5 La tempesta bellica

Mistificati e mistificatori nella guerra – Ciò che ci distingueva dai socialisti di Stato – Il germe del fascismo – Il pathos imperialista nel guerraiolismo italiano – I repubblicani toccano con mano – Contro «chi» la guerra scatena la rivoluzione – Concordia rossa tra i contrari alla guerra – Gli estremisti socialisti anarcheggiano – Il muro e la siepe di Zibordi – Da Federico Adler alla rivoluzione russa.

La guerra è storia lontanissima. Ma noi non potremo passar oltre senza intrattenerci su questo argomento, anche se ci urge arrivare agli avvenimenti più vicini.

Sarà questa una istantanea panoramica, presa dalle nuove posizioni in cui gli avvenimenti reazionari ci hanno sbalzati.

La lotta si apre a questo punto tra noi. Quante amicizie intessute, quanta fraternità cementata nella comunità della prigione, venne pestata a sangue in quei giorni per stramazzare ai piedi del militarismo.

Primo tempo: neutralismo. Beninteso (almeno per noi) neutralismo imposto al governo, non neutralismo nostro verso il governo e verso la politica internazionale del proletariato. Erano accluse in questa attitudine due aspirazioni: quella dell'internazionalismo nemico della guerra in genere, e quella di una certa democrazia, legata alla Francia. Vi era incluso, per soprassello, una pedata ai barbassòri del nazionalismo, genuflessi davanti alla Triplice. Tanto meglio! L'essenziale per noi era di non lasciare ipnotizzare tanti giovani dai pennivendoli intenti a far bottino sulla menzogna del militarismo che meglio pagava.

Le nostre idealità non dovevano perire tra lo sghignazzo del nazionalismo. O erano buone e la loro verità l'avrebbe vista anche il cieco; o erano infondate e allora si trattava non di collocarle a riposo, ma di annullarle per sempre. Nelle idee non vi sono moratorie.

«Egli è facile – scriveva il Pisacane, a proposito di guerre regie – in simili momenti gridare di concordia, arrestandosi alle fallaci apparenze del caso, senza discernerne i veri rapporti, ma nella pratica poi si veggono sorgere gli ostacoli che generano disordini, codardia, illusioni, disfatte». E più oltre: «Il credere che la libertà debba seguire l'indipendenza è funestissimo errore, è quello che nel 1848 ci ricacciò nella schiavitù».

Noi non avevamo nulla da imparare e nulla da chiedere al marxismo dominante nei socialisti. La nostra concezione sull'internazionalismo si era già fortemente urtata con quella marxista sin dalla prima Internazionale. Il nostro antagonismo sull'idea di Stato si ripercuoteva sul concetto di patria e di Internazionale in modo assorbente. La loro accettazione dello Stato li concilia, se riformisti, con gli Stati borghesi; se rivoluzionari li porta ad una inversione del concetto territoriale, con la soppressione del fatto località, che è Regione, che è Provincia, che è una serie di entità geografiche, commiste a singolarità etniche, che lo Stato già soffoca nella sua unità tirannica che chiama nazione, mentre il loro internazionalismo dovrebbe soffocarle in un imperialismo marxista. La loro concezione del materialismo storico li portava a riconoscere sovente la legittimità dell'espansionismo capitalistico nelle terre meno progredite da parte degli Stati a capitalismo più sviluppato e per questo fatto stesso del loro maggiore sviluppo senza mettere in conto i problemi della libertà e dell'autonomia dei popoli conquistati, sicché i moti dell'Irlanda, delle Indie, oppresse dall'Inghilterra, ecc. non sarebbero stati per essi che moti reazionari. È noto come una delle ragioni di un certo antileninismo di Serrati nel 1920, al suo ritorno dalla Russia, fu che, secondo lui, la Terza Internazionale tendeva a una politica di sostegno dei popoli ribelli all'imperialismo inglese. Ciò non era abbastanza marxista per Serrati e può darsi che lo stesso Lenin lo credesse. Ma Lenin era già un capo di Stato, quindi nemico di tutte le autonomie reclamate verso il proprio Stato e amico delle ribellioni contro gli Stati che gli erano nemici.

Noi dunque non avevamo nulla da chiedere alla dottrina del socialismo autoritario. Avevamo in Bacunin un maestro che si accordava singolarmente col Pisacane: «La sola libertà, dice il nostro... patriota, può risolvere il complicato problema. Reso libero e indipendente ogni Comune avrà il solo obbligo che gli viene imposto dalla necessità di conservare l'acquistata libertà e indipendenza di concorrere con tutti i mezzi a liberare l'Italia dai nemici esterni». Il che si accordava con queste altre parole del suo testamento politico:

«...per me non farei il menomo sacrificio per cangiare un ministro per ottenere una costituzione, nemmeno per cacciare gli austriaci dalla Lombardia e accrescere il Regno Sardo: per me dominio di Casa Savoia o dominio di Casa d'Austria è precisamente lo stesso».

Esattamente l'attitudine assunta da Bacunin nel 1870 di fronte all'invasione prussiana della Francia: salvare la libertà del popolo con la insurrezione, esautorare lo Stato ed affidare ai Comuni insorti la difesa del territorio. Tanto insomma quanto è necessario per essere contro la guerra in quanto impresa di oligarchie dominanti e per essere per la difesa del territorio in quanto si tratti di territorio di libertà; per essere contro il patriottismo in quanto legame di accettata schiavitù degli oppressi; ma per il patriottismo in quanto necessità di combattere per la libertà del nostro paese e contro gli oppressori nostri immediati, che sono naturalmente quelli del paese dove viviamo, non importa quale sia la loro origine e la lingua che parlano; per essere per l'Internazionale, in quanto repulsa ai meschini esclusivismi del patriottismo unilateralizzante il bene ed il male a seconda della geografia mobile, mutevole e trafficata dagli Stati.

Non dimenticammo nelle polemiche del tempo che la parte degli interventisti che più poteva comprenderci erano i repubblicani. Riconfermiamo che anche per i repubblicani c'erano tante vie ed essi scelsero la peggiore. Essi che avevano nella loro tradizione abbastanza giudizio critico e dottrina e dolorose delusioni vissute dai loro maggiori per dedurre tutti gli ammaestramenti che ponevano noi contro la guerra. Ma la questione fu allora riguardata dai repubblicani e dai democratici dal punto di vista... internazionale della situazione francese. Oggi la risposta la danno gli stessi democratici francesi, nonché tutti i sovversivi dello stesso paese che furono per la guerra... democratica, i quali, tutti, sono oggi costretti a riconoscere – persino Marcel Cachin! – che essa ha servito per un'altra Francia che non era la Francia democratica (sia pure dal punto di vista borghese) abbenché parli anch'essa dell''89, così come in Russia si parlerà ancora di qui a cinquant'anni della rivoluzione dei soviet, da parte di coloro che opprimeranno il popolo russo. Non c'è oggi in Francia, non dico un socialista, ma nemmeno un democratico pacifista borghese che non sia disposto ad ammettere che la guerra segnò il prevalere delle forze imperialiste francesi, portanti da anni la loro parte di materia infiammabile nella mina che minacciava la pace del mondo. E se non fosse così dovrebbero mettersi in linea con la politica di Daudet, il solo che ha sempre fatto propria la logica su cui deragliò (e ragliò) Mussolini, che cioè, per non essere disfattisti, la guerra non bisogna subirla quando capita, ma bisogna volerla come principio.

Non c'è nulla in tutto questo nostro pensiero del senno del poi. Non ci sarebbe alcun male se così fosse, ma così non è. Ci teniamo a metterlo in evidenza, non per soddisfare ambizioni profetiche ma per appoggiare con documentazioni quale esattamente fu la nostra posizione di allora. Scrivevamo allora:

«...Ma noi crediamo ancora che le idee nostre ci possono dare il diritto consiglio, tra le ingannevoli apparenze dell'ora che passa.

«Le nostre idee rappresentano una somma di accertamenti che l'umanità ha compiuto lungo il suo cammino di sangue e di martirio. Esse sono dei fatti parlanti, che parlarono in passato con la voce stessa di martiri illusi ed ingannati, di folle tradite, di grandi sogni delusi, di speranze cadute nel vuoto, di imprese liberatrici fallite, perché prive di base e di direzione e di esatta conoscenza della storia sociale, dell'umana natura e della via da seguire. In esse sono accumulate le delusioni delle scuole politiche ignoranti la terribile legge dello sfruttamento capitalista, quelle dei patrioti dell'era veramente eroica che non si riproduce, i quali si batterono per nuovi padroni perdendo ottime occasioni per liberarsi di tutti. E quelle stesse dei generosi repubblicani delle generazioni trascorse, che nessuno venera più di noi per la loro spiritualità ribelle e per quella costanza di rettitudine ideale, che non avrebbe certo reso tanto facile in essi il motteggio e lo scherno contro le loro formule ideali».

Vani sforzi polemici.

Ben presto l'atmosfera divenne così arroventata, così appestata di menzogne, così pregna di alcool guerriero, che il richiamo alla fredda analisi delle idee sembrava freddo calcolo di impietrite coscienze insensibili alla tragica situazione. Recatomi in Germania nel 1923, quando l'imperialismo francese, dopo avere travolto l'Impero ed il Kaiser che diceva essere i suoi soli nemici, inferociva con la occupazione della Ruhr sul popolo tedesco straziato dalla più nera miseria, dalla fame e dalla carestia, notai che a voler seguire il cosiddetto sentimento a cui fanno appello le classi dominanti in tali frangenti bellici, a voler seguire il principio della solidarietà per i popoli oppressi applicato alla guerra, si sarebbe potuto trovare nell'arsenale rettorico dei «fratelli latini» del 1914, abbondante argomento per invocare in nome degli uomini e di... dio – del dio protestante questa volta, col permesso dell'Inghilterra – la guerra alla Francia, sempre con l'intento onestissimo non già di volere – ohibò! – schiacciare la Francia, ma per liberarla dalla tirannide del suo governo. Il resto si sarebbe visto, come sempre, a vittoria ottenuta! L'hitlerismo trovò non poco alimento da questa situazione per peggiorarla!

La macchina del pervertimento politico saliva di pressione e ben presto molti, che appena ricordavano di dove erano partiti, dovevano ignorare essi stessi dove arrivavano.

Si domandava la guerra a nome della rivoluzione, dei diritti dell'uomo, del socialismo... latino, della fine del militarismo. La guerra insomma prendeva il posto del socialismo, della Comune, della repubblica, dell'anarchia... Quante menzogne! Quante trappole sentimentali, quante calunnie, quanto denaro, quanti ricatti, quante inversioni della cronaca, della storia, quanta confusione da quel giorno!

Le parole non servivano più alle idee. Si ricorreva indifferentemente a Marx, a Sorel, a Bakunin, a Proudhon, a Oriani, a Crispi, a Garibaldi, a Mazzini, a Cattaneo, a tutti insieme anche, poiché si scoprì in quei giorni che quella era un'ora di liquidazione in cui la monogamia delle idee non poteva che violentare la vita, nel breve capestro di una formula.

Si parlò del popolo padrone di sé il giorno in cui il re gli avrebbe posto in mano le armi. «Chi ha del ferro ha del pane», era il motto che campeggiava sul giornale miracolosamente nato in una notte dal mercato dell'ex direttore dell'Avanti!. Che cosa non avrebbe fatto il popolo di ritorno dalla guerra?

Qual volontà avrebbe potuto opporsi alla sua?

Quali diritti gli sarebbero stati negati?

Tutti i partiti, tutte le organizzazioni ebbero i loro transfughi, i loro ingenui onesti ed i loro traditori.

Ed è là che fu sparso il germe di quel fascismo che diventerà più tardi il Fra Diavolo della vandea padronale e agraria, priva di iniziativa ma armata di odio cieco e feroce, di un odio che era nato col primo sciopero, col primo ufficio di collocamento, con la prima tariffa, col primo scatto di dignità umana da parte di coloro che avevano sempre e solo servito ubbidendo e ubbidito servendo.

Il movimento rivoluzionario fu ébranlé nell'ora stessa in cui doveva dimostrare la sua solidità e la sua compattezza.

I sovversivi di guerra fecero di ogni erba un... fascio ed i peggiori ferrivecchi delle consorterie monarchiche e nazionaliste furono della partita.

Il proletariato incominciò allora la sua battaglia contro il fascismo e bisogna riconoscere che seppe resistere e che tutti coloro che lo aiutarono a resistere compirono in quel momento opera bella e santa. Peggio per essi se dopo non seppero mostrarsene degni quando, finita la guerra, bisognava cominciare ad intervenire sul serio, nel senso nostro!

Non si può negare, e non c'è nessuna ragione per tacere, che il costume fascista ebbe la sua origine in questo momento. Lo spionaggio, la provocazione, le denunce, l'invocazione alla repressione, la protesta contro la troppa libertà dei ministeri che si succedevano, l'irrisione sfacciata alla stupidità della coerenza, la fabbrica dei gregari col reclutamento di quanti volevano riabilitarsi attraverso il guerraiolismo, l'ostentazione del festino comune tra quei che erano alla vigilia divisi in vittime ed oppressori, tutto ciò era già una anticipazione di quella Italia imperiale che oggi da Roma riabilita la memoria di Crispi, di Umberto e di Cesare Borgia!

Vi erano certamente fra i seguaci di questo fascismo iniziale degli ingenui i quali sognavano ad occhi aperti e si illudevano di poter riformare la storia, ricominciandola daccapo per inaugurare l'Era dei re che fanno le repubbliche e delle repubbliche capitaliste che instaurano l'eguaglianza sociale...

Sarebbe difficile, e non interessa molto alla nostra analisi, di stabilire fino a qual punto certi paradossi brillanti furono impiegati per ingannare o avevano finito per ingannare i loro stessi propagatori.

Mussolini nel suo primo discorso alla Camera, dopo la marcia su Roma, ha ricordato questa logica successione genealogica tra il fascismo in camicia nera del 1922 e quello in berretto frigio del 1914-15 allorché in effetti ebbe luogo la prima marcia su Roma, per imporre la guerra al ministero Salandra.

L'interventismo di guerra era una anticipazione sulla reazione del dopo guerra. La guerra avrebbe certamente aumentato le sofferenze delle masse operaie, avrebbe accumulato delle rovine inaudite, avrebbe esasperato la volontà di rivolta degli schiavi del capitale, avrebbe sviluppato le attitudini delle masse alla violenza. Tutto ciò era vero come ci avevano assicurato, ma era vero altresì che il grande macello avrebbe resuscitato dagli abissi del passato le tenebrose potenze del male, che ingigantiscono sempre al seguito di questi spaventosi cataclismi.

Il fascismo era predestinato, in ragione delle cause stesse che lo producevano, a non potere adattarsi ad una psicologia di pace. Esso si inibiva, pena il suicidio politico, di poter considerare in avvenire la guerra come un accidente momentaneo. Era legato alla guerra ed era predestinato a fondare su di essa e sul suo perpetuarsi in spirito le sue fortune politiche del domani e quindi (purgato dai delusi, dai sinceri ed opportunisti) esplorare tutte le vie della reazione che si accompagnano alla megalomania imperialista.

Stabilito questo carattere intrinseco proprio dell'interventismo mussoliniano, ci corre obbligo di mettere in chiaro la diversa posizione fra esso e quello che era ritenuto erroneamente il suo equivalente patriottico in Francia e negli altri paesi dove la guerra era scoppiata dalla sera al mattino. Nel caso degli altri paesi avemmo una attitudine, che qui non intendiamo esaminare, di masse, di collettività nazionale. Fu una diserzione o uno smarrimento o un rinsavimento, come si vuole, a seconda del punto di vista politico di chi giudica, ma si trattò in ogni caso di un tutt'uno come baleno e tuono.

Da noi non ci fu che il partito repubblicano che si trovasse di fronte al problema dell'intervento nella posizione, diremo così, di esecutore testamentario. Posizione più o meno discussa da una minoranza degli stessi repubblicani – e per noi assai discutibile – ma che toglieva di per se stessa all'attitudine di quel partito le causali amorali che infuocavano i diversi transfughi dell'internazionalismo italiano.

Negli altri partiti si trattò di fenomeni di diserzione personale.

È stato notato come i primi a sollevare delle questioni di scrupoli morali subito dopo la guerra, a proposito di chi finanziava il fascismo, che stamburava ancora nel 1919 il programma rivoluzionario, furono proprio dei repubblicani, i quali, fin d'allora avevano fatto blocco con Mussolini. Mario Bergamo ha messo più volte in evidenza questo fatto nelle sue polemiche col fascismo.

«Noi ricordiamo – egli scrive – certi capi fascisti renitenti di leva; li ricordiamo socialisti di sinistra, internazionalisti di sette cotte, nemici dei massoni e dei destri, padri di quel gretto spirito di intransigenza che tanto distingue adesso molti socialisti; li ricordiamo neutralisti decisi e improvvisamente interventisti, quindi dobbiamo ai loro atti dare valore molto relativo, e vedere se i successi di certo fascismo non siano soltanto successi dell'opportunismo o della reazione deprecata e odiata a parole, ma aiutata in tutto il paese coi fatti».

E diciamo questo non per fare della ironia polemica, rancida più che mai col tempo ed i fatti che sono passati ma per riesprimere quelle che realmente furono le nostre sensazioni di dolore, nel vedere nel 1914-15, degli idealisti onesti come la gran parte dei repubblicani, imbarcarsi in una impresa equivoca con una ciurma di filibustieri.

Fatto significativo è il seguente: che i primi fra i repubblicani a prendere posizione contro il fascismo furono precisamente quei giovani delle terre non più... irredente della Venezia Giulia.

Ora un tal fatto sta a conferma di quanto noi sosteniamo, che cioè dove più l'interventismo derivò, schietto, sia pure da un errore, ma da un errore logico, di dottrina e di un partito, dove non fu il prodotto di una degenerazione politica e di un pervertimento individuale, seppe accorgersi in tempo della purulenza del fascismo.

Questi giovani che nella lotta con le polizie imperiali avevano temprato l'animo alle lotte per la libertà, che essi erroneamente identificavano con una questione di annessione territoriale alla monarchia italiana, delusi nel loro sogno, riprendevano la loro battaglia contro i tiranni di dentro.

Non diversamente successe dopo le guerre dell'indipendenza? I primi internazionalisti furono i garibaldini!

Dopo il maggio radioso, la guerra.

Abbiamo già detto che noi restammo noi stessi, sia di fronte ai guerraioli... ultrarivoluzionati, sia di fronte ai socialisti il cui neutralismo com'è naturale lo derivavano dalle loro e non dalle nostre idee, così come ciascuna tendenza, anche fra di essi, la coloriva delle proprie sfumature particolari.

Si può dire che era tutta la controversia di idee già dibattuta nei congressi della prima e della seconda Internazionale che ci veniva rappresentata sotto l'aspetto della più tragica realtà. La guerra era là e ci interrogava con occhi di sangue. Quale l'attitudine per dei rivoluzionari e per degli internazionalisti? Quali gli errori commessi dai sovversivi dei paesi intervenuti? Quale la lezione per gli altri e per l'avvenire?

Far coincidere l'insurrezione alla guerra, mentre quest'ultima esaspera tutte le passioni morbose, accende tutti gli odii, e annullando ogni valore della vita, autorizza ed assolve tutti i massacri della libertà e degli uomini? È la storia, un po' meno gaia, di chi spera acchiappare il passero non appena sia riuscito a mettergli il proverbiale grano di sale sulla coda.

Vi era per noi un precedente relativamente recente: la condotta seguita dagli internazionalisti di Francia e di Germania di fronte alla guerra del 1870. L'Internazionale aveva accolto la guerra come un navigatore accoglie una tempesta o un naufragio.

Quando la sorte delle armi versò contraria al terzo Napoleone, i rivoluzionari francesi, complici, secondo la logica imperialista, della disfatta; i rivoluzionari francesi, che non si erano caricata sulle spalle la responsabilità della guerra, poterono a maggior ragione insorgere, rovesciando l'Impero e, a rivoluzione compiuta, fare della difesa territoriale un'arma di lotta contro la borghesia, più ligia e più vicina a Bismarck che alla libertà e alla emancipazione del popolo francese.

Domando permesso di tornare su cosa già accennata: mi riferisco alla situazione tutta particolare dell'Italia, per la quale situazione, così come sarebbe una cantonata confondere il fascismo con la reazione, intesa nel senso classico, sia pure la reazione più feroce, altrettanto si cadrebbe in errore massiccio a voler confondere quello che fu da noi il martellamento di una diecina di mesi per fabbricare una dottrina che ci fabbricasse una guerra, e la posizione di quei proletari di altri paesi che si trovarono a veder coincidere la guerra con la loro ultima maledizione contro di essa e con la loro estrema invocazione alla pace, e che si trovarono, per così dire, inghiottiti da essa nell'atto stesso in cui si dimenavano nella loro ultima protesta. Si potrà ammettere, se si vuole, e si deve anzi ammettere dal punto di vista della famosa gloria imperialista, che la posizione scelta dal guerraiolismo italiano fu maggiormente eroica, facendo astrazione, ben s'intende, dall'eroismo rettorico della gran massa degli infiammati conferenzieri di guerra. Sta di fatto che, rimanendo avvolti nella fantasmagoria interventista, noi vedremmo un popolo il quale, mentre tutti, re governanti ministri imperatori, si affannano a levare in alto le mani singhiozzando ciascuno: non io l'ho voluta e chiamando a testimone... oculare della loro innocenza ciascuno un dio diverso, esso, il popolo italiano solo in tutto il mondo, dichiarerebbe per bocca di Mussolini: questa guerra io l'ho voluta, io mi rifiuto di rimpiangerla come una sciagura, è creatura mia di fronte alla quale mi esalto o mi prostro. Prostratevi!

Noi non dobbiamo esaminare qui per esteso il fenomeno guerra, perciò ci asteniamo dal portare la nostra indagine su quel che di erroneo vi fu, secondo noi, anche nell'attitudine di chi, subendo la guerra, volle teorizzare, e in senso favorevole, la forza maggiore di un simile fatto. Ci basta di aver stabilito, e insisteremo ancora, il dislivello esistente fra l'interventismo italiano e quello di qualsiasi altro paese. Chi aveva voluto poter dire: la guerra è opera del mio genio creativo, era ben giusto ed inevitabile che facesse della guerra e delle sue conseguenze il centro di gravità della sua politica. È questa la logica del fascismo.

Il punto tipico della contraddizione fra la situazione italiana e quella di altri paesi lo abbiamo nel fatto che gli uomini della tendenza Turati in Italia erano considerati fior di disfattisti, essi che non erano divisi da nessuna antitesi di dottrina dai Vanderweld, dai Cachin, dai Plekanoff e compagni, accettanti tutti di sacrificare l'Internazionale alla tagliola della guerra... difensiva, giusto i deliberanti della Seconda Internazionale.

Infatti a eguale situazione eguale atteggiamento. La guerra italiana incominciava ad assomigliare un po' a quella degli altri paesi nell'ottobre del 1917, in seguito alla disfatta di Caporetto e fu in questa circostanza che Filippo Turati pronunciò alla Camera un discorso pieno di ardore patriottico che il governo si affrettò a diffondere a milioni di copie fra i soldati del fronte.

La Confederazione del Lavoro seguì esattamente la stessa linea politica. «Possiamo filosofeggiare finché vogliamo, respingere ogni e qualunque solidarietà con coloro che l'hanno voluta – scriveva il Bollettino Confederale, organo della Confederazione del Lavoro – quando il nemico calpesta il nostro suolo abbiamo un sol dovere: quello di resistere». Faceva eco a questi appelli il Municipio socialista di Milano, raccomandando la «calma serena» dei forti che non si ubbriacano nella fortuna né si avviliscono per i meno prosperi eventi. A rigor di logica si vede adunque che era piuttosto nel neutralismo dei socialriformisti italiani che era racchiuso l'equivalente teorico della politica dei socialisti guerraioli degli altri paesi. Ad ogni modo i nostri socialisti erano ben lungi dal punto di vista internazionale dei loro confratelli dissidentisti: i bolscevichi di Russia di quel tempo.

Come abbiamo più volte detto, Unione Sindacale Italiana e anarchici avevano su questo punto la stessa orientazione. Ecco una dichiarazione dell'U.S.I. ben chiara:

«L'U.S.I. considera qualsiasi guerra, comunque venga giustificata dai governi, comunque venga presentata ai popoli, qualunque siano i risultati suoi e le sue vicende iniziali e conclusive, come un affare di Stato che riguarda esclusivamente lo Stato e la cui responsabilità deve appartenere allo Stato. Condanna per conseguenza ogni alleanza del proletariato con lo Stato (quando anche abbia per pretesto di conseguire l'indipendenza di un popolo oppresso) come causa di defezione o di tradimento alla causa rivoluzionaria.

«Al contrario e logicamente essa proclamerà con tutte le sue forze le sue simpatie per ogni insurrezione di popolo tendente a liberare un territorio dalla oppressione e dalla invasione, nel nome della redenzione economica e politica della classe operaia».

Un altro fatto che verrà a chiarire qualcosa: il processo Malvy nel 1918 in Francia. Si vide in quel processo un fatto di persecuzione analogo alla caccia a Caillaux da parte dei realisti contro i democratici. Si considerò il ministro Malvy come un martire della democrazia. Ebbene, una rivista italiana dell'interventismo più rosso, diretta da Alceste De Ambris e onorata dalla collaborazione di tutta l'équipe mussoliniana fino a Nicola Bonservizi, scriveva del processo Malvy questo commento radicalmente contrastante con l'opinione democratica francese: «Il processo dell'ex ministro non fu il processo ad un uomo, ma a tutta la democrazia francese ed ai sistemi di governo che rappresentano la più grave degenerazione del principio democratico. A questi sistemi di governo la Francia era giunta in lunghi anni di pace, attraverso concessioni, adattamenti, compromessi e viltà che la ognor più complessa rete di rapporti politici ed economici aveva reso possibili e talvolta necessari tra governo e partiti, tra uomini politici e fazioni, tra giornali e ministri, tra ministri e organizzazioni operaie». Voi sentite già in queste parole il tentativo di applicare la diagnosi soreliana alla prognosi corradiniana, tentativo che sul terreno letterario filosofico già era stato compiuto dagli Orano e compagni. Guidato dalla preoccupazione polemica, il nostro autore continua: «In Italia, fortunatamente, il ministro degli interni ebbe il coraggio di troncare una situazione pericolosa e scandalosa, licenziando i funzionari complici dei sabotatori della guerra e di iniziare una politica più vigile e severa. Nessun italiano osa dire per questo reazionaria la politica di Orlando, che se ha un difetto è quello di essere ancora rispettosa del pregiudizio della libertà: "Vi può essere dunque una politica democratica di guerra anche senza tenerezza per i sabotatori della guerra e per i traditori della patria". L'articolo conclude: «Noi crediamo che la condanna di Malvy avrà eco favorevole tra i soldati di Francia».

Questa parificazione di tutti i proletari e i sovversivi nemici della guerra sotto il marchio della stessa infamia e la minaccia ogni giorno più di toglier loro ogni resto di libertà, dava inevitabilmente luogo ad una fraternizzazione, fin verso il 1917, tra anarchici e socialisti del partito. Il partito era ora nelle mani dei mussoliniani senza Mussolini. Il senso critico delle masse si raffinava. La ressa e la rissa polemica coi socialisti di guerra, abili, scaltri e pronti a tutti gli accorgimenti del paradosso e della dialettica, obbligava ciascuno a guardare bene in fondo alle cose. Talvolta nella furia di menar colpi e di difendersi i socialisti estremisti erano spinti a cercare un riparo al nostro fianco. L'Avanti! arieggiava a spregiudicatissimo. Mussolini cercò mettere gli anarchici contro Serrati ripescando i ricordi di una polemica antica tra Luigi Galleani e Serrati in America, ma gli anarchici seguirono i consigli della lealtà ed ignorarono – lo stesso Galleani ignorò – il tentato adescamento del paranoico di Predappio.

In realtà si creò allora una corrente di grande simpatia e di collaborazione spontanea nella lotta contro la reazione militarista tra socialisti e anarchici, inclusi gli elementi dell'U.S.I. e del Sindacato Ferrovieri. Tutte le idee che non avevano subìto il trauma di guerra marciavano in avanti. Henry Barbusse era sceso all'inferno per mostrarcelo meglio che Dante al suo tempo.

Naturalmente il partito socialista, essendo più in grado di farsi conoscere per la cassa di risonanza del parlamento, era considerato, sopratutto all'estero, come la sola forza contraria alla guerra. Anche le masse non guardavano molto per il sottile e il fatto che Turati era accusato di disfattismo dai nazionalisti era sufficiente a farlo classificare tra i pericolosissimi.

L'Avanti! rappresentò certamente in quel tempo il giornale più caro al proletariato. Si vuole che a Milano fossero i nostri compagni a difendere il quotidiano socialista contro gli attacchi dei guerraioli. Lo stesso Serrati lo affermava. L'odio contro la guerra ed il sempre maggior affondarsi nella melma di tutti gli ex aumentava e cementava questa amicizia fra tutti coloro che erano rimasti sul terreno delle loro idee di anteguerra. Tutto del resto concorreva alla preparazione psicologica rivoluzionaria. La democrazia era rotolata nel sangue ai piedi del Dio Marte. I repubblicani avevano dato i più sinceri alle trincee e i più furbi alla livrea regia, mentre gli elementi estremi fra loro erano costretti al silenzio. Gli scandali affioravano alla superficie della vita sociale scoperchiando i sepolcri imbiancati del patriottismo.

Nel proletariato l'ideale puntava su una rivoluzione a carattere sociale.

Gli avvenimenti incalzano. La guerra era ormai signora del mondo. Nessuno era più capace di governarla. Era la psicologia del giocatore d'azzardo, che più perde e più si rovina e più si rovina e più gioca e più perde, e si rovina ancora e incolpa del suo disastro chi lo consiglia ad arrestarsi.

Il cavallo come allora si disse, aveva tolto la mano al cavaliere. La durata stessa del macello, che, moltiplicando le rovine, sembrava centuplicare le ragioni della sua santità; le sue ecatombe che accavallavano a reggimenti i vivi sui morti; le ricchezze che inghiottiva e demoliva, le fortune che improvvisava, al macello dei mutilati; tutto ciò operava una suggestione di sovversivismo nelle masse e nello stesso sesso femminile, dislocato dalla famiglia alla fabbrica e nella fabbrica costretto nei regolamenti militari. Quanti conti da regolare il giorno in cui tutto questo esplosivo potesse scoppiare? E cosa sarebbe accaduto se quell'odio, se quel sacrosanto odio fosse esploso con caratteri di pura rivolta?

Tutto concorreva ad accendere la fede rivoluzionaria delle masse. L'attentato di Federico Adler contro il ministro austriaco sembrò un primo colpo di folgore e fece dimenticare i sermoni di altri tempi sull'orrore della violenza politica individuale. Il fatto non era «antisociale» che per l'Austria. Le masse plaudirono ad Adler, come noi plaudimmo ad Adler ed a Bresci.

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