6 La spartizione del bottino

Santa Russia – La collaborazione rivoluzionaria dei reazionari – Delusioni dell'imperialismo – Una prima apologia della rivoluzione russa – Gli argonauti della pace – Bolscevismo parola «in libertà» – La dittatura e il suo rovescio – «Scoppia» la pace – La guerra diviene di classe – O rinunciare alla religione di guerra o gonfiarsi di imperialismo – Mussolini accoppia l'imperialismo al demagogismo – Una prima occupazione di fabbriche esaltata da Rabagas.

Ebbene sì, noi siamo qui a proclamarlo: noi facemmo della rivoluzione russa la nostra stella polare. Esultammo alle sue audacie, alle sue vittorie sanculotte, ai suoi rischi. Alzi la mano chi abbia una questione di patriottismo, di quello di sana pianta, da sollevare sulla frontiera della rivoluzione nei secoli. Ci si indichi, chi patriotta non da operetta, non abbia dato e chiesto sangue, entusiasmo e persino denaro per il trionfo della sua idea nel mondo, facendo di questa idea, dovunque sorgesse la voce di Spartaco, il centro della sua patria.

Dovevamo chiedere al popolo russo di presentarci il certificato di legittimità della sua rivoluzione? Se era matura? Se era esattamente al suo ciclo storico; se era la rivoluzione russa che aveva bisogno di noi o noi che avevamo bisogno di essa per avviare la nostra rivoluzione?

Noi guardammo alla rivoluzione russa con l'occhio dei nostri bisnonni della Rivoluzione Partenopea nei confronti della Rivoluzione Francese. Ma quello che pochi ricorderanno è questo: che anche i guerrafondai del 1914 e seguenti, in un primo tempo furono entusiasti della rivoluzione russa, aspettando da quella parte una ripresa giacobina della guerra. Fu Arturo Labriola, dopo il ritorno da una missione intesista in Russia, a dare l'allarme nel campo interventista contro l'abbaglio di una rivoluzione russa invocante la super guerra. Mussolini lasciava traccia della sua infallibilità nel suo quotidiano su questo tema. Ecco le sue... profetiche parole: «Questa volta la rivoluzione aveva dei muscoli. Doveva vincere e ha trionfato propagandosi dalle vie della Neva alla città santa del Kremlino; ha completamente trionfato. Storiche giornate che iniziano un'era nuova».

Un altro generalissimo, tra i mentecatti ravveduti, Gustavo Hervé, da Parigi ricalcava le orme di Mussolini sulla famosa rivoluzione russa invocante la superguerra dell'Intesa. La prova delle cose venne tentata quando sui Carpazi Kerensky si improvvisò gran maresciallo e il suo esercito prese un sacco di botte.

Un indice del fermento che covava sotto la quiete apparente imposta dai rigori di guerra si ebbe in occasione della venuta in Italia dei cosiddetti «argonauti della pace», che erano già i rappresentanti dei soviet. Fu uno straripamento meraviglioso di folle inneggianti alla Russia. A Roma ne allibirono. I delegati russi ne restarono stupiti. Io ricordo di averli sorpresi con le lagrime agli occhi nel comizio di Firenze. «Siamo venuti a scoprire la rivoluzione in Italia», diceva Goldenberg, capo della missione russa, nel grande comizio tenutosi nella casa del popolo di Rifredi, dove lo stesso Morgari aveva pronunciato un discorso infiammato. La prima grande colpa della rivoluzione russa fu quindi, non la sua dittatura, ma il suo «no» alla guerra. La dittatura nella guerra ad oltranza non avrebbe fatto schifo alla democrazia dell'Intesa.

Per lungo tempo il termine stesso di «bolscevismo» non era chiaro. Lo si prendeva come sinonimo di rivoluzione sociale. Scriveva il repubblicano Oliviero Zuccarini: «Il bolscevismo è diventato il bau bau agitato da tutte le inquiete coscienze conservatrici. Siete rivoluzionari, dunque siete bolscevichi! Ogni rivoluzionario per non sentirsi attribuire idee e motivi bolscevichi russi dovrebbe rinunciare ad essere rivoluzionario».

Anche nel passato i repubblicani avevano dibattuta questa questione, che non è stata una invenzione dei marxisti o dei russi. Basta interrogare Pisacane, il quale polemizza, nientemeno, con Mazzini. Ed ecco le sue parole: «La dittatura preparerebbe l'educazione iniziatrice con la stampa ordinata ad un fine, con l'associazione pubblica concentrata ad una sola bandiera, con l'esercizio delle facoltà elettorali fin dove è possibile ai militi. Ed è questo appunto il principio su cui fondasi il dispotismo; il quale non dice voi dovete essere schiavi, ma ammette di ordinare e limitare la libertà».

Che dire poi dei socialriformisti i quali in ogni occasione di moti e di rivolte avevano sulle labbra l'accusa di dittatura contro i movimenti di proteste e di agitazioni. Non era da questo pulpito che potevamo aspettarci una predica seria contro la dittatura.

Quanto ai socialisti che si chiamavano rivoluzionari o estremisti, prima di entrare nella fase acuta della ortodossia moscovita, non ebbero nemmeno loro una idea chiara sulla dittatura. Era ancora il tempo in cui agivano su di essi le influenze delle polemiche antinterventiste nelle quali avevamo più o meno concordato. Figurarsi del resto che in Italia è stato possibile assistere a questo scandalo: un libro di Bacunin «Dio e lo Stato» presentato con una prefazione apologetica dell'autore da parte di Leonida Bissolati. E persino Turati, nel lontano 1887, aveva magnificata la figura di Bacunin nel giornale Lo Sperimentale, di tendenza democratica. Sembrò in realtà in quel tempo che proprio alla luce della rivoluzione russa fosse stato possibile un integralismo rivoluzionario antistatale basato sull'idea del soviet. Sull'Avanti! e sull'Ordine Nuovo vi furono di queste enunciazioni teoriche. Jacques Mesnil, simpatica figura di intellettuale anarchico di lingua francese, ma italianizzato dai suoi studi all'Università di Bologna, si orientava in questa corrente, come risulta da un suo articolo pubblicato su La Vie Ouvrière del luglio 1923. L'articolo del Mesnil fu riprodotto nell'Ordine Nuovo di Torino per la penna di Alessandro Tasca con questo suo commento:

«Noi pensiamo che l'anarchismo può avere nella rivoluzione e nella storia un compito prezioso, essenziale. Lo spirito anarchico è un elemento vitale che completa lo spirito rivoluzionario di cui garantisce la freschezza e la continuità. L'anarchismo non è un sistema opposto al socialismo, ma si potrebbe definire il quadro morale nel quale deve essere contenuta l'azione comunista».

Intanto la guerra finiva a quel modo che tutti sanno. «Scoppiava» la pace! Le bandiere rosse portate al fronte dagli eserciti di Kerensky non avevano dato maggiore ardore ai soldati russi, avevano però infiammato di uno spirito nuovo le truppe tedesche. La caduta dei due Imperi tedeschi avvenne dopo la vittoria degli eserciti dell'Intesa; ma quella vittoria era di molto debitrice alla rivolta del popolo russo.

La guerra delle trincee sarebbe discesa all'interno con gli scarponi dei soldati smobilitati, coi prigionieri ritornanti, colle migliaia di disertori e con l'enorme numero di mutilati. Ma la boria eloquente degli eroi che stavano a casa non aveva limiti. Ecco qua Prezzolini, da La Voce del 15 luglio 1915: «Chi ha scritto e si è sacrificato, sciupato, imbarbarito per sei mesi a ragionare al pubblico la necessità della guerra, contribuito a formare l'opinione del pubblico, l'entusiasmo, magari la semplice persuasione o rassegnazione, non è legato a nessun dovere. Più padrone di prima. Più stravagante di prima. In guerra ci va chi vuole».

E quel signor Papini (cito da l'Avanti! del 6 aprile 1916):

«Ci voleva un bagno caldo di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidismo di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue. Innanzitutto siamo troppi e la guerra vi leva di torno una infinità di uomini che vivono perché erano nati. Fra le tante migliaia di carogne abbracciate alla morte e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare? Ci metterei la testa che non arrivano alle dita delle mani e dei piedi messi insieme. Non ci rinfaccino a uso di perorazione le lacrime delle madri. A che possono servire le madri dopo una certa età se non a piangere? La guerra inoltre giova all'agricoltura ed alla modernità. I campi di battaglia rendono per molti anni assai più di prima, senza altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove si ammucchieranno i fanti tedeschi e che grosse patate si caveranno in Galizia quest'anno. Amiamo, amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché essa dura».

Ma c'era anche la guerra di classe... La guerra sociale. Il terreno era preparato. Nelle città il soldato tornando si incontrava con la ricchezza dei patrioti rimasti a far sacco, degli improvvisati arricchiti saliti ai fastigi delle fortune, senza fatica senza ingegno senza rischi senza scrupoli, solo mercé la facoltà di rapina aperta nei bilanci militari e statali. La guerra di classe sarebbe discesa nelle campagne, dove il villano trovava il grosso maialaro e formaggiaro trasudante oro e sugna e trovava la terra promessa da Salandra, nel piccolo cimitero. In effetto, sì, la guerra rientrava dal fronte. E chi l'aveva idealizzata e ne aveva fatto un surrogato della rivoluzione, non aveva che una scelta: o dichiarare il suo fallimento politico, o farsi già... impresario della prossima guerra.

Queste due correnti si manifestarono presto. A parole tutti erano rivoluzionari. Il dizionario era una truffa. Il rimescolìo politico rubava le menti. Mussolini intravedeva questo quadro e scriveva: «Se si esaminano i problemi dei diversi partiti vecchi e nuovi si vede che essi si rassomigliano. In certi punti si identificano. Ciò che differenzia i partiti non è il programma: è il punto di partenza e il punto di arrivo».

L'abile istrione capiva che questa era anche la nostra opinione nei suoi riguardi. Nessuno voleva apparire conservatore. C'era quella atmosfera che è il segno precursore di una svolta storica rivoluzionaria. Le vecchie incrostazioni si sfasciavano. Le masse battevano le scorciatoie. Il terreno era malfermo. Sorgevano uomini nuovi. Le lotte operaie si moltiplicavano. Nessuna categoria era assente. E il mese di febbraio abbiamo lo sciopero generale dei maestri. Nello stesso periodo abbiamo la conquista delle otto ore per via di azione diretta popolare. Persino il generale Diaz, ricevuto a Napoli dal sindaco della città, Arturo Labriola, inneggia alla libertà e dichiara che «oggi il mondo è socialista». La gioventù è agli avamposti in tutti i partiti. Scrive Mario Missiroli: «Uomini come Francesco Zanardi, Bentini, Graziadei, Brunelli, per riferirsi soltanto all'Emilia, sono stati sconfitti da ragazzi anonimi e che hanno fretta di instaurare il socialismo. Il riformismo italiano ha perduto l'Italia. Questo movimento ha caratteri repubblicani. Bisogna pertanto prepararsi ad una vasta intesa, che andrà per forza di cose da Ferrara all'estremo limite delle Marche, attraverso la Romagna. Era il sogno di Amilcare Cipriani».

Parleremo più innanzi di questo problema dell'abbondanza dei giovani nelle nostre file in quel tempo. Per ora limitiamoci ad affermare che essi rappresentavano un indice della piega rivoluzionaria del tempo. La famosa «coscienza» è problema intricato se lo prendiamo nel senso assoluto. Quei giovani erano coscienti come lo sono tutti i loro pari quando marciano all'avanguardia. L'eccezionale del 1919 fu che i giovani vennero a migliaia. Non prendiamocela con essi anche se furono molti quelli che crescendo ci abbandonarono. Sono molti però quelli rimasti e che oggi muoiono nelle galere, non sapremmo se senza maledire quegli anziani che, padreterni della legalità, impedirono agli avvenimenti di procedere innanzi.

I problemi della pace aprivano una grande falla nel campo dei guerraioli. Si inneggiò a Wilson e a Lenin. Il primo aveva parafrasato il motto di Marx: «Stati di tutti i paesi unitevi». Si chiedeva a Wilson ciò che indarno si era chiesto alla guerra: il miracolo fu rimandato alla prossima guerra. Il Presidente filosofo fu esaltato e vituperato in poco di tempo. Si ignorava che dietro il filosofo c'era l'uomo di Stato e dietro e dentro lo Stato ci stavano i banchieri caritatevoli di Wall Street.

Ecco Versailles, convegno di satrapi in fregola di impero che nell'orgia della vittoria sui vinti e sui vincitori più deboli strappano alla guerra l'ultima maschera e l'ultima benda e la discoprono davanti agli illusi e agli invasati in tutta la sua laidezza.

A Versailles quattro predoni di Stati barattano colonie e mari, popoli neri e bianchi, isole golfi miniere e montagne. Il problema della nazionalità è risolto alla maniera di Brenno. L'Italia è percorsa da lampi e tuoni. Si risente che la pace rumina la guerra. Le due anime dell'interventismo si scontrano e sembra cosa nuova. Bissolati insorge contro l'imperialismo dalmatico; Mussolini fa l'oltranzista delle annessioni. L'idea della rivoluzione guadagna da questo conflitto. In Russia marcia trionfante, pur fra gli errori della scuola politica che la dirige. Si spande in Ungheria in Baviera e nella Germania. In Catalogna fa sentire le scosse che possono propagarsi in tutta la Spagna.

Mussolini segue la sua logica inesorabile. Non si esalta una guerra per sminuirne le conseguenze. Gli Stati non sono dopo tutto che una somma di guerra. È a questa svolta che il giuoco di Mussolini si rivela ad un certo numero di suoi nuovi correligionari, i quali, dalla sua politica estera del dopo guerra desumono il suo estro reazionario sulla politica interna. Ci han detto più volte che forse noi peccammo di rigore eccessivo verso gli interventisti che in buona fede avevano condiviso la conversione di Mussolini e che ora cozzavano contro le sue velleità di marca nazionalista. Si noti anche che il demagogo si dava delle arie ancora sovversivoidi. Ed ecco un atto d'accusa contro di lui dal giornale che rappresentava la corrente bissolatiana: «L'Italia del popolo».

«Abbiamo accusato Cagliostro di avere riscosso cheques dal governo francese. Cagliostro querela e fa il suo dovere. Noi faremo il nostro provando in qual giorno, in quale ora e per quale via Cagliostro ebbe quel denaro... Noi inchiodiamo il triviale avventuriero (che fu detto, cambia di opinione ogni cinque minuti per non scadere di moda) lo inchiodiamo al bivio della sua follia e della sua delinquenza, abbiamo, signore, le prove di quanto fu detto e scritto». Come si vede, senza guanti. La venalità del ducione è in piazza.

Anche questa scissione portava acqua al mulino «rosso». Un comitato provvisorio venne costituito per ripristinare la pacificazione. «Noi pensiamo – diceva la circolare del Comitato – che per quanto possano essere interessanti le discussioni sulla Dalmazia sia molto più utile tener d'occhio il nemico interno, il disfattismo che non disarma e si fa sempre più minaccioso nella nostra assenza. Chiediamo anzitutto a coloro che vogliono tener conto di questo nostro invito di non portare affatto alla nostra riunione l'eco delle polemiche fratricide; ma di venirvi con animo fraterno e con la risoluzione ben ferma di riprendere la lotta necessaria contro gli sciacalli della demagogia bolscevica». Questa circolare recava le firme di Cesare Rossi, Eno Mecheri, Alceste De Ambris. La redazione de L'Italia del Popolo la commentava così: «l'affermazione delle correnti imperialiste nella soluzione dei problemi nazionali significa l'affermazione delle tendenze reazionarie nelle soluzioni dei problemi di politica interna... Si ingannano coloro che si illudono di poter strappare alla vittoria decreti di vita per idee ed istituti morti, che si illudono di poter chiedere alla vittoria permessi di contrabbando per sistemazioni ideali e territoriali che condurrebbero a rinculare in pieno Medio Evo». Non c'è bisogno di dire che Mussolini non rinuncerà alle sue pose di sindacalista d'avanguardia per ingannare i proletari e forse anche gli ingannatori dei proletari e farsi valere come possibile intermediario fra gli uni e gli altri.

È di questo tempo un episodio di occupazione delle fabbriche che porta l'impronta mussoliniana prima assai della grande occupazione di cui parleremo più innanzi. Si tratta dell'agitazione a Dalmine, presso Bergamo, dove Mussolini si recò, oratore e apologista dell'occupazione in sostituzione degli ozi scioperaioli. In data 20 marzo il suo giornale, il «Popolo d'Italia», dava il resoconto della benedizione apostolica impartita dal duce alla rinnovata coscienza operaia che prendeva possesso delle officine.

Sarà inutile ricordare che le sue bombarde oratorie facevano ridere od erano prese per dei gas asfissianti dalla parte operaia. Non sapremo garantire che gli alti papaveri dell'industria, della banca e delle agrarie non fossero capaci di bere grosso ad occhi chiusi.

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