9 Le ultime agitazioni

Non plus ultra? – Dazi doganali e fiscalismo giolittiano – Cifre che parlano – Un cielo di bandiere rosse – Polemiche con un grano di sale – Monopolio... rivoluzionario – Sassi «rossi» negli ingranaggi – Il punto critico – Rientra Giolitti – Il Soviet di Palazzo Marino – Mallevadoria comunista – Liquidazione a favore della reazione.

Siamo al punto limite della ascesa? La rivoluzione ha bussato più volte alla nostra porta. Si è presentata sotto tutti gli aspetti. L'incendio spento qui si è riacceso più oltre. Spento e rispento si è ripreso sempre. Ha cercato le vie della piazza, della caserma, del centro, della periferia nelle grandi città. Ha atteso le vie parlamentari, per molti. È balzata dalla città alla campagna e ancora dalle campagne alle città. Ha toccato i punti più estremi del settentrione, del meridionale, delle isole. Ora tenterà in grande la via delle Fabbriche.

È ormai opinione di tutti che, o si comincia sul serio o si finisce non si sa come, ma confusionariamente. Non si eternizza il gioco di soffiare sul fuoco per infocolarlo tosto che acceso. Nel ripetersi di questa alternativa molto fuoco è già andato consumato; ma tanto ne resta e le fiamme portano lontano allargando l'incendio.

Io non c'ero «sur place» in quello scorcio di tempo. Avevo ricevuto la sorpresa di un invito ad intervenire al Congresso della Terza Internazionale Sindacale a Mosca, che aveva luogo appunto in quel luglio 1920, e, per giunta privo di carte regolari, ero riuscito a toccare il suolo russo in ritardo, attraverso una sequela di stratagemmi che non è qui il caso di descrivere. Dirò sommariamente che me la cavai intrufolandomi in un insieme di «rifiuti del cannone» (così chiamavano i prigionieri di guerra di ritorno a casa loro) quale prigioniero russo e per giunta sordomuto di guerra per coprire la mia impossibilità di passare per quello che ero, ignorante della lingua russa, del supposto paese natio, cioè al quale la Germania mi restituiva. Dei risultati politici di questo mio viaggio mi sbottonai al mio ritorno, schierandomi naturalmente contro il concetto di dittatura di classe e di partito.

Feci ritorno ai primi di settembre quando l'occupazione volgeva alla fine. Ancora una volta non potei essere presente allo svolgersi di alcuni importanti avvenimenti, perché appena un mese dopo il mio ritorno dalla Russia fui imbrancato nelle retate antianarchiche e antisindacaliste volute da Giolitti, per un primo tentativo di offensiva contro l'estrema sinistra, onde misurare la capacità di resistenza solidale da parte delle forze estreme che fino allora almeno a parole avevano vantata la loro volontà e capacità di fronte al nemico. Come dettaglio importante noterò a questo punto che nel grande processo di Milano del luglio 1920 venimmo assolti con Malatesta e compagni e assolti su proposta dello stesso sostituto Procuratore del re che fece intendere chiaro di non essere stato favorevole a quelle retate poliziesche.

Torniamo al nostro maggiore argomento.

Tra poco mille e mille fabbriche isseranno la bandiera rossa.

Facciamoci ancora precedere da una testimonianza autorevole. Dopo Bonomi, Labriola.

Scrive quest'altro ex ministro:

«Secondo il mio modo di vedere, almeno due volte tra il 1919 e il 1920 i socialisti avrebbero potuto impadronirsi del potere senza incontrare resistenze apprezzabili: nel luglio 1919, quando scoppiarono i tumulti per il rincaro dei prezzi e si impose la riduzione dei prezzi del cinquanta per cento e nel settembre del 1920, quando si ebbe la spontanea occupazione delle fabbriche».

Veniamo vicino ai fatti.

Già l'anno precedente l'agitazione metallurgica si era generalizzata in tutta Italia. Il cielo si era rasserenato. La minaccia a schioppo vuoto doveva finire. Davanti a noi le incognite della vittoria, dietro di noi il precipizio a picco. Avanzare o precipitare. Stolto chi non lo vedeva.

Una nuova frana si sarebbe prodotta nel masso della reazione mondiale, con la nostra vittoria, e cozzando avrebbe spinto in avanti gli altri popoli d'Europa già saturi di ribellione. Ecco il segreto da cui, data l'atmosfera dei tempi, scaturirà la nuova offensiva rivoluzionaria. Gli operai non vogliono più scioperi? Sono in questo d'accordo coi loro padroni. Ora è la categoria operaia più agguerrita che va a misurarsi con la categoria padronale più ricca e più forte e più compatta e più rapace e più faziosa. È la lotta contro la plutocrazia bancaria-siderurgica, potenza diabolica, divoratrice tradizionale di milioni allo Stato in nome della patria, signora della stampa, infatuata di monopoli e frenetica di nazionalismo, affondante i suoi tentacoli nel cuore della nazione che ricatta in tempi di pace e in tempi di guerra. Contro queste piovre gli operai si battevano.

Era per essi il buon momento?

Certo gli industriali avevano delle buone ragioni per non volere che la vertenza economica venisse liquidata nei limiti delle solite trattative più o meno concludenti in un banale concordato. No! Se uno sciopero e se un po' di baccano attorno ad uno sciopero potevano servire in generale al padronato per annunciare alla spettabile clientela che era essa a dover pagare le spese di tutto, nel caso presente l'affare diveniva di maggior mole, ed ecco il perché. Era prossima la revisione delle tariffe doganali e bisognava far sentire alle teste grosse del governo che se premeva loro di conservare all'Italia l'industria che la salva in tempo di guerra, bisognava prestarsi a rialzare le barriere che respingono al confine la merce che altri paesi potrebbero mandare a più miti prezzi al consumatore italiano. Una colossale agitazione operaia quindi, drammatizzata coi più foschi colori dalla stampa incinta di scandalismo, avrebbe scaricato sui lavoratori la colpa di nuovi aumenti nei prezzi, specialmente nella produzione inerente alla metallurgia e siderurgia. Dal canto suo il capo del governo aveva dei vecchi conti da regolare coi magnati di questa industria. Senza contare il rancore in cui aveva dovuto svolgersi l'uomo di Dronero, durante gli anni della guerra per il suo neutralismo di marca statale. Giolitti conosceva bene le frodi inerenti ai bilanci e alla contabilità governativa specialmente nel tempo di guerra. Egli aveva davanti a sé la visione chiara dello sconquasso prodotto dalla guerra, preceduto già dallo sconquasso della guerra tripolina. Il fascismo non si presentava adesso con quei caratteri e in quella misura che potevano renderlo un comodo surrogato degli stati d'assedio. La sua consanguineità col fiumanesimo gli dava ancora l'apparenza di un movimento contrastante con lo Stato. Giolitti conosceva altresì l'abilità di manovra dei suoi vecchi compari della Confederazione Generale del Lavoro nel loro tentativo di essere sempre presenti nella loro funzione di «pompieri» (così li chiamavano gli operai), per puntellare arginare e tamponare ogni falla che si producesse nel seno delle istituzioni monarchiche; ma l'abile timoniere di cui discorriamo non poteva non vedere che l'ora era prossima in cui anche il più sollecito intervento dei Dulcamara del riformismo non sarebbe riuscito a salvare il pericolante regime. Bisognava pur affrettarsi a far pagare a qualcuno le spese della guerra e lo scaltro ministro aveva escogitato i già accennati provvedimenti fiscali, che non potevano che offendere l'alto patriottismo dei vampiri di guerra che si vedevano più direttamente presi di mira. Da qui una corrispondenza di non amorevoli sensi tra governo e vampiri della siderurgia e tanto l'uno che gli altri, attenti a sfruttare a loro vantaggio particolare le minacce operaie e la resistenza reciproca.

Non è la prima volta nella storia di situazioni e dualismi tra classi dominanti nel loro stesso seno che si prestano alle soluzioni rivoluzionarie.

Nel giugno 1920 viene presentato agli industriali un memoriale nel quale si reclama un aumento del quaranta per cento sui minimi di salario e alcuni miglioramenti di carattere morale. Il quindici luglio gli industriali chiedono di aprire le trattative proponendo che esse procedano cumulativamente tra le quattro organizzazioni, presentatrici ciascuna di un diverso memoriale. La FIOM rifiuta tale proposta. L'U.S.I. l'accetta limitatamente a quelle organizzazioni che si trovano sul terreno di classe. Gli industriali, che avevano bisogno di chiasso, si posero su di un terreno negativo di fronte alle richieste salariali allegando le difficoltà negli affari. La FIOM si dichiara allora disposta a discutere sul terreno infido quanto mai delle condizioni dell'industria stessa. L'U.S.I. non vuole entrare su questo terreno ed il suo sindacato nazionale metallurgico taglia corto alle manovre dilatorie del padronato con una esplicita dichiarazione pregiudiziale di cui ecco un brano sostanziale:

«Considerato che il sistema economico vigente, basato non sugli interessi della collettività umana e produttrice, ma su quelli individuali con esclusione quasi assoluta dei veri produttori, è la causa prima dei perturbamenti della vita industriale-economica e politica della società, i lavoratori non hanno nessuna responsabilità delle conseguenze or liete or funeste di questo ordinamento sociale e non possono tener conto in nessun modo delle condizioni dell'industria monopolizzata e gestita da coloro che considerano gli operai come merce anziché come uomini che hanno il diritto di vivere e di godere il frutto del proprio lavoro».

Ecco come il ministro del lavoro, Arturo Labriola, precisava nel suo discorso al Senato il 26 settembre 1920 le basi di questa controversia:

«Gli industriali chiesero di discutere i quattro memoriali insieme; obbiettò la FIOM che rappresenta la maggioranza degli operai dipendenti dalle industrie meccaniche che non era possibile procedere in questa guisa, perché, ad esempio, il memoriale dell'U.S.I. includeva un principio in contrasto con quello della FIOM; cioè, l'organizzazione dell'elemento sindacalistico e anarchico chiedeva che non si venisse a concordati nazionali, ma che il concordato nazionale fosse abolito e si trattasse fabbrica per fabbrica, mentre la FIOM chiedeva di venire a un accordo nazionale e che si fissassero intese nazionali».

Del resto ad illuminare anche questo lato della controversia a proposito della miseria padronale e della «incontentabilità» operaia, parlano chiaro i seguenti dati statistici prodotti in senato.

Cifre alla mano.

I minimi di paga delle varie categorie a Milano erano i seguenti: Tipografi lire 27.00, manuali 19.00, lavoratori in legno 18.90, manuali 15.80, edili 21.00, manuali 18.60, gommai 21.00, manuali 18.00, panettieri 24.00, manuali 18.00, aziende elettriche 19.30, manuali 16.80, carozzai 23.00, manuali 21.00, tranvieri 24.00, manuali 22.75. I minimi dei metallurgici variavano da lire 13.50 per le maestranze, per i manuali si aggiravano sulle dodici lire.

Un'occhiata alle miserie padronali.

La società Alti Forni Fonderie ed Acciaierie di Terni, aiutata nella sua infanzia col denaro dello Stato, durante il trentennio aveva un capitale di ventisette milioni ed ha lucrato in sì breve tempo 111 milioni: ha quintuplicato il proprio capitale. La Società Metallurgica Italiana di Livorno, con 25 milioni ne ha guadagnato 44. La Società Siderurgica di Savona, con 24 milioni in origine, ha realizzato 72 milioni. La Società Anonima Acciaierie e Ferriere Franchi-Gregorini con un investimento medio del triennio, di nove milioni e 880 mila ha guadagnato ben 70 milioni e 829 mila lire. Le Ferriere di Voltri avevano nel 1915 9 milioni e mezzo: questo capitale nel 1916 fu aumentato di 11 milioni ed 875 mila lire mediante prelevamento delle riserve, cioè gratuitamente per gli azionisti. Il lucro realizzato è stato di 29 milioni. La Magona d'Italia con 4 milioni e mezzo di capitale sociale ha realizzato un guadagno di 26 milioni. Le Acciaierie e Ferriere di Galeotto dei fratelli Bonatti, con solo un capitale di due milioni e mezzo hanno guadagnato 38 milioni e mezzo per la produzione dei reticolati di guerra. Questi dati li prendo dall'Avanti! del 10 settembre 1920.

Siamo ai primi di agosto. Il padronato si prepara alla lotta, ma certo sul terreno dello sciopero gli operai troveranno del duro. Si sente che lo sciopero dei metallurgici porterebbe allo sciopero generale delle altre categorie principali. La FIOM pensa all'ostruzionismo.

Ecco alcuni dati sull'agitazione:

Il 29 luglio a Sestri Ponente un Convegno dell'U.S.I. dichiara di scartare l'arma dell'ostruzionismo e di preferire lo sciopero bianco interno con l'occupazione degli stabilimenti e con l'estensione della occupazione alle altre industrie e all'agricoltura nel caso che la lotta si rendesse difficile e grave. Il 19 agosto si ripeteva lo stesso Convegno a La Spezia, quando già erano fallite le trattative condotte per conto suo dalla FIOM. In tale convegno i propositi di occupazione vengono riaffermati e delle decisioni di ordine pratico vengono prese e diramate ai vari centri. Viene pure lanciato un manifesto ai metallurgici nel quale, a proposito dell'ostruzionismo è detto quanto segue:

«A noi è sembrato non adeguato alla gravità del momento e alla formidabile resistenza padronale questa forma di lotta che può prolungarsi all'infinito, stancare le masse, affievolire il loro spirito di lotta. L'ostruzionismo può indurre gli industriali alla pronta repressione con la serrata generale o parziale che rende più difficile la presa di possesso delle officine da parte dei lavoratori, quando ad essi verrà impedito l'accesso con la forza pubblica concentrata nei punti voluti dai padroni». Il manifesto concludeva: «La presa di possesso delle fabbriche deve compiersi simultaneamente e con prontezza prima ancora di esserne cacciati con la serrata e difenderla poi con tutti i mezzi e con tutte le forze di cui dispone il proletariato organizzato».

L'ostruzionismo viene iniziato dal 30 agosto in tutta Italia. La FIOM aveva deliberato che gli operai durante l'ostruzionismo producessero in misura dell'importo della paga normale escludendo ogni utile di cottimo; ma gli operai non hanno fiducia in quest'arma. L'idea dell'occupazione è dominante e la produzione è fatta discendere dell'ottanta per cento. Negli ultimi di agosto il governo ricorre ad un estremo espediente. Convoca a Roma i rappresentanti della Confederazione del Lavoro e dell'U.S.I. Umanità Nova del primo settembre scriveva a questo proposito: «Una insidia è nascosta nelle trattative che tenta allacciare a Roma l'ex teorico dell'azione diretta, il ministro Labriola. Il quale potrebbe giungere ad un sollecito accordo e salvare la capra dell'ordine statale ed i famosi cavoli attraverso la scappatoia che lascerà il tempo che trova». L'insidia veniva sventata ed ecco come la cosa la narrava Alibrando Giovannetti in una relazione dell'U.S.I. al convegno di Roma: «Il governo aveva compreso la portata rivoluzionaria dell'occupazione e tentava con ogni mezzo di prevenirla per neutralizzarne gli effetti, più che con la forza di cui dispone lo Stato, mediante il diretto intervento pacificatore delle due parti, padronale ed operaia. Gli è perciò che ad un certo momento il rappresentante dell'U.S.I. mentre conferiva col ministro Labriola si trovò ad un tratto in presenza dell'on. Olivetti, capo della Confederazione padronale dell'industria e dell'on. Buozzi segretario della FIOM. Il colloquio doveva condurre a questo risultato pratico immediato: rinunciare gli operai all'ostruzionismo già iniziato; riprendere le trattative fra le parti, magari rimettendo la soluzione della vertenza ad un arbitro che poteva essere lo stesso ministro. Buozzi aderì senz'altro alla proposta. Olivetti promise di convincere gli industriali ad accettarla. Il rappresentante dell'U.S.I, si oppose senza tergiversazioni, tanto a rinunciare alla lotta come all'arbitrato. Ormai la lotta era impegnata ad oltranza, l'occupazione era imminente. Infatti, usciti dal gabinetto dei ministri leggemmo la notizia della serrata alle officine Romeo di Milano».

Ecco i particolari della scaramuccia. Dopo dieci giorni di ostruzionismo arrivati al lunedì trentuno agosto, gli operai della «Romeo» si presentano al lavoro e trovano sbarrati i cancellati da un grosso numero di guardie regie. Tentano la lotta per entrare, ma invano. Era il segnale della serrata generale. I padroni si difesero dicendo che gli operai avevano proceduto ad atti di sabotaggio. La notizia dell'attacco alla «Romeo» si diffuse in un baleno e alla sera gli operai delle trecento fabbriche di Milano non uscivano dai luoghi di lavoro. Nelle officine iniziavano subito i preparativi per il pernottamento all'interno delle fabbriche.

Durante la notte delle sentinelle montano la guardia per evitare sorprese. Vengono costituite le squadre di vigilanza. Proibita l'introduzione del vino. Istituito il picchetto armato alla porta e l'uscita a turni, regolati il servizio di vettovagliamento a mezzo delle famiglie, preso consegna delle casseforti, quasi sempre vuote, e compiuta la registrazione di ogni cosa in presenza di testimoni. Gli industriali annunciano subito di aver preso le seguenti misure: rifiuto di pagare le giornate di lavoro da essi non accreditate; nessun impegno per gli infortuni se dovessero accadere; diffida per i danni che si dovessero verificare e diffida verso i fornitori che effettuassero consegne di merci.

L'entusiasmo si impadronì delle masse. L'U.S.I. riunitasi a convegno a Milano il due settembre lanciava un appello ai lavoratori di tenersi presenti all'urto decisivo. Tutta l'Italia è impressionata per le notizie di Milano. La stampa borghese sputa fiele. Le mura delle città vengono tappezzate di manifesti invocanti la pace sociale, l'ordine ecc. Sorgono leghe di vedove di guerra, di madri in lutto, di patriotti in gramaglie, di difensori della patria del soldato e dell'operaio. Le questure non sanno che pesci pigliare. I padroni invocano la vecchia scuola della polizia e risognano il generale del Novantotto, Bava Beccaris.

Ma dal novantotto al ventidue troppa acqua è passata sotto i ponti. Nelle officine si lavora, si vigila e si preparano le armi. A Roma sono più disorientati delle autorità di Milano. I problemi dei tecnici e dei capi tecnici è risolto: dove i capi vogliono rimanere, restano e la loro autorità tecnica è riconosciuta. Umanità Nova scrive il due settembre: «I tecnici che devono considerarsi come fattori produttivi non possono rifiutarsi di continuare a lavorare se richiesti da chi vuole produrre e se essi domandano delle garanzie perché il lavoro proceda ordinato crediamo che dovrebbero essere soddisfatti».

Il primo settembre gli industriali deliberano di allargare la serrata. La Confederazione del Lavoro alla sua volta convoca il Consiglio Generale per i giorni dieci e undici di settembre per le decisioni del caso. Il due settembre l'U.S.I. lancia ai suoi organizzati un appello contro la caparbietà padronale e invitante i lavoratori a tenersi pronti alla lotta. Le maestranze agiscono col massimo di ordine e di accordo. Negli intervalli del riposo, oratori improvvisati salgono sulla tribuna. A Milano Malatesta visita le officine accolto con entusiasmo. Così è di Alibrando Giovannetti, di Attilio Sasso, della D'Andrea, di Negro e di altri compagni. Socialisti e comunisti fanno uso attivo della tribuna. Ci pare interessante testimoniare ancora una volta dello spirito anarchico di quei giorni. Da Umanità Nova del 4 settembre, togliamo: «Per noi anarchici, questo movimento magnifico delle masse operaie coscienti non dovrebbe costituire solo un bel gesto, ma un movimento adatto per una maggiore estensione, tracciando un programma preciso di attuazioni da completarsi giorno per giorno, prevedendo oggi le difficoltà e gli ostacoli di domani». L'autore continua esponendo la necessità di provvedersi le materie prime e di fare un inventario di quelle esistenti in fabbrica per distribuire poi razionalmente e senza sprechi le quantità di prodotti che ogni fabbrica ha bisogno.

Nelle giornate del quattro-cinque settembre si raduna a Milano il comitato del sindacato metallurgico U.S.I. per esaminare la situazione. Naturalmente domina la preoccupazione per l'attitudine della dirigenza confederale. Il convegno discute fra l'altro: «sulla eventualità di una possibile ripresa delle trattative (su questo l'U.S.I. si dichiara contraria alla cessazione della lotta); sull'allargamento dell'occupazione ad altri rami di produzione (su questo si decide di iniziare lo studio della situazione)». Infine si delibera la convocazione di un convegno di tutti gli organismi nazionali, già entrati nel quadro del fronte unico, invitandoli a pronunciarsi senza indugio per coordinare il movimento di difesa e di conquista operaia.

L'U.S.I. indice per il sette settembre a Sampierdarena un convegno regionale. Rispondono a questo appello anche i ferrovieri, i marinai, i portuali ed i delegati dell'industria alimentaria. Tutte queste forze operaie sono per una decisione coraggiosa: creare il fatto compiuto, occupando subito il primo porto d'Italia, Genova e gli altri della Liguria con l'immediata occupazione negli altri rami del lavoro. Ma a questo convegno si è fatta rappresentare anche la Confederazione Generale del Lavoro con due delegati: l'uno, un alto funzionario accanto a D'Aragona e l'altro un compagno anarchico molto influente, Garino. La scelta non era stata fatta a caso dai caporioni confederali, i quali sapevano che gli anarchici confidavano estremamente negli impegni che avrebbe assunto il compagno Garino. Il Garino infatti era incaricato di garantire le parole del Colombino e cioè che in un prossimo convegno nazionale di tutti gli occupati di ogni organizzazione la Confederazione Generale del Lavoro non avrebbe escluso nessuno e vi avrebbe incluso per conseguenza anche i delegati dell'U.S.I. Possiamo anticipare alcune cose aggiungendo che questa fu un'abile manovra per impedire delle decisioni serie subito e mancare alla parola data per il futuro convegno.

Si avvicinava il «dunque». Che cosa faceva il governo? Che cosa avrebbe fatto? Giolitti si era dileguato. Si trovava a Bardonecchia e a Aix-les-Bains con Millerand, presidente della repubblica francese a cianciare di politica estera, lasciando tutto il peso degli interni sulle spalle del giovine ministro, ex sindacalista Arturo Labriola. Le sue disposizioni furono molto prudenti: i militari di truppa non dovevano essere impiegati in operazioni di pubblica sicurezza; le guardie e i carabinieri a cavallo dovevano servire a chiudere gli sbocchi delle strade prossime alle officine; solo in casi di gravi scontri i soldati potevano far uso delle armi; tutti gli elementi torbidi dovevano essere fermati e i dirigenti dovevano essere diffidati. L'occupazione procedeva apparentemente ordinata. I ferrovieri già iniziavano l'inoltro delle merci direttamente dalle stazioni agli stabilimenti occupati. Umanità Nova del 7 settembre pubblica un altro dei suoi appelli alla presenza di spirito nella eventualità di attacchi governativi. C'è nello stesso numero un articolo «Cogliere l'occasione»: la agitazione dei metallurgici che ha posto in piede di guerra mezzo milione di proletari e che da un momento all'altro potrebbe spingere sulla piazza tutta l'intera classe operaia, ha creata una situazione rivoluzionaria che porge un'occasione buona ai nemici delle istituzioni attuali per dare a queste un colpo di spalla decisivo per cui un ostacolo crolli ed apra nuovi sbocchi alla iniziativa popolare verso delle serie ed importanti realizzazioni socialiste e libertarie. Il movimento dei metallurgici non è più un movimento economico da considerarsi a parte. La sconfitta dei metallurgici sarebbe ormai la sconfitta di tutto il proletariato italiano, sarebbe la svalutazione di un metodo di lotta il più efficace, e che meglio educa all'idea della espropriazione; sarebbe, in definitiva, tutta la situazione cambiata in Italia a svantaggio del massimalismo (preso nel più largo e comprensivo senso della parola) e a danno di tutte le tendenze rivoluzionarie.

Tanto la polemica di Umanità Nova quanto in tutto l'atteggiamento dei nostri compagni domina il proposito di arrivare ad un accordo proletario generale per l'azione e in queste parole di Umanità Nova si distinguono due idee che è bene mettere in evidenza: prima, una certa identificazione degli interessi di tendenza di tutti gli estremisti contro il riformismo, poi, l'idea larga della rivoluzione, non subordinata e condizionata a piani preconcetti. Notare questo inciso: «Per cui un ostacolo crolli». Poi si sarebbe visto il da farsi. La iniziativa popolare avrebbe avuto dinanzi a sé la via aperta per importanti realizzazioni. Chi conosce la prosa di Malatesta e le sue vedute di praticismo, di concordia sui punti massimi relativi, trova qui il Malatesta integrale.

Per il cinque settembre era già stata lanciata una iniziativa importante di indole nazionale. Era la Confederazione del Lavoro che si radunava con la Direzione del Partito e concordemente votavano una mozione in cui, dopo i soliti "considerando", si concludeva che «qualora l'ostinazione padronale o per la violazione della neutralità da parte del governo non si giungesse sollecitamente ad un accordo soddisfacente, il convegno esprime il parere che il conflitto stesso, non potendo più essere circoscritto ad una sola categoria sindacale, debba essere affidato alla Confederazione del Lavoro ed al Partito perché essi chiamino ed impegnino tutto il proletariato nella lotta contro il padronato». È chiaro in questo punto che i due enti economico (Confederazione) e politico (Partito) ricordavano a se stessi gli impegni assunti di un'azione a carattere eccezionale che non si limitava più alle solite competenze del movimento operaio, ma coinvolgeva la Direzione del partito socialista. L'Avanti! fa seguire la sua immancabile mallevadoria alla mozione votata e conclude in una lunga nota redazionale quanto segue: «La mozione decisa ha questo primo e manifesto significato, o ai metallurgici si riconosce ciò che essi chiedono, o il proletariato intero interverrà senza titubanza, senza restrizioni nel fondo della lotta, estendendola al controllo sulle aziende per arrivare alla gestione collettiva ed alla socializzazione di ogni forma di produzione». Più chiari e più espliciti non si poteva essere. Era una dichiarazione di guerra al regime intero del monopolio privato dei mezzi di produzione.

Gli avvenimenti incalzavano.

A Torino il giorno 6 degli aereoplani rossi della fabbrica SVA volteggiavano sul cielo della città, facendo cadere una pioggia di manifesti rivoluzionari. A Genova venivano occupati tre piroscafi in costruzione, Ansaldo, Duilio e Battisti. A Bologna i ferrovieri arrestavano oltre duecento carri ferroviari provenienti dalla Francia, destinati alla Polonia, contro la Russia. A Trieste, essendo avvenuti dei conflitti coi fascisti si proclamava lo sciopero generale. La Federazione dei Porti lanciava un caloroso appello alle proprie sezioni per la completa solidarietà ai metallurgici. Dalla Sicilia arrivavano notizie della occupazione dei latifondi. A Livorno i ferrovieri consegnano alcuni vagoni di materie prime agli stabilimenti metallurgici. La lotta gigantesca straripa in entusiasmo indicibile. Uomini liberi di eccelsa fama, che non avevano mai trattato di politica sino allora, esempio il maestro Pietro Mascagni, si recavano ai cantieri Orlando a festeggiare le maestranze. Mascagni saluta gli operai con queste parole: «Voi volete essere e lo sarete produttori ed artefici liberi. Ve lo augura il mio cuore che sarà sempre del popolo, che fu vostro dalla nascita e che resta con voi».

Guardate la ferocia degli operai. A Torino tre sconosciuti sono sorpresi nella fabbrica, entrati di soppiatto. Interrogati, spiegano di essere stati vinti dal desiderio di vedere l'officina occupata. Se ne occupa il Consiglio di Fabbrica. Risulta dai loro documenti che si tratta di tre ufficiali dell'esercito. Evidentemente tre spioni, forse tre fascisti. I tre vengono condannati... sapete a quale pena? A lavorare a fianco degli operai per un turno intero. Nell'officina campeggiava un manifesto con queste parole: «Il lavoro nobilita l'uomo». Non sarà eccessivo il notare che l'occupazione si allargava. A Luni i minatori occupano le miniere mettendo il combustibile a disposizione delle officine della Spezia. A Este vengono invasi i lavori di bonifica, abbandonati dal governo. Adesso c'è una presa di posizione nuova nel partito repubblicano. A Trieste, a Livorno, nella Venezia Giulia i repubblicani con un manifesto aderiscono allo sciopero generale contro le violenze fasciste. Non è dunque più il segno dell'Edera che distingue i repubblicani come una specie di corrente neutrale in presenza del movimento fascista. Da Roma, da Napoli, da Bologna, da Firenze, da ogni città e villaggio le notizie sono uniformi: ordine, entusiasmo, scambio di merci, fraternizzazione operaia, lavoro regolare, volontà d'azione, disorientamento padronale e aggiungete: proteste della stampa, ti vedo e non ti vedo dei fascisti. Adesso la Federazione Marinara sequestra il Rodostro, nave zarista russa, ancorata nel porto di Genova e la mette a disposizione degli operai. Nel cantiere Orlando a Livorno viene varato un piroscafo ultimato durante le giornate dell'occupazione e ne è madrina la signora Mascagni.

Siamo all'agitazione finale. L'Avanti! del mercoledì otto settembre pubblicava in prima pagina in prima colonna un grassetto in cui era annunciato che il lunedì dieci nell'aula consiliare del Municipio di Milano si sarebbe tenuto il Consiglio Nazionale della Confederazione. Erano annunciate oltre cento Camere del Lavoro e cinquanta Federazioni di Mestiere, con un numero complessivo di oltre due milioni e mezzo di lavoratori. Il comunicato precisava che sarebbero state presenti le rappresentanze del Sindacato Ferrovieri, della Federazione del Mare, della Federazione dei lavoratori del porto, della Federazione Postelegrafonica e delle associazioni degli impiegati statali. Era la rivoluzione affidata ad un voto di maggioranza e si aveva perciò cura di invitarvi il massimo di riformisti e il minimo di rivoluzionari. Così veniva esclusa I'U.S.I., esclusa l'Unione Anarchica Italiana, che avrebbe potuto essere rappresentata da uomini come Malatesta, mentre il gruppo parlamentare socialista sarebbe stato presente in blocco, coi suoi suggerimenti di pannicelli caldi sfornati di sorpresa. Si disse che i portuali, i ferrovieri e i marittimi erano invitati a titolo consultivo, vale a dire senza diritto di voto. Le esclusioni e le presenze fittizie erano dunque l'indice esatto di quel che si voleva raggiungere in questa specie di Soviet di Palazzo Marino. Umanità Nova volle certamente moderare la polemica. Quanto a me ho già detto che ero fuori di tiro per il mio viaggio in Russia.Umanità Nova si limitò a dichiarare che l'esclusione di quella parte che le stava a cuore era spiegabile nel gioco della politica dei socialisti.

Ecco come l'Avanti! parla di questo Soviet della rivoluzione mancata: «Prima di procedere alla nomina della Presidenza, D'Aragona comunica che sono stati convocati alla riunione anche rappresentanti di sindacati e di organizzazioni non aderenti alla Confederazione, e questo per sentire il parere di tutti i rappresentanti del proletariato organizzato. Prima che la relazione sia iniziata – è sempre l'Avanti! che parla – Spartaco Stagnetti e Lelli chiedono perché sono state escluse le rappresentanze dell'Unione Anarchica e dell'U.S.I. D'Aragona spiega che si è creduto opportuno non invitare i rappresentanti di certe organizzazioni perché queste possono considerarsi quali sezioni della Confederazione, come lo sono state fino ad un certo tempo». L'Avanti! non dice altro. Losono state, quindi non lo erano a quel momento.

Il convegno doveva essere quello che fu e in esso non doveva essere sconfitta che quella parte che lo desiderava.

Fiumi di parole. Distinguo «avvocateschi» sul politico e sull'«economico» e se era o meno applicabile la mozione di... Stoccarda. Si intesero anche gli ammessi senza diritto di voto e tutti affermarono di essere presenti per sostenere l'urgenza di un'azione definitiva. «Per i marinai (riporto dall'Avanti!) Giulietti esprime il parere favorevole all'allargamento del movimento data la fase in cui è entrata l'agitazione dei metallurgici. Ormai, dice Giulietti, il memoriale dei metallurgici è messo da parte anche se gli industriali, vista la polarizzazione di tutte le forze proletarie, fossero disposti a cedere tre volte tanto. Per quanto riguarda i marittimi, questi sapranno fare tutto il loro dovere verso il proletariato».

A rendere più marcata la dimostrazione della temperatura politica di quei giorni, inseriamo qui, dal resoconto dell'Avanti!, un accenno al discorso pronunciato al convegno dall'on. Modigliani, uno dei riformisti più marcati. Ecco quanto: «La situazione è talmente rivoluzionaria che non è più possibile alcun assetto nell'ordinamento capitalistico. Le formule, secondo l'oratore, non valgono niente. Sono i fatti che trascinano. Ma esaminando bene la situazione, soggiunge, la proposta della Confederazione gli sembra ancora la più realistica, in quanto, senza essere una cosa diversa da ciò che propone la Direzione del partito, è un primo passo verso la socializzazione». Il lettore comprende che almeno a parole la mozione politica del partito diceva di voler passare all'azione, non più di rivendicazioni salariali, ma di liquidazione del regime capitalistico. Del resto ecco Egidio Gennari a ricordare il patto d'alleanza tra Partito e Confederazione. Egli osserva che l'agitazione fra industriali ed operai è ormai insolubile nei termini risultati finora. Posta in tal modo, la lotta per volontà stessa della borghesia sul terreno politico, la Direzione del partito, d'accordo con la Confederazione, ritiene di avocare a sé la responsabilità e la direzione del movimento. «A sé», cioè avocare alla Direzione del partito la direzione del movimento, ponendo in sott'ordine la Confederazione del Lavoro. La Confederazione invece vuole avocare a sé la direzione del movimento ponendo in sott'ordine l'ausilio del partito socialista. In realtà, e i fatti lo dimostrarono, né gli uni né gli altri volevano fare qualcosa di serio e di rivoluzionario in questa situazione.

Ed ora, se proprio interessa il lettore, ecco l'esito della votazione: ordine del giorno Schiavello (punto di vista della supremazia del partito) voti 409.569; ordine del giorno D'Aragona: voti 591.245; astenuti 93.623. È superfluo notare che un minuto dopo questo risultato, una canaglia a Milano diceva in cuor suo: ho vinto io! Costui era Mussolini che conosceva troppo bene uomini e cose per non vedere d'un colpo d'occhio che la situazione era ad un punto morto e di là la ritirata dei rossi sarebbe stata inevitabile e disordinata. Ma forse questo Mussolini lo capiva anche prima di quel voto per il tramestio elettorale in cui si chiedeva alla maggioranza di dichiarare la rivoluzione. Qualcuno credette di poter ancora consolarsi, o rammaricarsi, nei calcoli meschini di tendenza: «ha vinto D'Aragona; sono sconfitti gli estremisti», si diceva. In realtà aveva vinto la reazione ed era da un pezzo che la rivoluzione era sconfitta ad opera dei cosiddetti rivoluzionari. La Direzione del Partito naturalmente si affrettò a stendere lo spolverino rosso sul voto di Palazzo Marino e dopo il voto, subito, Egidio Gennari si faceva innanzi a recitare l'ultimo atto della farsa che portava in sé le cause di tanta tragedia futura.

«Esiste – dice il Gennari – tra Confederazione e Partito un patto d'alleanza che nessuno dei due organismi intende infrangere. La Direzione del Partito, di fronte alle necessità inderogabili della lotta, prende atto del voto del Consiglio Nazionale e dichiara di fiancheggiare il movimento riservandosi eventualmente in prosieguo di tempo il diritto di avocare a sé la direzione, per mutata situazione politica.». Nello stesso tempo D'Aragona ringrazia il Partito a nome della Confederazione per restare a fianco di essa in attesa di tempi migliori. Qualche settimana più tardi Giolitti al senato, attaccato per le sue debolezze verso l'occupazione dichiara solennemente: «Se avessi agito con la forza sarebbe stato un massacro e poi se avessi impiegato le forze di polizia per prendere le fabbriche chi avrebbe garantito l'ordine pubblico? Io ebbi fiducia nella Confederazione del Lavoro e questa dimostrò di averla meritata».

Calato il. sipario sulla scialba rappresentazione di Palazzo Marino, si riuniva a parte il gruppo parlamentare socialista e tra riformisti e rivoluzionari comunisti si impegnava la grande battaglia per sapere in quale forma si doveva chiedere al governo la convocazione del Parlamento, e se a nome del gruppo parlamentare o della Confederazione. Un ordine del giorno concorde viene stipulato in cui si chiede l'apertura della Camera per esaminare la situazione e per proporre leggi radicali che attraverso la restituzione delle fabbriche e il loro controllo da parte degli operai, preparino la gestione diretta delle medesime nell'interesse della collettività.

La novella si propagò fulminea in tutta Italia. Il proletariato ne rimase scosso. I più capirono che bisognava apprestarsi a disarmare. Altri confidavano nelle riserve della Direzione del Partito. Altri ancora, dei più estremisti, pensarono che forse l'ultima parola non era detta, e per altre vie si sarebbe arrivati allo sbocco destinato. Quella parte di proletari, fra cui i tecnici, che rimaneva indecisa in attesa di vedere il domani, si capisce che si pentirono di essersi troppo compromessi. Bisognerà pur dire anche questa: che la fiducia era tanta e tale nelle grandi masse entusiaste di Mosca e dei soviet che neanche il voto di Milano bastò a far cessare l'occupazione, la quale continuò e si allargò ancora. Nell'ombra dei suoi uffici e nel segreto delle sue relazioni di capo poliziotto, Giolitti preparava le manette per l'avanguardia anarchica e la scissione nel mondo operaio. Mai tanta volontà d'azione si era urtata con la volontà dei pompieri, come allora li chiamavano, della paralisi riformista.

Ci fu anche chi ci domandò perché la rivoluzione non l'avevamo fatta da soli. Si deve rispondere seriamente ad una domanda come questa, quando non vi era nemmeno la possibilità di un contatto d'azione pronta e decisa con la frazione cosiddetta estremista del partito socialista?

La zizzania incominciava e a questo punto anche la parola zizzania è insufficiente a rendere il parossismo confusionario della situazione. Non si era trovata né la strada delle riforme, né la strada del minimalismo in pillole, né la strada del rinnovamento dalla base. La massa si trovava su una cima che presto sarebbe divenuta un Calvario. Nelle fabbriche le forze di estrema protestavano la nullità dei deliberati di Palazzo Marino e ancora non si adattavano all'idea di indossare la camicia di Nesso. Il punto culminante della parabola si avviava verso il momento critico in cui i prudenti si trovano al bivio delle loro responsabilità: un passo in avanti poteva comprometterli decisivamente. Un passo indietro poteva coprirli e nascondere anche i loro precedenti ardimenti. In questo labirinto l'individuo se non sa tenersi in equilibrio perde la bussola, non sentendosi più protetto dalla responsabilità collettiva si abbassa al freddo calcolo, nel quale afferma la sua signoria, spesso la pusillanimità.

Il nostro quotidiano lanciava ancora appelli all'azione, l'U.S.I. votava ancora ordini del giorno nei convegni pieni di buona volontà; la Confederazione del Lavoro riceveva gli osanna delle forze d'ordine che tuttavia non avrebbero tardato a chiedere la tessera del disordine fascista. Era da pazzi pensare di liquidare una situazione consimile con un decreto legge sul controllo. Non si ferma un treno in corsa. Una volta tanto la bacchetta magica che ci attribuivano aveva valore contro i riformisti e gli accomodanti.

La lotta proseguì come un ferito barcollante che perde sangue da ogni parte. Giolitti capì che aveva ripreso il timone, ma gli estremissimi del quotidiano serratiano, l'Avanti!, sentivano il bisogno di protestare ancora e sempre contro il volontarismo invadente e trovavano perfino strano che reazionari e libertari si... assomigliassero in questo: che gli uni reclamavano un volontarismo repressivo, gli altri un volontarismo rivoluzionario. Sentiamo ancora l'Avanti! nel suo fatalismo, non sappiamo se marxista o cosa d'altro: «Ma questi fatti rivoluzionari si riproducono a ondate e dopo uno importante che si crede fallito, facendo gioire gli uni o facendo soffrire gli altri, ecco che prima o poi un altro ne sorge, anche più importante e forse allora decisivo». Era la soluzione del moto perpetuo.

Il Corriere della Sera aveva esaltato la vittoria daragoniana: «La vittoria degli elementi più temperati, aveva detto, è stata la sola luce in tutta la faccenda. È stata il trionfo del coraggio; si è visto che quando gli elementi più ragionevoli hanno osato prendere una posizione netta, hanno vinto».

Bagole, risponde il quotidiano serratiano. Ed ecco come lo dimostra: «I nostri nemici sono di una miopia straordinaria. Essi credono davvero nella potenza reazionaria dei leaders del movimento operaio. Sperano sul serio nella capacità conservatrice di quelli che essi chiamano gli elementi più temperati. E non si avvedono che in politica bisogna essere del proprio tempo o morire. Non sanno che il D'Aragona d'oggi non può più essere il D'Aragona di ieri; che Baldesi, il riformista, non può non essere oggi rivoluzionario. Pena la fine immediata. C'è una logica ferrea negli avvenimenti più forte di tutti gli uomini, più diritta e più acuta di tutti i dirigenti. E la logica degli avvenimenti è che il regime borghese precipiti alla sua fine e ogni giorno ne affretti e ne sospinga vertiginosamente la caduta come è nelle previsioni del socialismo internazionale».

Sia lodata la santa provvidenza che pensa indifferentemente ai lupi, agli uccellini, ai grilli, alle tartarughe e... alle rivoluzioni scientifiche.

Il quotidiano anarchico persisteva nei suoi appelli agli operai di non disarmare, ai soldati di non ubbidire, ai ferrovieri di non trasportare forza pubblica. Intanto, Giolitti lavorava al suo progetto sul controllo delle industrie. Quel che facesse Mussolini e che attorno a lui facessero i suoi sensali e i suoi ruffiani, lo vedremo più innanzi.

È certo ad ogni modo che l'idea del Controllo delle industrie non metteva più paura. A Milano una dozzina di senatori guidati dal direttore del Corriere della Sera si riuniva in prefettura e riconosceva non essere più il caso di fare una seria opposizione al Controllo e il Corriere stesso pubblicava che questo era il solo modo di agire per non rafforzare la corrente rivoluzionaria. Nel suo numero del 29 settembre, il Corriere tornava su questa idea con queste precise parole: «L'Italia ha corso il rischio di crepare (sic!)... La rivoluzione non si è fatta, non perché ci fosse chi le contrastava il passo; ma perché la Confederazione del Lavoro non l'ha voluta».

Il gruppo parlamentare socialista alla sua volta nominava la commissione per la compilazione del progetto sul Controllo, composta da Graziadei, Turati, Buozzi, Reina, Gennari e Terracina. Era l'ora di Giolitti!

Entravamo nelle torbide ore dell'operazione per l'aborto procurato. Tutti, con mire opposte, studiavano la propria posizione per le manovre del domani di fronte al rischio temuto e alla tempesta superata. È ancora il caso di ripetere che anche nel campo operaio il ferro rimaneva caldo e altre occupazioni venivano attuate. Oramai però ai freni si lavorava intensamente. Il 16 settembre i giornali annunciano che il presidente del Consiglio, udito il parere delle parti in contesa, ha istituito il Controllo sulle industrie per decreto. L'Avanti! si affretta a smentire la notizia «destituita di fondamento». Umanità Nova si domanda: «Chi mente? Chi inganna?» Il giorno 17 D'Aragona riferisce al Comitato d'agitazione a Milano sul convegno svoltosi dietro invito del Presidente del Consiglio. È presente Terracini per il Partito Socialista e l'operato di D'Aragona viene approvato. Il giorno seguente compare sui giornali il decreto giolittiano, di cui ecco il testo:

«Premesso che la Confederazione del Lavoro ha formulato la richiesta di modificare i rapporti finora intercorsi fra datori di lavoro ed operai in modo che questi ultimi traverso i loro sindacati siano investiti della possibilità di un controllo sulle industrie con l'affermazione che con simile controllo è suo proposito di conseguire un miglioramento nei rapporti disciplinari tra datori e prenditori d'opera e di un aumento della produzione al quale è a sua volta subordinata una fervida ripresa della vita economica del paese; premesso che la Confederazione dell'Industria non si oppone a sua volta a che venga fatto l'esperimento di introdurre un controllo per categorie di industrie al fine di cui sopra, il Presidente del Consiglio dei Ministri prende atto di questo accordo e decreta:

«Viene costituita una commissione paritetica formata da sei membri nominati dalla Confederazione dell'Industria e sei dalla Confederazione del Lavoro fra cui due tecnici o impiegati per parte, la quale formuli delle proposte che possano servire al governo per la presentazione di un progetto di legge allo scopo di organizzare le industrie sulla base dell'intervento degli operai al controllo tecnico e finanziario o all'amministrazione dell'azienda. La stessa commissione entro otto giorni fisserà le norme per risolvere le questioni che possono insorgere circa l'osservanza dei regolamenti e l'assunzione ed il licenziamento della mano d'opera. Gli operai riprenderanno il loro posto.

«Torino, 15 settembre 1920».

Il Presidente del Consiglio

Giolitti

L'Avanti!, pur avendo nei giorni precedenti qualificato il Controllo come un'abile manovra borghese, oggi così commenta: «Ciò che più conta è questo: che con decreti o senza decreti, i lavoratori hanno saputo fare largo ad un nuovo diritto. E ciò che più conta, non solo senza pregiudizio, ma come preciso preludio alle maggiori e definitive conquiste».

La massa operaia rivoluzionaria e socialista capiva che era tradita; ma a spegnere in essa ogni ardore di opposizione interveniva l'Avanti!, a consolarla ed a mettere a posto i brontoloni.

«Questa volta, forse, i brontoloni hanno ragione – scriveva l'Avanti! – se si esamina il problema dal punto di vista politico. È evidente, infatti, che questa non è soltanto vittoria dei metallurgici, ma anche di Giolitti. È evidente del pari che il conquistato Controllo, quando pure riuscisse a funzionare, non potrà che rappresentare o una mistificazione o una corruzione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessati della gestione borghese. I borghesi avranno l'arrosto, i proletari il fumo». A questo scetticismo il quotidiano socialista passa una mano di unguento fatalista ed aggiunge quanto segue: «Non passerà lungo tempo, saranno forse poche settimane, e una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente, allora si vedrà quanta forza di esempio, quanto vigore di iniziativa si sia sprigionato da questo movimento. E se i proletari avranno saputo tenere asciutte le polveri, accesi gli animi, pronti i mezzi di lotta, potrebbe darsi, anzi sarà sicuro, che per i padroni sarà l'ultima ora!»

Così si parlava a mezzo milione di operai armati, ardenti, dalle polveri più che asciutte ecc., mentre i grossi personaggi del riformismo, volontaristi quelli e senza ormai nasconderlo si mettevano d'accordo con Giolitti perché si tornasse alla calma, alla calma delle... elezioni. Nelle prime settimane di ottobre infatti incominciavano le elezioni amministrative, ed i socialisti con lo stemma della falce e martello fecero suonare l'ultima ora per tremila municipi borghesi che passarono nelle loro mani e poco dopo ripassavano, bruciati e distrutti, nelle mani dei banditi dell'ordine, i quali dimostrarono, essi, quanta forza di esempio e quanto vigore di iniziativa sprigionasse nei loro non più tremebondi salariatori la certezza che veramente per noi l'ultima ora era suonata o stava per suonare.

Non c'era più bisogno del cannone per sloggiare le officine. Giolitti era al principio della sua vittoria. Evidentemente non era stata tutta saggezza la sua di non attaccare. C'era la convinzione della impossibilità di attaccare e c'era in lui l'esperienza dei risultati negativi di ogni repressione fatta per conto dello Stato, dal novantaquattro al novantotto. Così, nel disordine e nello sconcerto generale, ci si avviava allo sgombero delle fabbriche, mentre gli industriali si facevano imporre d'imperio la legge sul Controllo e nella Confederazione del Lavoro le due correnti pro e contro il concordato venivano cacciate nel litigio di un referendum sul concordato stesso.

A riflettere che dei maestri di tanta saggezza, come si autoproclamavano i dirigenti del partito socialista, potessero pensare sul serio ad una ripresa agitatoria dopo la resa delle fabbriche, vien fatto di trovare l'attenuante dell'alienazione mentale.

L'U.S.I., invitata dal prefetto di Milano a riconoscere il concordato di Roma, rispondeva per iscritto con una fiera dichiarazione, che così concludeva:

«È necessario che il signor Giolitti lo sappia: egli non ha impegnato, né altri con lui, e non impegnerà ulteriormente le maestranze dell'U.S.I. Lungi dall'accettare l'intervento propostole nella commissione paritetica per il Controllo, l'U.S.I, dichiara espressamente che saboterà in ogni modo possibile l'applicazione del controllo di fabbrica. L’U.S.I. è rimasta libera della propria azione e vi resta, non sottoscrivendo nessun concordato e difendendo le conquiste economiche che già appartengono al proletariato. Soprattutto l'U.S.I. dichiara che il proletariato ha ormai posto all'ordine del giorno il memoriale storico della emancipazione integrale».

Bisogna riconoscere però che si trattava qui di una sfida generosa e di una protesta. Giolitti se ne doveva ricordare tra poco, quando faceva organizzare dalla questura di Milano il famoso processo contro Malatesta, Borghi e compagni.

C'è ora una gara affannosa per il premio di salvatore d'Italia tra fascisti, democratici e liberali riuniti dei vari «credo» borghesi. Ogni corrente reclama a gran voce per sé la prerogativa di avere da sola salvato l'Italia dall'abisso: l'abisso, naturalmente, veniva denominato «bolscevismo». Il lettore nostro, sotto la guida della verità obiettiva dei fatti, è ora in grado di formarsi un giudizio proprio, ed è ora in grado di riconoscere che hanno ragione da vendere i democratici ed i liberali borghesi ed hanno torto marcio i fascisti. Abbiamo accennato all'inizio di questo libro al primo lancio dell'idea dell'occupazione delle fabbriche, che era partita da Dalmine, portavoce lo stesso mangiaborghesi Mussolini. Precisiamo ancora che durante l'occupazione il fascismo è stato più o meno alla finestra. Sentiremo più tardi la voce del Popolo d'Italia in un commento all'azione di Giolitti in questo tempo. Ascoltiamo per ora la parola dell'esponente massimo del Corriere della Sera, Albertini, il quale polemizza col Popolo d'Italia e dichiara falsa l'affermazione che i fascisti fossero soli ad affrontare la marea nei giorni pericolosi dell'occupazione e ricorda che al terzo giorno dell'occupazione l'organo fascista si indignava per la voce che i fascisti avessero l'intenzione di attaccare alcuni stabilimenti. Ma a vedere chiaro in queste schermaglie polemiche c'è il commento del Popolo d'Italia a calma ritornata. È del 28 settembre e si intitola «L'epilogo», a commento del discorso di Giolitti davanti al senato su tale argomento:

«Quella che si è svolta in Italia in questo settembre che muore è una rivoluzione o, se si vuole essere più esatti, una fase della rivoluzione cominciata – da noi – nel maggio 1915. L'accessorio più o meno quarantottesco che dovrebbe accompagnare le rivoluzioni, secondo i piani e le romanticherie di certi ritardatari, non c'è stato. Non c'è stata cioè la lotta nelle strade, le barricate e tutto il resto della coreografia insurrezionalista che ci ha commosso sulle pagine dei Miserabili. Ciò nonostante una rivoluzione si è compiuta e si può aggiungere una grande rivoluzione. Un rapporto giuridico plurisecolare è stato spezzato. Dal punto di vista poliziesco, l'on. Giolitti ha ragione. Si poteva evitare l'invasione delle fabbriche? Forse! Ma ad invasione compiuta nelle ventiquattro ore successive, tale compito si presentava già difficile. Ogni giorno di occupazione rendeva sempre più poderoso il compito di una espulsione degli operai – manu militari – dalle fabbriche. I guai provocati da questo atteggiamento governativo sono stati certamente gravissimi, ma chi può asseverare che la «maniera forte» non avrebbe scatenato un incendio infinitamente più pericoloso da domare? Anche nella strategia, che chiameremo poliziesca, bisogna freddamente esaminare se il gioco vale la candela. Mentre la Confederazione Generale del Lavoro cercava e riusciva a contenere il movimento nei limiti dell'economia, gli elementi del PSU vi imprimevano una colorazione politica, arieggiante la guerra civile. O il governo sa valutare queste circostanze e sa agire in conseguenza, o abdica senza colpo ferire. E poiché quest'ultima eventualità, per quanto possa parere remota, è pur da annoverare nel calcolo delle possibilità, noi invitiamo i cittadini e particolarmente i fascisti, a prepararsi con tutti i mezzi per schiantare i piani bolscevichi del PSU. Quando la lotta sarà giunta al dilemma: o Italia o Russia, bisognerà impegnare il combattimento e spingerlo ad una decisione».

Conclusione che lascia intravedere il lavorìo oscuro che si andava tramando per una repressione extralegale in grande stile, oggi più a portata di mano, dopo la grande paura... dell'Anno Mille. Il celebre rinnegato infatti non invoca un intervento governativo per le possibili riprese rivoluzionarie di domani, ma anticipa il suo appello ai cittadini e particolarmente ai fascisti. Chi voleva, poteva capire.

I fatti precipitavano e tutti in una direzione che favoriva le mosse ad un ritorno borbonico. Adesso, assieme agli altri affluenti all'esercito sanfedista (agrari, industriali, arditi e tutti gli offesi nei loro particolari interessi anche dalle conquiste minime dei Comuni e dei socialisti) entravano in lizza le forze militari, non più come fatto individuale di qualche ufficiale facinoroso e intraprendente, ma come impegno consapevole e pattuito dello stato maggiore, l'ultimo a ratio della monarchia.

L'intrigo di Fiume aiutava a districare l'interno dell'intrigo italiano. Una delle due: o il governo si era assicurata la neutralità dei fasci, attraverso l'introduzione in essi di ufficiali dell'esercito, o piuttosto come assicurano molti legionari fiumani, era intervenuto un patto fra governo e dirigenti del fascismo nel senso che essi avevano mano libera all'interno a condizione che non creassero imbarazzi al governo mentre attaccava D'Annunzio a Fiume. Certo si è – mi valgo delle precise parole di un pubblicista non estremista – «proprio dopo la soffocazione dell'impresa dannunziana di Fiume le gesta fasciste contro le Camere del Lavoro, Cooperative ecc. spesseggiarono fino a instaurare un vero e proprio terrore». Ecco un documento significativo del tempo:

«Comitato di Organizzazione Civile

Piazza S. Sepolcro, 9 – Milano»

22 settembre 1920

«Egregio amico, i gravi eventi che si succedono sempre più minacciosi per l'esistenza stessa del nostro paese, impongono alla nostra organizzazione la maggior compattezza e la massima vigilanza. Dinanzi allo sfacelo dello Stato ad opera di un governo incapace, aumenta la nostra responsabilità, in quanto la salvezza può venire solo dallo sforzo di resistenza organizzata dai liberi cittadini. Venerdì sera, 24 settembre, alle ore 21 precise, nel salone terreno di Piazza S. Sepolcro, adunata generale per essere ispezionati da una alta personalità militare. Ella non può mancare per nessun motivo. Conserverà questo invito e lo porterà con sé. Verrà fatto un elenco degli assenti ingiustificati per i provvedimenti del caso».

per il Comitato Direttivo

Dante Diotallevi, segretario

Le varie sfumature della democrazia si godettero lo spettacolo festosamente. «Il giorno nel quale si potrà studiare il fenomeno offerto dai vari partiti nei confronti del fascismo, non sarà facile trovare elementi di giudizio che comprovino intelligenza – macché intuito! – nei loro dirigenti. Popolari, liberali, democratici dimostrarono la più completa delle incomprensioni. Ma soprattutto appariranno intellettualmente miseri quelli dei vari partiti, che si credettero furbi mirando a farsi strumento del fascismo, mentre se ne lasciarono completamente giocare».

Il momento propizio per un'altra operazione poliziesca giolittiana stava per presentarsi. Per il 14 ottobre le organizzazioni del fronte unico rosso avevano deciso una protesta in favore delle vittime politiche, specialmente per reclamare il rilascio di alcuni esponenti della Federazione del Mare, arrestati a causa del sequestro di due navi russe – Tuer e Rodostro – battenti bandiera zarista. Giolitti aggiunse altri arresti e questa volta toccò all'autore di queste pagine, appena di ritorno dalla Russia, e subito dopo si procedette all'arresto di Malatesta e di altri militanti anarchici e dell'U.S.I. Il colpo di Giolitti contro di noi si sarebbe potuto considerare un atto temerario, impolitico. Ma il grande istrione agiva in piena conoscenza della nuova situazione di crisi delle forze rosse. Agli arresti seguì la notizia che noi dovevamo essere sottoposti a processo per associazione a delinquere e attentato alla sicurezza dello Stato. Quanto mutate le cose dal giorno dell'arresto a Tombolo e dell'immediato rilascio di Malatesta un anno prima. Venimmo infatti denunciati per i reati suddetti, venimmo tenuti in S. Vittore in more di istruttoria lungo dieci mesi e poi, portati in Assise a Milano, venimmo bellamente assolti a pieni voti e fu lo stesso sostituto procuratore del re a riconoscere che si era trattato di una montatura senza alcun fondo di serietà. In realtà le cose stavano così: che venimmo arrestati per ordine governativo; che non si poteva procedere contro di noi per l'occupazione delle fabbriche perché in tal caso non ci sarebbero state prigioni abbastanza, ma ci si voleva tenere in sequestro di persona per una necessità politica del governo. Si seppe anche che durante il procedimento istruttorio intervenne un attrito tra il procuratore generale, Raimondi, e il sostituto, De Sanctis, lo stesso a cui fu affidato l'ufficio del Pubblico ministero e che escluse il reato nel dibattito pubblico che si chiuse il giorno 30 luglio 1921.

A questo punto il lettore o ne avrà piene le tasche, o vorrà sapere il seguito. Ma io ho promesso di esporgli i dati di fatto che spiegano i problemi della rivoluzione mancata. Sono in regola col mio impegno. Il mio manoscritto del 1925 non fa punto e basta qui, ma divaga in molte altre considerazioni che oggi hanno perduto gran parte del loro interesse.

Qualche informazione l'aggiungerò su quella che fu la Alleanza del Lavoro (1922). Anche questo era però un ripiego per non arrendersi del tutto, piuttosto che un riordinamento di forze per una nostra offensiva. L'idea partì da Roma e vi presero parte iniziale due vecchi che mantennero la loro fede fino al loro ultimo giorno: Errico Malatesta e Giovanni Conti. È possibile che Malatesta avrà aperto lui il discorso, egli che era stato in altri tempi e in altre circostanze un creatore d'armonia di insieme rosso, comprendente anche le forze repubblicane. Venne quindi costituita l'Alleanza del Lavoro in un convegno tenuto a Roma nei giorni 18-19-20 febbraio 1922. L'effetto morale di questa alleanza fu rimarchevole. L'entrata dei repubblicani rafforzava l'antifascismo in Romagna e in qualche altro centro della Toscana e della Liguria. Il Primo Maggio di quell'anno fu dedicato alla celebrazione di questa nuova concordia. Non ci sarà bisogno di dire che anche nella Alleanza del Lavoro l'accordo era più esteriore che concreto. In sostanza i massimi dirigenti della Confederazione Generale del Lavoro erano degli ottimi avvocati dell'impossibile e impiegavano molto bene le sedute in lungaggini che reclamavano un rinvio e che rendevano inconcludente ogni discussione. Intervennero delle rivolte eccezionali in quel tempo in quattro città, Ravenna, Parma, Cremona, Novara. Cremona perché i fascisti assaltarono la casa dell'on. Miglioli (democristiano) quando la famiglia era in lutto per la morte del vecchio padre, a Ravenna perché fascisti scornati dall'atteggiamento del partito repubblicano e forze reazionarie locali tentarono una estrema mossa di riconquista della città.

Gli episodi di eroismo proletario furono molti.

Il nostro movimento in tutta Italia fece ottimamente il suo dovere.

Ad Ancona un giovinetto, anarchico, è interrogato da un plotone di esecuzione.

— La tua fede?

— Anarchico!

— Ritira ciò che hai detto!

— Ripeto: anarchico!

— Se lo dirai tre volte ancora alla terza ti fuciliamo.

— Anarchico.., anarchico... anar...

Non poté finire che era stato freddato.

Ne sono morti così, di anarchici, di comunisti, di socialisti, tanti tanti...

Parma proletaria si difese al disopra di ogni previsione.

Nei borghi di Oltretorrente si rispose al fascismo con le barricate e le trincee. Insieme alla combattività dei nostri compagni di Parma, si deve ricordare la parte avuta dal coraggioso deputato comunista Guido Picelli alla testa dei suoi popolani.

A Parma i fascisti non entrarono, ecco tutto; e Parma, Ancona, Carrara, sollevarono l'ammirazione di tutto l'antifascismo.

Furono quelli dei giorni di grande lavoro da parte di alcuni di noi (Corradetti dei portuali per primo) che comprendevamo la liquidazione morale dell'Alleanza se non si interveniva accanto alle quattro città per un tentativo estremo di riaffermazione delle forze antifasciste. Fu tempo perso. Solo nell'agosto dello stesso 1922, quando sembrava che l'atmosfera parlamentare consentisse una manovra sturziana-turatiana ministeriale, solo allora gli uomini della Confederazione del Lavoro si adattarono all'idea dello sciopero generale, che fu l'ultimo della serie prima della marcia su Roma, e che ricordava il proverbio del contadino che chiudeva la stalla ma i buoi erano già scappati.

Il fascismo aveva avuto troppo tempo per prepararsi.

Il resto fu quella rovina infinita che tutti sanno.

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