LIBRO VIGESIMOSESTO

SOMMARIO

Accidenti di Sicilia. Constituzione data dal re Ferdinando ai Siciliani ai tempi di Bentinck. La regina Carolina, costretta dagl'Inglesi, si ritira dalla Sicilia, e muore a Vienna. Guerra tra Francia e Russia. Sono giunti i tempi fatali per Napoleone. Perisce la sua potenza in Russia. Fa un nuovo sforzo, e comparisce sui campi di Germania. È prostrato a Lipsia: tutta la Germania sdegnata insorge contro di lui. Concordato di Fontainebleau. Pratiche di Giovacchino, d'Eugenio, di Bentinck per le sorti d'Italia. Eugenio sulla Sava; l'Italia assalita da parecchie parti. S'avvicina il fine della tragedia.

Regnava in Napoli Giovacchino Napoleonide, in Sicilia Carolina d'Austria. Molto operava Napoleone nel regno di qua dal Faro per la sua potenza, molto gl'Inglesi in quello di là dal Faro per la presenza; molti, e varj furono gli effetti ed in chi regnava di nome, ed in chi regnava di fatto, ma una la cagione, cioè l'ambizione. Tanto è dolce agli uomini, ed anche alle donne il comandare! Parte degli accidenti che seguirono, già furono da noi raccontati, parte accennati: ora è ragione, che coll'ulterior narrare quelli si terminino, questi maggiormente si spieghino; poi presto verrassi al fine di questa mia troppo lagrimevole narrazione. Da più rimoto principio si ha per noi da cominciare. Era Giovacchino, siccome quegli che si nutriva facilmente con vane speranze, tutto intento a turbare le cose di Sicilia sì colle dimostrazioni guerriere, sì colle instigazioni, e colle spie. Carolina dal canto suo, in ciò ajutata dagl'Inglesi, si era in tutto dirizzata a questo disegno, che la denominazione dei Napoleonidi nel regno di terraferma mal quieta e mal sicura rendesse. Il sangue sparso a copia nelle Calabrie, i fiumi biancheggianti di umane ossa attestavano le Napolitane e le Palermitane instigazioni, e già furono da noi in queste carte vergati. Raccontammo ancora, come i tentativi armati di Giovacchino finissero: resta, che il seguito delle Siciliane mutazioni, facendo principio dall'esito delle insidie dei Napoleonidi, da noi si descriva, crudi accidenti e degni dei tempi. Tentavano principalmente i Napoleonidi Messina, per la vicinanza ed importanza del luogo. Vi avevano segrete intelligenze con alcuni uomini di umile condizione, il cui fine era operare moti contrarj al governo. I congiurati, come gente di basso stato, non avevano alcuna dipendenza d'importanza, ma si temeva ch'essi fossero gli agenti d'uomini più potenti, non potendosi restar capace come i Napoleonidi, per fare una rivoluzione in Sicilia, adoperassero gente di così piccole condizioni, come calzolari, marinari e pescatori. Per la qual cosa per iscoprire fin dove il vizio si stendesse, il governo mandava da Palermo sul luogo un marchese Artali, uomo non solo inclinato a fare quanto il governo volesse, ma capace ancora di far degenerare la giustizia in sevizia. Terribile fu il suo arrivo, terribile la dimora. Pose in carcere non solamente i rei, ma ancora i sospetti, e non che plebei e poveri, magnati e ricchi. Condotti i carcerati in sua presenza, faceva loro udire, che sarebbe meglio per loro che confessassero; quando no, avessero a sapere ch'egli era Artali marchese, che ministrerebbe giustizia alla Palermitana, che avrebbero ceppi ai piedi, manette alle mani, che gli farebbe tirare sulla colla, arroventare coi ferri, che solo che una sua parola parlasse, conoscerebbe Messina ch'egli era Artali. I fatti poi consenzienti, anzi peggiori delle parole; perchè serrati in una segreta così bassa e stretta, che nè stare in piedi nè giacere alla distesa potevano, eran lasciati per ben cinquanta giorni a dimenticanza, solo un misero panicciuolo al giorno essendo loro ministrato. Sorgeva l'acqua tutto all'intorno, il suolo aspro di acuti sassi. Non lume avevano nè aria: fra breve venne l'aria pestilente. A questi erano lacerate le carni con nerbi, a quelli scottate con ferri; a questi davansi droghe da procurar loro sogni spaventevoli, da cui solamente erano svegliati con brace accesa, o con piastrelle arroventate. Fuvvi chi ebbe le membra tirate dalla colla orribilmente, e chi la pelle tagliata fino al cranio da funicelle strettissimamente avvinte. Scioglievansi, perchè le carni davano in mortificazione: temevano i carnefici, che la morte togliesse le vittime ai nuovi ed apprestati tormenti. Fora pur troppo dolorosa narrazione l'andar raccontando minutamente il lungo e moltiforme martirio. Solo dirò, che le Messinesi carceri furono come le Verrine: la Siciliana terra rispondeva alla Napolitana, furore a furore, crudeltade a crudeltà opponendo: infausto cielo, che vide quanto possa l'eccessiva natura dell'uomo. Di Manhes e di Artali parlando, mostrano le Calabresi terre, mostrano le Siciliane la terribile natura loro; ma il primo fu inesorabile, il secondo crudo; quegli pacato, questi sdegnoso; l'uno sanò un paese, l'altro fece un paese infermo e pregno di vendetta. Messina tutta piangeva, tremava, fremeva; niuna cosa più sicura a nissuno: imprecavano e chi comandava e chi tollerava; un gran vituperio ne nasceva per gl'Inglesi andati là per difendere le popolazioni, e che le vedevano straziare. Gridarono i Messinesi, venne avviso della tragedia a Giovanni Stuart, generale dei soldati Britannici. Mandò un lord Forbes a visitare le segrete dolorose: gli diede per compagno parecchi chirurghi, perchè sapeva che abbisognavano, per sanare le vestigia impresse dal furore dei carnefici. Seppesi queste cose il governo del re Giorgio: gliene fu fatta anche fede indubitata. Non so se gl'importasse dei tormentati: bene gli calse dell'odio che ne veniva contro il governo Siciliano, e contro l'Inghilterra: indebolivasene la difesa dell'isola. Di gran momento era agl'Inglesi la conservazione della Sicilia, sì per se medesima, come pel sito opportuno a difendere Malta, ed a percuotere nel cuore del regno di Napoli. Non poca molestia dava loro il vedere, che l'imperio violento della regina, perciocchè a lei massimamente attribuivano i popoli la direzione delle faccende, tendeva ad alienare gli animi da lei e dagli alleati; perciò pensarono ai rimedj. Per verità i Siciliani, che con molta allegrezza avevano veduto la corte venire in Sicilia nel novantotto, ora mutatisi intieramente, alla medesima erano avversi. Della qual mutazione, oltre i rigori eccessivi, molte e gravi furono le cagioni. Morto Acton, col quale la regina principalmente si consigliava, era stato chiamato ministro delle finanze il cavaliere Medici, uomo, come già abbiam detto altrove, di singolare destrezza d'ingegno, ma che amava il governare assoluto. Per questo aveva piaciuto alla regina, e la regina a lui. Della sua elezione si mostrarono male soddisfatti i Siciliani, sì per questa stessa sua natura molto tirata, come perchè Napolitano era. A queste male soddisfazioni se n'aggiunsero delle altre di non poco momento. La regina che sapeva, che a volta a volta tornava al re il desiderio di prendersi nel governo tutto l'imperio che gli si conveniva, aveva fatto opera, per fermare questi rigogli, che fosse eletto a primo ministro il duca d'Ascoli, nel quale Ferdinando aveva molta affezione, e che molto ancora da lei dipendeva. Confidava in questo di essere del tutto padrona dell'animo del re sì per l'imperio proprio, come per quello del duca. Ma oltre che Ascoli era uomo d'intelletto incapace a sopportare tanto peso, e neppure gli dispiacevano i piaceri di cui tanto si dilettava Ferdinando, avvenne che appresso a lui acquistò grande autorità una donna, che chiamava col nome di sua amica. Costei traendo, contro il dovere, ad utilità propria il credito del duca, fu cagione che un gran romore si levasse contro di lui con diminuzione del suo nome presso i popoli. Il mal umore si accese anche contro la corte, massimamente contro la regina, che per tenersi il duca benevolo, accarezzava l'amica di lui.

Cagione molto forte di disgusto furono i Napolitani venuti colla corte in Sicilia. Costoro, se pochi si eccettuano, o messisi a grandeggiare fra un popolo povero, od a far le spie fra un popolo sdegnato, accrescevano l'odio naturale dei Siciliani contro i Napolitani, e gli umori già mossi viemaggiormente pervertivano. Il denaro del pubblico, cavato a grande stento dai sudditi spolpati, si profondeva con grave scandalo in Napolitani o Calabresi, parte insolenti, parte viziosi, immoderati tutti nella quantità delle spese: intanto i soldati quasi nudi, e colle paghe corse da mesi ed anche da anni, attestavano colla miseria loro la pessima amministrazione del regno. Nè la corte rimetteva dal consueto lusso, come se il regno solo oltre il Faro potesse da se solo sopperire a quella voragine, alla quale appena bastarono i due regni uniti. Quindi accadeva, che sebbene alcune terre appartenenti alla corona col fine di sostenere le esorbitanti spese si vendessero, nondimeno sempre l'erario penuriava, e mentre la corte spendeva e spandeva, ogni servizio del pubblico mancava. Le strade massimamente, per le quali il parlamento aveva conceduto proventi particolari, rotte e malconce dimostravano, che ciò che per loro si era dato, in altri usi si convertisse. S'aggiunsero a sprofondar l'abisso gli enormi dispendj fatti per le fazioni della Calabria, per la difesa di Gaeta, per le spedizioni contro Castellamare, e contro le isole di Procida, d'Ischia e di Capri. Già si era dato fondo alle ricchezze portate via nella fuga di Napoli, avvegnachè fossero di non poca entità, e le cose erano ridotte a tale, che la regina per ultimo sussidio, mandò ad impiegar le gioje dotali e sopraddotali per cavarne diecimila once, che sono circa cinquemila luigi di Francia. Crescevano gli sdegni, pensando che l'Inghilterra pagava alla corte di Sicilia trecentomila sterlini all'anno di sussidio, nè potevano i popoli restar capaci come tant'oro Napolitano, Siciliano ed Inglese in una e medesima voragine senza nissuno, o con debole frutto si gettasse: ricchezza certa, dispendio enorme, povertà rea, dicevano. Gl'Inglesi stessi perdevano di riputazione appresso ai popoli e per l'uso, e per l'abuso del sussidio. Adunque, i Siciliani gridavano, fan le spese gl'Inglesi alla Sicilia, perchè ne siano pagate le Napolitane spie, i Calabresi sicari? Adunque gli sterlini di Londra vengono a Palermo, perchè l'amata d'Ascoli, ed il dispotico dominio di Medici ne siano protetti e sicuri? Adunque perchè un duro giogo sul collo dei Siciliani, miseri colla corte assente, ancor più miseri colla corte presente s'aggravi, i Britannici salari sulle Siciliane terre sono chiamati? Adunque perchè dei Napoleonidi ogni ora si tema, tanti domestici e forestieri tesori si profondono? Incominciavano gl'Inglesi ad accorgersi, che avevano a fare con un alleato, il quale dopo di aver procurato odio a se, il procurava anche a loro. Già se ne gettavano motti aperti nei giornali di Londra: il governo stesso pensava ai rimedj. Il fine era questo, che si togliesse alla regina l'autorità che si era arrogata nelle faccende, e che la parte popolare si accarezzasse, si conciliasse, si fortificasse.

Ma prima che gl'Inglesi comandassero, si sperava in un rimedio domestico: quest'era il parlamento Siciliano. Lo aveva il re convocato nell'ottocentodieci. Aveva Medici dato molte speranze di questo parlamento, come se fosse per essere molto liberale di sussidj: donativi gli chiamano in Sicilia. Era Medici uomo molto ingegnoso ed inframmettente, nè mancava di ardimento: perciò sempre confidente in quanto imprendesse a fare, sperava di volgere a suo grado il parlamento. Fece suoi brogli appresso ai rappresentanti, questi sono il braccio demaniale, nè senza frutto. Alcuni degli eletti liberamente dalle città tirò a se colle promesse e coi doni, altri fece eleggere a sua posta; che anzi ottenne che parecchie città, bruttissimo vizio della constituzione Siciliana, dessero il mandato parlamentario ad una medesima persona. Erano moltiplici questi rappresentanti, ed al favore di Medici obbligati, e da lui dependenti. Si era anche destramente insinuato, ed aveva acquistato credito nel braccio ecclesiastico: non pochi vi erano inclinati a secondare i suoi disegni. Bene considerate erano tutte queste cose da Medici; ma errò per altra parte in due modi, perchè credendosi sicuro dei due bracci, demaniale ed ecclesiastico, omise di accarezzare il baronale più potente di tutti, ed oltre a questo usò l'opera di certe persone, le quali, avvengadiochè fossero dotate di singolare abilità, erano nondimeno venute in odio ai popoli, perchè nel parlamento dell'ottocentosei si erano adoperate con molto calore, acciocchè si aumentassero i dazj. I baroni, parte per amor di bene, parte per odio di Medici, che gli aveva o trascurati od aspreggiati, fecero tra di loro un'intelligenza per isturbare i disegni al ministro. Fra gli avversarj, per essere stato offeso ed allontanato dalla corte per opera di lui, risplendeva il principe di Belmonte, uomo assai ricco, di famiglia nobilissima, e di molta dipendenza in Sicilia: nè l'ingegno mancava in lui, nè la liberalità; perchè amico ai letterati, cortese ai forestieri, mostrava che di buoni frutti non era sterile la Sicilia. Quest'erano le sue virtù: i vizj, un orgoglio intollerabile. Assunse impresa di vendicarsi di Carolina e di Medici. I baroni si collegarono con Belmonte. Il ministro s'accorse, che se era stato buono il tirare a se i dipendenti, sarebbe stato meglio il tirare gl'independenti. L'esito fu, che il parlamento concedè un piccolo aumento di donativi, ma interpose tante difficoltà alla distribuzione e riscossione loro, che fu impossibile di esigergli. Maggiori segni sorsero del mal umore parlamentario, perchè, essendo solito il parlamento a domandare molte grazie al re, grazie, che si concedevano a ragguaglio della largizione dei donativi, a questa volta i baroni domandarono, come per modo d'ironia, la grazia di sua maestà: l'esempio fu efficace; anche i due altri bracci risposero nella medesima sentenza: solo gli ecclesiastici richiesero il re, facesse prigioni separate pei preti. I Siciliani, secondo la natura dei popoli che sempre pagano mal volentieri, e peggio quando sono entrati in opinione che chi maneggia il denaro loro lo sparge, alzarono voci di plauso in tutta l'isola a favor dei baroni: pel contrario con discorsi acerrimi laceravano il nome di Medici, e di coloro che nel parlamento l'avevano secondato.

Fu molto memorabile il parlamento Siciliano dell'ottocentodieci, di cui abbiamo fin qui toccato. Imperciocchè le terre obbligate a feudo furono ridotte all'allodio, ed aboliti molti baronaggi, consentendo volentieri e con singolar lode i baroni ad una riforma, che recava loro, quanto alle rendite, notabile pregiudizio. A ciò si aggiunse, che per la più acconcia distribuzione dei dazj, si crearono nuovi ordini di gabelle, e le terre, affinchè il terratico fosse stanziato con più equalità, si accatastarono, facendo stima dai contratti d'affitto, o dalle confessioni dei possidenti sul fruttato di dieci anni; dal che ne sorse un censo o catasto, che, sebbene imperfetto, diè non pertanto qualche utile norma in una faccenda intricatissima. Migliorò anche il parlamento gli ordini giudiziali, cosa in quei tempi di estrema necessità, per la frequenza intollerabile che era invalsa dei furti e delle rapine; perchè siccome per lo innanzi i capitani di tutte le città e villaggi erano obbligati a compensare del proprio i rubati, il che di rado aveva effetto, essendo per lo più i predetti capitani uomini poveri, che amavano meglio o fuggire o andar carcerati, che pagare, così il parlamento creò tante compagnìe di gendarmi, quanti erano i distretti, volendo, che ciascuna compagnìa purgasse il distretto proprio dai ladri, e fosse tenuta dei furti che vi succedessero. Le strade ed i casali sparsi, che prima erano molto infestati, diventarono più sicuri, i popoli lodavano il parlamento del prudente consiglio, i baroni sorgevano in maggior credito pel favor dell'opinione. La regina, che si recava a diminuzione di potenza il favore acquistato dal parlamento e dai baroni, mal volentieri sopportava questa variazione. Medici, o che il facesse da se, perchè sapeva che e come Napolitano, e come aderente alla regina, aveva perduta la grazia dei Siciliani, o che Carolina gliel comandasse, rinunziò alla carica di ministro delle finanze. Creossi in sua vece il principe di Trabia, come Siciliano, per conciliare: s'intendeva piuttosto di commercio che di stato. Piacque un tempo, dispiacque fra breve, perchè pensava a tôrre le spese inutili, ed a formare migliori ordini per la camera. Intanto le tasse a mala pena si riscuotevano, ogni cosa in ruina. Per ultimo rimedio si chiamava un secondo parlamento. Diè maggiore agevolezza nel riscuotere le tasse; negò più grossi donativi: ogni promessa o minaccia della corte indarno; i baroni non si lasciarono piegare nè alle lusinghe delle parole, nè alle profferte d'onori: lo stato periva, e' bisognava uscirne. Un Tommasi chiamato nelle consulte regie trovò questi due rimedj: pagassesi una tassa dell'uno per centinajo del valsente di tutti i contratti, stromenti e carte private che si facessero dai particolari, e perchè nissuno potesse far fraude, si mandò ordine ai notaj, ed ai banchi pubblici di Palermo e di Messina, che avessero cura dell'esecuzione. L'altro trovato del Tommasi fu, che si vendessero alcuni beni stabili appartenenti a luoghi pii, a possessori forestieri, ed alla religione di Malta: perchè la vendita non riuscisse vana per mancanza di avventori, si facesse per mezzo di lotto. Non fu consentaneo alle speranze l'effetto dei due decreti; perchè essendo gli umori mossi e l'opinione avversa, i rimedj si cambiavano in veleni. Primieramente la nazione recandosi a dispetto e ad oltraggio un atto, che stimava essere arbitrario e contro gli ordini della constituzione, fece risoluzione, che tutti gli atti privati, come vendite di beni sì stabili che mobili, affitti, pigioni, pagamenti, e tutt'altro contratto, dove la natura del negozio il permettesse, di buona fede e senza rogito di notajo si facessero. Quanto al lotto, malgrado del guadagno ingordo che vi si poteva fare, nissuno accorse alle polizze, e riuscì vano il tentativo. Tanto quei popoli amarono meglio pericolare nelle sostanze e rinunziare al lucro, che sottoporsi ad una tassa, che riputavano illegale e contraria agli statuti del regno, onorata risoluzione dei Siciliani. La regina dispensò le polizze ai suoi cortigiani, magistrati, partigiani ed aderenti, debole sussidio in tanta angustia.

Questa condizione non era tale, che lungo tempo potesse durare senza variazione. La regina non rimetteva dal solito procedere, da lodarsi per costanza, da biasimarsi pei mezzi e pel fine. I baroni instavano, nè erano uomini da non usar bene il tempo. Gl'Inglesi ci mettevano la mano, perchè vedevano che gli andamenti di chi reggeva precipitavano le cose in favor dei Francesi per la mala soddisfazione dei popoli; e giacchè avevano pruovato che i consigli dati alla regina non avevano prodotto frutto, si erano risoluti a prevalersi della nuova inclinazione d'animi che era sorta. Tutti volevano comandare, regina, Inglesi, baroni, chi per superbia, chi per interesse, chi per desiderio di regolate leggi. In questo nacque un accidente, dal quale doveva avere la sua origine il cambiamento delle Siciliane sorti. Fecersi avanti i baroni, cui più muovevano il fastidio dell'imperio Caroliniano, e la voglia di veder ridotto a migliore forma il governo, e si appresentarono con una rimostranza al re, supplicandolo della rivocazione dei due decreti, come contrarj alla constituzione Siciliana fino allora inviolata nel diritto di porre le contribuzioni. Portarono la medesima rimostranza alla deputazione del regno, la quale dal parlamento eletta, sedeva secondo i Siciliani ordini, tra l'una tornata e l'altra dal parlamento. Capo di questa mossa fu il principe di Belmonte. La regina, che non era donna da lasciarsi sopraffare dai venti contrarj, non solamente non si piegò a questo assalto dei baroni, ma persuase ancora al re, che gli facesse arrestare e condurre in luogo, dove fosse loro mestiero di pensar ad altro piuttosto che a rimostrare. Furono arrestati, condotti in varie isole, serrati in prigioni diverse, e trattati con sevizia cinque dei primarj baroni del regno, che furono quest'essi: il principe di Belmonte sopraddetto, i principi d'Aci, di Villarmosa, di Villafranca, e il duca d'Angiò. Parlossi anche nelle più segrete consulte della regina, che si uccidessero: i suoi aderenti più stretti, credendo di andarle a versi, domandavano la morte loro. Ma Medici, col quale principalmente ella restringeva i suoi consigli, contraddisse, allegando, che un fatto tanto grave sarebbe certamente occasione di rivoluzione.

Queste cose davano gran sospetto agl'Inglesi, perchè nulla di certo si potevano promettere da un moto popolare, nè maggior fede avevano nella regina, dappoichè per lo sposalizio di Maria Luisa nell'imperator dei Francesi era divenuta parente di Napoleone; e siccome quelli che ottimamente conoscevano la natura di lei, sapevano che ella si sarebbe gettata a qualunque più strano partito, ed anche all'amicizia di Napoleone, purchè continuasse a comandare, nè era solita a guardare più in viso Inghilterra che Francia; tanto era l'indole sua altiera ed indomita! Adunque gl'Inglesi, non potendo più comandare con la regina, nè fidandosi del popolo, si vollero pruovare, trattando restrignimento coi baroni, di comandare per mezzo loro.

A questo fine, richiamato a Londra lord Amherst, ambasciatore d'Inghilterra alla corte di Palermo, mandarono in sua vece lord Bentink, uomo di natura molto risoluta: pretendeva parole di libertà. Ora s'ha a vedere una testa forte contro una testa forte. Non così tosto pervenne Bentink in Palermo, che si mise a negoziare strettamente con la regina, ammonendola dei pericoli che correvano, rappresentandole la necessità di cambiar di condotta, e proponendo la riforma degli abusi introdotti nell'amministrazione e nella constituzione del regno. Insisteva principalmente, amarissimo tasto a Carolina, affinchè si rivocassero i due decreti, e si richiamassero dalle carceri e dall'esilio i cinque baroni. Aggiungeva, che se ella non si uniformasse ai desiderj dell'Inghilterra, ei direbbe e farebbe gran cose. La regina, non usa a sentirsi parlare di questo suono, meno ancora a sopportarlo, non che si piegasse, viemaggiormente si ostinava, e lei essere padrona in Sicilia, non Bentink, affermava. Pure l'Inglese la stringeva; e voleva venirne alla conclusione. A cui finalmente la regina per vederne la fine e levarselo d'innanzi, gli ebbe a dire apertamente, con quale diritto s'ingerisse nelle faccende del regno, e quale audacia fosse la sua di uscire dai termini del suo mandato? Dove fosse, richieselo, e mostrasselo il mandato d'intromettersi nel governo del regno di Sicilia. Badasse bene a farla da ambasciatore, non da padrone, molto manco da re; che Carolina d'Austria non era donna da divenir serva di chi era mandato a farle riverenza, non a comandarle. Sentissi Bentink toccar sul vivo, perchè veramente aveva avuto dal re Giorgio potestà di consigliare, non di comandare. Tuttavia non si tirava indietro, e con pertinacia contrastando, disse, che se non aveva mandato, lo anderebbe a cercare: e come disse, così si metteva in punto di fare. Carolina, veduto il pericolo, pensò ad essere una seconda volta con Bentink, non che volesse rimuoversi dal suo proposito, perciocchè perseverava nella medesima durezza, ma sperava di rimuovere l'avversario. Consentiva, non senza qualche difficoltà, l'Inglese all'abboccamento: all'ultimo trattandosi l'affare tra due ostinati, non si potè venire ad alcuna conclusione, per forma che l'ambasciadore disse alla regina per ultima risposta, “o constituzione, o rivoluzione”. Nè interponendo dilazione, partì, andò a Londra, in tre mesi tornò con mandato amplissimo. Ma i ministri d'Inghilterra, avvisandosi che le parole non basterebbero, diedero a Bentink potestà suprema sopra tutte le truppe Inglesi raccolte nell'isola, acciocchè quello che pei consigli non potesse, colla forza il potesse. Tentò Bentink di nuovo la regina colle persuasioni, di nuovo la regina nella risoluzione di voler fare da se, e non a posta d'altri o Inglesi si fossero o parlamento, persisteva. Minaccioso allora venne sul dire, arresterebbe il re, arresterebbe la regina, gli manderebbe in Inghilterra, lascerebbe in Palermo a governare il regno, il figliuolo del principe ereditario don Francesco, fanciullo di due anni, con assistenza di una reggenza, alla quale chiamerebbe, come capi, il duca d'Orleans, ed il principe di Belmonte. Perchè poi le sue parole avessero l'efficacia necessaria, dodicimila soldati Inglesi, che stanziavano sparsi in varj e lontani luoghi dell'isola, chiamò nelle vicinanze di Palermo. La regina, veduto un caso tanto estremo, nè ancora rimettendo della sua costanza, chiamati i suoi più fidi a consiglio, e con loro i ministri, sull'afflitte cose se ne stava deliberando. Disse, non esser punto per cedere ad una prepotenza forestiera. Chiamassero i soldati, volere contro la forza difendersi colla forza. Le fu tosto ridotto in considerazione, poco sicure essere le truppe per la miseria, ad esse mancare le vestimenta, ad esse i viveri, ad esse insino le armi; non potervisi far capitale; là andrebbero dove una prima mostra di pane a loro si facesse. La regina, cedendo alla fortuna, ma non vinta nell'animo, si ritirava ad un suo casino poco distante dalla città. L'evento finale si avvicinava, si rompevano le trame Napoleoniche in Sicilia, la parte Inglese trionfava, contrade infelicissime, che non potendo vivere da se, cercavano di sostentar le cose loro col patrocinio altrui. Bentink, recatosi in mano la somma dell'autorità, operò primieramente, temendo non il re per se, ma la regina per mezzo del re, che Ferdinando, sotto colore di malattia, rinunziasse alla potestà reale, ed investisse di lei pienamente il principe ereditario suo figliuolo con titolo di vicario generale del regno. Bentink fu eletto capitano generale della Sicilia, accoppiando in tal modo in se l'imperio militare e sopra i soldati del re Giorgio, e sopra quelli del re Ferdinando.

Atti primi e principali del nuovo reggimento furono il richiamare i baroni carcerati, il licenziare i ministri della regina, l'abolire il dazio dell'un per centinajo, il chiamare ministri Belmonte degli affari esteri, Villarmosa delle finanze, Aci della guerra e marina. Volevano alcuni, che si apprestassero gli esili, le carceri, i supplizj contro coloro che si erano mostrati aderenti a chi aveva sino allora retto lo stato, massimamente contro le spie, tanto più detestate, quanto la maggior parte erano forestieri venuti dall'altra parte del Faro. Ma i nuovi ministri, conoscendo che il modo di governare tanto sarebbe migliore, quanto più si discosterebbe dal precedente, prudentemente procedendo, si risolvevano ad usare mansuetudine: puniti pochi più in odio al popolo, mandavano i rimanenti in dimenticanza. Volevano cambiamento, non rivoluzione: protestavano non voler andare a forme insolite e nuove, solamente tornare alle antiche, adattandole alle condizioni presenti. Fece il popolo grandi allegrezze per la mutazione: quell'esser liberato dalle spie, gli pareva un gran fatto: dicevano rinascere le sorgenti di Sicilia.

Intanto il principe vicario convocava il parlamento. Era il mandato dei membri, provvedessero, che la Sicilia avesse un buono e libero governo, rimediassero agli abusi, creassero nuovi ordini di constituzione. Erano in quest'assemblea partigiani della regina, come amatori del governo assoluto, e come obbligati a lei per potenza, o per ricchezze, o per onori, ma il tempo era loro contrario. Erano partigiani di statuti liberi, pendendo molti verso le forme Inglesi ed a questi era il tempo favorevole. Erano infine, ma in poco numero, partigiani Francesi: questi si accostavano agli aderenti della regina, e poichè non potevano predicare apertamente il dominio assoluto per l'opinione contraria, pubblicavano dottrine di una libertà eccessiva, sperando che dalla licenza nascerebbe il dispotismo.

I baroni avevano maggior autorità degli altri. Bentink era accesissimo in questo, che promulgasse libertà e statuti generosi in ogni luogo. Incominciossi dagli ordini supremi della constituzione. Statuirono che la religione cattolica, apostolica, romana fosse sola religione del regno; che il re la professasse; quando no, s'intendesse deposto; la potestà legislativa fosse investita nel solo parlamento, e solo il parlamento ponesse le tasse; i suoi decreti appruovati dal re avessero forza di legge; l'appruovare, od il vietare del re in questa forma si esprimesse, “piace al re o vieta il re”; la potestà esecutiva fosse investita nel solo re, e sacra ed inviolabile la sua persona; i giudici avessero intiera independenza dal re e dal parlamento; i ministri fossero tenuti di ogni atto, e fosse in facoltà del parlamento l'esaminargli, il processargli, il condannargli pel crimenlese; due camere componessero il parlamento, una dei comuni, o dei rappresentanti del popolo, l'altra dei pari del regno; i rappresentanti fossero eletti dal popolo a norma di certe forme prestabilite; fossero Pari del regno chiunque avesse avuto seggio nel braccio ecclesiastico o baronale, o chiunque il re chiamasse a tale dignità; stesse in facoltà del re il convocare il parlamento, ma fosse obbligato di convocarlo ogni anno; la nazione desse al re dote splendida, e con ciò i beni della corona cedessero in amministrazione della nazione; niun Siciliano potesse essere turbato nè nelle proprietà nè nella persona, se non conforme alle leggi sancite dal parlamento; s'instituissero forme giudiziali pei Pari del regno; la camera dei comuni sola avesse facoltà di proporre i sussidj, o vogliam dire i donativi; il parlamento vedesse quali e quante parti della constituzione della gran Brettagna convenissero alla Sicilia, ed esse ad utilità comune si accettassero.

Questi furono i capitoli principali della constituzione Siciliana data da lord Bentink circa gli ordini primitivi dello stato. Ne concepirono i popoli grande contentezza, perchè quella equalità di dritti, e quella sicurezza delle persone, sono condizioni che piacciono a tutti. Furono inoltre dal parlamento per motivo espresso dei baroni statuiti certi patti fondamentali, dai quali ne veniva un grande sgravio ai popoli, e il nome dei baroni salì in onore, certo meritamente, appresso ai Siciliani. Perciò all'allegrezza comune cagionata dai capitoli principali, s'aggiunse una maraviglia non senza molta parte di gratitudine per certi capitoli aggiunti, essendone posto il partito dai baroni. Il fecero per generosità d'animo, il fecero per conciliarsi i popoli. Offerirono spontaneamente, e fu dal parlamento statuito, che il sistema feudatario fosse e restasse abolito in Sicilia, che tutti i privilegi provenienti dall'origine medesima fossero cassi, e tutte le terre libere ed allodiali. Fossero altresì abolite le investiture, i rilievi, le devoluzioni al fisco, ed ogni peso che derivasse da feudo. Quanto alle angherie, o siano dritti angarici, potessero i comuni od i particolari riscattarsene sotto condizione di debito compenso. A voler comprendere quanta agevolezza ed amore del ben pubblico fossero in queste offerte e decreti dei baroni Siciliani, basterà far considerazione, che gran parte delle loro rendite consisteva in questi dritti feudatarj: furonvi famiglie, che a cagione delle rinunzie perdettero insino a settantamila franchi d'entrata. L'annullazione massimamente delle bandite, o vogliam dire dei dritti proibitivi di caccia riservandone soltanto l'uso, a guisa degli ordini Inglesi, sulle terre circondate da mura, diede la vita a molti villaggi condotti all'ultima ruina dalle fiere o regie o baronali. Dirò anzi in questo, perchè dimostra lo spirito di quella nazione, che il re, al quale incresceva l'astenersi dalle solite cacce, fece opera di persuader ai villani, che abitavano vicini a' suoi parchi e foreste, che rinunziassero alla libertà largita dal parlamento: ne ebbe ripulsa.

Giubbilavano i Siciliani dell'ottenuta libertà, la generosità dei baroni, ed i nuovi ordini con somme lodi esaltando. Restava, che il re, cioè il principe vicario appruovasse. Fuvvi qualche soprastare. Si disse, che la regina stringesse il figliuolo affinchè vietasse: mormorossi, ch'ella per por le cose in confusione, macchinasse sollevazioni in Palermo. Si andava oltre a ciò vociferando un caso più orrendo, e fu, ch'ella con un artifizio di polvere chiusa in grossa e forte boccia, aggiuntovi scheggia ed altri stromenti mortalissimi, e gettato, ed acceso improvvisamente nella stanza del parlamento, si fosse sforzata di mandar l'assemblea a confusione ed a ruina. Certo scoppiò il ferale ordigno, ma all'entrare di una finestra, per modo che dal terrore in fuori, non fece effetto. Queste cose si dicevano della regina, non perchè se le facesse, ma perchè la credevano capace di farle.

Duro pareva a chi regnava, lo spogliarsi dell'autorità; infine tanto operarono Bentink, il parlamento, ed i segni della impazienza popolare, che il principe vicario dichiarò, piacergli i capitoli. Ne fu lodato da molti, biasimato da pochi. La regina, non potendo più resistere, costretta anche da Bentink, che conoscendo quel suo spirito indomabile, ed avendo l'animo alieno dal confidarsi di lei, malvolentieri la vedeva vicina alla sede del governo, si ritirava a Castelvetrano, terra distante a sessanta miglia da Palermo. Aspettava Bentink la stagione propizia per mandarla a Vienna, certo e sicuro, che, finchè ella restasse nell'isola, il nuovo stato non potrebbe quietare, non che radicarsi e fiorire.

Ed ecco che nel mese di gennajo dell'ottocento tredici il re (corse fama in quel tempo, che Carolina regina, avendo l'animo sempre pieno di mala soddisfazione, di nottetempo e celeremente venendo da Castelvetrano, fosse andata a trovarlo, e ad esortarlo a recarsi di nuovo la somma del governo in mano) compariva all'improvviso in Palermo, e fatti a se chiamare i ministri, dichiarava, che essendo tornato in salute, suo intento era di riassumere l'autorità regia. Parve caso strano, e che potesse portar con se accidenti molto gravi. Bentink, avvertito a tempo, mandò prestamente suoi messi a chiamar le soldatesche, che alloggiavano nei paesi circostanti. Tanta fu la celerità usata, che a mezza notte dodicimila Inglesi, armati di tutto punto, come in presente guerra, entrarono in Palermo, e rendettero le cose sicure al nuovo stato. Fu assai subito Bentink in questa faccenda, e se avesse tardato non sarebbe più stato a tempo; perchè già i partigiani dell'antico reggimento alzavano la testa, e si vantavano di aver vinto la novella constituzione. Era intento di Ferdinando di cambiare i ministri, non terminare la constituzione, annullare i capitoli accordati, rimettere in piede lo stato antico, richiamare la regina: il fine ultimo consisteva nel liberarsi dall'imperio d'Inghilterra, e dalle molestie dei democrati. Si cantarono con pompa nel duomo le prime grazie all'Altissimo per la salute ricuperata del re. Si aspettavano plausi: nissuno si scoprì. Se da una parte si sopportava mal volentieri il dominio degl'Inglesi, dall'altra si temeva quello della regina, e dei Napolitani. Intanto il capitano generale aveva condotto a fine i suoi preparamenti: soldati in armi occupavano Palermo; un romor di cannoni e di mortaj tirati per le contrade faceva un terrore grandissimo. I Palermitani gridavano che guerra fosse quella; e si lamentavano che si fosse dato occasione a quest'insolito apparato. Mandava Ferdinando il comandante domandando a Bentink, che cosa significasse quella mostra guerriera. Rispose venezianamente l'Inglese, avere udito la ricuperata salute del re, volere anche di lui palesare la sua contentezza; quelle armi e quei soldati essere venuti ad allegrezza e ad onoranza. Stette alquanto sopra pensiero il Siciliano, perchè gli pareva che il parlare di Bentink fosse piuttosto da burla che da vero. Poi gli disse, se avesse pensato agli accidenti che potevano nascere. Il capitano del re Giorgio rispose, che il re Ferdinando l'aveva chiamato suo capitano generale, che a lui aveva affidato la quiete di Palermo e del regno; che per adempire l'incarico aveva apprestato quelle armi e quei soldati. Ferdinando in questo mentre caduto in malattia o per accidente fortuito, o per angustia d'animo, riconfermò il figliuolo nella carica di vicario generale, e tornossene in villa, portando con lui diminuzione di riputazione per un tentativo male cominciato, e peggio terminato.

Volle Bentink usar l'occasione dello sgomento concetto per l'esito infelice, facendo opera di persuadere al re, che rinunziasse intieramente all'autorità regia in favor del figliuolo: mandò anche soldati per ajutar le parole coi fatti, a romoreggiare tutto all'intorno della villa abitata da Ferdinando, ma egli non si lasciò tirare a questa risoluzione, perchè i fuorusciti Napolitani, tutti o la maggior parte seguaci della regina, il dissuadettero efficacemente da questa finale rinunzia. Temevano, nè senza ragione, che se il principe vicario fosse divenuto re, pei consigli dei baroni Siciliani, che in lui molto potevano, ed erano nemici al nome loro, gli conducesse a qualche mal partito. Non potevano tornare nella patria loro, che tuttavia si trovava in potestà dei Napoleonidi, e se fosse loro stata vietata la Sicilia, non avrebbero più avuto alcun ricovero o scampo.

Intanto il tentativo fatto per riassumere l'autorità regia, rendè del tutto chiaro Bentink dell'animo della regina. Laonde, temendo non poco ch'ella facesse qualche precipitazione, si persuase che era meglio vedere una regina esule, che in pericolo l'autorità d'Inghilterra. Fatte adunque le sue diligenze, costrinse Carolina ad abbandonar la Sicilia. Dal che nacque, che portata dai venti e dall'avversa fortuna in istrani e barbari lidi, non potè, se non con disagi incredibili, rivedere la sua Vienna, riabbracciare i parenti, e respirare l'aere natìo, donde solo poteva sperar conforto della perduta potenza. Ma non fu lungo il sollievo, perchè presa da subita malattia, passò poco tempo dopo da questa all'altra vita. A questo modo fini di vivere Carolina d'Austria e di Sicilia, prima desiderosa di ridurre il governo a forme più larghe, poi sostenitrice tenacissima di governo stretto, prima favorevole ai filosofi, poi nemica acerbissima di loro, contrastatrice violenta un tempo di Napoleone imperatore per la soverchia potenza di lui, poi sua aderente per troppo amore della potenza propria; conservata dagl'Inglesi, poi fatta esular da loro; questo solo lasciò incerto, se i tempi, o ella cambiassero; che anzi se si dee, non da qualche atto della vita, ma da tutti della natura di alcuno giudicare, parrà certo, ch'ella piuttosto costante e forte, che volubile e debil donna chiamare si debba. Nè in mezzo alle tante ambizioni moderne la sua cupidigia del dominare io riprenderei, se non l'avesse condotta ad una rigidezza eccessiva. Di questo, nè io, nè, credo, altri sarà mai per iscusarla per ragione alcuna, nemmeno per l'orrendo caso della regina sorella; conciossiachè, se di vendetta in vendetta sempre dovesse andare il mondo, non si vede, che allo straziarsi colle unghie, ed al mangiarsi coi denti gli uomini al fine non dovessero pervenire. Mise chi ci creò nei nostri cuori la pietà verso i miseri, ed il piacere del perdonare ai rei, acciocchè l'umana razza s'arrestasse in mezzo al corso del tormentare umane membra, e del versare umano sangue; e se una pazzìa incomprensibile, od un desìo spaventevole ci vi spinge, almeno una salutevole pietà ci rattenga dal correre sino all'estremo termine di lui.

Rintegrato il principe vicario nel regno, e partita la regina, insistendo i ministri, massimamente Bentink, che interveniva a tutte le consulte, continuò il parlamento le sue politiche fatiche. Diessi compimento alla constituzione; si mise in atto, rimanendone i popoli con molta satisfazione. Così fu felice il principio; il seguito non corrispose. Nacque tostamente la peste dei governi liberi, dico le insolenze popolari: nacque il vizio dei paesi comandati dai forestieri, dico i favori conceduti dai dominatori ai più vili, ai più ignoranti, ai più ridicoli uomini: la parte popolare più forte, e sempre intemperante ne' suoi desiderj, principiò a non serbar più modo verso i nobili, contro di loro con parole e con fatti imperversando. Era in questo procedere, non che cecità per l'avvenire, ingratitudine del passato, perchè dei nobili, chi era stato autore della constituzione, e chi l'aveva accettata volentieri. Per la qual cosa eglino, non trovando più sotto l'imperio di lei rispetto e quieto vivere, diventarono avversi, e desiderarono il cambiamento di quello, che coi desiderj, e colle opere avevano mandato ad effetto. Pessime furono la maggior parte delle elezioni alla camera dei comuni, fatte principalmente per maneggio di Bentink, più avendo potuto nel suo animo i servigi particolari fatti a lui medesimo, che quelli fatti o da farsi al pubblico. La viltà degli eletti portò disprezzo al consesso: da spie e ligi di Carolina, a spie e ligi di Bentink non facendo i popoli differenza, concepirono la opinione, che gli scritti di penna non sono altro che scritti di penna, e che gli atti ed i risultamenti sono sempre i medesimi, cioè di dare a chi meno merita, e di tôrre a chi più merita; chi aveva disprezzo, chi odio, chi freddezza verso la nuova constituzione, e tutto in un fascio mettevano Carolina, Acton e Bentink. Torno sull'antica mia querela, che le leggi portanti a libertà in Europa son sempre guaste dal cattivo costume, massimamente dall'ambizione. S'arrose a questo, che i dazj posti ai tempi del parlamento Bentiniano secondo gli ordini della constituzione, avanzarono di gran lunga quelli che si pagavano prima, ed in virtù degli antichi statuti del regno. Del quale effetto la cagione si fu, parte la necessità del pagare i soldati altrui, parte quella di supplire con nuovi dazj alle rendite dei dritti feudatarj soppressi. A questi aggravj si risentivano i popoli, che generalmente piuttosto dal non pagare, che dal fare gli squittinj giudicano della libertà. Le persuasioni degli uomini in carica non fruttavano, perchè gli stimavano complici; gli altri scontenti: perivano i fondamenti della recente constituzione, e le cose del nuovo governo molto s'indebolivano. Ciò nondimeno durò qualche tempo; perchè, morta la regina, niuno era rimasto che le potesse dare un primo urto. Ma non così tosto il re Ferdinando, pei casi dell'ottocento quattordici, tornossi a sedere sul trono di Napoli, che con un cenno solo l'aboliva non solamente senza sommossa di popoli, ma ancora senza mala contentezza. Dal che ne seguita, che non le magnifiche parole, ma solo la felicità presente possono essere stabile fondamento alle constituzioni. I popoli di metafisica non sanno, e la felicità loro misurano, non da quello che odono, ma da quello che sentono.

Insomma Ferdinando disse, che la constituzione era stata data per forza, Bentink che era stata chiamata di volontà, Castelreagh andò per le ambagi. Vero fu, che fu desiderata prima, poco amata dopo, colpa più dei popolani che dei nobili, più dei forestieri che dei paesani. Del resto, anche qui si vide il vizio dello aver commesso in quest'Europa ciarliera ed ambiziosa la potestà popolare, cioè la potestà che debbe servire di moderatrice al governare e di guarentigia al popolo, ad assemblee numerose. Nella natura attuale degli Europei, questo è un pessimo rimedio, nè so quello che diventerebbe l'Inghilterra stessa se non avesse i borghi compri: per un vizio enorme solamente, cioè per questi borghi ella vive. L'antica sapienza Italiana seppe trovare migliori rimedj; e se quello che nelle constituzioni degl'Italiani antichi, ed anche in qualcheduna dei moderni, era solamente un principio non ordinato, o male ordinato, con buoni statuti si ordinasse, il che sarebbe non che difficile, agevole, sarebbero sicuri la libertà e l'imperio.

Mentre Guglielmo Bentink dominava in Sicilia, Edoardo Pellew signoreggiava i mari Mediterraneo ed Adriatico. Era la terra in mano di un solo, il mare in mano di un solo. Nacquero accidenti, ora in questo mare, ora in quell'altro, ma di poco momento per la superiorità tanto notabile di una delle parti, e la depressione dell'altra. Predarono gl'Inglesi già sin dall'ottocentundici molte onorarie al capo Palinuro. Nell'Adriatico poi, per istringere il presidio di Ragusi, s'impadronirono presso a Ragonizza, di una conserva di navi, anch'esse cariche di vettovaglie. Fatto di maggior importanza fu una battaglia navale combattuta aspramente nelle acque di Lissa, una delle isole antemurali dalla Dalmazia. Vinse la fortuna Britannica: le fregate Francesi la Corona, e la Bellona vennero in poter degl'Inglesi; la Flora si condusse in salvo, la Favorita andò di traverso. Per questa fazione Lissa cadde in potestà degl'Inglesi. Vi fecero una stanza ferma, ed un nido sicuro, dove e donde potevano ritirarsi ed uscire a dominar l'Adriatico. Fu per Napoleone dato avviso al pubblico della fazione di Lissa, ma a modo suo, servendosi del nome del generale Giflenga che era stato presente alla battaglia. Se non si poteva dire che l'imperatore perdesse quando vinceva, molto meno si poteva quando perdeva. Giflenga stette queto, perchè non poteva parlare, quantunque il fatto fosse assai diverso del come fu nella patente lettera di lui descritto.

Già i fati assalivano Napoleone; l'ambizione, che mai non dormiva in lui, gli toglieva l'intelletto. Dome la Francia, la Germania, l'Italia, non poteva capirgli nell'animo che di tutta Europa signore non fosse. La Russia e l'Inghilterra gli turbavano i sonni; quella amica poco fedele, questa nemica costantissima; nè poteva pazientemente sopportare, che queste due potenze gli fossero ostacolo al salire dove i suoi desiderj fossero, non dico sazj, perchè a ciò la natura sua smisurata ripugnava, ma più soddisfatti: mezza Europa non gli bastando, come non mai si fermava la sua cupidigia, la voleva tutta. Parevagli che due grandi imperj, quali erano il suo e quel d'Alessandro, non potessero sussistere insieme nel mondo. Per questo aveva dilatato i suoi confini insino alla Russia, per questo unito alla Francia Amburgo e Lubecca, per questo fortificato Danzica, per questo creato il ducato di Varsavia, per questo teneva ostinatamente stretta ne' suoi artigli la miseranda Prussia, piuttosto ombra di potenza che potenza. Nè ignorava, quanti sdegni contro lui covassero, massimamente in Germania, pel suo insopportabile dominio: l'estrema forza della Russia gli nutriva. Questi pensieri, giunti alla cupidigia dell'esser solo, tanto più gli turbavano la mente, quanto più prevedeva che non poteva domar l'Inghilterra, se prima non domasse la Russia. Qui anche covava, secondochè appare, un pensiero grandissimo, nè a lui ostava, per mandarlo ad effetto, l'amicizia che allora aveva col sultano di Turchìa. Napoleone vincitore della Russia mirava al farsi padrone di Costantinopoli per rintegrare nella sua persona l'imperio d'Oriente, ed anzi tutta la pienezza del Romano impero. Appetiva anche le Indie Orientali a distruzione dell'Inghilterra, e ad acquisto di fama pari a quella d'Alessandro Macedone. Nè che io narri cose fantastiche alcuno sarà per dire: perchè dell'andare per cammino terrestre nelle Indie non solamente si parlò in quei tempi, ma eziandio ne furono prese deliberazioni, e i luoghi esplorati, e le stanze notate, e la lontananza accertata, e tenute pratiche colla Persia. Anzi gli adulatori già spargevano, che l'impresa non aveva in se tanta difficoltà quanta il volgo credeva. Solo ostava la Russia: per questo Napoleone ambiva di soggiogarla, confidando che il vincerla gli metterebbe in seno l'imperio del mondo. Sapevaselo l'Inghilterra, che continuamente stava ai fianchi d'Alessandro, acciocchè dalle infauste e mortali mani si strigasse. A questo fine aveva anche mandato un ambasciatore straordinario ad Ispahan, affinchè tenesse il sofì di Persia bene edificato verso l'Inghilterra.

Dall'altro lato la Russia, che vedeva il cimento inevitabile, pensava che il più presto sarebbe stato il meglio: mezzo mondo era vicino a marciare in guerra contro mezzo mondo; i due imperi apprestavano l'armi con tutte le forze loro. Favoriva l'uno un esercito fioritissimo, massime di Francesi usi a vincere in tante guerre, una esperienza di tanti anni, una perizia finissima, una fama maravigliosa di capitano invitto in chi tanta mole da se solo muoveva: il favorivano la maestria delle insidie nel corrompere, e l'arte squisita di adescar gli uomini: il favorivano la guerra di Turchìa già suscitata contro la Russia, quella di Persia prossima a suscitarsi.

In pro della Russia inclinavano altre sorti: le regioni lontane, e solo assaltabili di fronte, la vastità loro, i deserti immensi, i freddi orrendi. A ciò una infinita divozione dei popoli verso l'imperatore Alessandro, e la costanza de' suoi soldati, dei quali si prevedevano i primi impeti buoni, gli ultimi migliori. Nè gran peso non recava la potenza dell'Inghilterra, che a lei si sarebbe congiunta. Efficace ajuto ancora, per la diversione e per l'esempio, recava alle cose di tramontana la guerra di Spagna e di Portogallo. Le Spagnuole geste risuonavano nel cuore dei Prussiani, ed accendendo ogni animo anche più quieto, gli chiamavano alla liberazione della patria. Gli Spagnuoli, dicevano, gente in questi ultimi tempi poco usa alle guerre, avere volto il viso e l'armi contro il comune tiranno, i Prussiani famosi giacersene inoperosi ed inonorati: cattolici assuefatti all'obbedienza servile insorgere e combattere; protestanti più usi alla libertà, quietamente e pazientemente obbedire: niuna in Ispagna maravigliosa fama essere, avere in Prussia, i più, veduto, in tutti vivere Federigo II: la spada sua lasciata a rispetto del vincitore, essere stata dal medesimo tradotta a scherno, vile trionfo di capitano barbaro: essa chiamare i Prussiani a vendetta: sorgere dalla tomba la voce di Luisa oltraggiata, rimproverare ai Prussiani la loro ignavia. Nè la restante Germania quietava. L'Austria stessa tanto temperata titubava, aspettando il tempo propizio. Che anzi la Baviera, sempre aderente alla Francia per emolazione e paura dell'Austria, seguitava la medesima inclinazione. Tanto era venuta a fastidio la potenza Napoleonica, conculcatrice sì degli amici, come dei nemici, e forse più ancora dei primi che dei secondi. Quanto all'Assia, oltre la comune servitù, era sdegnata dal procedere puerile e superbo di Girolamo Napoleonide. Così nissun voleva star ozioso a vedere l'esito della guerra, e tutti aspettavano l'occasione di scoprirsi. Quest'erano le speranze della Russia.

Quanto all'Italia, gli umori vi erano diversi, nè sì grande il suo momento, per esser troppo lontana dai campi in cui si dovevano combattere le battaglie, nè dava timore di un moto alla Spagnuola. Inoltre nelle regioni superiori di lei la lunghezza del dominio Napoleonico vi aveva, parte assuefatto gli animi, parte posto in dimenticanza gli antichi sovrani. Nella inferiore poi le crudeltà commesse vi avevano alienato gli spiriti, e se i popolani, specialmente nelle province, non amavano Giovacchino, i nobili l'amavano, grande sussidio al suo governo. Roma e Toscana nel mezzo fremevano ma impotenti; i Piemontesi, uomini armigeri, si contentavano di quelle guerriere sorti. Del regno d'Italia, la parte Milanese dipendeva piuttosto con lieto animo, che mal volentieri dal capitano invitto, per avere una capitale fioritissima, un nome ed un esercito proprio, magistrati ed impiegati del paese, una immagine d'independenza. Del resto la gloria militare di Napoleone quivi aveva cominciato, quivi continuato, i pubblici segni magnifici; eravi sorta una certa nazionale altezza. La parte Veneziana avversa; ma che sperare avesse, e per cui combattere non sapeva. Solo sapeva che per se non poteva combattere: niuna speranza avevano i Veneziani della loro nobil patria, o preda sempre, o compenso di preda.

Risolutisi i due potenti imperatori al venirne al cimento dell'armi, ed al contendere fra di loro dell'imperio del mondo, cominciarono, come si usa, a gareggiar di parole, allegando l'uno contro l'altro piccoli fatti, certamente molto abietti, e molto indegni di tanta mole. Essi sapevano il motivo vero della guerra: tutto il mondo se lo sapeva, quest'era l'impossibilità del vivere insieme sulla vasta terra. Napoleone come più impaziente e più ambizioso, tirandolo il suo fato, assaltava primo; infierì la guerra in regioni rimotissime; desolò prima le sponde del Boristene, poi quelle del Volga: combatterono i Russi a Smolensco, combatterono a Borodina sulla Moscova: prendeva Napoleone Mosca, la prendeva ed insultava: folle che non vedeva che Dio già gli dava di mano! Era fatale, che sui confini dell'Asia perisse la fortuna Napoleonica; arse Mosca, immensa città; cagione e presagio di casi funesti. Una rotta toccata da Murat avvertiva Napoleone che il nemico si faceva vivo, e che quello non era più tempo da starsene nel fondo delle Russie. Gli restava l'elezione della strada al ritirarsi. Pensò di ridursi, passando per Caluga e Tula, a svernare nelle province meridionali della Russia: vennesi al cimento terminativo di Malo-Jaroslavetz, in cui mostrarono un grandissimo valore i soldati del regno Italico. Quivi perirono le speranze di Napoleone, quivi si cambiarono le sorti del mondo, quivi rifulse principalmente la virtù di Kutusoff, generalissimo di Alessandro. Napoleone ributtato con ferocissimo incontro, fu costretto a voltarsi di nuovo alla desolata strada di Smolensco: il Russo gelo spense l'esercito: piange e piangerà eternamente la Francia, piange e piangerà l'Italia il suo più bel fiore perduto per l'ambizione d'un uomo, che con la sua superbia volle tentare il cielo; il cielo mostrò la sua potenza; questa fu la pienezza dei tempi profetizzata da papa Pio. Imparino moderazione e giustizia gli ambiziosi, che si dilettano delle miserabili grida degli straziati uomini.

Al suono delle rotte Napoleoniche, la Prussia, procedendo impetuosamente contro l'insopportabile signore, nè aspettato nemmeno d'intendere la volontà del re, insorgeva, e si vendicava cupidissimamente in libertà. Napoleone ritornava nella sua sede di Parigi; ma pei recenti fatti molto era rallentata la fama della sua gloria militare. Murat, sbalordito da accidenti tanto straordinarj, abbandonato l'esercito se ne veniva a Napoli; presene il governo Eugenio vicerè. Aveva Murat mala satisfazione di Napoleone, ed era maravigliosamente commosso contro di lui, perchè gli aveva attraversato i suoi disegni sopra la Sicilia, e perchè non gli era ignoto, ch'egli aveva negoziato con Carolina di cose pregiudiziali al suo dominio Napolitano. Dall'altra parte gli alleati, massimamente gl'Inglesi, si erano deliberati a pretendere ed a metter fuori certe voci che sapevano essere gradite agl'Italiani, sperando con esse di commuovere facilmente tutta la penisola; quest'erano che oggimai era venuto il tempo di dare all'Italia l'essere independente. Pingevano con vivi colori la tirannide di Napoleone, e con immagini lusinghevoli si sforzavano di voltare gli animi a questo pensiero della liberazione. Bentink o tentativamente o sinceramente che sel facesse, si spiegava di questo disegno con parole incitatissime, e dimostrava la Gran Brettagna parata a secondarlo. Conosceva Giovacchino tutti questi umori. Per questo, tornando da Mosca, passò per Milano, dove più che in altri paesi d'Italia questi desiderj si erano accesi, a fine di scoprire che cosa portassero i tempi. Ma siccome leggieri uomo ch'egli era, quantunque portasse ancora impressi in volto i segni del passato terrore, si mise a far gran promesse, ch'egli farebbe e direbbe, e che era tempo da far l'Italia independente, e che egli era uomo da farla, e che la farebbe. Con questi vanti, che pure lasciavano semi, se ne tornava nel regno. Bentink, conosciuto l'uomo, e volendo concordarlo con gli alleati per turbare fin dalla bassa Italia le cose a Napoleone, il confortava ad assumere le insegne di campione dell'Italica libertà. Lodava il suo valore, le armi, i soldati: l'empieva di speranze; affermava, che, dove egli consentisse a congiungergli con quei de' confederati, si toglierebbe ogni dubbio sull'esito finale dell'impresa, che il turbatore e tiranno del mondo sarebbe vinto, che i confederati il saluterebbero re, che sempre il suo trono di Napoli vacillerebbe, se non fosse conosciuto, e riconosciuto dall'Inghilterra e dalla Russia, che a voler esser tenuto e conservato re novello in mezzo a tanti re antichi, e nel cospetto stesso del naturale e legittimo sovrano, a cui era sempre parata l'azione sopra il regno di Napoli, abbisognava il consenso libero di tutti, e che perciò era necessitato a fondarsi con nuove congiunzioni. Che momento recare, che ajuto porgere a lui ancora potevano Napoleone vinto, ed i suoi gelati soldati? Badasse bene, che colla conservazione propria ne andava la salute e la libertà d'Italia: sarebbe il suo nome immortale, cambierebbe l'odioso nome di re intruso in quello di re legittimo e liberatore. Impugnasse adunque quelle Napolitane armi, si separasse dall'amicizia di Napoleone, assumesse quella degli alleati, bandisse, ed asseverasse l'independenza Italiana. Offerirgli l'Inghilterra la volontà pronta ad ajutarlo, e siccome comune sarebbe l'impresa, che avrebbe facilmente felice successo, così comuni ancora sarebbero l'onore e il frutto. A questo modo Bentink tentava Murat, affinchè venisse a questa congiunzione; il negozio andò tant'oltre, che l'Inglese già si era condotto non a Messina, per non dar sospetto a Ferdinando, ma a Catania a fine di avere maggior comodità di certificarsi dell'animo del novello re, di attendere alla pratica, e di concludere l'accordo. Nè era senza speranza di venirne a conclusione, quando Giovacchino ricevè lettere da Napoleone; portavano, magnificate le cose, che i soldati scritti in Francia con volontà obbedientissima marciavano, che gli eserciti s'ingrossavano, che i popoli gli deliberavano con pronto animo grosse sovvenzioni di denari, che la Francia sarebbe presto uscita a campo più formidabile che mai; che insomma il nome e la fortuna dell'imperatore risorgevano. Queste novelle, aggiunta anche la natura facilmente mutabile di Murat, furono cagione ch'egli tagliò inopinatamente ogni pratica, e si deliberò a perseverare nell'aderirsi a Napoleone. Bentink l'ebbe per male, e rimaso senza speranza di averlo congiunto seco, s'indispettì talmente che non ostante che per mitigare con qualche onesto modo l'animo suo, Giovacchino gli mandasse poi in presente una ricca e forbita sciabola, l'Inglese non volle più trattar con lui, nè udire le nuove proposte ch'ei gli venne facendo, quando sopraggiunsero i tempi grossi per Napoleone in Germania. Il che fu cagione che Murat deposto ogni pensiero dell'independenza d'Italia, si voltò finalmente tutto verso l'Austria, sperando in tal modo di fondare la propria grandezza sulla dipendenza altrui.

Napoleone, che riavutosi dagli accidenti di Russia era rientrato in sè medesimo, ed attendeva e provvedeva gagliardamente ad ogni cosa, essendogli diventato buon maestro il timore, e considerato che il rendersi benevolo il papa, e l'accordarsi con lui, avrebbe fatto fondamento grande ai suoi pensieri, e molto giovato a tener fermi nella sua dominazione in sì grave pericolo gli animi degl'Italiani, si ritirava dalle domande di Savona, ed inclinando alla concordia concluse un concordato il dì venticinque gennajo in Fontainebleau. I principali capitoli furono, che sua santità esercerebbe l'ufficio del pontificato in Francia e nel regno d'Italia, in quel modo e conformità che i suoi antecessori l'avevano esercite; che manderebbe ai potentati i suoi ministri, e da loro ne riceverebbe, con le solite immunità e privilegi del corpo diplomatico; che gli si renderebbero i beni non venduti, e che i venduti gli si compenserebbero con una rendita di due milioni di franchi all'anno; il papa, fra sei mesi dalla notificata nomina dell'imperatore instituirebbe canonicamente, in conformità del concordato, ed in virtù del presente indulto, i nominati agli arcivescovadi ed ai vescovati dell'impero di Francia, e del regno d'Italia; che il metropolitano prenderebbe le informazioni preliminari; se fra sei mesi il papa non avesse instituito, il metropolitano instituirebbe egli, o se di metropolitano si trattasse, l'anziano dei vescovi l'instituirebbe; che le sedi mai più di un anno non potessero vacare; che il papa nominerebbe, tanto in Francia quanto in Italia, a sei vescovati, che di comune consenso si sceglierebbero; che i sei vescovati suburbani si restituirebbero, e che il papa ad essi nominerebbe; che i beni non venduti a loro si restituirebbero, ed i venduti si ricupererebbero; che i vescovi assenti dallo stato Romano si rintegrerebbero nelle loro sedi; che di mutuo consentimento si ordinerebbero i vescovati della Toscana e del Genovesato; si conserverebbero, dove il papa sederebbe, la propaganda, la penitenzierìa, gli archivj; che sua maestà rimetterebbe nella sua grazia quei cardinali, vescovi, preti, e laici, che ne erano caduti; che s'intenderebbe, che il santo padre consentiva ai sopra narrati capitoli a cagione dello stato attuale della chiesa, e della speranza datagli dall'imperatore, che soccorrerebbe con la sua potente protezione ai numerosi bisogni che stringevano la religione nei tempi presenti. La sede futura del papa lasciossi in pendente; chi parlava di Avignone, chi di Roma. Se in questo trattato, oltre le concessioni ottenute, il papa ricuperò, come pare verisimile, per un capitolo segreto, la sua Roma, ei sarà manifesto che il carcerato vinse il carceratore. Affrettossi Napoleone di pubblicare l'accordo di Fontainebleau, e ne levò anche, sapendo di quale importanza fosse, un gran grido. Querelossi il pontefice della affrettata pubblicazione gravemente perchè avrebbe voluto, che allora solamente fosse pubblicato quando avesse avuto in ogni parte la sua esecuzione.

La benignità della stagione permetteva oggimai il guerreggiare: Napoleone, fatta con gran prestezza una nuova congregazione di soldati, e promettendosi più che mai del futuro, ricompariva forte ed audace sui campi Germanici. Combattè i Russi, combattè i Prussiani in duri incontri; combattè anche con estremo valore gli Austriaci voltatisi contro di lui per gli sdegni antichi, e per le disgrazie nuove. Ma la rotta di Lipsia pose fine alla sua potenza: la Germania intera, mutato procedere con la fortuna, corse con impeto infinito a libertà: i popoli Alemanni facevano a gara in quest'impresa, che santa chiamavano, e coll'armi in mano delle lunghe ingiurie si risentivano. Le Francesi terre sole furono ricovero al vinto Napoleone. Così il lungo fastidio dell'imperio Napoleonico, e lo sdegno universale avevano tolto di mezzo le difficoltà, che altre volte avevano disturbato il desiderio comune. Una gran tempesta cambiatrice di destini sovrastava all'Italia. Aveva Napoleone, che non si era punto ingannato dell'avvenire, mandato il principe Eugenio in Italia, perchè ordinasse le cose alla imminente guerra. Era il principe veduto con qualche amore dai popoli del regno, non che si mostrasse acceso nel desiderio dell'independenza, che anzi in questo era assai docile nel servire alla volontà del padre, ma perchè era di natura facile e temperata. Pure in quest'ultimo caso tanto si mostrò acerbo nell'eseguire il mandato di Napoleone, sì nel far correre i soldati delle nuove leve, sì nel riscuotere i denari dai popoli, che l'amore convertissi in odio. Prima però di narrare i successi dell'armi in Italia, è mestiero descrivere i maneggi politici, che specialmente rispetto a lei si trattavano in questi tempi. Primieramente quando ancora Napoleone era a Dresda, gli alleati, ai quali l'Austria già si era accostata, gli proponevano che restituisse le provincie Illiriche, che ristorasse a libertà le città anseatiche, che consentisse a nominare, d'accordo con gli alleati, sovrani independenti pei regni d'Italia e d'Olanda. Domandavano altresì, che evacuasse la Spagna, e rimandasse il papa a Roma: susseguentemente credendo, che per le rotte avute si fosse renduto più facile alla concordia, il richiedevano, senza però, che questa fosse condizione indispensabile, che rinunciasse alla confederazione Renana, ed alla mediazione della Svizzera. Quello spirito altiero, che sempre si empiva di pensieri vani, e presumeva della sua fortuna sopra il consueto degli uomini ragionevoli, non volle piegar l'anima; risolutamente ricusò le proposte. Quanto all'Italia, corse fama che i confederati, non avendo potuto persuadere il desiderio loro a Napoleone, si voltassero a tentar l'animo d'Eugenio vicerè, offerendogli di riconoscerlo re del regno d'Italia, se volesse congiungersi con loro ad impresa comune per la liberazione d'Europa: cosa, che il principe non avrebbe potuto fare senza voltar le armi contro la Francia, e contro il padre. Vogliono che Eugenio rispondesse, non esser padrone di se medesimo, non avere la potestà sovrana; solo essere delegato e mandatario, non potere senza taccia d'infamia, non che accettare, udire le proposte; non avrebbero gli alleati nè stima nè fede in lui, se a quello che da lui richiedevano acconsentisse. Se fu vera, bella risposta fu certamente questa, e se Eugenio avesse perseverato sino alla fine nella medesima illibatezza di posporre l'utile all'onesto, non potrebbero i posteri dargli biasimo d'importanza.

Ma peggiorando vieppiù per la rotta di Lipsia le condizioni dell'imperator Napoleone in Germania, Eugenio cominciò a pensare ai casi suoi, e procedendo con dubitazione, frutto o della lunga servitù, o di disegni più cupi, o di affezione verso Francia, metteva fuori parole che dinotavano in lui la volontà di abbracciar l'independenza: essere cambiati i tempi, spargevano i suoi più fidi; dover essere l'Italia independente, ma unita a Francia, non unita ad Austria, non ad Inghilterra; ciò volere, ciò desiderare Napoleone; salvassersi le sorti di Francia, fossero quelle d'Italia quali e quante dovevano essere. Napoleone tocco da sventura, non essere più Napoleone trionfatore; lui la prosperità avere fatto rigido signore dei popoli, lui l'avversità fare spontaneo comportatore di libertà; pigliassero gl'Italiani quella occasione, che la fortuna offeriva loro di vendicarsi a libertà sotto il potente e temperato dominio della Francia.

Spaziavano poscia i fomentatori di questi pensieri sull'odioso, come dicevano, dominio dell'Austria; venirne l'Austria con brame di vendetta, venirne con fini d'assoluta potenza; il lungo dominio avere immedesimato col nuovo governo le persone e gl'interessi; non potere questa comunanza rompersi, il che l'Austria farebbe, senza infiniti dolori e ruine; altra essere la natura dei Francesi, altra quella dei Tedeschi; quella più uniforme agl'Italiani, questa più disforme; del resto, potere gl'Italiani stare, se l'independenza fondassero, senza i Francesi; il dominio Austriaco nel regno non potersi fondare senza la presenza dei soldati: eleggessero gl'Italiani tra lo essere stato proprio, o provincia altrui: quei magnifici palazzi novellamente sorti, quei valorosi soldati sì numerosamente formati, quei magistrati sì indissolubilmente radicati, quelle abitudini sì generalmente allignate, quel nome d'Italia sì lungamente in fronte portato, assai indicare che proprietà di se, non d'altrui, che insegne libere, non serve, che denominazione propria, non forestiera, doveva il regno, doveva l'Italia avere, nè comandare agl'Italiani altri che gl'Italiani: essere Eugenio, non Italiano di nascita, ma Italiano di elezione e d'affetto: offerirsi parato a fare quanto in lui fosse per dimostrare ai popoli, quanto la libertà, e l'independenza loro amasse, purchè in termini non pregiudiziali a Francia si consistesse: essere in lui sperienza di stato, sperienza d'armi, età giovenile, ma matura, corpo forte ed esercitato; le moleste cose averle volute Napoleone rigido, le dolci lui; e chente fosse il principe, averlo dimostrato con quella sua risoluzione stessa di conservarsi fedele nell'avversa fortuna a colui dal quale era stato innalzato nella prospera.

Queste insinuazioni dei fidati di Eugenio producevano pochi effetti, perchè i contrari al nuovo stato non si lasciavano svolgere, massimamente nell'imminenza dei pericoli presenti, i favorevoli poco confidavano nelle promesse Francesi. Costoro vedevano occupare tuttavia il primo luogo nella grazia del principe, intromettersi nei consigli più segreti, e l'autorità solo arrogarsi coloro, che nella servitù verso Napoleone più erano stati sprofondati, che al nome d'independenza sempre si erano spaventati, che delle più dure deliberazioni, e dei più rigidi comandamenti dell'imperatore e re erano stati i principali autori, ed i più attivi esecutori. Sapevano ch'essi erano sempre stati consigliatori di amare risoluzioni contro coloro, che per generosità d'animo, e per amore di franchigia, della lor patria altamente sentendo, erano divenuti sospetti: l'aver pruovato il loro giogo acerbo nuoceva alla causa che pretendevano. Due uomini principalmente erano venuti in odio dei popoli nel regno Italico, il conte Prina, ministro delle finanze, carissimo a Napoleone per la sua natura sottile ed inesorabile nel riscuoter le tasse, ed il conte Mejean, segretario del principe, uomo di tratto cortese e soave, ma che, come di scuola Napoleonica, credeva, che a voler che gli uomini siano bene governati, convenga metter loro un duro freno in bocca. Questi discorsi davano grandissimo nocumento alle cose del vicerè: alcuni però speravano, che, rimossa quella mano di Napoleone dalle viscere del regno, si avessero anche a rimuovere quei due consiglieri acerbi, e ad avere più in considerazione i consigli di quelli, che più amavano la moderazione e la libertà d'Italia. Tanto poi si era fatto per l'attività del vicerè, che si era creato un esercito giusto, composto parte di Francesi raccolti dai presidii e dagli scritti dell'Italia Francese, parte di soldati del regno, alcuni veterani, molti novelli. Il vedere queste genti dava qualche sicurtà ai popoli, se non di vincere, almeno di negoziare, e non si disperava dello stato franco. La tempesta intanto di verso il mare, e di verso il Tirolo e l'Illirio si avvicinava.

Eugenio confermandosi più l'un dì che l'altro ne' suoi disegni e nelle sue titubazioni e vacando sempre ai negozi cogli antichi consiglieri, aveva dato ordine al suo ministro di polizia, che scrivesse una circolare a tutti i prefetti, esortandogli a far sorgere destramente nei popoli il pensiero, che fosse arrivato il tempo di fondar l'independenza: insinuassero altresì, ch'egli si sarebbe fatto capo dell'impresa, e che Napoleone imperatore l'avrebbe veduta volentieri. Ma poscia, avendo paura di se stesso, e temendo che il moto, che si voleva suscitare, tornasse in pregiudizio della Francia, diede ordine che le lettere s'intrattenessero. Così tra il volere e il disvolere non riusciva a nulla, non accorgendosi che chi si mette a simili imprese, non solamente non può regolarle a volontà sua, ma non deve nemmeno curarsi che a volontà sua si possono regolare. A volere fondar la franchezza d'Italia, che era un fatto grandissimo, e' bisognava volerla senza mescolanza di altro affetto, e il voler serbare fedeltà a Napoleone ed a Francia, quando il fine della liberazione d'Italia esigesse altri pensieri, se era cosa onorevole, era certamente puerile. A chi si getta a questi partiti straordinarj è d'uopo il non pensare alle indiavolate cose che ne possono seguire. Odo che si dice, che a queste cose gli uomini onesti non possono consentire. A questo sto cheto; solo dico, che, se così è, gli uomini onesti non si debbono gettare a tali partiti, e nemmeno far vista di volervisi gettare. Questo poi so di certo, che Eugenio, o fosse onestà, o fosse mancanza di cuore, perdè l'impresa.

Giovacchino anch'egli si era travagliato di questa materia, quando ebbe veduto le cose di Napoleone andare in fascio in Germania. Ma varj ed incerti erano i suoi pensieri. Sul principio, quantunque non amasse il vicerè, ed emolasse la sua grandezza, gli aveva mandato proponendo: dividessersi fra di lor due l'Italia, facesserla independente; ch'essi soli, se operassero d'accordo, la potevano preservare dai Tedeschi; che non si sarebbe recato alcun pregiudizio alla Francia, la quale avrebbe avuto l'Italia per alleata. Aggiungeva, che in caso di deliberazione contraria da parte del vicerè, ei sarebbe obbligato di fare quelle risoluzioni che avrebbe stimate più convenienti alla salute sua.

Prestò il vicerè poco orecchio alle proposte del re di Napoli, o che non si fidasse di lui per le antiche emolazioni, o che volesse far da se, o che temesse di pregiudicar Napoleone e la Francia. Caduto Giovacchino dalle speranze di Eugenio, si era deliberato, già insin da quando aveva condotto l'esercito nella Marca d'Ancona, ad appiccare nel regno d'Italia qualche pratica segreta: anzi giungendo i suoi vanti a quei dei Napolitani, pareva che volesse far gran cose. Il generale Pino, antico amico di Lahoz, e soldato di pruovato valore, era venuto in qualche disfavore in corte, sì perchè si sapeva ch'egli era amatore del viver patrio, sì perchè erano tra lui e Fontanelli, ministro della guerra, emolazioni di fama e di potenza. Vivevasene, dopo le prime battaglie dell'Illirio e del Friuli, che nel seguente libro racconteremo, in condizione privata, alle faccende pubbliche non badando, se non per saperle. Parve stromento opportuno al re di Napoli; il fece tentare; prometteva di condurre i suoi Napolitani all'impresa. Molti entrarono nell'intelligenza. I capi, disperando del vicerè, come troppo Francese, si gettavano alle parti di Giovacchino, il quale come più audace e meno cauto, era capace di fare qualche strepitosa alzata d'insegne. I congiurati tanto operarono, che Pino fu mandato al governo militare di Bologna, luogo atto a poter consuonare coi Napolitani, che, già occupate le Marche, si trovavano vicini.

Mandò Giovacchino un Pignatelli ad abboccarsi con Pino a Bologna. Il richiedeva, che col nome, ed autorità sua, che era grande fra i soldati italiani, ne tirasse a se quanti potesse, ed improvvisamente si scoprisse, quando il re si mettesse a cammino per assaltare l'Italia superiore. Queste trame non si poterono ordire tanto copertamente, che Fontanelli, che già sospettava del governator di Bologna, non ne avesse qualche sentore; perciò diede lo scambio a Pino. Giovacchino si trovò ingannato della speranza concetta di fare un moto nel regno d'Italia malgrado del principe vicerè. Andossene Pino a Verona, dove il principe, quando fu risospinto dai confini per le armi Austriache, aveva ridotto i suoi alloggiamenti. Veduto con poca lieta fronte dal principe, anzi interrogato, come sospetto, dal ministro di polizia Luini, se ne venne molto di mala voglia, e dimostrando dispiacenza grandissima, a Milano. Quivi visse privatamente, ed anche oscuramente sino alla commozione, che terminò con funesto fine un regno più lietamente incominciato. Giovacchino si gettava alla parte dell'Austria.

Le armi potenti seguitavano le macchinazioni impotenti. Aveva l'imperatore Francesco, che con grandissima prontezza si era allestito alla guerra, mandato un forte esercito, in cui si noveravano meglio di sessantamila buoni soldati, ai confini, per modo che cingeva tutto il regno Italico da Carlobado di Croazia insino al Tirolo. Obbedivano tutte queste genti al generale Hiller, uomo di grande sperienza per essere già molt'oltre con gli anni, e vecchio ancora di milizia. Militavano con lui non pochi generali di nome, tra i quali principalmente si notavano Bellegarde e Frimont, capitani esperti nell'Italiche guerre. Mandava fuori Hiller un suo militare manifesto, con cui, descritte primieramente le forze e le vittorie della lega, esortava gl'Italiani a levarsi contro il tiranno a generale liberazione d'Europa conquassata sì lungamente da tanti movimenti, ed a cooperazione dei poderosi eserciti che accorrevano in ajuto loro da ogni banda.

Quest'era il nembo che minacciava il regno Italico dai paesi di Settentrione, e d'Oriente. Vers'ostro i confini non gli erano sicuri; perchè gli alleati, facendo grande fondamento sulle sollevazioni dei popoli, si erano accordati, che, mentre gli Austriaci l'assalterebbero dalla parte loro, gl'Inglesi, o coi soldati proprj, o con soldati di ogni paese, massimamente Italiani raccolti in Malta ed in Sicilia, o finalmente con qualche mano di Austriaci, infesterebbero i due littorali dell'Adriatico, tanto dalla parte della Dalmazia e dell'Istria, quanto da quella d'Italia. Sapevano, che massimamente nella Dalmazia e nell'Illirio s'annidavano male disposizioni contro la dominazione Napoleonica, nella prima per le crudeltà usate da qualche generale, e per la cessazione del commercio, nel secondo per l'antica affezione alla casa d'Austria, e per la superbia di Junot governatore, che già pazzamente vi procedeva prima che pazzo diventasse. Intendevano anche a percuotere nei lidi Italiani, entrando per le bocche del Po, per far diversione in favor dello sforzo principale, che calava dalle Alpi Rezie, Giulie, e Noriche. Avevano anche speranza, sebbene il vedessero incerto e titubante, che Giovacchino di Napoli si sarebbe congiunto a loro, sì perchè allora sempre più precipitavano le cose di Napoleone, sì perchè si persuadevano, che avrebbe creduto un gran fatto, che i governi antichi con lui trattassero, lui riconoscessero, ed in luogo di alleato accettassero. Le forze del re di Napoli erano di grande momento all'Austria, perchè andavano a ferire il regno Italico a fianco ed alle spalle, e dove aveva minor difesa; perchè dei futuri casi, nissuno, e nemmeno Napoleone previdentissimo avrebbe potuto immaginare questo, che Giovacchino di Napoli fosse un giorno per muovere le armi contro il regno Italico di Napoleone di Francia.

Nè dovevano restare senza disturbo le sponde del Mediterraneo, perchè gl'Inglesi, essendo oramai certi delle intenzioni di Giovacchino, si proponevano di far impeto con quei loro soldati moltiformi, e racimolati da ogni paese, nella Toscana, provincia che credevano, non senza ragione, avversa al nuovo stato e desiderosa di tornare all'antico. Venivano con loro Bentink e Wilson generale colle loro pubblicazioni di libertà e d'indipendenza, dico Bentink, che intendeva la libertà, ma pendeva al tirato, essendo di natura piuttosto signoreggevole, e Wilson che amava la libertà, ma pendeva al largo, essendo di natura piuttosto tribunizia. Avevano essi trovato non so che bandiere con suvvi scritto il motto “Independenza d'Italia”, e dipinte due mani che si toccavano in segno d'amicizia e di colleganza. A questo modo suonava d'ogn'intorno un forte nembo al regno Italico, ed a tutta Italia. Le antiche ricordanze dell'Austria, le nuove parole di libertà, l'allettatrice mostra della padronanza propria, gli epifonemi di pace, di concordia, di felicità, le promissioni di tasse temperatissime, e di abolizione delle leve soldatesche si mettevano in opera per far muovere l'Italia; ma gl'Italiani, che già ne avevano vedute tante, non credevano nè agli uni nè agli altri.

Il vicerè forbiva ancor egli le sue armi. Aveva circa sessanta mila soldati, nei quali erano i veterani Italiani venuti di Spagna, i soldati di nuova leva, e la guardia reale Italiana, bella e valorosa gente; sommavano gl'Italiani circa ad un terzo. I Francesi anch'essi, o raccolti prestamente dai presidj, o chiamati dalla Spagna, con celeri passi accorrevano al sovrastante pericolo. Gli partiva in tre principali schiere; la prima, che obbediva a Grenier, aveva le sue stanze sulle rive del Tagliamento e dell'Isonzo, terre tante volte già combattute, e tante volte ancora gloriosamente conquistate dai Francesi; la seconda retta da Verdier alloggiava a Vicenza, Castelfranco, Bassano e Feltre. La terza, quest'era l'Italiana, posava a Verona ed a Padova: la governava Pino, non ancora stato al governo di Bologna. Una parte di lei sotto l'obbedienza dei generali Lecchi e Bellotti era mandata a custodire l'Illirio: la cavallerìa stanziava a Treviso. Per vigilare intanto sugli accidenti del Tirolo, parte che dava grandissima gelosia, una schiera di soccorso alloggiava in Montechiaro: quando poi divenne il pericolo più imminente, fu mandata, sotto il governo di Giflenga, a combattere in Tirolo contro un corpo d'Austriaci condotto dal generale Fenner. Secondavano tutto questo sforzo dalla Dalmazia, ma piuttosto per difendere che per offendere, pel picciol numero dei soldati, i presidj, la maggior parte Italiani, di Zara, Ragusi e Cattaro. Ora, diventando ad ogni momento la guerra più imminente, pensò il vicerè a spingersi più innanzi, andando a porre il campo principale a Adelsberga, terra poco distante dalla sponda destra della Sava sulla strada per a Carlobado di Croazia, e per a Lubiana di Carniola. Al tempo stesso, allargandosi alla sinistra, mandava una forte squadra a custodire i passi di Villaco e di Tarvisio, avendo avuto avviso che Hiller, fatto un assembramento molto grosso a Clagenfurt, minacciava di farsi avanti, sì per isforzare quei forti passi, e sì per condursi, montando per le rive della Drava, alle regioni superiori dell'affezionato Tirolo.

Quest'era l'ultima fine della tragedia che si rappresentava da venti anni addietro, toltone pochi intervalli pieni ancor essi, se non di sangue, almeno di rancori, e di minacce, e d'ambizione, nella dolorosa Italia. Straziata dagli uni, straziata dagli altri, tutti pretendevano promesse di felicità per lei; e peggio, che l'una parte e l'altra si lamentavano ch'ella non si muovesse a favor loro, come se fosse obbligo di lei di rendere amore per dolore. Ora infine si aveva a definire a chi dell'Austria o della Francia dovesse rimanere l'imperio d'Italia; se dovessero prevalere le nuove o le antiche sorti; se il dominio acerbo di Napoleone si dovesse mitigare o no; se l'Austria tornasse a Milano mansueta, come n'era partita, o se sdegnosa per le ingiurie; se Francia od Austria dovessero far dimenticare con le dolcezze di pace le insolenze e le rapine di guerra; se venti anni di novità dovessero o produrre secoli simili a loro, od immergersi, senz'altri segni che quelli delle storie, nel corso rintegrato dei secoli consueti; se a favellar Francese o Tedesco dovessero apparar gl'Italiani; se finalmente le parole soavi, che si dicevano agl'Italiani, fossero per loro o pei padroni; che l'allettare i popoli colle lusinghe per soggettargli fu sempre, ma più nei nostri tempi che in altri, astuzia di coloro che intendono ad appropriarsi l'altrui.

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