4 Le grandi agitazioni

I precursori del nullismo socialista – I repubblicani pensano seriamente alla rivoluzione? Il blocco degli antilibici – Agitazioni precorritrici – La... festa dello Statuto guastata – L'eccidio di Ancona – Lo sciopero generale – L'intervento dei ferrovieri – Il telegramma di Rigola – Mussolini esalta la «teppa» – La... legalità ci farà liberi!...

Ripeteremo che l'attitudine dei capi intransigenti del socialismo era effetto e causa ad un tempo dell'atmosfera calda che si era andata creando nelle masse ed era un modo accorto per molti riformisti per tenere a bada le masse in un momento in cui c'era pericolo di una maggiore valorizzazione delle tendenze anarchiche. L'intransigenza parlamentare in ogni modo non era nemmeno intransigenza elettorale e se essa riusciva a paralizzare l'azione positiva propria del gruppo socialista in parlamento, non mutava il tessuto intimo del riformismo nel partito socialista; riformismo che la democrazia borghese si allevava da molti anni sulle amorevoli ginocchia e che trovava nella Confederazione Generale del Lavoro il suo cavallo di Troia.

Nella interpretazione delle masse è difficile assegnare un limite ad una predicazione rivoluzionaria, sia pure contraddittoria in tempo di malcontento generale. Mussolini dall'Avanti!, pur mantenendosi nella contraddizione anzidetta, portava nella lotta un temperamentaccio e una noncuranza che non mancavano di procurargli qualche richiamo da parte delle «barbe» del partito.

Vi era certo nel forlivese una infiltrazione di blanquismo che stonava col galateo delle sfere dirigenti del suo partito, ma che sferzava simpaticamente il temperamento degli stessi tesserati. Concorrevano a determinare questo dinamismo il movimento anarchico (a cui aveva portato di fresco, di ritorno dall'esilio londinese, il suo impulso di fede e di prestigio Errico Malatesta, salutato al suo arrivo in Italia da un caldo omaggio di Mussolini sulla prima pagina dell'Avanti!) e l'Unione Sindacale Italiana, che già aveva acquistato un ascendente ed una forza numerica non indifferenti nell'insieme del movimento operaio di estrema. Anche nel partito repubblicano gli elementi più avanzati si valorizzano e al suo Congresso del '914 a Bologna uno dei relatori, Oliviero Zuccarini, è il leader più applaudito affermante che la situazione dal punto di vista psicologico ed economico volge verso l'estremismo.

«Già cominciano a manifestarsi qua e là – dice lo Zuccarini – i primi sintomi della ribellione. Il pericolo delle illusioni e delle pazienti attese è finito. Il malcontento è vivo dovunque e si inasprisce col diffondersi del disagio economico. Tutte le classi sentono di essere state ingannate e tutte si sentono colpite. Non sono solo le classi che lavorano, anche le classi che dirigono le forze produttive sono insofferenti di una situazione che è, infatti, insostenibile. La monarchia italiana ha preparato al paese – con la complicità di una democrazia senza principii – giorni tristi... Le forze economiche si trovano ora, improvvisamente, strozzate. Mancano i denari. Il debito si accresce e si lavora ad accrescerlo ancora. Ogni politica di pubblici lavori, di risanamento e di rinnovamento è interrotta. Il fiscalismo trova ogni giorno nuove asprezze ed altre forme di spogliazione. I governanti continuano la loro politica inconsiderata di spese inutili senza freno per la... gloria militare, che sembrano congiurare alla loro rovina! La verità è che lo Stato è dissestato. Il sistema si trascina da sé in una via senza fondo. Le spese vorrebbero essere tutte ridotte. Ma ridurre non si sa, liberarsi non si vuole. Le classi politicamente dominanti non possono uccidere se stesse. Dove si arriverà? Quali avvenimenti? In che sboccherà la ribellione che ovunque serpeggia?»

Un fatto significativo: nei giorni 27-28 aprile ha luogo ad Ancona il Congresso Nazionale Socialista.

Ad esso i gruppi anarchici della città rivolgono il loro saluto con un manifesto pieno di fraterne espressioni ed invitante i socialisti a condurre a fondo la loro campagna contro il riformismo, già iniziata a Reggio Emilia. Il manifesto così concludeva: «Per la rivoluzione, contro la borghesia, contro lo Stato e più immediatamente contro la monarchia, voi ci avrete compagni». Malatesta, presente ad una seduta del Congresso, è invitato a portare il suo saluto e lo fa con appropriate parole. Tale la psicologia del momento.

Occorreva un punto ideale per unfascio di azione. Fu trovato nell'agitazione pro Augusto Masetti.

Credo si possa dire qui che i fatti nella storia pesano a seconda del peso atmosferico. L'attentato Masetti avrebbe colpito così la boria militarista e la guerra e non avrebbe così acceso l'animo del popolo se fosse accaduto qualche anno prima, o qualche anno dopo del tempo in cui avvenne.

Masetti era di San Giovanni in Persiceto, a poche miglia da Bologna. Era muratore, assiduo al lavoro, ottimo figlio di famiglia, e può dire che era bolognese per ragioni di lavoro. Era un richiamato per la guerra. Era un nostro amico e compagno. In una mattina di ottobre (1911) si trovava in assetto di partenza per l'Africa. Il colonnello Stroppa, in alta tenuta, comandava la colonna dei partenti. Fu attaccato dall'estro oratorio e stava esaltando la vita e la gloria militare, quando un soldatino che pensava a sua mamma e alle mamme dei suoi compagni, gli sparò contro una fucilata, che mandò all'aria la festa. Il colonnello venne gravemente ferito. Fu il petrolio sul fuoco dell'antitripolinismo, questo specialmente perché noi, gli anarchici, che pubblicavamo a Bologna due settimanali, uno teorico, «L'Agitatore», e uno antimilitarista specifico, lo dice il titolo: «Rompete le file», prendemmo la decisione di dedicare il numero settimanale dell'«Agitatore» all'atto di rivolta del Masetti, che sparando, aveva gridato: abbasso la guerra, viva la rivoluzione!

Parva favilla gran fiamma accende.

La campagna pro Masetti prese in breve tempo un'ampiezza imprevista. Furono mesi di attività e di preparazione intensa. L'Avanti! aderì e vi dedicava una rubrica quotidiana speciale. L'Unione Sindacale Italiana la secondava energicamente e al suo Congresso Nazionale di Milano (dicembre 1913) vi furono momenti di intensa commozione quando nella seduta inaugurale si inneggiò al soldato ribelle e ai nomi più cari al proletariato rivoluzionario. Ricordo che un evviva a Bresci, di Filippo Corridoni, fece scattare il congresso, che per alcuni minuti plaudì fra gli evviva.

Giolitti intuì la piega che stavano prendendo le cose e fece votare al suo parlamento il suffragio universale.

Si può dire che non vi fu piccola località di provincia senza il suo comitato pro Masetti. Si tennero migliaia di comizi in comune fra repubblicani, socialisti ed anarchici. Trovare uno sbocco vittorioso, tirare le somme di questa attività frammentaria, ecco quello che ci voleva e fu ad un comizio tenutosi in Ancona il 9 maggio del 1914 che questa necessità venne da me affacciata. Il comizio approvò una proposta Pelizza (che era il segretario della Camera del Lavoro locale, autonoma, cioè non aderente né alla Confederazione, né all'Unione Sindacale Italiana) in questo senso: nella prima domenica di giugno, destinata nelle sfere ufficiali alla festa dello Statuto, organizzare comizi e dimostrazioni contro il militarismo e per la liberazione del soldato Masetti che era stato trasferito in un manicomio per evitare il processo. La proposta doveva essere comunicata agli organi centrali di tutti i partiti e delle diverse forze sindacali che avevano solidarizzato con l'agitazione nostra, con l'impegno reciproco che, se una qualsiasi repressione si fosse verificata da parte della polizia, lo sciopero generale sarebbe stato proclamato concordemente con data indeterminata. Informate di questa decisione dalla Camera del Lavoro di Ancona, le centrali dei partiti e dei sindacati (ferrovieri compresi) risposero di accettarla.

La Confederazione del Lavoro dichiarò di rimettersi al partito socialista a cui si riconosceva vincolata nelle agitazioni di carattere politico. Era inteso che, sia per l'entrata nel movimento, sia per la dichiarazione di chiusura, essa rimetteva il tutto nelle mani del suo partito.

Gli anarchici a mezzo dei loro gruppi si posero all'opera di preparazione.

«Volontà» di Ancona così si esprimeva:

«La scelta della prima domenica di giugno per questa manifestazione non è dovuta ad una smargiassata. Essa vuole avere un alto significato simbolico, di affermazione contro il nazionalismo che da più di tre anni offende la dignità del popolo italiano e lo disonora, non lasciando passare occasione alcuna senza inscenare per le vie e per le piazze d'Italia le sue macabre dimostrazioni guerrafondaie, protetto dai poliziotti e dai gendarmi; mentre la guerra da essi esaltata, non da essi, restati a casa, fu pagata e sofferta sui campi di battaglia».

Dal canto suo l'USI lanciava un appello (opera certamente di Alceste De Ambris) che diceva: «L'USI intende affermare l'identità di pensiero e di azione con quanti si propongono di combattere contro tutte le forme di schiavitù politica che salvaguardano il privilegio capitalistico. La classe operaia non sarà libera che il giorno in cui – con la scomparsa delle classi – avrà debellato le ultime vestigia dello Stato borghese. Contro il militarismo che costituisce il mezzo più terribile di violenza e di prepotenza di cui ogni governo si vale per soffocare nel sangue le aspirazioni del proletariato, deve perciò levarsi la protesta e l'azione degli oppressi, nel nome stesso di coloro – figli eroici del lavoro – che nelle bolgie militaresche scontano – martirio su martirio – il delitto di non avere abdicato alla loro personalità umana e sovversiva».

Salandra, che sostituiva ora Giolitti, proibì tutte le riunioni pubbliche per il giorno dello Statuto, che cadeva nella domenica 7 giugno. In tal giorno le forze di polizia furono mobilitate nella misura propria del tempo, che ognuno sa di quanto fosse inferiore alla misura del dopoguerra. Il proletariato rispose con entusiasmo all'appello. Comizi e dimostrazioni si ebbero nelle più grandi città e nei piccoli centri. L'episodio tragico si ebbe in Ancona.

Ivi alla sortita del comizio tenutosi alla Villa Rosa, casa dei repubblicani a Capodimonte, la folla venne investita dalla polizia allo scopo di impedire una manifestazione nella città. La polizia fece uso delle armi. Tre giovani, un anarchico e due repubblicani (Casaccia Antonio, Giambrignoni Attilio, Budini Nello) caddero uccisi. Fu la scintilla. Ancona popolare insorse. La polizia si ritirò o venne dispersa. All'indomani lo sciopero generale era in atto in tutte le Marche e già si estendeva in Romagna. Al martedì lo sciopero era generale in Italia.

C'è qualche stratega di rivoluzione militarizzata che ha fatto più tardi dell'ironia su questa rivolta del 1914, allegando l'insufficienza di armamento e di inquadramento delle masse operaie in quella circostanza; ma si tratta in gran parte di gente che era assente dalla lotta e anche di gente assente perché contraria non già ai movimenti male armati, bensì a qualsiasi movimento rivoluzionario.

Comunque nei primi due giorni nelle Marche, nella Romagna e in gran parte dell'Emilia la folla si impadronì delle città e mise in iscacco, dove non evitarono la sortita, le forze del governo. Ravenna, Ancona, Forlì, Fabriano, Iesi, Parma, erano nelle mani della popolazione. Nel resto d'Italia il governo era assente.

Anche a Milano vi furono dei seri scontri tra forza pubblica e dimostranti. Mussolini e Corridoni alla testa dei dimostranti riuscirono a portarsi fino a piazza del Duomo. Salandra fece il morto, né si seppe di poi se avesse le sue buone ragioni per confidare nella Confederazione del Lavoro. Il movimento tendeva a diffondersi. Gli elementi più decisi del campo sovversivo si accordavano per le iniziative più ampie. Notizie allarmanti si diffondevano. Le folle saccheggiavano i magazzini, bloccavano le caserme, assaltavano gli uffici governativi, le stazioni ferroviarie, i posti di polizia, abbattevano i pali telegrafici, le insegne regie. In qualche città di Romagna veniva innalzato il classico albero della libertà.

«Nei luoghi dove il sentimento sovversivo è più diffuso, il popolo ha fraternizzato coi soldati. Ha dato loro da mangiare e da bere, ha comprato loro dei sigari, li ha applauditi, li ha invitati a non usare le armi».

«Le donne hanno chiamato i soldati figli del popolo e hanno fatto collette per i figli del popolo».

Nel ravennate un generale dell'esercito col suo seguito veniva catturato dai dimostranti. Fu il fatto più clamoroso della rivolta romagnola. Così ne riferiva il «Messaggero» di Roma. (E la versione non differisce molto da quanto me ne raccontarono gli autori stessi della cattura, coi quali mi trovai, dopo la Settimana Rossa, a passare insieme qualche mese nelle carceri di Bologna):

«La mattina alle 7, al Ponte Nuovo, che è sulla strada di Ravenna, alcune staffette del comitato di agitazione, che aveva l'incarico di impedire il passaggio a chiunque non era munito di regolare passaporto, fermavano due vetture: in esse si trovavano il generale Aliardi, comandante della brigata di Forlì, un capitano di corvetta, due maggiori di fanteria ed uno di artiglieria, i quali provenivano da Ravenna e si recavano lungo la spiaggia che è tra Cervia e Cesenatico per studiare un eventuale piano di sbarco.

«Essi erano in divisa e senza scorta. Le staffette, non ostante la viva opposizione del generale Aliardi, obbligarono le due vetture a ritornare verso Ravenna, senonché, alcuni contadini presenti alla scena si recarono nella vicina frazione di Savio per avvertire del passaggio degli ufficiali. I braccianti ed i contadini di quella frazione insieme ad altri delle frazioni di Castiglione e Cervia non appena comparvero le due vetture obbligarono gli ufficiali a scendere ed a riparare nei locali del partito repubblicano, previa consegna delle armi. Il generale Aliardi e gli altri ufficiali entrarono a parlamentare con i modesti operai di Villa Savio e, "pro bono pacis", si rassegnarono a consegnare le armi.

«Verso il pomeriggio giungeva la notizia che un drappello di cavalleggeri muoveva da Ravenna alla volta della frazione Savio per liberare gli ostaggi. Il generale Aliardi, avuto sentore di ciò e per evitare un incontro funesto fra soldati e popolazione, si impegnava sulla parola d'onore di andare incontro allo squadrone per impedire che proseguisse verso l'abitato. L'alto ufficiale solo, a piedi, sotto il sole fece due chilometri recandosi fino al ponte del Bevano, dove fermò lo squadrone ed attese, nella speranza che gli altri ufficiali potessero presto raggiungerlo. A questo punto abbiamo assistito ad uno spettacolo stranissimo: è stato improvvisato un comizio in piena regola sull'opportunità o meno di rilasciare gli ufficiali».

Il generale Aliardi non fu premiato, come qualche anno prima il suo collega Bava Beccaris. Aliardi fu collocato a riposo, per aver risparmiato una carneficina. Il re liberale, che doveva dieci anni dopo indossare la camicia nera, non poteva lasciare impunita una simile colpa!

Era l'ora dell'entrata in isciopero dei ferrovieri. Diamo i fatti cronologicamente: la mattina del giorno nove (martedì) viene comunicata ufficialmente la notizia che la Confederazione Generale del Lavoro ha proclamato lo sciopero generale in tutta Italia. «Il Comitato Esecutivo – diceva il comunicato confederale – diramerà a tempo l'ordine di cessazione. La Direzione del partito socialista alla sua volta annunciava che d'accordo con la Confederazione delibera di invitare la classe operaia a dichiarare per martedì nove giugno lo sciopero generale».

Richiesta dal Sindacato Ferrovieri se lo sciopero sarebbe stato ad oltranza, la Direzione del partito socialista così telegrafava, a firma Lazzari-Morgari: «Confermiamovi precedente proclamazione comunicandovi non esistere limitazione condizionata». Il Sindacato Ferrovieri non esita un istante. È l'artiglieria che entra in azione. Il suo dislocamento sarà meno rapido ma l'effetto più decisivo. La mattina del nove, mercoledì, lo sciopero generale ferroviario è in atto. Il regime passava un brusco quarto d'ora. Bonomi era stato profeta... La preparazione rivoluzionaria che egli aveva considerato come la sola logica, al polo opposto del suo tripolinismo, era stata compiuta. Se ne vedevano gli effetti. Le masse erano in campo. Al governo sarebbe costato molto il fronteggiarle. Ma qualcuno vegliava. Era stato detto che il «riformismo» significava economia di una rivoluzione. Bisognava dunque, per non tradire il riformismo, agire di conseguenza. Interrogare le coulisses parlamentari per sapere quale fu il tramestio da parte dei parlamentari riformisti, per decidere i capi confederali a mettersi attraverso il moto popolare, nel momento in cui si faceva più minaccioso, sarebbe uno stuzzicante argomento di curiosità storica... Fatto sta che il colpo d'ariete che i ferrovieri stavano dando al governo, la Confederazione lo dette ai ferrovieri e allo sciopero generale.

I fatti sono il famoso due e due quattro. A Milano dove la Confederazione aveva la sede centrale, i ferrovieri avevano approntata la loro preparazione, per entrare nel movimento al mercoledì dieci. Essi decidevano lo sciopero generale in un loro comizio verso le ore quattordici di questo giorno. Nello stesso giorno, dieci giugno, alle ore diciassette, era già nota a Milano la deliberazione confederale di dichiarare chiuso lo sciopero. Ad Ancona, dove il Sindacato Ferrovieri aveva la sede centrale, alle ore diciannove arrivava un telegramma così concepito: «Urgente T.P.A.S. (Telegramma per Agenzia Stefani) Segretario Confederale Generale Lavoro Rigola dirama circolare a tutte Camere del Lavoro Confederate per cessazione entro mezzanotte dello sciopero. Stefani» (Mi servo per tutti questi dati dei giornali d'ogni tendenza dell'epoca, più preciso di tutti «La Tribuna dei Ferrovieri», n. 175, del 26 giugno 1914).

È chiaro? La ritirata confederale veniva a coincidere con la entrata in lotta dei ferrovieri, perché: primo, l'ordine di sciopero, emanato da Ancona ai ferrovieri nel pomeriggio del martedì nove, non avrebbe potuto essere tradotto in fatto nei centri principali d'Italia se non nel pomeriggio del mercoledì, dieci; secondo, il contrordine che la Confederazione veniva a dare col suo telegramma del pomeriggio del mercoledì, anche se fissava per la mezzanotte la cessazione dello sciopero, in realtà stroncava il movimento dal primo minuto della sua comunicazione telegrafica all'agenzia del governo.

È forse più facile immaginare che descrivere lo scompiglio che ne seguì nello spirito delle masse. Quando l'automobile da Bologna recò «Il Secolo» con la deliberazione della Confederazione e del partito socialista fu uno scoppio di rabbia, di indignazione. Nessuno voleva credervi, le fantasie erano così accese che si diceva trattarsi di un trucco! Le copie furono bruciate in grandi falò fino a Rimini.

In tutta Italia il movimento resistette. Anzi in qualche città prese nuova estensione. Però la ferita faceva sangue. Lo sciopero dei ferrovieri ebbe un onorevole successo, ma, coincidendo con la ritirata confederale, non restava che un bel gesto.

In su le prime l'ordine confederale di ritirata, scriveva «La Tribuna dei Ferrovieri», fu creduto un trucco governativo, ma ben presto i giornali dettero la conferma della cosa ed i fiduciari confederali alla loro volta ne ebbero una indubbia conferma.

«Un ordine come quello della Confederazione – scriveva il citato organo sindacale – genera sempre lo sconforto e la confusione anche quando non si è disposti ad accettarlo. Basta che una Camera del Lavoro vi si uniformi perchè le organizzazioni vicine facciano altrettanto. Nelle stesse plaghe dove lo sciopero potrebbe continuare c'è sempre qualche sezione o gruppo che torna al lavoro, rompendo la compagine locale. Chi ritorna al lavoro non reca più seco la taccia di crumiraggio. La mancanza di notizie esatte alimenta il dubbio che le plaghe lontane abbiano risposto obbedisco».

Tale divenne la situazione nel volger delle ore. Quelli di noi che si ostinano a non voler concepire il dato della coscienza operaia se non nel senso astratto, potranno ripeterci il ritornello che, se il proletariato fosse stato veramente cosciente avrebbe proceduto nella sua lotta in barba alla Confederazione. Terra a terra la risposta è questa: portate tutte le idee e tutte le parole di cui vi servite alla loro espressione assoluta e non avrete mai torto perché non avrete mai ragione. Il proletariato non era allora, non divenne dopo e non sarà mai cosciente al di sopra di tutto. Il proletariato raggiunge in certi momenti (e questo del 1914 era uno dei buoni) una media di coscienza dovuta all'influenza esteriore dei bisogni proprii, in ragione del disquilibrio sociale delle pressioni nemiche e della nostra chiamiamola pure sobillazione. Tocca ai rivoluzionari più avvertiti e coscienti, che sono quelli per i quali la coscienza è da sola o dovrebbe essere un bisogno di lotta e di rinnovamento; tocca ad essi di saper ricavare, dall'incontro del dislivello tra la media della coscienza popolare e lo sviluppo della evoluzione sociale, gli elementi di forza per una rivoluzione.

Ma non divaghiamo.

Ripetiamo che l'indignazione per l'ordine di ritirata confederale fu sconvolgente nelle masse. Vi furono delle località dove il messo confederale non osò presentarsi alle assemblee operaie.

«Voi – scriveva D'Aragona (dal Monitore Confederale del 1° luglio 1914) – dovete per un momento pensare la triste sorte che ci è toccata; non potevamo girare per le vie di Milano senza essere accolti da fischi; ci chiamavano venduti, traditori e questo non era detto dai sindacalisti – del che non mi potrei sdegnare – ma dai socialisti che ci conoscono».

Incuneata nella falla aperta dalla Confederazione, la reazione governativa nazionalista si fece di nuovo arrogante. Si rispolverarono i vecchi luoghi comuni della rettorica sanfedista; si parlò di oro austriaco posseduto da Malatesta, di complotto anti-italiano; si contorsero gli episodi per diffamare i moti, come di teppa vermicolante dai bassifondi e dai lupanari. Si parlò di politicanti interessati a pescare nel torbido. Si batté e si ribatté per alcune settimane, mentre si preparavano manette e mandati di cattura per centinaia di proletari e di rivoluzionari. Tutto ciò che puzzava di novantotto sbucava fuori e si esibiva per il «novantottismo».

Il Sindacato Ferrovieri deliberava la fine dello sciopero la notte del dodici. La Romagna tornava al lavoro. Cervia restituiva il generale catturato. Malatesta, fallito ed esaurito il movimento, riparava di nuovo a Londra. I ferrovieri erano quelli dei treni in ritardo. Mussolini dall'Avanti! saettava contro Salandra, accusava di fellonia la Confederazione del Lavoro e plaudiva ai ferrovieri e prometteva una rivincita. Aggiungeva l'apologia della santa canaglia...

«Sarebbe in vero facile – scriveva il Rabagas – comodo ed igienico lasciarsi alle spalle una porticina aperta: accettare ad esempio ciò che è opera del proletariato e respingere ciò che è opera della «teppa». Ma è assurdo il distinguere.

«E – del resto – quale abuso di questa parola teppa! Parola antica. È probabile che fossero chiamati teppisti anche gli schiavi che si ritirarono sull'Aventino. Certo col nome di teppisti furono indicati i primi cristiani. Durante la rivoluzione francese gli uomini e le donne del quattordici luglio, del cinque ottobre, del dieci agosto, del settembre, furono vituperati come assassini e predoni. E che cosa erano durante il risorgimento i patriotti per i benpensanti? Delle canaglie.

«Lo ripetiamo con tranquillità: dell'ultimo sciopero generale noi accettiamo il buono ed il cattivo: il proletariato e la teppa: la legalità e l'extra legalità: la protesta e l'insurrezione»...

La monarchia era salva. Il socialismo si apprestava alle realizzazioni legali e pacifiche, attraverso il suffragio universale.

L'ora delle violenze doveva essere finita e per sempre! La società in regime democratico doveva svolgersi fra i candidi lini della legalità, senza che una goccia sola di sangue venisse a macchiarle.

Era infatti quasi profetico...

Giugno, luglio, agosto... Quattro agosto...

Il cozzo armato dei popoli. Un abisso di sangue tra il passato e l'avvenire.

La guerra. Nuove coalizioni, nuove scissioni. Illusioni, errori, superstiti pregiudizi, malinteso patriottismo e malinteso internazionalismo, smania di avventure, cabale di governi e calcoli di partiti, eroismi sciupati e predestinati al tradimento, cupidigia di arrivisti e di barattieri officianti sull'altare della patria, venalità, rapacità, menzogna, istrionismo.

Tutto questo precipitato di bene e di male, di virtù e di vizi, di bassezze e di nobiltà, doveva impadronirsi delle lotte politiche, portando all'ennesima potenza le passioni e le cattive passioni ed accampando in direzioni opposte e via via nemiche coloro che si erano battuti per la medesima causa poco tempo innanzi.

La monarchia si metteva a capo della nazione per la guerra liberatrice. Salandra poté nel Natale del 1914 far... partorire la regina per trarre motivo di un gesto politico: l'amnistia famosa che passò al bucato tutti i reati per i fatti della Settimana Rossa, senza eccezione che per «-coloro che avessero riportato altre condanne per associazione a delinquere».

Malatesta era ben individuato in questa eccezione; egli che non aveva detto da Londra una sola parola contro le nostre vecchie idee sulla guerra e che anzi aveva già protestato contro le deviazioni «interventiste».

Le carceri si vuotarono di centinaia di giovani «teppisti» imputati per i fatti di giugno. I teppisti erano necessari alla patria!

Era già l'amnistia della guerra.

Non si offre la sigaretta e il cordiale al condannato che si avvia al patibolo?

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