamati bravacci manzoniani.

Il terrore volontario, anonimo, extra-legge, doveva dare maggiori risultati che non lo stato d'assedio di Bava Beccaris, col sopraprofitto che la monarchia non ne doveva rispondere, ed il suo governo poteva darsi le arie del neutrale, dell'arbitro, del conciliativo, magari dell'offeso e della vittima. Ma giorno venne in cui solo la presa del potere poteva salvare la banda Mussolini e fu allora che la monarchia dovette scegliere tra l'investitura o l'abbandono, che sarebbe stato ben presto abbandono alla giusta vendetta popolare dei suoi scherani. La monarchia fece onore ai suoi precedenti ed alle tradizioni di casa e i due mostri divennero uno solo per vivere e per morire insieme.

Coi moti e le repressioni del '98 la reazione, diremo così, di attacco (lo Stato che attacca è ritornato con Mussolini), di iniziativa offensiva della monarchia esaurisce il suo ultimo sforzo.

La sciabola si è logorata nell'abuso. Il crispismo ha marcato una impronta refrattaria, anche su elementi politici aventi una intrinseca tendenza conservativa, respingendoli (e qualche volta respingendoli in galera: De Felice, Romussi, Don Albertario, ecc.) anziché attirarli nell'orbita dello Stato. La nobile figura di Cavallotti è l'ultimo martire della democrazia eroica, che più tardi si farà sorniona e procacciante, in attesa di farsi vile ai suoi stessi danni, in odio e per paura del proletariato che aveva la colpa d'avoir trop grandi...

Il socialismo si è ormai fatto legalitario e noi conosciamo il dogma lapidario del tempo arrivare alla metà più uno dei deputati alla Camera... poi decretare il socialismo. È l'ora storica della Seconda Internazionale che lavora a far dimenticare la Prima. È stato detto che era l'ora del socialismo germanico in verità i... tedeschi sarebbero stati troppo numerosi nelle terre latine. Dopo la Spagna, l'Italia era forse il terreno più arido per la seminagione dell'oppio marxista. Di comune oramai le due correnti, elezionista e libertaria, non hanno più che il nome. Sono tutti socialisti: ma quale distanza fra i due socialismi: l'autoritario e l'anarchico.

Non è la bilancia della buona o della mala fede che noi impugniamo; ma è certo che il trattamento riservato all'anarchismo per mezzo secolo – come al ghetto israelita durante il fascismo nel mondo cattolico – ottenne quei risultati reazionari che i sanfedisti volevano e che nocquero in definitiva a tutti gli uomini liberi.

La scena politica muta con l'uccisione di Umberto I. Vi è una prima ora di sgomento, nella quale troppe viltà sovversive si strofinano attorno alla formula della intangibilità della vita umana (formula sempre vera e sempre balorda, e vera e balorda ad un tempo sempre, per qualcuno verso qualcuno); ma ben presto tutti comprendono che qualcosa sta mutando, anzi sono molti a commettere l'errore di credere che il mutamento sia di una portata maggiore a quella reale. E da ciò il paradosso, che doveva servire a coprire la responsabilità dei sovversivi monarchizzati: Bresci ha salvato la monarchia!

Siamo dunque... all'Era Nuova. Si parla di repulisti a corte. Di congedo a tutti i superstiti della politica umbertina. Anche la vedova bionda è messa a riposo.

Umberto è presto dimenticato ed è pianto per dovere d'ufficio ad ogni ritorno del 29 luglio. Bresci condannato all'ergastolo, lo danno per suicida in una cella di Santo Stefano.

Un anno dopo la scomparsa di Umberto non v'era più nelle isole un coatto politico e anche l'infame castigo della sorveglianza speciale veniva abolito. Nello stesso anno – quasi a caratterizzare la piega che avrebbero preso le lotte avvenire – la classe operaia dà già, con l'arma dello sciopero generale, la sua prima battaglia e realizza la sua prima vittoria. È Genova che si ribella all'ordine di scioglimento della Camera del Lavoro. Cade così con Saracco, l'ultimo ministro umbertino e compare (dopo una breve parentesi Zanardelli) il dittatore pacifico: Giovanni Giolitti.

Il destro Dulcamara viene dalla sinistra costituzionale. Egli intravvede l'avanzarsi di un proletariato che nessuna repressione ha annientato e nessun inasprimento può arrestare. Egli immagina che il socialismo, dalla capanna possa passare alla reggia.

Giolitti si aggiusta alla Camera un cravattone rossastro. Al Senato riesce a farsi interrompere ed a strappare la protesta dei barbogi reazionari vecchio stile per le sue affermazioni sul valore sociale accrescitivo delle lotte operaie.

La politica europea va tutta a sinistra. In Germania il bismarchismo ha disarmato. In Francia è già dimenticato il lungo periodo di terrore che seguì la caduta eroica della Comune.

Sorge infatti Waldeck Rousseau. In Austria il paternalismo imperiale esperimenta, con l'ultimo cannone, l'ultimo figurino della legislazione sociale. Il fatto stesso della floridezza industriale dei principali Stati di Europa costringe i governi a valorizzare le forze del lavoro e, valorizzandole, a trovarsele contro più agguerrite in un primo momento e quindi in parte a sottomettersele, fingendo di associarsele. L'Italia segue, con molto ritardo, l'evoluzione dell'Europa.

Giolitti è parso un novatore. Era un monarchico illuminato e scaltro che serviva con fedeltà il suo re. Era il più veggente tra i conservatori, soprattutto perché aveva capito che vi erano due Italie e che, dando i lavori pubblici ed i fondi per le Cooperative al Settentrione socialdemocratico e associandosi le camorre, l'ignoranza e la miseria del Mezzogiorno, si poteva tenere ben salda la catena alla caviglia del popolo, conferendo al suo re le arie del liberatore.

Siamo alla nuova svolta della storia proletaria, quando la collaborazione socialista non si presenta più con la beffarda delusione del matrimonio di Pulcinella che voleva sposare la regina ma non lo sapeva.

Collaborare ora si può; la monarchia lo invoca, lo chiede, lo spera. Rifiutare? Perché allora la scissione di Genova dagli anarchici? Il partito socialista fila dritto per la sua logica e si butta tre volte ginocchioni davanti a Giolitti.

Né il partito repubblicano seguì altra via. Si leggano queste parole. di Oliviero Zuccarini:

«Il punto su cui, dopo il '98, si strinse l'accordo dei partiti popolari fu quello della difesa delle pubbliche libertà d'associazione, di parola, e di stampa, offese e compromesse dalla politica liberticida dell'on. Pelloux. Fronteggiata la reazione, ritornata una relativa libertà di associazione, di parola e di stampa, il compito dell'unione dei partiti popolari doveva considerarsi come esaurito. Fu grave errore aver mantenuto l'alleanza senza il programma di azione e aver lasciato – almeno da parte nostra – che la vittoria ottenuta (e fu vittoria dell'azione popolare piuttosto che della azione parlamentare) alimentasse illusioni e speranze fallaci sulla possibilità di una politica di realizzazioni attraverso il Parlamento con la graduale conquista dei pubblici poteri».

Nei riformisti c'erano spesso velleità di scissione dal partito; ma i più avvertivano il pericolo che tocca con mano sapiente Benedetto Croce, nel suo libro Storia d'Italia dal 1870 al 1915: «Se i riformisti fossero usciti dal partito, la conseguenza che ne sarebbe venuta fuori sarebbe stata l'abbandono delle masse operaie agli agitatori rivoluzionari; con grave pericolo a danno del complesso sociale e degli interessi operai; e perciò giovava che questi uomini liberi ormai dalle astrattezze e fanatismi, e chiaroveggenti e temprati, restassero in mezzo a loro e li guidassero, sia pure indulgendo a talune loro illusioni».

«Né reazione né rivoluzione » tale era la formula giolittiana e, mentre Bissolati e Turati facevano eco dall'estrema sinistra alla invocazione giolittiana, i loro seguaci sindacali ponevano mano (1906) a creare l'organo indispensabile per la praticità dell'azione collaborazionista operaia: la Confederazione del Lavoro.

Fu il momento in cui anche gli anarchici si trovarono in crisi. La materia da trattare era diversa. Diverse le condizioni della lotta. Lo Stato non sembrò più aggressore. Grandi masse entrarono in scena. La libertà politica non era contesa.

I socialisti collaboravano col governo: dovevamo noi non collaborare con le masse? Proteste, gruppi, giornali, sbandieramenti sono ora ammessi. Ci vuole un mezzo d'azione che non ci isoli, che non polverizzi le nostre forze, che non ci riduca al ruolo di semplici spettatori. Senza dubbio il lungo periodo di reazione aveva svezzato molti di noi dall'esercizio delle lotte sociali. Gli esilii, il coatto, le prigioni hanno però salvato le tempre capaci di salvarsi in se stesse, nel proprio intrinseco ideale.

Non si capirebbe niente degli orientamenti politici e soprattutto di quelli, allora assorbenti, del movimento sindacale, se non cogliendoli nel loro quadro di insieme. Sorse allora la possibilità, la necessità, l'istintività stessa, del sindacato di azione diretta, attorno al quale un nuovo, preteso nuovo, filosofismo – il sorelismo – e persino l'accenno di un nuovo partito (il più sovente per opera di politicanti delusi) tentarono nuove fortune elettorali sotto il nome improprio di sindacalismo; ma il sindacalismo che interessò e appassionò molti anarchici era quello di azione diretta, che germinava nelle masse e nei sindacati e che, attraverso vicende di scissioni, di rimpasti, di scioperi, di congressi, di lotte tenaci e di giolittismo sabotatore, che è qui fuori luogo di esaminare, dette luogo nel 1912 alla creazione dell'Unione Sindacale Italiana e dalla quale si orientò l'autonomia, soprattutto antiriformista, del Sindacato Ferrovieri. Oramai ogni semente è messa alla sua prova particolare, in quanto le si offre la possibilità, la necessità di germogliare su un terreno più o meno fecondo. Abbiamo quindi l'ondata dei grandi scioperi da parte delle masse, che non possono marcare il passo col giolittismo socialista e confederale, ed è l'ora, per quest'ultimo, delle supreme scomuniche, intrinseche al suo sistema, contro le masse stesse (contadine, ferroviarie, industriali più tardi) che, non avendo fatto, esse, nessun patto con Giolitti, marciano avanti. È una storia che si svolge eguale ed uniforme, malgrado gli scioperi parziali e generali, i quali però sono contrassegnati dall'aumento della ricchezza nazionale, come lo denunciavano il pareggio del bilancio e la parità aurea della moneta.

Il movimento operaio prende uno sviluppo considerevole negli strati profondi della classe lavoratrice, soprattutto nelle campagne dove si lavorava da sole a sole e dove l'agrario che fino allora, tra il prete e il carabiniere, aveva dominato dispoticamente, considera come un attentato alla sua libertà ogni povera conquista strappata dagli operai e sogna la sua riscossa.

E la riscossa non tarda a venire. L'incantesimo delle riforme è presto rotto. Il salvadanaio di terracotta del gradualismo è mandato all'aria dalle cannonate.

Siamo a Tripoli.

Giolitti riesce a sorprendere le masse, ma non i capi parlamentari i quali a Bologna, insieme alla Confederazione, proclamano lo sciopero generale di 24 ore, ben sapendo che già le truppe italiane sono sbarcate sul litorale africano

La guerra. La guerra coloniale.

Il movimento sovversivo conosce le prime vergognose diserzioni in nome di tanti principii nuovi e freschi e geniali che molti pulcinella della politica hanno scoperto in una notte di luna e che noi, i dogmatici i formalisti i citrulli della coerenza, non potevamo capire per suprema ignoranza, come dimostrammo anche qualche anno più tardi.

Mussolini esce allora dalla stretta scamiciata celebrità di provincia. A Forlì capeggia una dimostrazione di proletari che si reca alla stazione a svellere le rotaie per impedire la partenza dei soldati e nessuna squadra di punizione brucia per questo la sua casa e quella di cento sovversivi della città e ammazza i socialisti e le loro famiglie e rade al suolo i circoli sovversivi e ruba il mestiere ai briganti.

Nel partito socialista sta per venire l'ora degli intransigenti. Bissolati è infamato di «tradimento» da Mussolini, che fa l'apologia dell'anarchico Antonio D'Alba, l'attentatore in quei giorni di Vittorio Emanuele III.

La guerra tripolina scuote ma non sconvolge il movimento proletario. Vi è una ripresa di reazione soprattutto contro gli anarchici ed i sindacalisti dell'Unione Sindacale Italiana. Il proletariato è contro la guerra. La democrazia, che ha già dimenticato Cavallotti, è per la guerra. Stecchetti è vivo ma nessuno si ricorda (nemmeno lui) delle sue invettive antiafricane. Pascoli, pastoso e bonaccione, inneggia alla «grande proletaria» che si è mossa. Il nazionalismo ridisseppellisce l'archeologia romana e vi discopre e impennacchia gli elmi di Scipio. È l'ora per le sue grancasse, i suoi tromboni, i suoi Marinetti. Si ha un anticipo di quel che sarà fra qualche anno il festival guerraiolo in grande stile... impero!

Tripoli, bel suol d'amor...!

Il giolittismo ha sortito il suo effetto... costantiniano.

Una guerra coloniale può essere democratica nel paese che salutò Adua come una liberazione?

È l'ora delle espiazioni per il riformismo.

L'ammonimento amletiano, soffocato a Genova nel '92, che il socialismo parlamentare si era trovato davanti ad ogni passo, ad ogni svolta, ad ogni congresso, era ancora là in presenza della guerra coloniale: «Essere o non essere». E questa volta era Giolitti che poneva il dilemma per bocca di Bissolati. Gli tornava alla mente l'invettiva di Costa: «Né un uomo né un soldo». Turati non aveva previsto il giolittismo in elmetto.

Ed ecco la scissione in agguato alle porte del Congresso Socialista di Modena (1911) dove il riformismo si presenta diviso, minacciato dalla prevalenza lazzariana che ha perduto i suoi Ferri e attende i suoi Mussolini. È là che Bissolati si urta con Turati. È là che Bonomi tira le somme del collaborazionismo turatiano e presenta il polo opposto della sua logica riformista con queste precise parole: «Voi dovete (per essere logici) denunciare l'alleanza con la democrazia dapertutto e dovete iniziare da oggi una opposizione intransigente, chiamando a raccolta tutte le forze del paese intorno al proletariato, per fare del proletariato il centro di tutte le ribellioni necessarie. Voi dovete, in sostanza, risuscitare l'atmosfera rivoluzionaria che esisteva durante la guerra d'Africa conclusa con la sconfitta di Adua, quando il popolo italiano, attraverso le tristi vicende di una guerra sfortunata, iniziò la sua liberazione interna, ma è possibile questo?»

Come si vede, Bonomi faceva del disfattismo retrospettivo.

La risposta a Bonomi venne nel luglio dell'anno successivo del Congresso di Reggio Emilia. Qui, riunite insieme in una sola requisitoria – accusatore Mussolini – la questione di Tripoli e quella della visita al re, resa nel marzo di quell'anno, da tre deputati (Bonomi, Bissolati, Cabrini) per felicitarlo dello scampato pericolo dopo l'attentato del D'Alba. Gli intransigenti portano lo scompiglio nelle file riformiste obbligando i turatiani ad abbandonar loro la testa di alcuni bissolatiani e prendono il sopravvento nel partito.

Si legga l'ordine del giorno votato, si chiudano gli occhi per alcuni minuti e si pensi, senza nominarlo, a quella canaglia che ha fatto una... rivoluzione contro la monarchia, col permesso della medesima, per... punirla di essere troppo liberale: «Il Congresso riferendosi agli atti specifici dei deputati Bonomi, Bissolati, Cabrini dopo l'attentato del 14 marzo, delibera di dichiarare espulsi i detti deputati dal Partito e di espellere altresì l'on. Podrecca per i suoi atteggiamenti nazionalisti e guerrafondai».

Era una condanna ad personam; ma era un voto di tendenza che colpiva in pieno l'a-monarchismo dei riformisti. Mussolini sbalzò Treves dall'Avanti! e incominciò quella preparazione rivoluzionaria accennata e deprecata da Bonomi e che insieme a Bonomi e a tanti altri egli doveva poi con perizia di Giuda contribuire a disfare, in omaggio alla guerra liberatrice di qualche anno dopo.

È l'ora di quel rivoluzionarismo formale che vuol rinverginare il parlamentarismo dandogli la burbanza dell'intransigenza, che pretende assorbire la classe nella sezione elettorale del partito, rinunciando ai mezzi specifici della riforma ed a quelli della rivoluzione e lasciando campo libero sul terreno operaio sindacale a quel riformismo confederale che, occorrendo, nelle ore decisive, saprà ben lui col proprio peso neutralizzare lo slancio rivoluzionario delle masse d'avanguardia.

L'ora degli intransigenti? Apparenza! Giolitti ha teso lontani e profondi i suoi tentacoli. L'Italia ufficiale è giolittiana con o senza Giolitti, attraverso i suoi luogotenenti, i suoi prefetti, i suoi capi di polizia, il suo Consiglio di Stato, i suoi alti magistrati, il suo giornalismo. Nel campo operaio egli è sempre l'uomo di fiducia della Confederazione e attraverso gli innumerevoli uffici di consulenza tecnica, attraverso gli ingranaggi della cooperazione, ecc., i comuni socialisti ed il gruppo parlamentare, il movimento confederale resta sempre una propaggine del giolittismo.

Dopo Tripoli, la Settimana Rossa.

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