7 Bagliori rossi

Moti italiani – La venuta di Malatesta e le elezioni... antiparlamentari di Bombacci – I moti di Mantova.

Sì, la guerra si trasferiva dal fronte all'interno.

Bisognava decidersi. Bisognava avere un programma che permettesse di marciare a briglia sciolta.

La formula neomalthusiana del «né aderire, né sabotare» non si attagliava alle lotte che ci attendevano. Il partito socialista era una forza. Aveva teoricamente ai suoi comandi politici la Confederazione del Lavoro, la Lega dei Comuni socialisti. Più tardi vi si aggiunse la Lega Nazionale delle Cooperative aumentando il peso del contingente riformista, e la Lega Proletaria dei mutilati e invalidi di guerra.

Ora propizia alle massime realizzazioni. Ora propizia per noi, che, pur senza aver mai preteso di condizionare la nostra azione alla garanzia del cento per cento di successo (il che potrebbe essere un ottimo pretesto per non muoversi mai) non potevamo non cercare di profittare del fatto evidente che la storia sembrava bruciare le tappe, e che un insieme di circostanze (fra cui il vuoto lasciato dai partiti intermedi a causa della guerra) ponevano all'ordine del giorno il problema rivoluzionario nella sua espressione sociale.

Le masse puntavano ormai sul Soviet.

Non eravamo nel '74. Non si trattava di gesti collettivi per colpire l'immaginazione delle folle. Non eravamo nel '94 o nel '98. Non si trattava di affermarci per la conquista del diritto alla vita. Si trattava di concretare un quadro di lotta per la sua attuazione immediata.

«Immediatisti»? Ciascuno lo è per qualcosa. Prima della guerra una rivoluzione italiana era con tutta probabilità suscettibile di meno larghe e radicali realizzazioni. Durante la guerra si era stati immediatisti per farla finire. E dopo?

Dopo...! Se non era per noi una fisima campata nelle nuvole, se era, com'era, carne della nostra carne, sangue del nostro sangue, questo ideale, per il quale tanti dei nostri erano morti ed avevano sofferto lottando, non avevamo noi il dovere imperioso di porre la lotta sul terreno di una rivoluzione che tenesse conto delle delusioni dei nostri padri e che affrontasse praticamente il problema sociale?

C'è oggi chi, curvo sotto il peso della sanguinosa sconfitta, brontola sommessamente: oh se avessimo puntato sul poco! Il poco? Ma il più contiene il meno, altrimenti cosa resterebbe del più? Resterebbe una promessa di riesumazione a più tardi. Ma così si fa bancarotta e sul terreno delle idee si fallisce una volta per sempre.

Minimalismo? Nessun sistema minimalista raggiungerà mai praticamente il suo minimo. È la storia di tutti i tempi. Per vedere l'assurdo di un simile lamento si rifletta su questo: e se puntassimo oggi sul meno? Mussolini ed il re, in un certo momento avrebbero potuto aprirci la loro ampia camicia nera. Baldesi avrebbe voluto sperimentarlo sin dalla marcia su Roma. Noi tutti gridammo al tradimento e se ne scandalizzò persino Turati. E allora dov'è il minimalismo realizzatore?

La repubblica? Abbiamo capito! Ma, senza voler affrontare in pieno una tale questione, ci sarà permesso di osservare che nel 1919-20 una rivoluzione sociale in Italia non era, dal punto di vista della possibilità, più massimalista che nel 1925, una rivoluzione si fosse proposta di spazzar via insieme fascismo e monarchia.

Ma poi, in che poteva consistere il poco? Vediamo. Il Parlamentino bis del Lavoro, reclamato dalla Confederazione? La Costituente, escogitata in un primo momento da qualche interventista per far leva alle diverse preferenze sulle soluzioni della Dalmazia.

Ma queste in quel tempo erano le corse nel sacco! Era l'ortica messa fra le gambe del cavallo in corsa. E ciò non perché non era tutto, ma perché invertiva il processo rivoluzionario per finire di consolidare il regime. Era affogare la rivoluzione nell'urna. Ne avevamo abbastanza dell'elezionismo socialista. La Costituente! Ma per lanciare un'idea bisogna prima renderla appassionante per le folle! Avremmo dovuto noi ingaggiare il proletariato in questa marcia funebre nella quale gli stessi riformisti non osarono che fare da contrabasso per alcune battute iniziali, sicuri di non avere con sé le masse operaie?

La Costituente come surrogato ad una rivoluzione e come plebiscito sotto il controllo monarchico è tutto il demagogico ed il dulcamaresco dell'elezionismo portato all'ennesima potenza.

E noi avremmo dovuto ignorare nel dopoguerra le forze rivoluzionarie operaie lottanti per il socialismo per il bel piacere di far dispetto ai socialisti?

Ed i repubblicani non avrebbero potuto in questo momento storico svolgere il loro ruolo attivo fra gli uomini liberi? Che cosa era essa mai questa rivoluzione russa per paura della quale sembrò allora obbligatorio estraniarsi dalla rivoluzione italiana? Lo stesso Kropotkin aveva lanciato un memorabile appello in difesa di quella rivoluzione che tanto spavento incuteva da noi negli apostoli della democrazia di pace e di guerra.

«La Russia – scriveva il nostro compagno – sta attraversando una rivoluzione di una importanza non inferiore a quella che attraversò l'Inghilterra nel 1639-48 e la Francia nel 1789-94. Le varie nazioni non debbono abbassarsi a rappresentare la parte vergognosa alla quale si prestarono, durante la Rivoluzione Francese, la Prussia, l'Austria e la Russia.

«Inoltre non bisogna dimenticare che la Rivoluzione Russa – la quale tende a stabilire una società in cui l'intiero prodotto degli sforzi combinati del lavoro, dell'abilità tecnica e delle cognizioni scientifiche, andrebbe a profitto di tutta la comunità – non è un semplice accidente nella lotta dei partiti. Essa è stata preparata da un secolo di propaganda comunista e socialista, cominciando da Owen, Saint Simon e Fourier. E sebbene il tentativo di stabilire la società nuova a mezzo della dittatura di un partito sia evidentemente destinato a fallire, bisogna riconoscere che la rivoluzione ha già introdotto nella nostra vita quotidiana delle nozioni nuove sui diritti del lavoro e sui doveri dei singoli cittadini».

Doveva ben essere questa una opinione non sospetta per i repubblicani. (Kropotkin che io visitai in Russia nell'estate del 1920 – circa un mezz'anno prima che morisse – mi confermò all'incirca queste poche idee sulla rivoluzione).

Egli poneva le sue critiche al bolscevismo sul terreno positivo della rivoluzione. Il suo stato di salute già scosso, non mi permise di trattare a fondo la questione della guerra alla quale appena accennammo. Ma egli, messo al corrente da me della nostra attività in Italia e della situazione di uomini e partiti, mostrò di apprezzare e comprendere la nostra attività e la nostra attitudine. Io pubblicai in Guerra di Classe (4-11 giugno 1921) un riferimento sulla mia conversazione con Kropotkin. Fra l'altro dicevo:

«Io non ho mancato di mettergli in evidenza quel che di fetido è uscito in Italia da certa gente che non aspettava che un'occasione per voltare la faccia al proletariato. E ho visto in lui segni manifesti di approvazione a ciò che dicevo. Egli è in sostanza un amico della rivoluzione. Certo insomma che il suo atteggiamento sulla guerra, se ha potuto influire in lui nella valutazione di certi aspetti della rivoluzione, non lo ha portato a dissolidarizzarsi da essa». Ed era nostra la colpa, o dei socialisti, se i nostri ex alleati della Settimana Rossa, essi che dicevano, e forse non del tutto a torto, di sapersi battere meglio dei socialisti, non erano là, al loro posto, a fianco di tutti quelli che volevano fare sul serio e insieme a noi, contro tutti i rivoluzionari da operetta? Chiediamo però scusa di aver troppo generalizzato, perché c'erano dei rei di... bolscevismo anche fra i repubblicani, ed erano i più prossimi a noi. Riferiamoci ancora a Zuccarini: «Per la società che si dissolve – egli scrive – e che è presso a morire, non è possibile aver tenerezze. Nulla di quanto ci circonda merita di essere conservato... La nostra preoccupazione è solo che il movimento risolutivo della crisi debba procedere troppo a rilento, costringendo la nazione ad un disagio più lungo, a maggiori dolori, a sacrifici più gravi».

E più oltre: «La propaganda antibolscevica è per una parte notoriamente pagata. Non si spiega (invece) come parecchie persone di buona fede, che vantano un bel passato di lotta democratica, vi partecipino e abbiano preso posizione di decisa ostilità a tutto ciò che in questo momento tende a determinare un cambiamento nell'ordinamento politico e sociale del nostro paese». E ancora: «La rivoluzione russa – realizzando quanto fin dal '48 auspicava lo stesso Mazzini – ha fatto, insomma, per il proletariato, per le classi popolari, per gli uomini del lavoro, ciò che le rivoluzioni del passato fecero pel borghese, per gli uomini del capitale. La rivoluzione russa compie il ciclo storico delle rivoluzioni, la sua influenza è destinata ad essere più larga e più profonda di quella esercitata dalla rivoluzione francese».

Che il partito repubblicano avesse lasciato molto del suo rosso appiccicato alle feluche dei suoi ministri di guerra, balza agli occhi di chi getta uno sguardo sui desiderata formulati dal Congresso Nazionale di questo partito (Firenze, dicembre 1918). Anche lì si trova qualcosa di... russo; ma si tratta di una insalata di tutti i minimalismi casellabili entro la fradicia armatura monarchica. Vi si parla di trasformazione della Camera dei Deputati, del referendum legislativo, di trasformazione del Senato, di controllo delle industrie, della giornata di otto ore, ma non una parola sul tasto della rivoluzione repubblicana.

Turati mise anche lui in prova verso la fine del '918 una specie di programmino da repubblica svizzera al filtro monarchico, ma ebbe zero in condotta. Poi venne la prova per la Confederazione del Lavoro. Avete dimenticato la famosa «Commissionissima», specie di enciclopedia da cavadenti scoperta da Orlando a Londra e portata calda in Italia per curare e coprire la lebbra monarco-borghese? La Commissionissima nacque e morì nello spazio di un giorno.

Rinaldo Rigola, logico e diritto, le aveva accordato l'adesione confederale e già le liste circolavano dei commissari dei vari reparti, raccolti dalle parti più estreme: generali, organizzatori, deputati, sciacalli di guerra e simili, annodati assieme col nastro tricolore. La logica riformista dava ragione a Rigola, quella classista rivoluzionaria dava ragione a noi: contro cioè tutte le collaborazioni tecniche nelle commissioni governative alle quali da anni la Confederazione prestava i suoi uomini.

Se gli estremisti del partito socialista, denominati ora comunisti, avessero voluto afferrare un'occasione per liquidare tutto il vecchiume che predominava nella Confederazione del Lavoro, mai momento sarebbe stato più adatto. In ventiquattr'ore si sarebbe fatto piazza pulita. La scacchiera sindacale – ci si passi questo termine – sarebbe stata rinnovata con formazioni nuove d'estrema e oh! quanti frenatori di meno in veste di macchinisti!

Ma gli estremisti non cercavano che salvare delle apparenze e ritoccare la superficie. E così tutto si riassume nel sacrificio di Rigola. E cioè non venne confermata l'adesione da lui data alla eccezionale Commissionissima.

Turati, sconsolato, scriveva: «Ridicolo veto verso la Commissionissima quello del Partito alla Confederazione diretto essenzialmente a umiliare, ricattare e deprimere la Confederazione e il gruppo parlamentare».

Le idee galoppavano.

Un programma?

Eccone finalmente uno di marca estremista nientemeno della Direzione del partito socialista:

«La Direzione nel deliberare un programma di azione politica immediata, constata anzitutto come oramai gli elencati responsabili della presente situazione cerchino rifarsi la perduta riputazione cogliendo dal patrimonio delle rivendicazioni proletarie alcuni postulati, più noti, che oggi ritiene non più sufficienti a soddisfare le ardenti aspirazioni del proletariato colpito dai mali della guerra e anelante alla emancipazione internazionale della propria classe, nonché a rispondere al dovere di solidarietà dei socialisti di Russia e di Germania;

«Dichiara quindi che il partito socialista, pronto a sostenere quelle rivendicazioni che le circostanze imporranno e saranno reclamate dalle organizzazioni proletarie, si propone come proprio obiettivo l'istituzione della Repubblica Socialista e la Dittatura del proletariato coi seguenti scopi:

1) Socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio (terra, industria, miniere, ferrovie, piroscafi) con la gestione diretta dei contadini, operai, minatori, ferrovieri, marinai;

2) Distribuzione dei prodotti eseguita esclusivamente dalla collettività a mezzo degli enti cooperativi e comunali;

3) Abolizione della coscrizione militare e disarmo universale in seguito all'unione di tutte le repubbliche proletarie nell'Internazionale socialista;

4) Municipalizzazione delle abitazioni civili e del servizio ospitaliero; trasformazione della burocrazia affidata alla gestione diretta degli impiegati».

Siete pregati di tener presente, primo: il valore che si dava allora alla parola dittatura; secondo, che si trattava di un programma di azione immediata, come dire un biglietto di partenza per la prima corsa. Converrete che c'era in questo programma ben poco dell'ortodossia socialista statale e qualcosa dell'eresia federalista.

Comunalismo, gestione diretta, distribuzione cooperativistica, tutto ciò non è sul piano casermistico con cui i bolscevichi soffocarono la rivoluzione russa ed è molto prossimo a quanto il nostro Kropotkin aveva proposto invano a Lenin, agli inizi della rivoluzione. Se ne accorse qualche riformista di questo scandalo e protestò. Ma fu guerra a palle di carta. Quella nazione era figlia di un fallo d'amore e sparì.

L'ora dell'azione era venuta e ciascuno mirava al metodo proprio. Ed è il metodo che prevale sulle formule finalistiche. Quanti seguaci della dittatura di ferro, come metodo, non amano giustificarla con le finalità libertarie? Così saranno le ragioni del metodo elettorale che placheranno ogni altro dissenso nel campo del partito socialista. C'è, è vero, Bordiga che fa l'antiparlamentare, ma non è ascoltato e già ora si ascolta da sé.

Così tanto di concordia a destra coi destri sarà corrisposta da tanti di discordia a sinistra, con quelli che vogliono fare sul serio – ed impedirà ai destri di ricavare profitto dal metodo proprio.

Ai primi tempi di Giolitti si era detto: «né reazione né rivoluzione»; ora si diceva: «né riforme né rivoluzione». Intanto Partito e Confederazione vollero sanzionare con le nozze i loro vecchi amori con poca stima. Adesso la diffidenza cresceva in misura delle velleità del Partito, e si consacrò con atto... notarile la famosa mozione di uno dei Congressi socialisti della Seconda Internazionale:

«Richiamata la mozione di Stoccarda del 1907 che in linea generale stabilisce che debbono intercedere fra i partiti politici socialisti e le organizzazioni dei lavoratori, il partito socialista italiano e la Confederazione convengono quanto segue:

1) Lo sciopero e le agitazioni di carattere politico nazionale saranno proclamati e diretti dalla Direzione del partito, udito il parere della Confederazione, la quale, in ogni caso, si impegna a non ostacolare l'attuazione della deliberazione della Direzione del Partito;

2) Lo sciopero e le agitazioni di carattere economico nazionale saranno proclamati e diretti dalla Confederazione, udito il parere della Direzione del Partito, la quale, in ogni caso, si impegna a non ostacolare l'attuazione delle deliberazioni confederali».

Un terzo accapo stabiliva la procedura nel caso, facilmente prevedibile, di conflitto di competenza, il che doveva offrire la opportunità... di pigliare più volte la lepre col carro!...

Un uomo ci vedeva chiaro in queste e nelle future manovre, perché era stato di casa: Mussolini, il quale doveva scrivere un anno dopo sul suo giornale (26 febbraio 1919): «Lo spettacolo di un partito che all'indomani di una sua grande vittoria elettorale si esaurisce nella vana ricerca del punto di applicazione delle sue forze e non fa la riforma e non tenta la rivoluzione, ci diverte!».

Il bisogno dell'azione e lo stato d'animo dell'ottimismo ponevano tuttavia sul terreno pratico un problema il cui tentativo di soluzione doveva ripetersi all'infinito: l'unione anche formale per l'azione. Già fin dall'epoca di Zimmerwald si era propagata nelle nostre file la illusione che attraverso un rinnovato movimento internazionale si potessero riconciliare le diverse correnti del socialismo operaio che il dogmatismo del passato aveva straziate. Era da questa illusione che derivava la speranza in taluni di noi sulle capacità di azione della sopravvenuta Terza Internazionale, ma si vide ben presto che si continuava a mandare in frantumi i quadri dei partiti, nonché dei sindacati di molti paesi.

Sul terreno nazionale un primo tentativo di unione per l'azione c'era stato in piena guerra dopo che già coi moti di Torino dell'estate 1917, con lo sciopero generale del genovesato e con Caporetto, la situazione si era fatta allarmante. Il tentativo fu del febbraio 1918, ma fallì perché il Sindacato Ferrovieri non accettò di entrare in discussione se non vi era ammessa 1'U.S.I. che i riformisti non vollero ammettere.

Zibordi stava per essere ogni giorno più accontentato: la siepe si faceva alta e metteva le spine. Presto sarebbe stato difficile valicarla. Ma ora incominciavano a parlare le masse ritornate dal fronte e il problema si affacciava irresistibilmente. Sono dettagli che si sono persi nell'immensità degli avvenimenti, ma che vanno registrati. Il partito socialista convoca per la domenica 29 dicembre 1918 una serie di adunate regionali nei centri principali d'Italia. Si trattava di una specie di tanti soviets in erba per concordare le basi della inizianda azione proletaria del dopo guerra. A tali convegni intervengono anarchici e sindacalisti Unionisti, nonché i ferrovieri ed i portuali e in tutti – a Bari, Torino, Napoli, Milano – prevale il concetto dell'unione generale e libera per l'azione.

L'ordine del giorno di Roma, il più categorico, parla di «unità operaia "non" compiuta attraverso l'assorbimento dell'una o dell'altra delle massime organizzazioni».

Di sfuggita ricordiamo che più tardi un tentativo di rimpasto dei quadri sindacali vi fu e l'iniziativa venne dal Sindacato Ferrovieri. I risultati furono negativi appunto perché si voleva dalla Confederazione e dal Partito, già maritati, una unità compiuta attraverso l'assorbimento di due delle parti: l'U.S.I. e i ferrovieri. Ne riferirò con le parole stesse di d'Aragona che trovo nel resoconto ufficiale del Consiglio Nazionale Confederale tenuto a Bologna e che venne pubblicato sul Giornale del Mattino di questa città del 29 gennaio 1919.

«D'Aragona ha riferito sugli approcci che ad iniziativa della Direzione del Partito si sono avuti ultimamente. Il 15 di gennaio si è tenuta una riunione a Roma presso la Direzione del Partito. I rappresentanti dell'U.S.I. avrebbero voluto l'intervento dei delegati dell'Alleanza dei Comunisti Anarchici. Lazzari vi si è opposto dopo lunga discussione. La Direzione del Partito ha presentato questa proposta che il relatore a nome del Consiglio Direttivo Confederale in linea di massima dichiara di approvare:

«La Direzione propone che l'Unione Sindacale Italiana deliberi di aderire alla Confederazione Generale del Lavoro. Di conseguenza la Confederazione si impegna di convocare immediatamente un Congresso Nazionale dando gli stessi diritti ai nuovi e ai vecchi aderenti ponendo all'ordine del giorno:

1) Indirizzo e tattica della Confederazione del Lavoro;

2) Nomina delle cariche sociali.

Borghi dell'Unione Sindacale Italiana ha fatto la seguente controproposta:

«Scioglimento dei due organismi. Costituente di tutte le Leghe esistenti. Revisione degli statuti delle Federazioni e Confederazioni. In preparazione di ciò unione, accordi nelle agitazioni di carattere sindacale e politico».

Non se ne fece niente!

La ripresa della lotta rivoluzionaria si annunciava rumorosa, corrusca, piena di bagliori rossi. Avvenimenti gravi, lo si sentiva, maturavano. Le prime grandi manifestazioni operaie di tutte le categorie, anche più refrattarie e indolenti fino ad allora, affluivano ai sindacati.

Dalle trincee al Sindacato, tale sembrò la direzione della smobilitazione. Gli ultimi divenivano i primi. E ciò avveniva non solo nelle masse cosidette rozze e primitive dei campi e dei mestieri più grossolani, che quelle in ogni caso non erano alle loro prime armi organizzative, ma anche nel proletariato di... lusso, nei maestri, negli impiegati, nei bancari, in quella branca insomma che si diceva del proletariato in colletto.

Il sindacato divenne il centro di gravità della lotta operaia. Si ebbero denominazioni sindacali mai conosciute. Le categorie più decisive per un movimento d'azione, ferrovieri (e questi già veterani), portuali, marinai, postelegrafonici, elettricisti erano in prima fila. Nei contadini non vi erano eccezioni di regioni. L'organizzazione era fiorente fin nella Sicilia e ottimamente allenata in tutto il Meridionale. La borghesia non aveva fiducia in se stessa e nello Stato. La parte di essa che lo poteva, badava a fare bottino nella liquidazione delle aziende di guerra e metteva il proprio danaro al sicuro all'estero. L'indisciplina rodeva tutti i quadri statali. L'ex ministro Nitti, accusato più tardi di condiscendenza verso i partiti estremi, specialmente per aver concesso l'amnistia per tutti i reati di guerra, si difese dicendo che durante il suo ministero (1919 e metà del 1920) nessuna delle istituzioni di sicurezza dello Stato si poteva ritenere fidata: carcerieri, poliziotti, magistrati (e non vi era anche la minaccia dello sciopero dei magistrati? E i carcerieri non fummo noi a respingerli dalla organizzazione di classe alla quale domandarono in più casi protezione?) tutti erano infetti di indisciplina e vi fu un momento in cui il ministro non si poté ritenere sicuro della custodia dei detenuti.

Scrive Arturo Labriola (Le due politiche, pag. 167): «Non tradisco un segreto professionale scrivendo che un altissimo personaggio che gli parlava con affettato timore delle "tristi " avventure del 1919-20, rispondeva: "e tuttavia bisogna essersi trovati in quei giorni per comprendere come agì l'on. Nitti". Si aggiunga al tutto, il dente cariato di Fiume nella mascella delicata dell'esercito, fatto che doveva essere combattuto, ma non pro disciplina militare. Infine c'era il malcontento di tutti per la sconfitta di pace della guerra vittoriosa.

Nel febbraio e marzo 1919 avemmo le prime grandi riviste delle masse ritornate dal fronte. Il grido che tuonava nei cortei immensi e nei comizi di quei giorni era: smobilitazione, libertà a tutte le vittime della reazione e della guerra, soppressione della censura, otto ore di lavoro. Noi aggiungemmo un reclamo che divenne tosto di aspirazione generale: ritorno di Malatesta in Italia. Si rividero enormi folle piene di fede e di entusiasmo.

Nei primi di febbraio Milano ebbe la sua enorme parata delle forze operaie. Fu una fiumana straripante di popolo che Mussolini, parafrasando una espressione bruniana che gli suggeriva la sua modesta pretesa di eretico incompreso, chiamò «la bestia ritornante».

Era la bestia che ritornava dal fronte a ricordargli i suoi tradimenti e che egli odiava di tutto il suo giallo livore di Giuda. È bene tener presente questo dato di fatto: il fascismo ha atteso, è verissimo e provatissimo, la nostra sconfitta per saltarci alla gola, ha atteso per la sua azione in grande stile, la resa delle fabbriche, quando era chiaro che si iniziava la nostra parabola discendente. Ciò non di meno bisogna riconoscere che le intenzioni del fascismo si fecero chiare per certi suoi episodi di violenza sporadica fino all'inizio del dopo guerra, anche se nei momenti difficili erano celate dalla cauta prudenza degli eroi fortificati nel covo di via Paolo del Cannobio. A parte che non era permesso ignorare che la borghesia teneva in riserva delle forze di repressione che sonnecchiavano, ma non morivano di morte propria, c'era da considerare che il fascismo come pattuglia disperata contro di noi ci avrebbe atteso alla nostra ora critica. È nell'aprile 1919 che parte da Milano con l'incendio dell'Avanti! il primo segnale di quello che doveva essere il programma fascista quando ci avesse sorpresi in ritirata. L'attacco ebbe la risposta che meritava, e Mussolini ed i suoi compresero che quella era l'ora propizia. Forse lo sapevano prima ancora del loro tentativo, ma furono obbligati a farlo per favorire gli aiuti della grossa borghesia pronta ad aprire le sue casseforti a chiunque le facesse balenare la possibilità di salvarla dal «bolscevismo».

Mussolini assunse apertamente la paternità di quell'attentato e lo sciagurato che ne fu il capintesta, tal capitano Ferruccio Vecchi, che per finire in galera dovette mettere molte firme false in molte cambiali, pubblicò un libro che fece un certo chiasso, per esaltare il suo gesto incendiario contro il giornale socialista.

Per essere giusti non si può omettere di ricordare che il capitano Vecchi ha preteso descrivere, in un romanzo i cui protagonisti sono assai facilmente individuabili, la trama infernale di cui sarebbe stato vittima in queste faccende delle cambiali, da parte di Mussolini e del questore Gasti insieme. Costoro, secondo il Vecchi, avrebbero voluto aprirgli sotto i piedi un trabocchetto per disfarsi di lui a causa della sua intransigenza repubblicana.

Sarebbe questo un precedente interessante ad essere approfondito per vedere come Mussolini abbia sempre ricompensato i suoi fidi e come, con l'aiuto dello sbirro Gasti, abbia organizzato le provocazioni poliziesche a Milano e... altrove!.

Nessuno degli incendiari fu arrestato o processato, e le masse, che pagavano sempre caro ogni loro atto di ribellione, non potevano fare a meno di intuire fin d'allora che delle alte protezioni stavano alle spalle degli aggressori del proletariato. Certo fin d'allora Mussolini si era assicurata la complicità del questore di Milano, di quel Gasti che doveva divenire celebre per il nostro arresto nel 1920, che fu nominato capo della polizia e chiamato a Roma al fianco di Rossi, Mussolini e compagni, subito dopo la marcia fascista ed insignito della tessera ad onorem del partito fascista.

L'incendio dell'Avanti! era stato preceduto dall'uccisione di un operaio da parte della polizia allo sfollare di un comizio all'Arena. Il giorno seguente c'era stato l'attacco armato da parte degli arditi contro gli operai che, in protesta dell'eccidio poliziesco, avevano proclamato lo sciopero generale: questo insieme di fatti, scatenando la protesta operaia in tutta Italia, rivelarono l'ondata travolgente del proletariato.

Bisognava saper leggere in questi avvenimenti. Bisognava non temere l'impeto delle masse. Bisognava intenderne le giuste impazienze. Noi profittammo di questa scossa per porre di fronte ai dirigenti socialisti ed alle masse il problema del fronte unico per l'azione.

A Bologna lo sciopero generale riuscì oltre ogni previsione. Le masse erano state chiamate dal manifesto delle due Camere del Lavoro (Confederale e Sindacale), dal partito socialista e dagli anarchici. Era il fronte unico dell'azione. Ne segue il grande comizio all'Arena del pallone. La massa rossa è tutta là. Uno degli oratori sono io, che tiro le somme sulla necessità di prepararsi. Gli scioperi generali di 24 ore per sgranchirsi i muscoli è roba sorpassata. Ora è tempo di battaglia. Se non la daremo la subiremo. Accetto dunque la proposta chiusura dello sciopero generale fatta dai socialisti e propongo un voto da trasmettersi a tutti gli organismi nazionali classisti invitandoli a riunirsi per gettare le basi di un accordo e di una preparazione generale che consenta di non dover più affrontare impreparati un altro sciopero generale. I capi socialisti non trovarono argomenti da opporre ad una tale proposta. Ma il presidente del comizio osservò che era impossibile una tale proposta perché avrebbe dovuta essere discussa prima dagli organismi competenti. Solo Enrico Leone, sindacalista, si dichiarò favorevole. Il proponente però non era tipo da sgomentarsi della opposizione dei capi. Quella folla intuiva, del resto, il senso di responsabilità da cui la proposta anarchica era ispirata, sicchè, quando il presidente socialista – Augusto Franchi – fu costretto a mettere ai voti la proposta, una selva di mani si levò ad approvarla. Alla prova contraria non si levò una mano.

Voto inutile. La presidenza del comizio venne investita del mandato di comunicare a tutte le organizzazioni nazionali il voto in parola, ma... non se ne fece niente, benchè quindici giorni dopo, nei comizi principali del Primo Maggio, il voto di Bologna rivenisse approvato da altre migliaia di lavoratori così come nella metà di maggio veniva sanzionato a Milano in un grandioso comizio regionale per la inaugurazione della bandiera di quel Sindacato Ferrovieri, e ciò nonostante l'opposizione dichiarata di Filippo Turati, oratore ufficiale con me in quella cerimonia.

Si rinunciava da parte dei socialisti all'idea della lotta estremista? Si faceva qualcosa per disingannare le masse circa la possibilità rivoluzionaria? Niente del tutto! Si continuava nel linguaggio apocalittico, si trombonava nei comizi di soviet e di rivoluzione russa, si squalificavano e si tenevano in sospettosa quarantena Turati ed i suoi. Le masse si riscaldavano sempre più e la preparazione rivoluzionaria si trascurava più ancora.

Ricordo come fosse ora, che una notte sotto i sonnolenti portici di via Indipendenza a Bologna mi lasciai andare a qualche amichevole sfogo con Bombacci, che restava pur sempre una delle figure più ingenue che scaltre dell'estremismo. «Il chiasso che voi fate – gli dissi – e le continue minacce di rivoluzione immediata, fanno si che la borghesia e lo Stato ogni giorno si preparino ad affrontarci, mentre i soli che non si preparano siamo noi. Bombacci con mio stupore mi snocciolò questa teoria: «Ora noi facciamo il chiasso e la borghesia si prepara, ma poi vedrà che noi non ci moviamo ed allora si abbandonerà alla fiducia ed è allora che noi prenderemo il sopravvento».

Roba da chiodi!

Le masse lasciarono facilmente comprendere che avevano la sensazione del vuoto su cui svaporavano le loro speranze, e quando potevano lo manifestavano nei comizi e nelle riunioni sindacali e di partito. Ma allora ne seguiva la necessità da parte dei dirigenti socialisti di supplire con le parole al difetto della preparazione seria all'azione, impegnandosi così ancora di più nelle enunciazioni rivoluzionarie, ma ancora e sempre restando incapaci di pensare al lato pratico di un movimento rivoluzionario che implica accordi e fiducia reciproca tra le forze affini, misuratezza di parole e di sforzi, concerto preventivo di determinate iniziative pratiche che non si possono improvvisare «sur le champ» quando le ostilità sono già aperte. Si è detto: le masse erano cieche, non volevano saperne mai, in nessun caso, di risparmiarsi uno sforzo, consideravano tradimento ogni consiglio di prudenza in qualsiasi circostanza si effettuasse, da qualsiasi parte venisse. Bisogna chiarire: le masse non tardarono molto a persuadersi che si voleva ogni giorno di proposito rimandare a domani ogni movimento. Erano perciò divenute diffidenti. Dietro ogni consiglio di prudenza leggevano una scappatoia astuta per evitare che quella fosse la buona occasione. Da ciò la loro ostinatezza nel dare ad ogni occasione il valore di momento buono. Le cose sarebbero andate diversamente se i capi socialisti avessero saputo ispirare fiducia d'azione nelle masse, se una volta fra cento si fosse loro fatto vedere che non si rimandava, se non si fossero accompagnate le più sbracate manifestazioni di oratoria rivoluzionaria con la più persistente diffidenza verso le forze rivoluzionarie che dentro o fuori del partito e parte dentro e parte fuori della Confederazione, si mostravano decise a portare la lotta rivoluzionaria alle sue ultime conseguenze.

La catena delle lotte di piazza aveva nello sciopero generale di aprile il suo primo anello, il rifiuto dell'accordo per l'azione era già la prima evasione.

Il giugno del 1919, esattamente dalla metà del giugno ai primi di luglio, fu caratterizzato dai moti del caroviveri.

Si badi: non moti della fame. Niente di analogo a quanto è accaduto negli ultimi mesi del 1923 nella stremata, avvilita, disperata Germania. Non carestia, non disoccupazione, non masse operaie messe al bivio di morire di fame o di piombo. Certo le masse si trovarono di fronte alle più sfacciate ruberie da parte degli speculatori. I prezzi dei generi di prima necessità salirono ad altezze fantastiche. Nessuno provvedeva a porvi un limite. Le Camere del Lavoro divennero il centro dell'iniziativa dei rivoltosi. Furono requisite le merci, fissati i calmieri, svaligiati i negozi degli ingordi grossisti. Le squadre operaie procedettero con un certo ordine a questo lavoro. Solo un genere di negozi non fu toccato: i negozi di gioielleria. Non dunque l'orda avida di rapina, bruta e caotica. Nelle località dove le folle prendevano il sopravvento, veniva posto il problema del collegamento con le località vicine, per allargare il moto e dargli una efficienza rivoluzionaria. L'azione prese un grande sviluppo. Dalla Spezia in tutta Liguria poi in Toscana nelle Puglie, infine in tutta Italia, non esclusa la capitale. A La Spezia le cose presero una piega decisiva... Le forze di polizia intervennero il primo giorno facendo qualche vittima negli operai ma ben presto fu necessario ricorrere al rinforzo dell'esercito, e fu il principio della resa. I soldati costituivano un fragile rinforzo. Erano accolti al grido di: viva i nostri fratelli! Si provò a mutar corpo, dalla fanteria si passò all'artiglieria, ai bersaglieri, ai marinai. Di peggio in peggio, voglio dire di meglio in meglio! Allora anche le forze di polizia dovettero ritirarsi. La città rimase in mano al Comitato d'Azione, composto dai delegati delle organizzazioni sindacali e politiche concordi nella volontà di allargare il movimento, ciò del resto stava avvenendo spontaneamente in quasi tutta Italia. A Firenze a Empoli Torino Prato Sestri Ponente Livorno Pisa nella Romagne a Roma le cose si fecero serie... Bisognava tastare il polso ai massimi dirigenti per vedere se dare al movimento un carattere di consapevolezza, il massimo di forza con l'intervento di quelle categorie che più pesavano nella lotta. Furono mandati dei messi a questo scopo a Milano, Bologna e altrove. Erano operai della nostra tendenza e dello stesso partito socialista che, concordi, partivano dalle loro località in fiamme per indurre i compagni influenti che erano alla testa del Partito e della Confederazione a mobilitare tutte le forze.

L'U.S.I. aggiungeva alla sua volta le sue pressioni a quelle dei sindacati e dei comitati locali ed inviava sul luogo della lotta i suoi militanti; ma Partito e Confederazione dovevano prima di tutto risolvere sempre il caso della competenza e allora ecco le interminabili disquisizioni sulla Carta di Stoccarda cui abbiamo parlato. Infine si riusciva sempre a stabilire o che era troppo presto o che era troppo tardi o che la soluzione maturava a Mosca od a Parigi od a Londra, sempre in luoghi ed in circostanze misteriose per cui bisognava aspettare e farla finita colle impazienze e le provocazioni degli anarchici.

C'era in quei giorni l'affare... serio delle trattative parigine per lo sciopero generale internazionale. Lazzari, Serrati, d'Aragona avevano altro da fare. Era a Parigi che mutavano i destini del proletariato. Di fronte ai loro impegni il caroviveri era una bagattella.

Il movimento roteò di paese in paese, di regione in regione e si esaurì. Vi furono morti e feriti di parte operaia (a La Spezia, a Firenze, in Puglia, a Sestri Ponente, ecc.), poichè è una spudorata menzogna che «quando si comandava noi», come sbraitano oggi i fascisti, si vincesse senza colpo ferire.

Un'altra tempesta era passata. Altre speranze deluse, altre polveri bruciate per tirare a salve, altre vittime inutili, di certo inutili se non servivano ad indicare la via maestra per le lotte di domani. Il governo di Nitti che era intorno ad arruolare la guardia regia aveva dovuto dare alle prefetture ordini di grande cautela. Ivanoe Bonomi vide questo periodo politico in questi termini: «Nell'immediato dopo guerra molte possibilità si presentarono al partito socialista per suscitare sul terreno della realtà, o grandi battaglie politiche, o decisivi movimenti insurrezionali. Esso le lasciò trascorrere tutte con una indifferenza tanto più inconcepibile quanto più esso si compiaceva proclamarsi rivoluzionario».

Per l'impotenza del governo e poiché alcuni elementi che erano stati per la guerra non disdegnarono di portare la loro adesione al moto del caroviveri in talune città, molti dettero una certa apparenza di verità a quella che altro non era che una calunnia che cioè quei moti fossero di ispirazione nittiana.

Io scrivevo in quei giorni sugli avvenimenti d'Italia una relazione alla Vie Ouvrière in cui dicevo tra l'altro che «mentre Lazzari e altri discutevano in Francia di uno sciopero generale di 24 ore, in Italia avvenivano fatti che non dovevano essere abbandonati a se stessi per non importa quale sciopero dimostrativo». Era grave la mia colpa di far aprire un po' gli occhi a quelli che allora anarco-sindacalisti francesi che dalla proclamazione della guerra si ostinavano a vedere a occhi chiusi nel partito socialista italiano tutte le purezze immaginabili del rivoluzionarismo. Or'ecco come Serrati, il quale sull'Avanti! non disse motto delle mie... menzogne, mi confutava sul giornale parigino per coloro che non potevano controllare la verità dei fatti:

«Borghi vi dice, per esempio, che fin dagli ultimi moti provocati dal caroviveri si erano incominciati ad organizzare i soviet.

«Sfortunatamente durante la mia assenza – io ero a Parigi – tutto ciò è stato detto anche dall'Avanti! Ma purtroppo quei soviet non erano che delle caricature di soviet, organizzati sovente col permesso delle autorità per fare il giuoco di Sua Eccellenza Nitti, e far credere agli operai che bastava assalire un negozio e distruggere le mercanzie per ottenere un ribasso del cinquanta per cento. Questo metodo è stato recisamente combattuto in Russia dai nostri amici Lenin e Trotsky.

«In Russia i saccheggiatori si chiamano: i pescecani della rivoluzione.

«In Italia i saccheggiatori non erano compagni, ma avversari. A Roma si son veduti dei principi applaudire al saccheggio e profittare del ribasso per comperare seterie e dentelles. È questo il comunismo!»

Ma se Serrati e compagni erano stati assenti dall'Italia durante quei giorni, se anzi in pieno movimento essi dovettero partire per Parigi, ciò fu perchè... gravi decisioni maturavano nella capitale francese. Si trattava dello sciopero generale internazionale pro Russia ed Ungheria e contro la pace di Versailles. Ce n'era per accontentare mezzo mondo e per la difesa della rivoluzione in tanti paesi mentre passava la buona occasione in Italia.

Non è raro sentir dire, da parte dei riformisti, che le pressioni che esercitavano alle loro spalle i fanatici dello sciopero generale furono spesso causa della scioperomania che stancò le masse ed esasperò gran parte di popolo. Certo nella scioperomania non entrava un certo numero di scioperi che noi subimmo per non trovarci mai dall'altra parte della barricata. Questi scioperi erano, a mo' di esempio, i seguenti: sciopero generale per festeggiare la vittoria elettorale municipale, sciopero generale per solennizzare l'insediamento del nuovo consiglio municipale, sciopero generale per reclamare la legge della proporzionale, sciopero generale di solidarietà col deputato che aveva preso uno scapaccione in piazza Montecitorio. E anche per le conquiste economiche non entrava nel nostro piano lo sperpero delle cinquanta categorie scioperanti a lunga serie. Al convegno della mancata unità (Roma – gennaio 1919) di cui si è già discorso, noi proponemmo appunto, «in attesa della costituente sindacale»: l'unione e l'accordo sulle agitazioni di carattere sindacale e politico, spiegando le nostre preferenze per un'azione, diciamo così verticale, delle lotte sindacali di conquiste economiche per non sciupare in ripetute scaramucce le energie operaie.

Gli elementi nostri, ad ogni modo dovevano prendere posizione di fronte allo strombazzato sciopero generale e la presero.

L'U.S.I. convocò per i primi di luglio un Convegno per tentare un accordo rosso extraconfederale che infatti ebbe luogo alla Camera del lavoro di Mura Lame. Vi intervennero delegati anarchici da tutte le regioni d'Italia, le sezioni dell'U.S.I. e Gennari, Bombacci e Croce per la frazione comunista dirigente il partito socialista. Risultato: zero. I tre estremisti riconobbero la fondatezza delle nostre critiche al rigorismo ma in pratica non potevano consigliarci che di imitarli: accettare come il meno male la disciplina verso la Confederazione del Lavoro. Finimmo per salutarci scusandoci del tempo perduto.

La matassa era abbastanza intricata ma noi ci sbrogliammo aderendo allo sciopero soprattutto per non lasciar soli i ferrovieri. Nel numero di Guerra di Classe del 14 giugno noi scrivemmo che si trattava di uno sciopero generale femmina e notammo le particolari difficoltà delle condizioni dei ferrovieri.

I ferrovieri dovevano far la corsa nel sacco. Primo: avrebbero scioperato a freddo dopo un mese che la coalizione gialla si preparava contro tutti e più contro di essi; secondo: essi, anzicchè preceduti avrebbero dovuto precedere la massa industriale e contadina, poichè il movimento incominciava di domenica quando gli operai delle industrie fanno vacanza e rischiavano tutto per un'azione prevista nei limiti «dimostrativi». Non si sollecitava quindi nei ferrovieri nè gli interessi di categoria nè l'idealismo protestatario della minoranza. Si aggiunga che lo sciopero, annunziato come internazionale, non lo sarebbe stato per il disaccordo con le organizzazioni francesi ed inglesi.

Venuto il 20-21 luglio il governo aveva il coltello dalla parte del manico. Mobilitò tutte le sue forze e le sue paure con questi provvedimenti: distribuì con accortezza le truppe fide (le malfide le mescolò agli arditi di guerra) – la guardia regia era ancora in progetto –; dette il fermo a tutti gli autoveicoli, ebbe tempo per degli impianti telefonici d'eccezione, bloccò militarmente le stazioni ferroviarie, arrestò i dirigenti dei movimenti molesti (tutto il Comitato Direttivo dell'U.S.I.) e gli anarchici più in vista. Dal canto suo, il proletariato ancora una volta avvertiva che si trattava di una finta... rivoluzione.

Noi – gli scioperomani – scrivevamo in una relazione per il Congresso dell'U.S.I. a Parma alcuni mesi dopo le seguenti parole:

«Per chi, perché i ferrovieri scioperavano? Per la reazione! E come mai quei cautissimi posapiano della Confederazione vollero lo sciopero dei ferrovieri nelle condizioni, nelle pastoie, con la finalità che abbiam visto? Forse – ecco un'ipotesi – in tal modo si liberavano dall'incubo di un movimento sindacale in un movimento serio, poiché è ovvio che quando i ferrovieri avevano sparato la loro arma carica contro l'ombra non avrebbero potuto averla pronta subito per sparare sul serio. Ci possono essere forse due scioperi generali dei ferrovieri – putacaso – in un anno?...»

Il proletariato uscì infatti dalle quarantotto ore di sciopero generale come un organismo sano dopo una purga fascista a base di olio... di manganello. La svalorizzazione dei metodi di azione diretta non poteva essere meglio raggiunta.

Siamo alle elezioni e alla venuta di Malatesta.

Sarebbe come dire mescolare... il diavolo con l'acqua santa. È proprio questo che avvenne e non per caso.

Noi volevamo Malatesta in Italia. Lo volevamo non tanto per ragioni sentimentali e per ragioni di rivalsa contro il governo, che lo aveva escluso abilmente dalla amnistia del dicembre 1914; lo volevamo perché era indubbio che la sua presenza avrebbe portato un forte contributo di idee, di consigli, di esperienza e di prestigio alla lotta rivoluzionaria. Il vecchio pur sempre giovane militante aveva sempre contribuito ad imprimere agli avvenimenti una piega rivoluzionaria portando un elemento di concordia tra le varie forze d'avanguardia. Egli dunque in quest'ora doveva essere tra noi. Egli avrebbe trovato in Italia qualcuno dei suoi antichi ammiratori divenuti voltagabbana, come il predappiese, ma vi avrebbe trovato anche delle magnifiche folle di simpatizzanti e molti compagni militanti.

La campagna per il ritorno di Malatesta si impose subito e fu accolta con entusiasmo dalla gente libera. I partiti rossi la fecero propria. L'Avanti! – è giusto riconoscerlo – aiutò molto. Non potremmo non parlarne anche perché è in questo successo la prova di una maturità nuova delle masse operaie. Malatesta ripeteva spesso questo pensiero: «quando ero ritornato altre volte in Italia io avevo dovuto fare la propaganda per la rivoluzione, ma questa volta mi accorsi dalle stesse accoglienze che ricevetti da migliaia di operai fra i quali erano persino dei soldati che la rivoluzione era già al massimo suo sviluppo». Vennero convocati dei comizi imponentissimi nelle principali città. Il diciannove ottobre 1919 ebbe luogo il comizio dei comizi al «Comunale» di Bologna che riuscì imponentissimo per la folla accorsa e per le adesioni da tutte le parti d'Italia. Le masse estremiste pesarono tutte dalla parte nostra. I loro oratori unirono la loro parola alla nostra. Spesso l'argomento elettorale veniva messo in disparte. Il governo di Nitti non sapeva come cavarsi di impaccio. Consentiva in via legale e ostacolava per le vie oblique l'imbarco del nostro compagno a Londra. A un certo punto la Francia ricordò una vecchia espulsione di Malatesta e gli impediva di traversare il territorio della Repubblica. Tutto ciò non fece che rinfocolare l'agitazione che ingrossava.

Lotta elettorale? L'oratoria socialista fu sprezzante per il parlamentarismo. Molti si scusavano di non astenersi. Qualche candidato giurò che non avrebbe giurato poi rigiurò che spergiurava giurando.

Già il Congresso Nazionale socialista di Bologna (ottobre 1922) aveva modificato il programma di Genova del 1892 accettando la violenza rivoluzionaria come mezzo di lotta e dichiarando l'incapacità degli organi e delle istituzioni rappresentative dello Stato a risolvere il problema della trasformazione sociale in senso socialista.

Si trattava delle ultime elezioni. Di elezioni per ingannare il nemico. Non si sarebbe arrivati al Parlamento. Oppure, appena messovi piede, si sarebbe trasformato in soviet. Il re non vi avrebbe parlato. Lo si sarebbe espulso come nemico del popolo. Insomma tutto quanto bastava per trovare ridicolo ostinarsi alla partecipazione elettorale, quanto viceversa.

Nicola Bombacci, la testa pensante dell'estremismo, aveva già schematizzato il progetto di ordinamento dei soviet. L'Avanti! faceva ogni mattina i funerali al regime e lo dava per morto a tal punto da non voler fare il maramaldo.

La vittoria elettorale del partito socialista fu strepitosa e fu veramente la manifestazione spontanea della volontà di lotta anticapitalista del proletariato italiano. La borghesia, eroicissima, più tardi, ne tremò. Quella parte del proletariato che non era amareggiato dalle considerazioni della critica nostra, si abbandonò al delirio della vittoria.

Pochi giorni dopo eravamo ai fatti di Mantova. Eccone un cenno.

Il due dicembre (1919) si diffonde la notizia dell'aggressione a Roma del deputato di Mantova on. Murari. In altri giorni la cosa non avrebbe scosso così la popolazione mantovana. Ma l'eccidio poliziesco è contagioso: a Milano tre operai ancora uccisi dalla polizia e molti feriti. La popolazione rossa di Mantova è tutta sossopra in quella temperatura politica. La Camera del Lavoro decide lo sciopero generale. Ad oltranza? I dirigenti della Camera del Lavoro e del partito socialista rispondono sì a questa domanda. Ne seguono tumulti, assalti ai negozi di armi, fermate dei treni alla stazione, incendio delle carceri, disarmo di soldati e di guardie per liberare i carcerati. Insomma la città è nelle mani del popolo. Ne seguì un fermento generale in Italia e vi fu anche una scottante polemica tra l'on. Dugoni, deputato di Mantova, e Malatesta, il quale protestò contro il Dugoni per avere questi qualificato di teppisti i rivoltosi di Mantova.

La mattina del quattro, la città, per la vigliaccheria di pochi, è virtualmente di nuovo in potere delle autorità governative.

Nel pomeriggio, l'on. Grandi, giunto da Roma, in un grande comizio tenuto in piazza Virgiliana, incita il popolo a riprendere il lavoro, ma il popolo decide invece di persistere nello sciopero fino ai funerali delle vittime. Il comizio si scioglie nel più perfetto ordine, ma non appena la folla, muta, attraversa il centro della città, per rincasare, viene presa a fucilate dai carabinieri.

Non riesumiamo le polemiche che suscitarono questi fatti. Abbiamo voluto parlarne perché furono molto calunniati...

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