8 Persecuzioni antiproletarie

Malatesta entra in Italia – Una idea che si fa strada – I Consigli di Fabbrica – Anticipazione di Sestri – Galateo rivoluzionario – Un eccidio a Milano – Demografia e topografia rivoluzionaria – Forca e manganello si incontrano – Torna Giolitti – La rivolta di Ancona.

Prima che l'anno tramonti, le fiamme del terror bianco avranno incenerito delle Camere del Lavoro. La lotta si farà più aspra e decisiva.

Malatesta è già in Italia e noi rinunciamo a tentare di dare anche solo un pallido accenno a quelle che furono le accoglienze festose di Genova Milano Torino Bologna Ravenna Ancona per il vecchio internazionalista.

Il proletariato sentiva l'immenso male che gli era derivato dal fatto di aver avuto troppi maestri di rivoluzione i quali si trovavano con lo spirito dall'altra parte della barricata. Il proletariato s'accorgeva che gran parte della forza borghese veniva dallo scompiglio portato nelle file degli oppressi dalle lunghe mani degli oppressori, dalle volubilità dei politicanti. Il proletariato sentiva tutto ciò e faceva a Malatesta ritornante quelle feste che gli avrebbero fatte i governanti se egli avesse detto una sola parola di resa.

Malatesta poté sbarcare in Italia per opera del capitano Giulietti, un tipo di uomo politico ibrido, un misto di libertario e di politicante, amante dei bei gesti e delle avventure e abile nel sapersi destreggiare tra le forze più opposte pur di mantenersi in equilibrio tra gli elementi così disparati di una corporazione – la Federazione dei Lavoratori del Mare – di sua creazione e di suo monopolio, nella quale i lavoratori del mare, dal mozzo al capitano di bordo, erano regolarmente organizzati. Metà dannunziano e metà socialista, in rotta col partito socialista e uscito da breve tempo dalla Confederazione del Lavoro, Giulietti volle fare lui il bel gesto di portare in Italia Malatesta, del che gli andò la personale gratitudine sincera di quanti non ebbero a dispetto che il vecchio fosse riuscito a penetrare in Italia.

Mussolini volle farsi ammirare come un Farinata passato attraverso gli anni del... bolscevismo italiano senza piegar sua costa. Vi sarebbero mille argomenti per smentire l'inflessibile Cesare, e anche in questa circostanza della venuta di Malatesta si può avvertire in Mussolini il tentativo di intrufolarsi, in cerca di una popolarità scroccata momentanea.

Così la mattina del ventisette dicembre (1919) si poteva leggere sul giornale di Mussolini l'annuncio dell'arrivo in Italia di Malatesta e il seguente commento redazionale:

«Non più tardi di ieri l'altro, l'organo quotidiano del socialismo ufficiale vomitava due colonne di prosa addosso al nostro amico, nonché capitano onorevole Giuseppe Giulietti, accusato di avere – nientedimeno! – servito la causa della «reazione e del militarismo» a Fiume ed ecco che il Giulietti stesso ospita Errico Malatesta e Malatesta non si fa scrupolo di accogliere l'ospitalità del reazionario, del militarista, dell'interventista Giulietti. La cosa deve aver provocato un vivo movimento di contrarietà nei signori dell'Avanti! Noi non sappiamo se il fatto di essere stati interventisti e di aver coraggio di vantarsene sia tale da provocare le scomuniche del vecchio agitatore anarchico. Forse egli è molto meno intransigente dei tesserati idioti e nefandi del pus. Noi siamo lontani dalle sue idee, perché non crediamo più a nessuna verità rivelata, perché non crediamo più alla possibilità di paradisi terrestri ad opera di leggi e di mitragliatrici; perché non crediamo più alle mutazioni taumaturgiche, perché abbiamo un altro concetto – nettamente individualistico – della vita e della élite, ma tutto ciò non impedisce a noi, sempre pronti ad ammirare gli uomini che professano una fede e per quella sono pronti a morire, di mandare a Malatesta il nostro saluto cordiale. Lo facciamo con la speranza che la sua vasta esperienza di vita vissuta giovi a smascherare i mercanti della rivoluzione, i venditori di fumo bolscevico, i preparatori di una nuova tirannide che dopo un breve periodo lascerebbe il popolo in una spaventosa reazione».

Gli è che il fatto di essere stati interventisti era ben distinto da Malatesta e da noi dal misfatto di essere divenuti degli agenti pagati dell'imperialismo. E perciò il nostro compagno non si lasciò commuovere dal saluto calcolato e marciò diritto per la sua strada.

Nitti che, come abbiam detto, aveva fatto tutto il possibile perché il Malatesta non riuscisse a tornare in patria, non poté che far di cappello al fatto compiuto. Avrà egli mai riflettuto che proprio... l'uomo di bronzo della reazione aveva rivolto un «cordiale saluto» al Malatesta al suo rimpatrio?

Più tardi, quando la situazione evolse a nostro danno, e tutte le resistenze cedettero una dopo l'altra, e la stessa democrazia borghese, che aveva lasciato via libera al fascismo, quando non l'aveva armato ed aiutato, fu travolta ed annientata, il ministro Nitti diventò l'oggetto delle più insensate accuse di complicità o di tolleranza verso i rivoluzionari. Nitti poté giustificarsi e difendersi ricordando quale fosse allora la forza travolgente del proletariato, non solo, ma quale fosse lo stato di rilassatezza della borghesia che, più tardi, passata la tempesta, era ritornata in sulla via, come la gallina leopardiana, a ricantare il suo verso.

Il ministro della guardia regia ricordò in Senato, ai critici della sua politica, che la cortigianeria della stampa borghese attorno al Malatesta, la caccia dei patriottissimi giornalisti per ottenere una intervista dall'esule ritornante, la profusione dei ritratti dell'agitatore pubblicati dai giornalisti dell'ordine e tutto quel prosternarsi in presentazioni laudative che rivelano in certa gente la propensione a mettersi dalla parte del più forte. Certamente il ministro caduto in disgrazia non ci regalò niente in quei giorni, fuori della sua guardia regia. E del resto egli poté accorgersi quanto fosse pericoloso mettere le mani su Malatesta, allorché un primo tentativo di imprigionamento venne fatto il due febbraio 1920 a Tombolo, presso Livorno. È difficile stabilire se si trattasse in quel caso dell'audace ma stupido colpo di un poliziotto di bassa forza, o se addirittura non fosse un tentativo nittiano di mettere a prova la suscettibilità del proletariato. Sta di fatto che il governo dovette accorgersi che il colpo mancino di Tombolo doveva essere subito riparato. E lo fu. Malatesta che doveva essere inoltrato nelle carceri di Firenze, venne di buon mattino scarcerato, con la preghiera che facesse tutto il possibile per far toccare con mano ai suoi amici della Toscana che era libero.

Ed ecco, al principio del 1920, i ferrovieri presentare le loro rivendicazioni corporative.

Erano dunque accontentati i giornali borghesi che avevano sbraitato nel luglio del 1919 contro la partecipazione dei ferrovieri ad uno sciopero politico! Questa volta l'agitazione (pur rivendicando l'abolizione delle leggi restrittive del diritto di sciopero) era a scopo salariale; ma anche questo non piacque. «Economia» questa volta era uguale a materialismo... «panciafichismo». Lo sciopero dei ferrovieri si sarebbe incontrato con quello dei postelegrafonici... se... No... la Confederazione chiuse quest'ultimo sciopero la sera stessa in cui i ferrovieri entravano in lotta. Un giorno forse si potrà dire di più su questo avvenimento. Per ora ci sia permesso limitarci a ricordare quello che è noto: l'Avanti! del 26 ottobre 1920 pubblicava queste righe in polemica con Gabriele d'Annunzio:

«Chi non ricorda che ci fu un tempo in cui D'Annunzio, giovandosi anche della dabbenaggine di qualche organizzatore, tentò di presentarsi alla classe operaia come il campione del socialismo e della repubblica sociale, tenendo dei discorsi di sapore bolscevico e si interessò persino dei scioperi ferroviari?»

Malatesta, tirato anche lui in ballo dall'Avanti! e da altri su questa favola, si è sempre limitato ad invitare i suoi avversari a non fare la spia.

Su questo problema di un accordo rivoluzionario (tra il 1920-1921), vi sono delle notizie precise. Ho fra mano un numero del Giornale d'Italia del 4 gennaio 1920, nel quale si fa gran chiasso sull'arrivo di Malatesta a Roma, con ritratto dell'agitatore e vistosità di titoli: «Un'ora di polemica con l'anarchico Malatesta. In casa di un compagno: ricco industriale».

Nessuno sapeva che Malatesta era proprio tutto il contrario del tipo da baraccone giornalistico, come sono divenuti i politici moderni.

La riunione, tanto per essere precisi, ebbe luogo a via del Sudario 14, dove abitava veramente un ricco industriale anarchico romano, venuto dalla cazzuola, che si chiamava Casimiro Chiocchini. Anche ai giornalisti Malatesta non faceva sapere i fatti suoi. Interrogato sulla rivoluzione, troviamo questa risposta:

«La mia opinione è che quando la rivoluzione verrà, non servirà nulla essere soli o accompagnati dai proletari degli altri paesi. La rivoluzione non viene per data fissa o perché noi o altri la invocano: essa è il risultato di una serie di forze più sociali che individuali».

Altra domanda: «Ma lei crede sul serio che in Italia ci sarà la rivoluzione?»

«Io penso che in Italia avremo presto la rivoluzione, e noi lavoriamo in tutti i modi per affrettarne l'avvento. Naturalmente, se, per esempio, Sua Maestà il re ci dicesse di andarsene senza resistenze, noi l'accompagneremmo alla frontiera con la banda».

Una domanda finale: «Gli anarchici seguono in questo momento i socialisti italiani?»

«In molta parte siamo d'accordo con i socialisti ufficiali italiani. I punti che ci avvicinano ai socialisti sono più numerosi di quelli che ci dividono e quindi è augurabile che in quest'ora di crisi, quando tutte le forze della reazione cercano di sopprimere la rivoluzione, tutte le forze rivoluzionarie marcino unite contro il comune nemico.

È in questo periodo che l'idea dell'occupazione dei luoghi del lavoro viene concretandosi, e anzi passa dallo stato di dottrina a tentativi di realizzazione. Già le Commissioni interne stabilite nei concordati dei metallurgici non sono più gli organi di collaborazione interna che riformisti e industriali si figuravano. Esse divengono un sistema di auto-direzione – o se si vuole – di «autodisciplina» che i lavoratori si danno nel luogo della produzione.

Ancora una volta insistiamo su questo carattere sociale e produttivo che era alla base del movimento rivoluzionario. Non la jacquerie, non la rivolta degli straccioni e degli oziosi, ma le masse organizzate, già allenate all'autopedagogia dell'azione collettiva e del funzionamento dell'azienda produttiva nell'esercizio quotidiano della contesa e della difesa di classe dove si affinano sensibilmente le conoscenze tecniche del produttore. Ecco un pensiero di Arturo Labriola:

«Nella mia esperienza di sindaco di una grande città e poi di Ministro del Lavoro ho dovuto constatare che rispetto all'arte di esporre le proprie ragioni e di interpretare i fatti economici, i rappresentanti dei lavoratori in conflitto con i rappresentanti dei capitalisti, hanno una decisa superiorità. E quasi sempre gli stessi rappresentanti dei capitalisti ne convenivano».

Massa già affiatata coi tecnici e già avviata alla comprensione dei problemi che alla tecnica produttiva si riferiscono.

La questione dei Consigli di Fabbrica fu dominante, al punto che sembrò a taluni che una nuova teoria si stesse elaborando. È a Torino che la questione viene più dibattuta, ma in realtà, anche senza le teorizzazioni qualche volta ardite, spesso sofistiche, di alcuni teorici mettenti capo alla allora rivista «L'Ordine Nuovo», non ancora impeciata di dittatura pura marca, il Consiglio di Fabbrica era già in via di attuazione in quasi tutti i centri industriali. E si identificava la concezione del Consiglio di Fabbrica col soviet. A Torino la cosa prendeva maggior rilievo dal fatto che nei Consigli trovava il suo punto di applicazione la tendenza in contrasto con le direttive riformiste della Confederazione del Lavoro, alla quale, in quella città, la grande maggioranza delle maestranze – non esclusi moltissimi anarchici – era aderente. Così in questa città dove i sindacati «U.S.I.» non erano riusciti a mettere forti radici benché vi fosse una importante sezione dell'USI, la corrente anticonfederale era rappresentata dai Consigli».

Non sarà del tutto inutile dare un cenno delle idee che si agitavano nel nostro campo a proposito dei Consigli di Fabbrica. La questione fu ampiamente discussa al Congresso dell'U.S.I. nella fine di dicembre 1919 e nel Congresso dell'Unione Anarchica nel luglio dell'anno seguente. La questione dei Consigli era connessa per un verso a quella del controllo e per l'altro a quella della espropriazione.

C'era dunque ragione per tutto l'ottimismo e per tutte le diffidenze. I Consigli, perché? Per il controllo interno della cosiddetta disciplina operaia? Per la gestione diretta in regime capitalistico? Per il controllo amministrativo delle aziende? Per l'abilitazione tecnica degli operai? Per l'espropriazione? Fino a qual punto possono i Consigli essere rivoluzionari? Fino a qual punto conservatori? Consigli aperti o chiusi ai non organizzati? Organi di gestione libertaria o strumenti di dittatura?

I punti controversi non erano pochi attorno a una tale questione, come sulla funzione del sindacato. Nessun misoneismo da parte nostra. Il Consiglio di Fabbrica, come abbiam detto, pur senza pretesti contorni teorici, vigeva ormai in tutti i rami della produzione. Solo nella Confederazione del Lavoro il fatto acquistava sapore di eresia, mentre nelle organizzazioni unioniste e in qualche organizzazione autonoma di tendenza rivoluzionaria, viveva in perfetta armonia col loro spirito.

Riassumiamo le idee che prevalsero in linea generale nel nostro campo. Consigli di Fabbrica per la difesa operaia e per il controllo dell'autorità padronale all'interno dell'officina, sì! Per il cosiddetto controllo amministrativo delle aziende, no! In questo secondo caso si sarebbe precipitati in una forma di collaborazione operaia indiretta, che avrebbe distanziato dai loro compagni di lavoro gli operai incaricati del controllo quanto li avrebbe avvicinati ai padroni e ciò senza nemmeno riuscire nell'intento di controllare amministrazioni fraudolente per eccellenza al punto di riuscire, ogni qualvolta loro sarebbe occorso per ragioni fiscali per esempio ad ingannare persino lo Stato?

Consiglio di Fabbrica aperto ai non organizzati? La risposta fu affermativa senza eccezione in mezzo a noi. Identificare nel produttore il socio di diritto di questa comunità organizzata sotto la presidenza della macchina, cellula del sistema federativo della libera Comune; in ciò era appunto il lato novatore del Consiglio nella fabbrica. «Esso contribuirà – scriverà l'ingegner Italo Garinei su Guerra di Classe, alla vigilia del Congresso dell'U.S.I. del 1919 – ad evitare il pericolo di una dittatura delle organizzazioni che domani potrebbe perturbare la rivoluzione espropriatrice con episodi poco simpatici di autoritarismo corporativo e condurre a quella tale dittatura proletaria contro la quale non sarà male che le masse sindacaliste e libertarie si preparino fin d'ora a prendere posizione di aperta difesa». Il Consiglio deve dunque divenire, nella opinione dei nostri compagni, l'organo immediato dell'espropriazione per la produzione diretta.

E Aldibrando Giovannetti così incalzava: «Ciò che, secondo noi, costituisce il maggior pregio dei Consigli è quello di ispirare nella classe lavoratrice la convinzione profonda che essa, attraverso questa preparazione, sarà fra breve capace di procedere all'espropriazione del capitale e di gestire da sé medesima la fabbrica. Gli è perciò che per noi è normale che alla costituzione dei Consigli di Fabbrica partecipino anche gli operai non organizzati».

Un anno e mezzo più tardi la stessa discussione avveniva al Congresso di Bologna dell'Unione Anarchica Italiana e le idee dibattute non furono sostanzialmente diverse.

Garino, relatore: «Premette che in sé il Consiglio di Fabbrica non sia, piuttosto rivoluzionario che riformista o viceversa. Esso può assumere a vicenda l'uno e l'altro aspetto secondo l'ambiente sindacale in cui si sviluppa, pur raggruppando tutti i produttori del braccio e del cervello dentro la stessa fabbrica». Alessandro Molinari si dichiara d'accordo col relatore, ma vuole che si dia ai Consigli di Fabbrica carattere di opposizione alla predominanza di quegli organismi di classe che vogliono sovrapporsi alla coscienza deliberativa degli interessi diretti. Pasquale Binazzi solleva l'importante problema della produzione cosciente, osservando che gli operai anche se organizzati, si prestano a manipolazioni che avvelenano il pubblico. Maturità, serietà, praticità di idee, come si vede, non ne mancavano e dagli ordini del giorno dell'U.S.I. a Parma e dell'Unione Anarchica a Bologna risulta una coincidenza di vedute, che non autorizza né sospetti né diffidenze né compiacimenti per delle presunte dipendenze o compromessi o incroci ufficiali fra i due diversi movimenti, ma che deriva da una linea ideale delle comuni vedute, dominanti nei due campi, sulla concezione statale nel socialismo.

Ecco le parti essenziali dei due ordini del giorno.

Unione Sindacale Italiana (dicembre 1919):

«Considera la concezione soviettista della ricostruzione sociale come antitetica dello Stato e dichiara che ogni sovrapposizione alla autonoma e libera funzione dei soviet di tutta la classe produttrice unita nell'azione difensiva contro le minacce di ritorno reazionario e dalle necessità amministrative della futura gestione sociale, va considerata come un attentato allo sviluppo della rivoluzione e alla attuazione dell'uguaglianza nella libertà.

«Dichiara perciò tutta la sua simpatia ed incoraggiamento a quelle iniziative proletarie, come i Consigli di Fabbrica, che tendono a trasferire nella massa operaia tutte le facoltà di iniziativa rivoluzionaria e ricostruttiva della vita sociale, mettendo però bene in guardia i lavoratori da ogni possibile deviazione per l'escamotaggio riformista, contro la natura rivoluzionaria di tali iniziative, contrariamente anche alle intenzioni avanguardiste della parte migliore del proletariato».

Unione Anarchica (luglio 1920):

«Il Congresso, tenuto conto che i Consigli di Fabbrica e di reparto hanno la loro principale importanza in quanto si prevede prossima la rivoluzione e potranno essere organi tecnici della espropriazione e della necessaria continuazione immediata della produzione (mentre che, continuando a esistere la società attuale, subirebbe l'influenza moderatrice e accomodante di questa) ritiene i Consigli di Fabbrica organi atti a inquadrare, in vista della rivoluzione, tutti i produttori del braccio e del pensiero sul luogo stesso del lavoro ed ai fini dei principii comunisti anarchici; assolutamente organi antistatali e possibili nuclei della futura gestione della produzione industriale ed agricola.

«Si ritengono inoltre idonei a sviluppare nell'operaio salariato la coscienza del produttore ed utili al fine della rivoluzione favorendo la trasformazione del malcontento delle classi operaie e contadine in una chiara volontà di espropriazione».

La pila delle idee era ben carica. I movimenti, metallurgici soprattutto, della primavera del 1920 dovevano tutti risentire profondamente di queste idee, che erano di dominio oramai di centinaia di migliaia di operai. Un primo segnale clamoroso venne da Sestri Ponente. La lotta ha origini modeste. V'è stato uno sciopero di elettricisti che ha obbligato alla disoccupazione gli operai delle officine metallurgiche. Il contratto di lavoro prevede il pagamento delle giornate di disoccupazione quando ciò avviene indipendentemente dalla volontà degli operai. Gli industriali si rifiutano al pagamento, allegando che se la corrente elettrica era mancata la responsabilità ricadeva sugli operai elettricisti che avevano scioperato. Gli operai controbattono che se gli industriali appagavano i giusti reclami dei loro compagni elettricisti, questi non avrebbero scioperato. La questione interessava quindici grandi officine per un complesso di circa dodicimila operai. Solite trattative. Mancato accordo. Prima fase della lotta: ostruzionismo. Dopo un giorno di ostruzionismo, per parare il colpo di una serrata, si passa all'occupazione.

Il fatto produce una grande impressione in tutta Italia. La Liguria si appresta ad imitare l'esempio di Sestri. Milano e Torino ne sono fortemente influenzate. Intervengono altre trattative. Inutilmente. Il governo teme il contagio e ricorre alla forza, prima che sia troppo tardi. Sestri è invasa dalla guardia regia che attacca militarmente una ad una, separatamente, le officine occupate. La resistenza si presenta impossibile agli operai, i quali finiscono con l'abbandonare i luoghi di lavoro. I più arditi però si rifugiano nell'officina Multedo nella quale era stata commessa l'imprudenza, da parte delle autorità, di introdurre una compagnia di soldati. Questi si erano lasciati di buon grado disarmare dai loro fratelli di classe i quali, con le stesse armi, poterono affrontare la guardia regia. Vi fu un vero e proprio combattimento a colpi di arma da fuoco per alcune ore, finché gli occupanti furono messi in uno stato di inferiorità e poterono mettersi in salvo per vie traverse. Le forze di polizia, temendo un'imboscata, solo dopo alcune ore fecero il loro ingresso nella fabbrica.

L'audace tentativo di Sestri serviva ad arricchire di nuova esperienza la strategia operaia. Il commento generale era questo: «Li hanno attaccati perché erano soli, ma cosa sarebbe avvenuto se tutta l'Italia operaia avesse occupato le fabbriche?»

L'argomento era suggestivo.

Naturalmente, ad impedire che il «cattivo esempio» di Sestri servisse a suscitare lo spirito di imitazione i dirigenti della Confederazione del Lavoro si affrettarono a diffidare le loro organizzazioni contro le provocazioni della cittadella ligure e l'Avanti! seguì la politica dei dirigenti confederali. Ciò non toglieva che il fatto di Sestri costituisse una clamorosa affermazione di iniziativa rivoluzionaria al punto che uno scrittore francese, il signor Jean Alazard, che ha studiato fin dal 1919 le lotte rivoluzionarie del proletariato italiano, ha dovuto occuparsi di questo avvenimento. «In Liguria – egli scrive – si era notato un fenomeno inquietantissimo. In due o tre stabilimenti (gli stabilimenti furono una quindicina fra i quali San Giorgio, Odero, Piazzo, Raggio, Bagnara, Ansaldo, Fossati, Proiettificio, ecc.) di Sestri Ponente gli operai si erano impadroniti delle officine e avevano voluto dirigerle in sostituzione dei padroni. Erano riusciti ad eleggersi un Comitato di Fabbrica analogo ai famosi Consigli di Fabbrica russi. I carabinieri riuscirono a stabilire l'ordine».

Ecco quello che noi scrivevamo dopo l'occupazione di Sestri:

«È già più di un anno che in Italia ogni pretesto è buono per spingere le masse operaie a romperla con le vecchie lotte per il miglioramento immediato e per le vittorie morali (specie di riformismo raggiunto con l'azione diretta, il solo riformismo che vada contro il riformismo) per marciare a passi di gigante verso la soluzione rivoluzionaria della presa di possesso delle officine. La massa è veramente estremista. Essa ha compreso la necessità di colpire alla base e che la base è il capitale. La presa di possesso è l'idea dominante delle masse e oramai si può esser sicuri che una rivoluzione in Italia non può svilupparsi altrimenti che su questa piattaforma emancipatrice: la massa non esce più dalle officine e comincia a produrre per conto suo. La lotta va dunque verso il suo centro naturale, verso il punto da noi indicato da tempo: la fabbrica! Per il momento siamo ancora alla propaganda del fatto, ma allorché la guardia regia ed i carabinieri con le armi alla mano devono liberare le officine per restituirle al padronato, allorché la rivolta operaia non si limita più alla ritirata degli schiavi sull'Aventino, allorché gli operai montano sui tetti delle officine per difenderle e per difenderle con le stesse armi consegnate loro dai soldati, quel giorno se la rivoluzione espropriatrice deve ancora soccombere bisognerà attribuirlo non all'incoscienza delle masse, ma al menefrego di certi partiti sedicenti rivoluzionari che mancano alle loro promesse e alle speranze suscitate.

«Gli operai sono ritornati al lavoro per il padrone, perché la minoranza, ben armata, dei difensori del capitale ha vinto, ma domani la lotta ricomincerà al punto nel quale gli avvenimenti di Sestri Ponente l'hanno lasciata, così come gli avvenimenti di Sestri sono incominciati al punto in cui si arrestò la lotta di Mantova, ché in realtà tutto il proletariato italiano è allo stesso livello di forza. Ed è questa la sua maturità rivoluzionaria».

La potenza di suggestione della lotta di Sestri viene tosto dimostrata dalla piega presa dalle altre agitazioni. Abbiamo nei primi di marzo (1920), dopo mesi di sciopero, l'invasione degli stabilimenti tessili Mazzones a Ponte Canavese e Torre Pellice presso Torino. Il governo se la cava questa volta assumendo egli stesso la gestione della fabbrica per riconsegnarla ai padroni tostoché liquidata la vertenza con gli operai.

Poi, ancora nel marzo, verso la fine, abbiamo i tentativi di Torino (FIAT) e della Miani & Silvestri a Napoli. Sono episodi fugaci, ma precorritori...

A Torino per un'abile manovra strategica della polizia dopo un giorno gli operai sono cacciati dalla fabbrica. A Napoli entra in scena il cannone. Gli operai si difendono con le armi. Le operazioni militari a Napoli sono dirette da un generale. Impiegati e tecnici restano a fianco degli operai. L'idea che la piazza è oramai la Piazza d'armi della reazione e la fabbrica la piazzaforte della rivoluzione è in tutti, e Torino ritorna a tentare la prova nel mese successivo. Riveniamo ad un tentativo in grande stile nel quale si profilerà sul terreno pratico il conflitto tra Consiglio di Fabbrica e metodi dell'apparato confederale. Uno dei soliti conflitti sulla applicazione del regolamento interno porta allo sciopero generale dei metallurgici, seguito dallo sciopero generale di tutte le categorie, al quale aderiscono persino le guardie comunali e che dalla città si estende rapidamente ai centri più importanti del Piemonte. Si è a un pelo dallo sciopero generale in tutta Italia. Lo reclamano i Consigli di Fabbrica torinesi, lo appoggiano l'U.S.I. e gli anarchici, lo disapprovano la Confederazione del Lavoro e l'Avanti! che rifiuta di pubblicare un appello in tal senso del Comitato dei Consigli di Torino al proletariato italiano. È allora che tra gli estremisti torinesi, l'U.S.I. e Umanità Nuova intervengono accordi particolari.

Il governo provvede a premunirsi con l'invio di truppe e la massa operaia è sveglia. I ferrovieri vigilano. A Livorno un treno carico di «regie» è fermato. Espediente governativo: far partire per mare. Niente. Tutto il personale della nave Duilio si oppone. «Abbiamo ricevuto – scrive Malatesta su Umanità Nuova (18 aprile) – la visita di socialisti torinesi (fra questi Umberto Terracini), mandati per informarci delle intenzioni di coloro che per il loro programma ideale debbono necessariamente simpatizzare con gli scioperanti di Torino. Noi abbiamo risposto che, qualunque fossero le circostanze, gli anarchici farebbero tutto il loro dovere».

Dopo circa una settimana di lotta ecco l'ultimo appello del Comitato dei Consigli: «Bisogna resistere, bisogna vincere, non ci piegheranno né il piombo degli scherani né i milioni dei pescecani. Vincere o morire!».

Ma muore bentosto la lotta, malgrado la buona volontà dei Consigli di fabbrica, per il prevalere della tattica riformista.

Continuiamo nell'esame dell'ultima primavera rossa. Già dietro l'eccidio poliziesco si intravvede l'artiglio dell'Agraria e degli industriali che non si sono ancora impalmati col fascismo.

Torino e il Piemonte, isolati, si arrendono...

Più tardi, a terrore fascista divampante, abbiamo potuto assistere a delle lezioni di galateo come questa: «La folla esasperava gli agenti di pubblica sicurezza, li inferociva contro se stessa: i fascisti seppero invece conquistarsela». La verità è che i fascisti poterono fraternizzare con guardie e carabinieri tutte le volte che questi signori si trovarono a spalleggiarsi l'un l'altro, ma quando – eccezionalissimo – si trovarono in posizione antagonista, i fascisti si mostrarono le belve che erano. A Modena, dopo un eccidio in cui le guardie regie uccisero due fascisti e ferirono il deputato fascista Vicini, per più giorni la guardia nittiana non poté mostrarsi in città. E la sera stessa dell'eccidio ebbe a subire dei tentativi di linciaggio. Così dopo i fatti di Sarzana in cui i carabinieri spararono contro i fascisti l'odio fascista contro i carabinieri non si fece attendere. Ed erano fatti rarissimi, scontri insignificanti nei confronti dell'aiuto che guardie e carabinieri prestavano ai fascisti ogni giorno.

Anche durante la marcia su Roma, se il re non avesse ritirato il decreto di stato d'assedio, togliendo così il fascismo dall'incomoda posizione di aggressore impegnato fino all'ultimo colpo, ma non ancora sicuro della vittoria (vi fu un momento in cui non si sapeva chi comandasse, se la polizia regolare o le camicie nere) l'urto tra fascisti e polizia sarebbe scoppiato sanguinosissimo.

Mussolini aveva tanto la percezione di questo pericolo che, quando il 22 ottobre a Milano vi fu un momento in cui sembrò che la guardia regia volesse marciare contro il covo fascista, invocò un contatto col commissario di polizia, per ottenere una tregua. Egli attendeva la chiamata per... marciare su Roma.

Il proletariato italiano, anche negli anni iniziali della guerra di classe, ha pagato con sacrifici e con sangue la propria difesa e le proprie povere conquiste.

Una statistica degli eccidi proletari venne pubblicata in quei giorni e per quanto l'elenco non riuscisse ad essere completo, pur non era breve. Eccolo per il solo 1919:

Milano 1 aprile, un morto e cinque feriti. Milano 15 aprile, 4 morti e più di dieci feriti. Dovadola 11 maggio, un morto. Arezzo 6 maggio, un morto. Genova 2 giugno, un morto e otto feriti. Spezia 11 giugno, 2 morti e 25 feriti. Genova 12 giugno, un morto e 10 feriti. Bologna 15 giugno, 1 morto e 5 feriti. Imola 3 luglio, 5 morti e 4 feriti. Firenze 14 luglio, 2 morti e alcuni feriti. Genova 7 luglio, 1 morto e 4 feriti. Taranto 8 luglio, 4 morti e numerosi feriti. Roma 10 luglio, 3 morti e alcuni feriti. Rossiglione 12 luglio, 2 morti e parecchi feriti. Spilimbergo 13 luglio, 3 morti e 14 feriti. Rio Marina 13 luglio, 1 morto e alcuni feriti. Lucera 14 luglio, 8 morti e 30 feriti. Varese 21 luglio, 1 morto e 2 feriti. Fiamignano (Aquila) 28 luglio, 3 morti e parecchi feriti. Trieste 4 agosto, 2 morti e parecchi feriti. Galliate 10 agosto, 1 morto e due feriti gravi. Lainate 31 agosto, 3 morti e parecchi feriti. Lambrate 2 settembre, 1 morto. Prizzi 26 settembre, 1 morto. Lodi 12 novembre, 1 morto e 10 feriti. Roma 1 dicembre, 1 morto e parecchi feriti. Milano 2 dicembre, 3 morti e parecchi feriti. Torino 3 dicembre, 1 morto e parecchi feriti. Bologna 3 dicembre, 1 morto e parecchi feriti. Mantova 3 dicembre, 5 morti. Catania 16 dicembre, 1 morto.

La polemica fascista asserendo che i rossi passarono impunemente in un'orgia di sangue negli anni fino alla marcia su Roma, non solo mentisce, ma esagera la viltà di tanti eroi della patria e dell'impero. Infatti, se tanto era il terrore dei rossi in quel tempo, perché il fascismo lasciò fare?

Rimettiamoci al passo con la cronologia...

Un eccidio avvenuto l'ultimo giorno di febbraio 1919 a Milano merita di essere notato per le conseguenze che ne derivarono e per le considerazioni che ci offre il destro di fare su quella che potremo chiamare la demografia libertaria in Italia in relazione alla plurità dei nostri centri politici.

Le circostanze di questi eccidi pressoché sempre le stesse: un comizio, qualche incidente, tentata dimostrazione operaia, scarica di fucilate poliziesche, morti e feriti da parte nostra e qualche rara volta da parte della polizia. È ciò che avvenne a Milano, dopo un grandioso comizio promosso dalla Lega mutilati e invalidi di guerra, con oratori specialisti. L'eccidio non poteva mancare di destare serie preoccupazioni al governo, sia per l'importanza di una parola d'ordine che parta da Milano per tutta l'Italia, sia perché in questa città si erano trasferiti da poco tempo gli elementi che mettevano capo a «Umanità Nova» ed alla centrale dell'U.S.I.; quegli stessi militanti che più tardi furono i primi ad essere presi di mira dal governo di Giolitti non appena passata la burrasca delle fabbriche. Quali sarebbero state le conseguenze di un movimento iniziato a Milano, soprattutto dopo gli esperimenti di Sestri, di Napoli, di Torino, città grandi, senza delle quali la riuscita di un movimento rivoluzionario non è possibile, mentre sono insufficienti ciascuna per conto proprio ad esercitare una influenza decisiva su tutta la Nazione? Quali conseguenze se la parola d'ordine di queste ultime città: «occupiamo le fabbriche!», fosse partita dalla capitale lombarda?

Punto oscuro per il governo. Punto oscuro per noi che non sapevamo quale sarebbe stato il contegno dei capi socialisti nei nostri riguardi.

Ci viene qui spontanea una considerazione. Non si comprenderebbe niente delle difficoltà di una rivoluzione in Italia se non si tenesse conto della demografia e della topografia politica del nostro paese. L'Italia è un paese decentrato per eccellenza. Non ha una capitale della rivoluzione perché ne ha troppe. Non conosce perciò la dittatura di una metropoli. È questo un punto importante per comprendere anche tutto il ridicolo di quel romanesimo imperiale, che frugando nell'archeologia, pretenderebbe imporre Roma a sole dell'universo, quando Roma non ha nemmeno una superiorità decisiva incontrastata per tutti gli italiani sulle altre ex capitali che sono nel regno.

Ciò ha avuto la sua influenza nello sviluppo degli avvenimenti rivoluzionari nostri. In Francia una rivoluzione che vince a Parigi è vittoriosa per tutta la Nazione. Anche in Russia, Mosca e Pietrogrado dettarono legge. In Italia il fascismo prese Roma dopo di aver preso, domate e occupate, le altre principali città. L'equilibrio politico dello Stato italiano poggia su troppi pilastri, di fronte ai quali la capitale scompare. Napoli è la capitale per tre quarti del Meridione; Torino lo è per il Piemonte, e così si dica di Genova, Firenze, Bologna per le rispettive regioni.

La città che forse riesce ad avere su tutte un grado incontrastato di influenza politica è Milano, e per le sue tradizioni e perché è il centro degli affari e della finanza. La stessa marcia su Roma sembrò a molti la marcia di Milano su Roma.

Disgraziatamente Milano era invece la città dove il movimento libertario, diffusissimo in tutta Italia e distribuito in molte provincie fin nei luoghi più remoti delle campagne, aveva minor prestigio, di preparazione, di tradizione, di forza, di capacità organizzativa.

Tale era la situazione della città maggiore, dal punto di vista della influenza rivoluzionaria nazionale. In essa i socialisti erano rimasti i padroni dell'ambiente dopo la guerra. Bisognava dunque tener presente la loro preponderanza e vedere di accelerare gli avvenimenti senza staccarsi dalle loro masse e possibilmente facendo marciare, se non tutti, almeno la parte migliore dei dirigenti. L'eccidio fu seguito dallo sciopero generale e con lo sciopero generale si riaffacciò l'idea della occupazione delle fabbriche. Al grande comizio del giorno successivo all'eccidio la questione fu posta. I capi socialisti, preoccupatissimi di un movimento che poteva cadere sotto la nostra influenza, volevano senz'altro deliberare la chiusura dello sciopero, alla quale proposta non solo era contraria la massa, ma alcuni degli stessi operai del partito influenti nelle grandi fabbriche, i quali non intendevano di liquidare con uno sciopero di ventiquattro ore un eccidio di proletari. Si verificò questo fatto imprevisto: che, benché contrastatissima dai capi estremisti del partito, passò con voto unanime una nostra proposta: continuare nello sciopero, riunire alla sera i delegati di tutte le tendenze sindacali e politiche di classe per esaminare il problema degli sviluppi ulteriori dell'azione e, eventualmente, dell'occupazione, riferire alla massa all'indomani in un comizio all'Arena. Era, come noi ci proponevamo, il preludio di un'azione concorde delle sinistre? – Precisamente il contrario! – Lo scandalo che suscitò nelle alte sfere ufficiali del socialismo la approvazione di una proposta degli anarchici e dei sindacalisti nella capitale morale (contro una proposta socialista) fu tale che non si volle tener conto da parte loro del voto in parola. Così la riunione comune alla sera non ebbe luogo e, peggio, al mattino l'Avanti! pubblicava l'ordine della Camera del Lavoro Confederale e della sezione del partito socialista della ripresa del lavoro. Tristo consiglio dello spirito autoritario offeso, che fu la causa di divisioni e di contrasti amarissimi nella classe operaia. Ciò malgrado, lo sciopero generale continuò e si estese ed i comizi all'Arena nei due giorni successivi al dissidio coi socialisti riuscirono imponentissimi. Questo fatto fu salutato con gioia esagerata da taluni dei nostri, ma in realtà la speculazione che ne fece la grande stampa autorizzava più al rammarico che al compiacimento. Noi però non avevamo nulla da rimproverarci e gli avvenimenti che seguirono dimostrarono che in definitiva in nessun modo noi avremmo potuto lottare per sospingere in avanti gli avvenimenti rivoluzionari senza trovarci contro i capi dello stesso estremismo che dirigevano l'Avanti! in quel tempo e il partito socialista.

Il fascismo – lo abbiam detto – non era tutto negli striminziti fasci che Mussolini aveva riuniti attorno a sé nel dopo guerra immediato. Quello era il fascismo che chiameremo politico, repubblicaneggiante, che, avendo delle ramificazioni nella Unione Italiana del Lavoro (sindacati staccatisi dalla Unione Sindacale per questione di interventismo bellico) era costretto alle apparenze del rosso. Questo fascismo insomma si dibatteva tra le esigenze del rabagasismo del suo massimo esponente, truffatore anche di tanta buona fede tra i suoi, e le esigenze della esteriorità per il loggione. Egli era carico dell'odio del rinnegato ed aveva a suo vantaggio i dati strategici dell'«inside jobe» per giovare alla reazione.

Mussolini conosceva poi a meraviglia la psicologia dei dirigenti ufficiali del suo ex partito, la considerazione da darsi alle loro decisioni, le crepe e le rivalità che la loro unità copriva e il desiderio della tendenza riformista di vedere la tendenza estremista indebolita, non importa per quali circostanze, fosse pure per una rivalsa governativa sovr'essa. Quante coccarde non ha sempre tenuto in tasca il fascismo per dividere i suoi nemici, per batterli separatamente? Si era riconciliato col bolscevico della Annunziata, Giolitti, che aveva impiccato in effige quale venduto ai tedeschi; aveva abbandonato D'Annunzio alla resa dei conti nel Natale del 1920, aveva indossato il berretto frigio per far leva in Romagna ai rancori repubblicani contro i socialisti. E quante volte non aveva cercato di sollecitare l'antiparlamentarismo degli anarchici contro i politici del «pus»?.

Ma il fascismo non era tutto nei fasci di Mussolini. Questo da solo sarebbe stato poca cosa. Avrebbe potuto fare e rinnovare qualche bravata per meritare altri sbruffi d'oro da parte dei pescecani; ma non avrebbe potuto affrontare il proletariato in campo aperto. C'era l'altro fascismo, quello che veniva su dalle campagne, dalle anime nere degli agrari e che si diffondeva nei salotti dei ricchi terrieri, incapaci a rassegnarsi all'idea che il bracciante fosse pareggiato ad un comune cittadino e, peggio, che il colono pretendesse riformare il suo statuto di lavoro, rivedere i suoi conti col «padrone», pretendesse insomma fare della Lega di Resistenza un tribunale d'appello di fronte alla Agraria.

È in queste feconde pianure sottratte all'acquitrino, alla palude, alla malaria, dove le donne lavoravano da sole a sole, cibandosi di pane e polenta, è qui dove il lamento di tanta povera gente si era perduto tra cielo e terra, solo testimone il prete invocando il premio dei cieli, dove la pellagra aveva lasciato la sua triste eredità fisiologica; era qui dove maturava l'armata del fascismo più vero, al quale il fascismo «politico» aveva fornito lo stato maggiore. Senza le iniziative di questo stato maggiore sarebbe venuta, metodica, disciplinata, a suon di trombe e di campane, l'offensiva fascista? Risponde per noi Luigi Fabbri: «...La controrivoluzione non avrebbe trionfato senza l'iniziativa volontaria controrivoluzionaria della minoranza fascista. Le porte del passato sembravano essersi rinchiuse irrimediabilmente alle spalle delle classi dirigenti e dei reazionari i quali si acconciavano già al loro avverso destino. Ma ecco che il fascismo, interprete all'incirca delle loro aspirazioni coglie il momento della debolezza nemica ed osa spezzare tutte le porte della legalità e dell'abitudine verso il passato».

È nella campagna dove sordamente si svolge il dramma della rottura del vecchio equilibrio dell'ordine antico. In quest'ultima primavera rossa l'Italia contadina è scesa in lotta per rinnovare le proprie condizioni di lavoro schiavo, per spezzare le antiche consuetudini di miseria che è miseria anche per la produzione. Non una regione fece eccezione e in tutto, su tutte, dominano le rivendicazioni delle terre incolte, il diritto di occuparle per lavorarle, per lenire la disoccupazione, per dare ampio respiro alla ricchezza della povera Italia. L'eccidio diviene quotidiano in questo tempo nelle campagne, dalla Valle Padana al Veneto alla Lombardia alle Puglie. Non c'è una lotta agraria che non abbia avuto in ciascuna regione la sua schiuma di sangue, con gli operai mitragliati e sempre impunemente da parte della polizia. Questa storia segnala qualche eccezione. In qualche parte d'Italia, anche nei sindacati cattolici si andava creando un malcontento di lotta abbastanza risoluta: fu il cosidetto bolscevismo bianco, o «migliolismo». Il nome di Don Minzoni, ucciso ad Argenta di Ferrara perché faceva scudo della sua persona alla Lega Contadini del luogo, è rimasto glorioso nella storia dell'antifascismo.

L'agrario è ancora imboscato in questo tempo, ma è lui che dirige, che comanda e paga la repressione contro i contadini. È nel bel mezzo dell'agitazione agraria del bolognese che avviene l'eccidio di Decima di Persiceto. È questa una piccola borgata presso S. Giovanni in Persiceto, in provincia di Bologna. In quella domenica, cinque aprile 1920, c'è una riunione all'aperto della Lega Contadini per discutere sul patto agrario e varietà del genere. Non un tumulto, non assalto a negozi o sassaiole, non zuffa con la polizia. Un comizio domenicale di pacifici lavoratori della terra, raccolti davanti all'edificio delle scuole comunali per ascoltare un oratore della vecchia Camera del Lavoro di Bologna. Vi assistono un commissario di polizia con un buon nerbo di carabinieri, brigadiere in testa. D'un tratto il commissario di polizia interrompe l'oratore, Sigismondo Campagnoli, il quale cerca di chiarire un suo concetto col massimo riguardo di parole. Ma la strage era premeditata e in men che non si dica il brigadiere ordinava il fuoco e si lanciava lui per primo contro l'oratore il quale cadeva esanime, mentre la folla fuggiva all'impazzata. Tra i fuggiaschi molti furono feriti e la strage ebbe una forte eco in tutta la provincia. Venne deliberato lo sciopero generale in accordo con tutte le tendenze. Vale a dire Camera del Lavoro Confederale e Camera del Lavoro dell'Unione Sindacale. Due giorni dopo Decima, altro eccidio a Modena contro un comizio convocato per solidarietà contro l'eccidio precedente di Decima. Vi sono qui cinque morti e una cinquantina di feriti tra cui donne e bambini. Lo sciopero generale venne chiuso per i buoni uffici della Confederazione del Lavoro e del partito socialista.

Era troppo presto? Era troppo tardi?

Solo a Gioia del Colle, nelle Puglie, qualche mese più tardi si applicò un metodo nuovo. I contadini avevano invaso le terre e i proprietari avevano reagito armi alla mano uccidendo sei contadini. La Lega operaia deliberò che sei proprietari dovessero pagare per i contadini assassinati. E così fu. Naturalmente oggi i fascisti enumerano le stragi compiute dai cosidetti «rossi» di Gioia del Colle. Tutto il resto non è accaduto.

Siamo al tramonto di Nitti del quale resterà una gloria: la guardia regia messa su con grande fatica tra i disperati del dopo guerra e i rifiuti della malavita. Si intende sempre inferiore al terrore fascista. Predomina in quest'ora un proposito che è tenuto quale un impegno d'onore: difendere la Russia, non rendersi complici della reazione internazionale. I ferrovieri sono in grado di accorgersi del materiale di guerra che attraverso l'Italia arriva alla Polonia. Bisogna organizzare il fermo e il Sindacato Ferrovieri convoca esso stesso nel mese di maggio il primo Convegno Nazionale per il fronte unico di tutti gli organismi sindacali e politici. L'intesa ed il deliberato corrispondevano alla volontà di salvare quel che restava della grande rivoluzione. C'è in questo momento la sensazione che la crisi borghese si acutizza e il fronte unico riaccende le speranze operaie. Una riunione successiva sarà, è vero, convocata in giugno dal partito socialista escludendo anarchici e Unione Sindacale, ma in seguito alla protesta del Sindacato Ferrovieri la riunione viene rimandata al sedici giugno per invitarvi gli esclusi e anche ora viene rimandata al due luglio.

La crisi nittiana galoppa. Il decreto che aumenta il prezzo del pane travolgerà il ministro della guardia regia. Il segnale parte da Bari, con uno sciopero generale (otto, nove e dieci giugno) che si trasforma in una vera rivolta della città. Il movimento si allarga in tutta Italia. Nitti ed il re devono rimangiarsi il decreto e gli estremisti del partito socialista convocano il gruppo parlamentare socialista per constatare che si tratta di una vittoria sua.

Ricompare l'uomo dei momenti «preagonici»! Giolitti risorge dal pozzo nero dove han creduto affogarlo i baldanzosi barabba del guerraiolismo. Risorge: ma non risorge il tempo del suo passato.

Che prestigio può avere un regime che per domare la tempesta che lo minaccia si affida all'uomo infamato di spia, di venduto, di agente dello straniero? Mussolini protesta dalle colonne del suo giornale (29 giugno 1917): «Giolitti ed i giolittiani, fango, fango, fango, che sale e che vuol sommergere la Nazione; fango, fango, fango, che bisogna spazzare per la salute d'Italia! il giolittismo non deve risorgere: sarebbe il tradimento ed il miglior sangue d'Italia sarebbe stato sparso invano».

Il vecchio Dulcamara veniva col solito unguento professionale: né reazione né rivoluzione; portarsi al potere i socialisti; rimettere Marx in soffitta. Egli era destinato a spianare la strada al fascismo. Era inevitabile, dal momento che anche per arrivare a rendere possibile la collaborazione socialista, sarebbe stato necessario di schiacciare la parte più avanzata del socialismo. Il dilemma era quindi posto dalla situazione: rivoluzione o reazione. Diciamo di proposito «reazione» e non diciamo fascismo che è cosa diversa, tutta italiana e in quel tempo non ancora ben definita.

Quale era infatti la ragione maggiore per cui la borghesia, anche quella che era stata guerraiola, ingoiava il rospo Giolitti? Questa principalmente: egli era immune dalla macchia della guerra! E c'era bisogno di questo aperitivo politico, perché la vittoria era già al suo ultimo rantolo! Perché tutto il dopoguerra gridava morte alla guerra, alle guerre ed ai loro fautori, perché il mondo era saturo di maledizioni per i fautori del grande massacro che aveva solo lasciato eredità di rovine.

«Giolitti – scrive Bonomi – disarmava di colpo quello stato d'animo di rancore e di vendetta. Si spuntavano contro di lui le frecce del socialismo antibellico. Le antiche invettive contro gli uomini della guerra perdevano, con lui, ogni senso e ogni virtù di suggestione».

Ma Giolitti dovrà salvare le istituzioni monarchiche e, per salvarle, il resuscitato si farà resuscitatore.

La causa degli ordini borghesi è legata ai valori cosidetti ideali che si riassumono nel nazionalismo e toccherà a Giolitti – proprio a lui – di chiamare in vita le cerimonie, parate, carnevalate, alle quali è legato il prestigio di quante forze alimentano la reazione: spirito militarista, vanagloria patriottica e quanta altra esteriorità forma l'orgoglio dei pescecani e dei trascinasciabole.

Mentre da una parte Giolitti, per blandire i socialisti e predisporre il terreno alle vendette politiche personali, progetterà la confisca dei sopraprofitti di guerra, l'inchiesta sulle spese di guerra, l'abolizione dell'Articolo Quinto dello Statuto e la nominatività dei titoli; d'altra parte sarà lui a dare le prime soddisfazioni all'elemento militare, organizzando la grande carnevalata della premiazione delle bandiere dell'esercito e della marina nell'anniversario di Vittorio Veneto nel 1920. Giolitti dovrà fare da iniziatore dell'era nuova e non potendo riuscirvi, non avendone né l'animo né la quota rappresentativa né la convinzione, né trovando il terreno sgombro da diffidenze politiche, egli preparerà prima il terreno spirituale alla rinascita dei suoi impiccatori in effigie (del 1914) e più tardi saluterà anche la loro rinascita politica elettorale che segnerà il principio della loro marcia intenzionale su Roma.

«Egli torna – scrive Gino Baldesi – uomo qualificatissimo nella Confederazione Generale del Lavoro, come un cattivo nume vendicativo. È l'uomo delle grandi risorse e il suo annoso tronco non è piegato. La politica italiana tenta di ritornare all'antico sulla ricostruzione del programma giolittiano. Allorché la storia del periodo giolittiano potrà essere fatta senza deformazioni immediate per ragioni contingenti di lotte, può darsi che venga riconosciuto a quest'uomo il merito di aver incanalato a suo tempo la politica del paese verso una forma più democratica, di aver anzi salvato la democrazia».

È il caso di dire che non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire; ma la «speranziella» ministeriale chiude occhi ed orecchi e Baldesi non aveva paura delle smentite imminenti. Giolitti in realtà riusciva a realizzare una parte del suo programma: disarmare la rivoluzione, ma questa volta solo a profitto della reazione che andava anche al di là delle sue preferenze.

Diverse erano naturalmente le previsioni nostre e Umanità Nova scriveva il 16 giugno che: «Con l'arrivo di Giolitti al potere sta forse per scoccare il momento in cui il faticoso cammino del popolo verso la libertà si farà più rapido ed aspro e sanguinoso».

Non c'erano due strade. Ed ecco che il ritorno dell'uomo bollato dal marchio di traditore di guerra, si incontra con una nuova minaccia di guerra. In Albania tuona il cannone. Valona l'ipoteca messa dall'imperialismo italiano nel 1914, nel bel mezzo del trambusto internazionale, diviene il pomo della discordia. La Albania si ribella. Non vuol saperne di protettorati di sorta. L'Italia ha fatto la guerra in nome della sua indipendenza e di quella dei popoli? Se ne vada da casa degli altri. E l'Albania riaccende la scintilla della guerra anche se l'ipotesi che il soldato italiano marci è roba da pazzi.

Giolitti è il primo a comprendere queste cose e presto ne ha la certezza. Dopo qualche vaga protesta dei soldati nelle caserme, dopo il rifiuto dei reparti di truppa a Taranto ed a Trieste, siamo ad una rivolta seria dei bersaglieri di Ancona. La città della Settimana Rossa, non può lasciare isolata la clamorosa ribellione e la rivolta affastella insieme la popolazione sovversiva e i soldati. I dettagli non servirebbero a dare una idea di quello che furono i quattro giorni, dal 26 al 29 luglio, di rivolta anconetana. I soldati armavano gli operai e gli operai difendevano i soldati. Si impossessarono dei forti attorno alla città disarmandone il presidio. Nei forti trovavano armi e munizioni e l'armamento ribelle si allargava. I bersaglieri dal canto loro danno battaglia dalla caserma contro le forze di polizia che li assediano e fanno uscire due autoblindo per attaccare gli assediatori. La lotta infuria attorno alla stazione ferroviaria e alla Casa del Popolo, agli Archi in via Nazionale, a Piazza Lazzaro, popolatissima di anarchici, al Borgaccio, alle Torrette. I bersaglieri, esaurite le munizioni, si arrendono, dopo aspro combattimento, ma la popolazione continua nella lotta, finché la città viene attaccata dal mare e le forze ribelli vengono a trovarsi in condizioni di inferiorità di fronte a quelle governative, alle quali per giunta offriva il suo ausilio D'Annunzio da Fiume, come risulta da questa notizia alla stampa: «Roma, 30 – Mandano da Ancona che ieri l'altro arrivava in quella città il tenente Claudio Mariani addetto al comando di Fiume, latore di messaggi di Gabriele D'Annunzio, del generale Ceccherini e del maggiore Santini, indirizzati ai bersaglieri dell'XI Reggimento. D'Annunzio mette a disposizione del comando militare tutte le forze... comuniste di Fiume!».

Anche a proposito di questa rivolta si può ritornare sul vecchio tasto di carattere morale: nessuna violenza vendicativa, nessuna rappresaglia di odio di parte nelle giornate in cui il popolo era padrone della piazza.

Da notare che questa esplosione improvvisa di rivolta al centro d'Italia, un centro tradizionalmente rivoluzionario in una regione tradizionalmente rivoluzionaria coincideva per caso con la data di un convegno generale del fronte unico che doveva tenersi a Genova per il 2 luglio. Abbiamo già parlato di questo progettato incontro. Nello stesso tempo in quei giorni era in sede di congresso a Bologna il movimento che si intitolava dell'Unione Anarchica Italiana. È nel bel mezzo di questo Congresso, ed è in questa atmosfera fremente di nervosismo e di volontà e di speranza di qualche azione decisiva che viene da Genova la notizia del rinvio del convegno in parola. Non c'è bisogno di dire quanto fu scandalosamente delusivo questo rinvio, in un momento in cui era di importanza primaria l'incontro degli elementi più impegnati nella lotta rivoluzionaria. Come si sa, il convegno di Genova era convocato ad iniziativa del Sindacato Ferrovieri, il quale aveva la sua sede a Bologna dov'era anche riunito il Congresso Anarchico di cui si è parlato. La notizia del rinvio del Convegno di Genova era così incredibile che si decise di mandare un certo numero di compagni alla sede dei ferrovieri per conoscere se avevano ricevuto effettivamente la disdetta del convegno. La risposta fu affermativa. I tre compagni mandati per l'accertamento erano in possesso del testo del telegramma mandato da Genova e firmato da Egidio Gennari per il partito socialista. Nel silenzio generale Errico Malatesta si alzò e lesse con voce commossa la seguente protesta:

«Il congresso dell'Unione Anarchica Italiana riunito il 1° luglio, protesta contro il nuovo rinvio del Convegno di Genova in un momento in cui le impellenti repressioni domandano urgentemente l'accordo tra i sovversivi, e considera questo rinvio come una prova della volontà di certi organismi che pur si dicono sovversivi di non causare imbarazzi al governo. Perciò fa appello a tutti i veri rivoluzionari di cercare i mezzi per una intesa fattiva al di fuori ed al di sopra di tutti quegli organismi che mentre si dicono rivoluzionari fanno in realtà opera di collaborazione colle classi dirigenti».

Nemmeno la rivolta di Ancona era riuscita a provocare una azione generale che servisse a rovesciare il governo, ma essa non era rimasta priva di pratici risultati. Il governo infatti si affrettò a prendere impegno per lo sgombro dell'Albania e le agenzie governative pubblicavano in data tre agosto il seguente commento:

«L'accordo fra il governo italiano e l'Albania è raggiunto. Il conte Manzoni, in sostituzione di Aliotti, ha firmato a Tirana il patto col governo albanese mercé il quale l'Italia s'impegna di riconoscere e difendere l'autonomia dell'Albania e si dispone senz'altro, conservando soltanto Saseno, ad abbandonare Valona.

«Lo sgombero della città da parte delle truppe italiane avverrà immediatamente. I soldati saranno tosto rimpatriati».

Noi scrivevamo in quei giorni queste parole, che servono ancora una volta a dare la dimostrazione della lucidità con cui sin da allora vedevamo nella situazione:

«Vi sono di fronte a questa situazione due lamenti di natura diversa: chi lamenta che i fatti (anzi i... fattacci) avvengano e persistano a riprodursi con contagiosa propagazione; chi lamenta che essi siano lasciati abbandonati a se stessi, senza che ancora sia stato trovato il mezzo per mettere il filo alla collana, in parole chiare, senza che al movimento si sia ancora provveduto a dare un carattere nazionale.

«Coloro che lamentano che i "fattacci" continuino a ripetersi (le perle della collana sono innumerevoli: Sestri, Spezia, Torino, Bari, Mantova, Bologna, Milano, Piombino, Ancona) naturalmente sono logici se sono dei riformisti. Riformisti oggi si intende alla maniera moderna, non di quelli che vogliono andare, oggi, subito, ministri o che vogliono votare per ministeri borghesi, che di questi non ve ne sono più. Diciamo riformisti alla maniera moderna, per esempio di Filippo Turati, di questi condannati da alcuni anni ai lavori forzati della intransigenza i quali si scusano con la borghesia di non poter oggi collaborare diversamente con lei se non stando all'opposizione parlamentare, ma lavorano ben s'intende ad evitare il crollo nel buio, com'essi chiamano la rivoluzione.

«Costoro sono logici, e sono anche onesti quando hanno, come Turati, il coraggio di dichiarare apertamente quello che vogliono, e soprattutto quello che non vogliono. Ma gli altri, i rivoluzionari, in qual modo giustificano il loro nullismo?».

A proposito dell'accusa di aver noi della predilezione per la scaramuccia locale, così proseguivamo:

«1) Noi consideriamo queste rivolte locali come inevitabili, data la situazione attuale e data anche la propagazione rivoluzionaria che tutti noi, anche molti socialisti, abbiam fatto.

«2) Se queste rivolte non fossero possibili verrebbe a dire che la rivoluzione non sarebbe matura, come lo è, e che noi dovremmo ancora lavorare, attendendo affinché queste rivolte divenissero possibili.

«3) Verso la rivoluzione in ogni modo si va non evitando, o calunniando o esaurendo queste rivolte, che a lungo andare sono esauribili, ma lavorando a rendere immediata la loro utilizzazione dal punto di vista della vittoria, che presuppone: generalizzazione, simultaneità, preparazione materiale, piani generici di azione concordata».

Concludevamo:

«La borghesia, che già incomincia a perdere il tremore che la prese subito dopo la guerra per effetto della rivoluzione russa e la tenne più mesi di seguito, incomincia ora a scambiare per principio della fine del movimento rivoluzionario le piccole vittorie che riesce a registrare nelle repressioni locali che facilmente realizza contro le masse le quali accettano la battaglia nelle piazze centrali dove sono asserragliate le forze disponibili per difendere una città, come Milano, per esempio, che per il governo vale a dire difendere tutto il suo potere; che non tengono presenti i vantaggi della lotta nei sobborghi, nelle fabbriche, nelle campagne per stornare e disperdere e rarefare le truppe, che danno più volentieri l'assalto alla piazza che alla caserma, al negozio che alla banca, ecc. ecc. E quando la borghesia cessa di tremare è noto che si fa brutale, violenta, cinica, sanguinaria».

Ma siamo già all'ultima svolta. Tra poco si vedrà se incomincia la rivoluzione o la controrivoluzione. La nostra stampa e i nostri oratori battono senza arresto su questo tasto: non più nella piazza: alla fabbrica e dalla fabbrica alla rivoluzione.

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