LIBRO VIGESIMOSETTIMO

SOMMARIO

Gli Austriaci condotti da Hiller cingono con forze potenti tutto il regno Italico. I Dalmati ed i Croati insorgono contro i Francesi. Eugenio si tira indietro. Battaglia di Bassano. Eugenio sull'Adige. Mala soddisfazione dei generali e soldati Italiani verso di lui. Nugent coi Tedeschi romoreggia alle bocche del Po. Giovacchino si scopre contro Napoleone e fa guerra al regno Italico. Battaglia del Mincio tra Eugenio e Bellegarde. Bentink sbarca a Livorno, parla d'independenza agl'Italiani, prende Genova, e promette ai Genovesi la conservazione dello stato. Sopraggiungono novelle funestissime per Napoleone; avere i collegati occupato Parigi, lui essere ridotto colle reliquie de' suoi battaglioni in Fontainebleau, avere rinunziato, avere accettato per ultimo ricovero l'Elba isola. Eugenio pattuisce con Bellegarde, e si ritira in Baviera. Stato degli spiriti in Milano. Tutti vogliono l'independenza, ma chi con Eugenio re, chi con un principe Austriaco. Discussioni nel senato in questo proposito. Sommossa popolare; il senato è disciolto; si convocano i collegi, che creano una reggenza, e mandano deputati a Parigi all'imperator Francesco per domandar l'independenza con un principe Austriaco. Esito della loro missione. Genova data al re di Sardegna. Conclusione dell'opera.

Gli Austriaci cignendo con largo circuito tutta la fronte dell'esercito Italico, avevano un grandissimo vantaggio, il quale ed all'occorrenza presente, ed alla natura loro sempre circospetta molto bene si conveniva. Sicura era la loro ala destra pei fatti succeduti in Germania, ed ultimamente per l'adesione della Baviera alla lega dei principi uniti contro Napoleone. In questo ancora molto momento recavano i Tirolesi pronti ad insorgere contro il nuovo dominio, per modo che l'Austria stessa per rispetto della Baviera, nuovo alleato, era costretta a tenergli in freno, acciocchè non facessero qualche incomposta variazione. Ma la inclinazione loro rendeva sicuro il loro paese alle forze Austriache, e dava sospetto al vicerè, perchè potevano offenderlo a mano manca ed alle spalle. Nè meno avvantaggiata condizione avevano gli Austriaci sulla loro sinistra: posciachè sapevano che le popolazioni Dalmate e Croate, essendo infense ai Francesi ed agl'Italiani loro confederati, erano pronte a sorgere contro i presenti dominatori; popolazioni armigere, e però di non poca importanza, massimamente in una guerra, alla quale i popoli, non che i soldati, si chiamavano. Hiller s'avvisava di condurre per modo la guerra, che facendosi innanzi con le sue ali estreme, mentre il grosso seguitava nel mezzo a seconda, ma più tardamente e più prudentemente, desse continuamente timore al vicerè di essere circuito ed assaltato alle spalle. Questa forma di guerreggiare doveva necessariamente far prevalere la fortuna degli Austriaci, perchè procedendo cautamente nel mezzo, non davano agli avversarj occasione di venire ad una battaglia campale, dalla quale solamente potevano sperare, se la vincessero, di redimersi da quel pericoloso passo, al quale erano ridotti. Da questo anche ne risultava, che si richiedeva, a voler riuscire a buon fine, nel capitano Francese maggior prudenza che audacia, piuttosto arte di andar costeggiando l'inimico per impedirgli la campagna, e difficoltargli, in quanto si potesse fare senza tentar la fortuna, i passi, che coraggio d'affrontarlo; insomma piuttosto volontà di conservar l'esercito intatto, in qualunque luogo ei si fosse, che desiderio d'avventurarlo, perchè in lui, non nei paesi occupati, consisteva la salute, o se non la salute, almeno le condizioni più onorevoli del regno. Ma il vicerè, siccome giovane, figliuolo di Napoleone, e tocco ancor egli dal vizio dei tempi, cioè di far chiaro il suo nome con fatti sanguinosi, disprezzando il consiglio più salutifero, amò meglio fare sperienza della fortuna, consumando inutilmente i soldati in piccole fazioni, che poco o nulla importavano alla somma della guerra, che fuggendo l'occasione di combattere, ritirargli intieri a' luoghi più sicuri, ed interi ancora conservargli insino a che la fortuna avesse definito, che cosa volesse farsi di Napoleone in Germania ed in Francia. Quel sangue Francese ed Italiano, sparso nell'ultima Croazia e nell'estrema Carniola, accusano Eugenio o d'ambizione, o d'imperizia, o d'imprudenza.

Correvano i Dalmati, inclinava verso il suo fine agosto, contro i presidj, i Croati contro gl'Italiani. Zara, Ragusi e Cattaro tenuti da deboli guernigioni, romoreggiando nimichevolmente i popoli d'intorno, e tenendo infestata la campagna, cedettero facilmente. Una presa di Croati, avvalorata da qualche battaglione d'Austriaci, urtando contro Carlobado, facilmente se ne impadroniva. Gli Austriaci ed i Croati più oltre procedendo, s'insignorirono di Fiume, ritiratosene il generale Janin, impotente al resistere. I Croati, che erano stati arruolati sotto le insegne Francesi, dai loro signori segregandosi, ritornavano alle antiche insegne d'Austria. Mentre a questo modo felicemente si combatteva per gli Austriaci verso l'Adriatico, mandavano pel corso della superiore Drava grossi squadroni verso il Tirolo sotto la condotta di Fenner. Giunti a Brissio scendevano per le rive dell'Adige, con intento di andar a battere nelle Veronesi e nelle Bresciane regioni. Al tempo stesso si veniva alle mani sul mezzo: fu preso e ripreso Crinburgo con molto sangue da ambe le parti. In questi fatti mostrò molt'arte e molto valore Pino, molto valore e poca arte Bellotti: combattè felicemente il primo a Lubiana, infelicemente il secondo a Stein. Sorse un gravissimo contrasto a Villaco, donde gli Alemanni volevano aprirsi l'adito al passo di Tarvisio per scendere a seconda della Fella nel cuore del Friuli. Erano i Francesi accorsi al pericolo, e dopo un feroce combattere, in cui la città fu presa e ripresa parecchie volte, e finalmente arsa per opera dei Tedeschi, restarono vincitori: corse il vicerè con molta virtù in soccorso della città consumata. Gli Austriaci, seguitando il consiglio loro, si allargavano sulle corna. Trieste, preso e ripreso più volte, venne in potestà loro; già tutta l'Istria loro obbediva. Dalla parte superiore precipitandosi dalle Alpi Tirolesi minacciavano di far impeto contro Belluno, e più alle spalle le armi loro suonavano nelle regioni vicine a Trento. Conoscendo ed usando il vantaggio, avevano passato la Sava a Crinburgo ed a Ramansdorf, per dove facevano sembianza di condursi, per Tolmino, nelle regioni superiori del Friuli. Anche contro Villaco preparavano un grande assalto.

Non era più in potestà del vicerè il resistere, ed appariva che se più oltre si fosse ostinato starsene sulle sponde della Sava e della Drava, correva pericolo che gli fosse vietato il ritorno. Avevano gli avversarj maggior numero di soldati, ed i popoli amici: erano al vicerè minori forze, ed i popoli avversi. Fermossi prima sull'Isonzo qualche giorno, poscia sulla Piave, combattendo sempre valorosamente, sempre inutilmente. A questo modo l'Illirio, staccato per la forza dell'armi Napoleoniche dal suo antico ceppo d'Austria, se ne tornava per la forza dell'armi di Francesco imperatore alla consueta dominazione. I costumi a niun rispetto si convenivano coi Francesi, poco con gl'Italiani. Oltre a ciò vi aveva Napoleone conservato i dritti feudatarj, dandogli in preda a' suoi soldati, o magistrati più fidi: piacquero a quegli antichi repubblicani, e gli riscuotevano con duro imperio, senza lasciar neppure scattar un soldo.

Le stanze della Piave non si potevano conservare. Già gli Austriaci scesi a Bassano sotto la guida del generale Eckard vi avevano fatto una testa grossa, ed insistendo alle spalle davano timore di estrema rovina al vicerè, se presto non si ritirasse. Quivi comparve evidente l'imprevidenza del principe del non essersi ritirato più maturamente; perchè per avere la ritirata sicura, fu costretto di combattere a Bassano una battaglia molto grave. Durò due giorni, il trentuno ottobre ed il primo novembre. Rifulse in questo fatto egregiamente il valore di Grenier. Vinse la fortuna Francese ed Italiana. Entrarono i vincitori, e pernottarono nella sanguinosa città. Perdettero i Tedeschi circa un migliajo di soldati, nè fu senza sangue la vittoria agli Eugeniani, perchè i Tedeschi combatterono acerbamente. Acquistò Eugenio facoltà di ritirarsi più quietamente sull'Adige: marciava indietro, parte per Padova, parte per Vicenza, andando ad alloggiarsi a Verona, ed a Legnago. In mezzo a questa ritirata, grave in se stessa, e che portendeva cose ancor più gravi, perchè già più della metà del regno Italico era signoreggiata dalle armi Austiache, i soldati Francesi ed Italiani, ma più i primi che i secondi, si portarono molto lodevolmente, astenendosi dalle rapine e dagli oltraggi; procedere tanto più da commendarsi, che la maggior parte credevano, che più non sarebbero tornati là, donde venivano. Nè è da tacersi, che i Tedeschi a questo tempo stesso, se si eccettuano le parti rannodate, in cui erano preste le munizioni, vivevano di rapina, ora qua ora là scorrazzando, secondochè gli portava o la necessità della guerra, o la cupidità del sacco; frutti tante volte calpestati della feconda Italia, tante volte riprodotti, tante volte ricalpestati. Resta, che siccome la sua bellezza e fertilità destano gli appetiti forestieri, desiderino gl'Italiani, che ella fera e selvaggia diventi; perchè forse i deserti preserveranno quello, che l'innocenza non preserva.

Sulle Veronesi sponde incominciavano a manifestarsi fra gl'Italiani mali semi contro il vicerè; colpa piuttosto sua che di loro. Eugenio o che prevedesse dai nugoli minacciosi che giravano attorno, che più gli convenisse mostrarsi Francese che Italiano, o che troppo facili orecchie prestasse ad alcuni, che presso a lui in molta grazia e suoi consiglieri più intimi essendo, intendevano ad innalzar se medesimi a pregiudizio degl'Italiani, si era lasciato uscir di bocca, già insino in Prussia dopo le disgrazie di Russia, parole di cattivo concetto verso i generali Italiani. Nè il suo disprezzo nelle semplici parole contenendosi, era trascorso sino agli atti: delle quali cose tenendosi eglino molto offesi, siccome quelli che erano parati a tollerare alcuna ingiuria o indegnità, massimamente Pino, che siccome di maggior nome, sentiva più vivamente degli altri, avevano appoco appoco sparso una mala contentezza fra i soldati: dal che ne seguivano nel campo sinistre mormorazioni, ed anche atti aperti di sdegno contro il principe. Le disgrazie inasprivano viemaggiormente le ferite in quegli animi fieri e bellicosi. Gl'imputavano il contaminato onore dell'armi Italiane, ed il sangue inutilmente sparso. Già il nome di forestiero, pessimo augurio, nelle bocche dei soldati andava sorgendo, ed i consiglieri detestavano.

Intanto non rimetteva in Eugenio il desiderio di farsi famoso in guerra per battaglie inutili, sangue con fama cambiando. Corse il Tirolo; vi fece fazioni onorate, ma senza frutto: liberò Brescia dal nemico, ma indarno: ruppelo in una grossa e bene combattuta battaglia a Caldiero, ma tornossene poco dopo là, dond'era venuto: il nemico, che era stato rincacciato sin oltre all'Alpone, venne fra breve a rinsultar San Michele di Verona. Appena la fronte dell'Adige, fiume grosso, e munito, sotto dalla fortezza di Legnago, sopra dai castelli di Verona, si poteva tenere: tanto superava pel numero delle genti il nemico. Dal che si conclude con evidenza che era necessità al vicerè, non di assaltare, ma di difendersi, non di uscire dai luoghi sicuri, ma di annidarvisi, non di far guerra viva, ma di temporeggiarsi e di aspettare.

Ogni ruina si accumulava sull'Italia: ecco un secondo nembo approssimarsi al Po, non più pel dominio di Venezia o d'Alfonso, ma per quello di Francia o d'Austria; nè questo nembo fia l'ultimo da raccontarsi, ancorchè sia prossimo il fine della mia tragedia. Aveva il generale Austriaco Nugent combattuto virilmente in Croazia ed in Istria, contro gl'Italiani che occupavano quella parte del regno. Ma quivi ogni cosa era oggimai divenuta sicura a lui, sì per la ritirata di Eugenio, come perchè le fortezze di Lubiana e di Trieste si erano arrese all'armi Tedesche. Sola restava dell'antico Austriaco, o Veneziano dominio in mano del vicerè la città di Venezia. Per la qual cosa Nugent, preso ordine con Bellegarde, chiamato generalissimo in Italia in luogo di Hiller, e messosi sulle navi a Trieste, era venuto sbarcare a Goro con una grossa mano d'accogliticci, Inglesi, Istriotti, Croati, e fuggitivi Italiani. Nè volendo indugiare, perchè sapeva che il tempo è nemico degli assalti inopinati, si spingeva tostamente innanzi, e s'impadroniva di Ferrara, abbandonata dai pochi difensori che vi erano dentro. Quivi correva il paese co' suoi soldati leggieri, chiamando in ogni luogo i popoli a sollevazione. L'importanza del fatto era, che si congiungesse con le schiere d'Austria, che, venute col grosso dell'esercito, già si erano condotte a Padova. A questo fine, Nugent, passato il Po con una parte de' suoi, e preso alloggiamento in Crespino, si era accostato all'Adige. Dall'altro lato Bellegarde, per consentire coi movimenti di Nugent, aveva avviato a Rovigo una presa di tremila soldati sotto la condotta del generale Marshall.

Come prima il vicerè ebbe avviso del tentativo di Nugent, aveva speditamente mandato un corpo sotto il governo del generale Decouchy a Trecenta, acciocchè facesse opera d'impedire la congiunzione delle due squadre nemiche. Al tempo stesso Pino, che governava Bologna, assembrava quante genti poteva, e le spingeva avanti alla guerra Ferrarese. Ripresesi Ferrara, ma indarno, per gli accidenti che seguirono. Aveva bene Decouchy, fortemente combattendo, cacciato Marshall da Rovigo con non poca strage, e costretto a ritirarsi al ponte di Bovara Padovana. Ma gli Austriaci continuamente ingrossavano coll'intento di congiungersi con Nugent, che tuttavìa era in possessione di Crespino. Mandava perciò il vicerè nuovi ajuti col generale Marcognet verso il basso Adige, acciocchè cooperassero al fine comune con Decouchy. Uscirono i Tedeschi da Bovara Padovana: Decouchy e Marcognet gli assaltavano. Sorgeva un'ostinata zuffa: combatterono i Francesi felicemente a destra, infelicemente a sinistra: si ritirarono i Tedeschi nel loro sicuro nido di Bovara Padovana; ma colto il destro, che offerivano loro la notte e la mala guardia a cui stavano i Francesi, con un impeto improvviso gli ruppero; e gli costrinsero a ritirarsi, prima a Lendinara ed a Trecenta, poi a Castagnaro. Riacquistarono Rovigo: fu tolto ogni impedimento alla congiunzione di Nugent e di Marshall. Nugent, fatto sicuro per la congiunzione, s'incamminava a Ravenna, e da Ravenna a Forlì. Usava le armi, usava le instigazioni. «Assai, scriveva agl'Italiani, assai foste oppressi, assai posti ad un giogo insopportabile: ora più liete sorti vi aspettano; restituite coll'armi in mano la patria vostra: avete tutti a divenire una nazione independente». Poi faceva un gran romore con promettere, che non si scriverebbero più gli annuali soldati, che le consumatrici tasse si allevierebbero. Intanto i suoi saccheggiavano aspramente il Ferrarese ed il Bolognese, poco lieto principio all'independenza, che si prometteva.

Ora un nuovo inganno, ed una terza illuvie hommi a raccontare; ma questi furono di un Napoleonide. Trovavasi Giovacchino di Napoli molto perplesso, e siccome le novelle di Germania, di Francia e d'Italia giravano fauste od infauste, si appigliava a questa parte od a quella, a questo partito od a quell'altro. Molto in lui poteva il desiderio di conservare il suo reale seggio, molto la paura di Napoleone. Perciò procedendo con la sua naturale varietà, aveva negoziato, come già abbiam descritto, ora coll'Austria, ora con Bentink, ora con Eugenio, qualche volta con tutti insieme, nè s'accorgeva che tutti il conoscevano. Intanto, già sicuro dell'Austria e dell'Inghilterra, ma non ancora sicuro di se medesimo, si avviava verso l'Italia superiore. Già occupava Roma, già occupava le Marche, nè ancora l'animo suo scopriva. Pretendeva parole d'amicizia verso il regno Italico. Le casse del regno, contro il quale si apprestava a muovere le armi, sotto spezie di amicizia, addomandava, e gli si aprivano, e vi attigneva denari; richiedeva il regno di vettovaglie, di vestimenta, di armi, ed il regno gliene somministrava. Lasciato passare in Ancona ed in Roma amichevolmente dai presidii Francesi, gettava gioconde e pacifiche parole di Francia, e di Napoleone. Non so a che cosa pensasse: ma certamente la dissimulazione era grande, e peggiore anche del fine che si proponeva. Infine veduta la ritirata del vicerè, udite le novelle dell'avvicinarsi i confederati molto grossi al Reno per invadere la Francia, ed aspettato Bentink oramai vicino a tempestare in Toscana, rimossa finalmente ogni dubitazione, si risolveva a scoprirsi del tutto, ed a fare quello che il mondo non avrebbe potuto pensare, e di che si perturbò più di ogni altra cosa Napoleone. Fermava i suoi casi coll'Austria, stipulando con lei un trattato, per cui l'imperatore Francesco si obbligava a mantenere in Italia, insino a che durasse la guerra, almeno cinquantamila soldati, ed il re Giovacchino a mantenerne almeno ventimila, con ciò promettevano e s'obbligavano entrambi ad operare d'accordo, e ad accrescere il numero delle rate rispettive, se bisogno ne scadesse; oltre a ciò Francesco guarentiva a Giovacchino ed ai suoi eredi la possessione dei dominj attualmente tenuti da lui in Italia, e prometteva d'intromettersi, come mediatore, affinchè gli alleati si facessero sicurtà della medesima possessione.

Bellegarde annunziava pubblicamente agl'Italiani la congiunzione di Giovacchino colla lega, ammonendoli delle perdute speranze dei Napoleonici. Giovacchino scoprendosi nemico in quei paesi, dov'era entrato e stato accolto come amico, sforzava il generale Barbou, che custodiva in nome di Francia la fortezza d'Ancona, e Miollis, che teneva Castel Sant'Angelo, alla dedizione. Tutto lo stato Romano veniva all'obbedienza dei Napolitani, i quali, e Giovacchino con loro, ora del papa favellando, ed ora dell'independenza d'Italia, non sapevano ciò che si dicevano. Bene ovunque passavano ogni cosa rapivano, ripassata seconda pei miseri Ferraresi e Bolognesi. I vanti poi che si davano, e le millanterìe che facevano, erano grandi.

Il primo ad uscir fuori fu il re medesimo con dire ai suoi soldati, avvertissero bene, che insinoachè egli aveva potuto credere che Napoleone imperatore combatteva per la pace e per la felicità della Francia, aveva a favor suo combattuto: ma che ora si era chiarito di tutto, e che bene sapeva che Napoleone non voleva altro che guerra; che tradirebbe gl'interessi della sua antica patria, quei de' suoi stati, quei de' suoi soldati, se tosto non separasse le sue armi dalle Napoleoniche, se non le congiungesse a quelle dei principi intenti con magnanimo disegno a restituire ai troni la loro dignità, alle nazioni la loro independenza: due sole bandiere esservi, ammoniva, in Europa; sull'una leggersi le parole religione, costume, giustizia, moderazione, leggi, pace, felicità; sull'altra persecuzioni, artifizj, violenze, tirannide, guerra, e lutto di famiglie, scegliessero. Queste cose diceva Giovacchino Napoleonide. Carascosa, Napolitano generale, arrivando a Modena, più enfaticamente parlava agl'Italiani: prometteva loro independenza a nome di Giovacchino, che già era accordato coll'Austria per ajutarla a soggettare il regno Italico.

Le forze preponderanti di Bellegarde, i progressi di Nugent sulla sponda destra del Po, lo accostamento del re di Napoli alla lega, e la presenza delle sue numerose schiere nel Modenese, toglievano al vicerè ogni possibilità di conservare gli alloggiamenti dell'Adige. Fatti pertanto gli apprestamenti necessarj, si tirava indietro e andava a porsi alle stanze assai più sicure del Mincio. Il dì otto febbrajo usciva ottimamente ordinato a campo per combattere in una campale battaglia Bellegarde. La principale schiera, in cui risplendeva la guardia reale, sortendo da Mantova, s'incamminava alla volta di Valeggio: la cavallerìa, traversato il fiume a Goito, accennava a Roverbella, e perchè il nemico fosse anche infestato alle spalle, il generale Zucchi colle genti più leggieri muoveva i passi verso l'isola della Scala. Per non lasciare poi libero campo a Bellegarde dalla parte superiore, il vicerè ordinava a Verdier, che congiuntosi prima con Palombini, varcasse il Mincio a Mozambano, e gisse ad urtare il nemico a Valeggio. Ognuno passato il fiume, correva ai luoghi destinati, quando la fortuna per un accidente improvviso ridusse il disegno bene ordinato ad un moto disordinato. Nel momento stesso in cui Eugenio si proponeva di assalire Bellegarde sulla sinistra del Mincio, si era Bellegarde risoluto ad andare a trovare Eugenio sulla destra. Dal quale impensato accidente nacque, che il vicerè, in luogo di trovare tutto l'esercito nemico a Roverbella, non ebbe più a combattere che col suo retroguardo, per modo che la vanguardia Francese era venuta alle mani col retroguardo Tedesco. Appoco appoco, e l'una dopo l'altra tutte le schiere delle due parti, sì quelle che avevano passato, come quelle che erano rimaste sulla sinistra, ingaggiavano la battaglia; combattevano furiosamente. Avevano i Francesi e gl'Italiani il vantaggio; ma per poco stette, che una rotta di cavallerìa dalla parte loro non mandasse le cose alla peggio. Pure, fatto un nuovo sforzo, si rannodavano, e si pareggiò la battaglia. L'esito fu, che Bellegarde fu costretto a tornarsene sulla sinistra del Mincio, ma intero e ristretto; il che obbligò anche il vicerè a ritirarsi tutta la sua forza sulla destra.

Intanto Eugenio si accorgeva, che non era più in sua facoltà d'indugiar a soccorrere alle cose di oltre Po, che per l'invasione dei Napolitani diventavano ogni ora più difficili. Aveva già provveduto che con qualche maggiore fortificazione si munisse Piacenza, alla guardia della quale aveva preposto con soldati di nuova leva, e con qualche veterana banda Italiana i generali Gratien e Severoli. Ma aggravandosi il pericolo vi mandava con qualche ajuto di nuove genti Grenier, nella perizia del quale consisteva massimamente la condotta, e la somma della guerra in quegli estremi momenti. Formava l'antiguardo del nemico Nugent co' suoi Tedeschi, Istriotti ed Italiani; il retroguardo Giovacchino co' suoi Napolitani. Come prima Grenier arrivava, rincacciava con forte rincalzo all'ingiù Nugent, e lo sforzava a tornarsene più che di passo al Taro. Quivi, essendo sopraggiunti i Napolitani, faceva vista di volersi difendere, ma tanto fu audace e destro Grenier, che, passato in tre luoghi il fiume, di nuovo sforzava gli avversarj alla ritirata sino all'Enza. Nugent però, sperando di arrestare l'impeto di Grenier, si era fermato con tremila soldati a Parma. Il Francese, urtando la città da ogni parte, vi entrava per viva forza, ritirandosene a tutta fretta colla minor parte de' suoi soldati il Tedesco. Combattessi in questo fatto molto aspramente a ferro ed a fuoco, con gran terrore dei cittadini. Il re di Napoli, tornato più grosso, e sforzato finalmente il passo del Taro, già s'avvicinava a due miglia a Piacenza. Quivi l'arrestavano, non la forza degli avversarj, ma più alte e più strepitose sorti.

Pellew e Bentink comparivano in cospetto di Livorno: avevano molte e grosse navi con seimila soldati da sbarco, Italiani, Siciliani, Inglesi. Il governatore vuotò la città per patto: vi entrarono gl'Inglesi il dì otto marzo. Suonavano le armi, suonavano le parole, si scrivevano i manifesti, si sventolavano le bandiere dell'Italiana independenza. Bentink in questo si mostrava molto acceso, Wilson il secondava.

Bentink a questo modo parlava con pubblico manifesto agl'Italiani:

«Su, diceva, Italiani, su; ecco che siam qui per ajutarvi; ecco che siam qui noi per levarvi dal collo il fero giogo di Buonaparte. Dicanvi il Portogallo, la Spagna, la Sicilia, la Olanda quanto a generosità intenda l'Inghilterra, quanto l'interesse non curi. Libera è la Spagna pel suo valore, libera per l'assistenza nostra. Per l'uno e per l'altra ella condusse a fine un'opera fra le belle bellissima. Cacciato dai felici suoi campi il Francese, fermovvi la sua sede l'independenza, fermovvela la libertà. Sotto l'ombra dell'Inghilterra fuggì la Sicilia le comuni disgrazie; poscia per beneficio di un giusto principe da servitù a libertà passando, ora dimostra quanto un vivere non soggetto, a gloria ed a felicità conferisca. L'Olanda ancor essa intende a libertà. Or sola l'Italia rimarrassi in ceppi? Or soli gl'Italiani le sanguinose spade gli uni contro gli altri volteranno per fare che la patria loro sia serva di un tiranno? A voi spezialmente questo discorso s'indirizza, o guerrieri dell'Italia, a voi, in cui mano ora sta il compire la generosa impresa. Questo da voi non si chiede, che a noi venghiate: solo le voci nostre vi ammoniscono, che i vostri diritti rivendichiate, che a libertà vi restituiate. Applaudiremo lontani, accorreremo chiamati, e se le vostre congiungerete alle forze nostre, fia che l'Italia risorga alle sue antiche sorti, fia che di lei suoni quant'ora della Spagna suona».

In questa forma l'Inglese allettava gl'Italiani: drappellava intanto le insegne delle mani giunte, sperando con queste parole e dimostrazioni di far muovere i popoli.

Ma siccome quegli che era uomo audace ed operoso, tosto giungeva alle parole i fatti. Ebbe avviso a Livorno, che Genova si guardava solamente da duemila soldati. Parvegli occasione propizia, perchè era sito di unica importanza, sì per la sua grandezza, sì per la comodità del porto, e sì per l'agevolezza che acquista chi ne è signore, di scendere nelle pianure del Piemonte e della Lombardìa. Inoltre abbondava di armi e di munizioni navali. Pertanto Bentink si accingeva ad espugnarla. Suo pensiero era di mandar le fanterìe per le strade difficili del littorale, le munizioni pei bastimenti sottili, le armi e gl'impedimenti più gravi per le navi grosse. Giunto a Sestri di Levante, udiva che nuovo soccorso era entrato per custodir Genova, per forma che il presidio sommava a seimila soldati, presidio insufficiente alla vastità delle fortificazioni, ma bastante a rendergli molto dura l'impresa: il reggeva Fresia. Si era egli, per opporsi agli sforzi di Bentink, ordinato per modo che distendendosi dai forti Richelieu e Tecla, occupava col centro il villaggio di san Martino, e quindi arrivava colla destra, per uno spazio intricato di giardini e di ville, sino al mare. Non aveva l'avversario speranza di poter impadronirsi della piazza per una lunga oppugnazione con sì pochi soldati: pure molto gl'importava, che, in mezzo a tanti romori, e per non lasciargli raffreddare, Genova si prendesse. Da questo conseguitava, che gli era necessità d'insignorirsene per un assalto vivo. A questo ordinava i suoi, che mostravano un grandissimo ardore, ed una prontezza incredibile a fare quanto egli volesse. Mandava gl'Italiani condotti dal colonnello Ciravegna, soldato pratico ed animoso, che ancor egli sventolava le bandiere dell'independenza, a far opera contro una punta di monte, che sta a sopraccapo ed a fronte del forte Tecla. Spediva un'altra parte degl'Italiani contro il forte Richelieu, mentre un Travera colonnello, dal monte delle Fascie scendendo, con Greci e Calabresi, se ne giva a guadagnare un'eminenza, che al forte medesimo sovrasta. Quest'era lo sforzo che faceva a dritta e nelle parti di sopra; ma sotto e più accosto al mare mandava i fanti Inglesi, sotto la condotta dei generali Montresor e Macfarlane, con ordine di sgombrare, quanto possibil fosse, gl'impedimenti del paese, e di assaltar l'inimico. Succedevano i fatti a seconda de' suoi pensieri. Ciravegna, che combatteva sulla punta estrema a destra, spintosi avanti con singolar valore, cacciava il nemico dall'altura, e s'impadroniva di tre cannoni di montagna, il quale accidente vedutosi dai difensori del forte Tecla, l'evacuarono, in potestà del vincitore lasciandolo. Anche l'eminenza superiore al forte Richelieu fu presa dai Greci e Calabresi. Gl'Italiani ancor essi s'avvicinavano al forte. Non volendo il presidio aspettare l'ultimo cimento, si arrese a patti. Sulla sinistra dei confederati si sostenne la battaglia più lungo tempo, sì per la natura dei luoghi opportuna alle difese, come per la valorosa resistenza dei difensori: pure gl'Inglesi guadagnavano del campo. Finalmente gli assediati, vedendo che per la perdita dei forti Tecla e Richelieu correvano pericolo di esser presi alle spalle, fecero avviso di ritirarsi del tutto dentro le mura, lasciando le difese esteriori in poter dei confederati. Già per opera di Bentink si piantavano le batterìe per fulminare la città. In questo ad accrescere il terrore, arrivava sopra Genova Edoardo Pellew con tutta la sua armata, attelandosi a fronte di Nervi. Ai piccoli cannoni di Bentink si aggiungevano i grossi, e le bombarde di Pellew, per modo che nell'assalto che si vedeva imminente, ogni cosa presagiva un successo prospero a chi assaltava. Si venne in sul convenire: Fresia s'arrese il dì diciotto aprile.

Bentink, acquistata la possessione di Genova, d'allettamento in allettamento passando, faceva sorgere speranze di franco stato nei Genovesi. Forse credeva che i confederati avrebbero avuto più rispetto a questa condizione, se fosse e fatta sperare con parole e cominciata col fatto, che s'ei fosse stato sul severo, e non avesse parlato d'altro che di conquista. Ordinava pertanto un governo preparatorio: voleva ch'egli reggesse i dominj Genovesi secondo gli ordini della constituzione del novantasette, e insino a che si statuissero quelle modificazioni, che l'opinione, l'utilità, lo spirito della constituzione del 1576 richiedessero: che il governo si spartisse in due collegj, come nella forma antica; che durasse in ufficio sino al primo gennajo dell'ottocentoquindici, tempo in cui i collegj ed i consiglj fossero adunati a norma della constituzione. Questi erano i fatti del capitano d'Inghilterra: i motivi poi pubblicamente detti suonavano, che, stantechè i soldati d'Inghilterra retti da lui avevano scacciato dalle terre di Genova i Francesi, e che importava che alla quiete ed al governo dello stato si provvedesse, considerato ancora, che a lui pareva, che universale desiderio della nazione Genovese fosse il tornare a quell'antica forma, alla quale era stata sì lungo spazio obbligata della sua libertà, prosperità e independenza, e considerato finalmente, che a questo fine indirizzavano i pensieri e gli sforzi loro i principi collegati, che ognuno fosse rintegrato ne' suoi antichi dritti o privilegj, voleva, ed ordinava che quello, che i popoli Genovesi desideravano in conformità dei principj espressi dai collegati, si risolvesse in atto e si mandasse ad effetto. Alle quali cose dando esecuzione, chiamava al governo Girolamo Serra in qualità di presidente, e con lui Francesco Antonio Dagnino, Ipolito Durazzo, Carlo Pico, Paolo Girolamo Pallavicini, Agostino Fieschi, Giuseppe Negretto, Giovanni Quartara, Domenico Demarini, Luca Solari, Andrea Deferrari, Agostino Pareto, Grimaldo Oldoini.

Da tutto questo si vede, se i Genovesi non dovevano concepire speranza di conservare l'onorato nome, e l'essere antico della patria loro; o se qualcheduno dalle parole di Bentinck avesse dedotto questo corollario, che Genova avesse fra breve ad esser data in potestà del re di Sardegna, certamente sarebbe stato tenuto piuttosto scemo di mente che falso loico. Ma Castelreagh trovò non so che dritto di conquista, e l'utilità della lega, motivi appunto di senatusconsulti Napoleonici. Bene era spegnere Napoleone, e meglio sarebbe stato il non imitarlo.

Già tutta l'Italia era sottratta dall'imperio di Napoleone: solo restava la parte che si comprende tra il Mincio, il Po e le Alpi. Ma la somma delle cose per lei si aveva piuttosto a decidere sulle rive della Senna, che su quelle del Po. Già sinistri romori si spargevano per Napoleone: poscia le certe novelle arrivavano, essere i confederati, conducendo con esso loro tutto lo sforzo d'Europa, entrati trionfalmente in Parigi, compenso dato da chi regge il cielo a chi regge la terra delle conquistate Torino, Napoli, Vienna, Berlino e Mosca. Era oltre a ciò vociferazione in ogni luogo, che Napoleone errasse colle reliquie dell'esercito per le Sciampagnesi campagne. A ciascuna ora a cose immense aggiungeva la fama cose immense; nè ugual peso di umane moli si era agitata nel mondo, dappoichè Scipione vinse Annibale, Belisario Totila, Carlo Martello i Saraceni, Subieschi i Turchi. Poco stante si udiva, restituirsi i Borboni in Francia, Napoleone ridotto in Fontainebleau rinunziare all'imperio, dire l'ultimo vale a' suoi veterani soldati, accettare per estremo ricetto l'umile rupe d'Elba isola. Raccontare ai contemporanei sì fatti accidenti fora opera superflua, poichè la piena fama ne risuona ancora frescamente nelle orecchie loro: raccontargli degnamente ai posteri, fora opera superiore all'eloquenza, nè io mi vi accingerei, che conosco l'umile mio stile, ed il mio tarpato ingegno. Solo dirò, che per le armi più si fece che si sperasse, che colle parole più si promise, che si attenesse, che la prosperità fe' dimenticare le affermazioni della paura, e che le vecchie voglie sormontarono le necessità nuove. Pure si liberò l'Europa da una volontà sola, e da un dominio soldatesco; e chi guarderà indietro insino al principio di queste storie, e tutti gli accidenti da noi raccontati andrà nella memoria sua riandando, sentirà meraviglia, terrore, pietà, dolore, e contentezza insieme. Gli uomini straziati, le opinioni stravolte, le società sconvolte, la forza preponderante, la giustizia offesa, l'innocenza condannata, le adulazioni ai malvagi, le persecuzioni ai buoni, la licenza sotto nome di libertà, la barbarie sotto nome di umanità, la politica sotto nome di religione, e con queste virtù civili eminenti, ma rare, esempi lodevoli, ma scherniti, valore di guerra egregio, ma in favore del dispotismo, l'Europa infine divenuta scherno e vilipendio a se stessa. Se rinsavirà, non si sa, perchè ancor si sente la puzza degli andamenti Napoleonici: vive l'ambizione in chi comanda, vive in chi obbedisce, e se fia possibile l'unire la libertà al principato, è incerto. Da tutta questa lagrimevole tela, come dai ricordi antichi, almeno questo utile ammaestramento si avrà, che chi, come Buonaparte, da suddito si fa padrone della sua patria per farla serva, o il ferro ancide, o la forza atterra.

Come prima pervennero in Italia le novelle della presa di Parigi, e della rinunziazione di Napoleone, pensò il vicerè a pattuire per la sicurezza delle genti Francesi, nè si conveniva, che poichè i Borboni, ai quali erano le potenze amiche, si trovavano rintegrati in Francia, i Francesi combattessero contro di loro. Inoltre desiderava il vicerè, con facilitare le condizioni ai Borboni ed ai potentati, avvantaggiare le proprie, e fare in modo che gli alleati usassero contro a lui meno inimichevolmente la vittoria. A questo fine, uscito da Mantova, si abboccava con Bellegarde, l'uno e l'altro accompagnati da pochi soldati. Convennero che si sospendessero le offese per otto giorni, che intanto i soldati Francesi che militavano col vicerè, passate le Alpi, ritornassero nell'antiche sedi di Francia; che le fortezze di Osopo, Palmanova, Legnago, e la città di Venezia si consegnassero in mano degli Austriaci; che gl'Italiani continuassero ad occupare quella parte del regno, che ancora era in poter loro; che fosse fatto facoltà ai delegati del regno di andar a trovare i principi confederati per trattare di un mezzo di concordia, e che se i negoziati non riuscissero a felice fine, le offese tra gli alleati e gl'Italici non potessero ricominciare, se prima non fossero trascorsi quindici giorni, da che i primi si fossero scoperti delle intenzioni loro. La convenzione di Schiarino-Rizzino, che in questo luogo appunto si concluse addì sedici aprile, spegneva del tutto il regno Italico. Perchè, segregati i Francesi dagl'Italiani, nasceva una tale disproporzione di forze tra gl'Italiani ed i Tedeschi, che il capitolo, il quale dava quindici giorni di indugio alle ostilità, era piuttosto derisione che sicurezza.

Era giunto il momento dell'ultimo vale fra gli antichi compagni: i soldati di Francia salutavano commossi, abbracciavano piangenti i soldati d'Italia: a loro migliori sorti auguravano; ultimo grado di disgrazia chiamavano, che la disgrazia gli separasse; offerivano gli umili abituri loro in Francia; venissero; si ricorderebbero dell'avuta amicizia, delle comuni battaglie, della con le medesime armi acquistata gloria; fuorichè Italia non sarebbe, tutto parrebbe loro Italia, la medesima amicizia, la medesima fratellanza troverebbero; voler essi con le povere facoltà loro pagare all'Italia il debito di Francia. Così con militare benevolenza addolcivano i soldati di Francia le amarezze dei soldati d'Italia. Questi all'incontro ai loro partenti compagni andavano dicendo: gissero contenti, che se l'Alpi gli separerebbero, l'affezione e la ricordanza dei gloriosi fatti insieme commessi gli congiungerebbero; conforto loro sarebbe il pensare, che chi conservava la patria si ricorderebbe di chi la perdeva; la disgrazia rinforzare l'amicizia; avere per questo l'amore dei soldati Italiani verso i soldati Francesi ad essere immenso; vedrebbero quello che in quell'ultimo eccidio fosse per loro a farsi per satisfazione propria, e per onore dell'insegne Italiche; ma bene questo credessero, e nel più tenace fondo dell'animo loro serbassero, che, come gli avevano veduti forti nelle battaglie, così gli vedrebbero forti nelle disgrazie: queste speravano di mostrare al mondo, che se più patria non avevano, patria almeno di avere meritavano. Che Eugenio, e che Napoleone a noi, dicevano? Gloriosi, gli servimmo, benefici, gli amammo, infelici, fede loro serbammo: ma per l'Italia i nomi diemmo, per l'Italia combattemmo, per l'Italia dolore sentimmo: il dolerci per sì dolce madre fia per noi raccomandazione perpetua a chi con animo generoso a generosi pensieri intende.

Partivano i Francesi, alla volta del Cenisio e del colle di Tenda incamminandosi: gli ultimi segni di Francia appoco appoco dall'Italia scomparivano; ma non iscomparivano nè le ricordanze di sì numerosi anni, nè il bene fatto, nè anco il male fatto, quello a Francia, questo a pochi Francesi attribuendosi: non iscomparivano nè i costumi immedesimati, nè le parentele contratte, nè gl'interessi mescolati: non iscomparivano nè la suppellettile dell'accresciuta scienza, nè gli ordini giudiziali migliorati, nè le strade fatte sicure ai viandanti, nè le aperte fra rupi inaccesse, nè gli eretti edifizj magnifici, nè i sontuosi tempj a fine condotti, nè l'attività data agli animi, nè la curiosità alle menti, nè il commercio fatto florido, nè l'agricoltura condotta in molte parti a forme assai migliori, nè il valor militare mostrato in tante battaglie. Dall'altro lato non iscomparivano nè le ambizioni svegliate, nè l'arroganza del giudicare, nè l'inquietudine degli uomini, nè l'ingordigia delle tasse, nè la sottigliezza del trarle, nè la favella contaminata, nè l'umore soldatesco: partiva Francia, ma le vestigia di lei rimanevano. Non venti anni, ma più secoli corsero dalla battaglia di Montenotte alla convenzione di Schiarino-Rizzino. La memoria ne vivrà, finchè saranno al mondo uomini.

Il vicerè, acconce le cose sue coll'Austria, già feceva pensiero di ritirarsi negli stati del re di Baviera, col quale era congiunto di parentado pel matrimonio della principessa Amalia. Ma ecco arrivar novelle, o vere o supposte, che Alessandro imperatore consentirebbe a conservargli il regno, sì veramente che i popoli il domandassero. Accettava Eugenio le liete speranze: fecersi brogli; incominciossi dall'esercito ridotto in Mantova. L'intento parte ebbe effetto, parte no; ma l'importanza consisteva in Milano capitale. Viveva in questo momento il regno diviso in tre sette: alcuni desideravano il ritorno dell'Austria con niuna o poca differenza dall'antica forma: gli altri pendevano per l'indipendenza, ma chi ad un modo, e chi ad un altro: conciossiachè chi l'amava con aver per re il principe Eugenio, e chi l'amava con avere per re un principe di un altro sangue, quand'anche fosse di casa Austriaca; quest'era la parte più potente. Aveva mandato il vicerè certamente con poca prudenza, il conte Mejean a Milano a trattare coi capi del governo, affinchè in favore di lui si dichiarassero. Molto anche vi si affaticava un Darnay, direttore delle poste, personaggio poco grato ai popoli. Ad accrescere disfavore alla cosa s'aggiunse, che a secondare le intenzioni del vicerè si erano intromessi, per opera di Mejean, e per inclinazione propria, i Transpadani, o Estensi, come gli chiamavano: Bolognesi, Ravennati, principalmente Modenesi e Reggiani, erano venuti in disgrazia dei Milanesi, perchè questi si erano persuasi che nelle faccende eglino si fossero arrogata molta maggior parte di quanto si convenisse. Melzi favoriva il disegno, il propose in senato. Vi sorse un gravissimo contrasto, principalmente intorno a quella parte in cui si trattava del principe Eugenio. Paradisi, ed altri Estensi, uomini d'inveterata fama, di gran sapere e di molta autorità, con efficacissime parole instavano in favor del principe. Nei cambiamenti politici, dicevano, più facilmente ottenersi il meno che il più; essere consueto l'imperio d'Eugenio, già dai principi d'Europa riconosciuto: solo volersi, che fosse independente da Francia, e questo appunto essere il fine della presente deliberazione; abbenchè intorno a questo non occorresse, allegavano, molto travagliarsi, perchè spento Napoleone, la franchezza del paese nasceva da se, e chi volesse credere, che Eugenio da Francia Borbonica ancora dipendesse, come da Francia Napoleonica, massimamente se tra la Lombardìa e la Francia s'interponesse il Piemonte tornato, come già si motivava, sotto il dominio dei principi di Savoja, meriterebbe di essere tenuto piuttosto scemo, che acuto. Adunque l'indipendenza, continuavano, essere non solo sicura, ma ancora necessaria con Eugenio: queste considerazioni la natura stessa dettare, le Parigine novelle confermare. Se un altro principe si addomandasse, che sicurtà si avrebbe d'impetrarlo? In deliberazioni di tanto momento, meglio dover fidarsi i collegati in chi è già per loro provato, da loro conosciuto, che in chi per loro fosse ignorato: nell'uscire da sconvolgimenti tanto stupendi, in tanta tenerezza di un fresco ordine in Europa, come sperare che in un regno d'Italia, pieno di umori diversi, importante per la sua situazione, un principe di natura ignota sia per essere accordato? Udire all'intorno, continuavano a discorrere gli oratori favorevoli al vicerè, susurrarsi il nome di un principe Austriaco: ma quivi appunto avvertissero bene, e bene considerassero gli avversarj, massime coloro che favellavano di libertà e di signorìa paesana, a qual partita si mettessero. Da un principe Austriaco adunque aspettavano il viver libero e franco, da un principe Austriaco congiunto di sangue coll'antico sovrano del regno, nodrito nelle massime del comandare assoluto, timoroso necessariamente di Vienna, sovrano di Milano solamente in apparenza? Di chi sono questi soldati, che ora ci minacciano? Austriaci. Quali soldati in Milano il condurrebbero? Austriaci. Quali soldati sulle frontiere nostre sovrasterebbero? Austriaci. Conoscono essi queste terre, le conoscono e le bramano. Se mancheran le cagioni, non mancheranno i pretesti, e ad ogni piè sospinto l'illuvie Tedesca inonderà il regno: cagioni e pretesti saranno, il non obbedire puntualmente e sommessamente a quanto da Vienna si sarà comandato. Ora quale independenza vi possa essere con un timore perpetuo non si vede. A chi ricorrerebbero questi partigiani d'Austria, a chi ajuto domanderebbero? Forse all'Inghilterra avara, che fa traffico di tutti? ai principi assoluti d'Europa, che più temono una constituzione che un esercito? alla Francia indebolita, e che non vuol camminare se non con Napoleone, e che con Napoleone più camminare non può? concorrerebbero al principe Austriaco tutti gli amici dell'antico reggimento d'Austria, concorrerebbero gli amatori dell'imperio illimitato, concorrerebbero i malcontenti, e se gl'interessi nuovi, se la libertà nascente, se le opinioni radicate da vent'anni in mezzo a tanto diluvio di elementi contrarj si potessero conservare salve, ogni uomo prudente potrà giudicare. Chi sarebbe naturalmente, e quasi per intima necessità nemico della libertà del regno? Certo sì veramente l'Austria. A qual modo puossi la libertà difendere dagli assalti forestieri? Certo sì veramente coi soldati e colle armi. Ora, chi affermare potrebbe, che un principe Austriaco fosse per apprestar armi e soldati Italici per ostare alle cupidigie dell'Austria? parere, anzi esser certo, che il regno di un principe Austriaco sarebbe, non independenza, ma dipendenza, non libertà, ma servitù, non quiete, ma discordia e turbazione. Vienna, non Milano reggerebbe. Con Eugenio re ogni via appianarsi, con un principe forestiero non Austriaco ogni difficoltà crescersi, con un principe Austriaco molte difficoltà torsi, ma fondarsi la servitù. Valessero adunque, concludevano, le virtù di Eugenio, valesse il suo amore per l'Italia, valesse la contratta abitudine di lui, valessero i felici augurj testè venuti da Parigi: essere pazzìa in tante tenebre non seguitar quel lume solo, che la fortuna appresentava davanti. Se qualcheduno desiderasse di viaggiar senza filo in un laberinto, senza bussola in mare, senza lume in un abisso, sì il facesse; ma nè desiderarlo, nè volerlo fare gli Estensi, i quali credevano, che con danno sempre si fa spregio della fortuna.

Dalla parte contraria acerbissimamente contrastavano i senatori Guicciardi e Castiglioni, principalmente quest'ultimo, che con molto empito procedeva in queste cose, e mescolava doglianze gravissime degli Estensi: a loro si accostavano molti altri Milanesi di nome, di ricchezza e d'alto legnaggio. Non potere restar capaci, dicevano, come con Eugenio si potesse aver la independenza, come si potesse aver la libertà. Sarebbe Eugenio più ligio, e più dipendente dall'Austria, che un principe Austriaco stesso: perchè non avendo parentela, nè connessione con altro potentato d'Europa di primo grado, là sarebbe obbligato a cercare per l'interesse della conservazione propria gli appoggi, dove gli troverebbe: nè altro potrebbe esservene per lui che nell'Austria, perchè in lei sola potrebbe sperare, come vicina e potente, di lei sola temere. Credere forse gli avversarj, ch'ei nol farebbe per altezza d'animo? Ma oltrechè non mai i principi credono di derogare alla dignità loro, in qualunque modo soggettino i popoli, purchè gli soggettino, quali sono i segni del pensare onorato d'Eugenio? Forse lo aver dato la metà del regno in potestà di Bellegarde? Forse i secreti abboccamenti avuti con lui, di cui più si sa, che non si dice? Forse lo avere spogliato il reale palazzo di Milano? Forse i donativi promessi per queste stesse perniziose e fatali trame? Forse Mejean e Darnay qua mandati a subornar gli spiriti, Mejean e Darnay, non solo sostenitori acerbi e tenacissimi di tirannide, ma ancora denigratori assidui di quanto havvi nel regno di più alto, di più nobile, di più generoso? Forse la elevazione dell'animo di Eugenio pruova lo sprezzo fatto di quei soldati, di cui egli era capitano pagato e richiedente? Gl'Italiani fatti scherno di un giovane di prima barba, e che nome non ha, se non da chi ne ha uno odiosissimo! Dicano l'altezza d'Eugenio le prezzolate ed udite spie, dicanla gli esilj dei più generosi cittadini, dicala la tirannide sul parlare e sullo scrivere usata. Non è punto da dubitare adunque, che siccome egli non abborrirebbe per natura dal più dimesso partito, così ancora per necessità il piglierebbe, e più sarebbe certamente governato austriacamente il regno da Eugenio, che da un principe Austriaco. Certo sì, che i comandamenti arriverebbero da Vienna, non dal reale palazzo di Milano. Di ciò già manifesti segni essere le umili cortesìe usate a Bellegarde, le cedute fortezze, i messi mandati al campo dell'imperatore Francesco, i messi mandati alle Parigine trattazioni; dimostrarlo quelle medesime proposte, che allora andavano su per le panche senatorie. Che se poi di Austriaco principe si trattasse, ancorchè questo fosse l'estremo partito che solo la necessità dovrebbe indurre, non visse beata e da se medesima la Toscana sotto un principe Austriaco lungo tempo? Duri e renitenti certamente essere i principi Austriaci, sclamavano i sostenitori di questa sentenza, al giurare liberi patti, ma esserne anche fedeli osservatori, se giurati gli abbiano; i Napoleonidi non del pari, perchè corrivi al giurare, corrivi al violare, delle promissioni non si curano, se non per l'utilità. Udite, udite, vociferavano, che di Prina si parla per mandarlo delegato, che di Paradisi si parla per mandarlo delegato! Sì per certo, Prina, amatore tanto tenero di libertà, Paradisi, che a qualunque più pericoloso partito si getterebbe piuttosto che sentir odore Austriaco, e ben sanne il perchè! Questi sono i mezzi dell'independenza, questi i difensori della libertà. Del resto le nazioni, non le parti o le sette fanno le mutazioni degli stati, nelle importanti ed uniche occorrenze. Chi potrà affermare, che gl'Italiani vogliano Eugenio per re? Forse i soldati che lo odiano? Forse i cittadini che non l'amano? Il chiamarlo sarebbe stimato macchinazione di pochi, non volontà di tutti, nè tanto sono i principi collegati ignoranti degli umori che corrono, che queste evidenti cose non sappiano.

Tutta la nobiltà Milanese Eugenio impugna, ed un vivere libero pretende: tutto il popolo mosso, che a queste mura grida intorno e minaccia, solo perchè ha udito susurrare della confermazione di Eugenio, della continuazione, se non del dominio, almeno delle consuetudini di Francia. Generose armi stanno in mano de' principi collegati, generose cagioni gli muovono, a generose cose intendono, nè questo momento ad alcun'altra età si rassomiglia. Proponete loro, non quello che pochi vogliono, ma quello che vogliono tutti, proponete loro una risoluzione grande, non la domanda di un principotto, docile allievo di un tiranno, proponete loro un vivere largo e generoso, non una vita piena di spìe e di carceri, e sarete esauditi. Questo vogliono gl'Italiani, questo vogliono i principi alleati, questo vogliono i cieli che non han sommosso il mondo, perchè continui a regnare in Milano Napoleone Buonaparte sotto nome di Eugenio Beauharnais. No, sclamavano vieppiù infiammandosi, non vogliamo Eugenio, no, non vogliamo Prina, nè Mejean vogliamo, nè Darnay: bensì vogliamo un principe, che collegato di sangue con qualche ceppo potente d'Europa, non abbia bisogno di adulare e di concedere per sussistere: vogliamo un principe, che giuri libertà per conservarla, non per ispegnerla; vogliamo un principe, che conosca, e sappia, e senta quanto nobile sia questo Italico regno, quanto generosi questi Italici abitatori, quanto alte sorti a lui ed a loro siano dai cieli favorevoli preparate: assai e pur troppo di Francia avemmo, assai e pur troppo di Napoleonici capricci pruovammo: ora in tanta aspettazione di cose, in tanta sollevazione di mondo, altrove si volgano gl'Italiani consigli, che l'avere sofferto dee dar luogo al godere; non a nuovo sofferire.

Decretava il senato, che si mandassero tre legati ai confederati, supplicandogli, ordinassero che cessassero le offese: domandassero i legati, che il regno d'Italia fosse ammesso a godere l'independenza promessa, e guarentita dai trattati, testificassero quanto il senato ammirasse le virtù del principe vicerè, e quanta gratitudine pel suo buon governo avesse.

Seppesi la deliberazione. Fece la parte contraria, che abborriva dal nome di Eugenio, un concerto. Entraronvi i capi principali dell'armi, le case più eminenti di Milano, principalmente Alberto Litta, che accarezzato da Buonaparte, non aveva mai voluto accettar cariche, preferendo un vivere privato onorevole ad un vivere pubblico abietto. S'aggiunsero i negozianti più ricchi, e fra gli scienziati e letterati i meno paurosi. Il nome dell'independenza era in bocca a tutti, l'amore nel cuore; nè mai in alcun moto che abbian fatto le nazioni in alcun tempo nelle più importanti faccende loro, tanto ardore e tanta unanimità mostrarono, quanta gl'Italiani in questa. Domandavano che si convocassero i collegi elettorali. Era il venti aprile quando, essendo il senato raccolto nella sua solita sede, una gran massa di gente, gridando, a lui traeva: era il cielo nuvoloso e scuro, pioveva leggermente, una apparenza sinistra spaventava gli spiriti tranquilli. I commossi non si ristavano. Eranvi ogni generazione d'uomini, plebe, popolo, nobili, operai, benestanti, facoltosi. Notavansi principalmente fra l'accolta moltitudine Federigo Confalonieri, i due fratelli Cicogna, Jacopo Ciani, Federigo Fagnani, Benigno Bossi, i conti Silva, Serbelloni, Durini e Castiglioni. Le donne stesse, e delle prime, partecipavano in questo moto gridando ancor esse “patria e independenza, non Eugenio, non vicerè, non Francesi”; una donna De-Capitani, una marchesa Opizzoni, ed altre non poche. Era tutta questa gente volta a bene, ed il male, non che avesse fatto, non l'avrebbe neppure pensato. Ma come suole, incominciavano ad arrivare e da Milano e dal contado uomini ribaldi, che volevano tutt'altra cosa piuttostochè l'independenza. Queste parole scritte andavano attorno: «Hanno la Spagna e l'Alemagna gittato via dal collo il giogo dei Francesi; halle l'Italia ad imitare.» Gonfalonieri a tutti avanti gridava: «Noi vogliamo i collegi elettorali, noi non vogliamo Eugenio». Fuggirono i senatori partigiani del principe, il senato si disciolse. Entrò il popolo a furia nelle sue stanze, il conte Gonfalonieri il primo, e tutto con estrema rabbia vi ruppero e lacerarono. Gridossi da alcuni uomini di mal affare mescolati col popolo, Melzi, Melzi, e già si mettevano in via per andarlo a manomettere. Un amico di lui gridò, Prina: era Prina più odiato di Melzi, ed ecco, che corsero a Prina, e flagellatolo prima crudelmente, l'uccisero con insultar anco al suo sanguinoso cadavere lungo tempo. Cercarono di Mejean e di Darnay; non gli trovarono. La folla frenetica, messa le mani nel sangue, le voleva mettere nelle sostanze. Già le case si notavano, già le porte si rompevano, già le suppellettili si recavano; la opulenta Milano andava a ruba. A questo passo i possidenti ed i negozianti, ordinata la guardia nazionale frenarono i facinorosi, e preservarono la città.

Il vicerè che tuttavia sedeva in Mantova, uditi i moti di Milano, indispettitosi, diè la fortezza in mano degli Austriaci: atto veramente biasimevole, del quale perpetuamente la posterità accuserà Eugenio; imperciocchè gli uomini giusti e grandi non operano per dispetto, nè Mantova era d'Eugenio, ma degl'Italiani: miserabili calate dei Napoleonidi. Napoleone tutto stipulava per se, nulla pe' suoi a Fontainebleau, Eugenio non solo nulla stipulava pe' suoi, ma ancora tutto quel maggior male fece loro, partendo, che potè. Partiva da Mantova per la Baviera, le Italiche ricchezze seco portando. Per poco stette, che le memorie di Hofer nol facessero uccidere in Tirolo, nuovo dolore mandatogli dal fato, che chiamava a distruzione i Napoleonidi.

I collegi elettorali, adunatisi, crearono una reggenza. Decretarono che le potenze alleate si richiedessero dell'independenza del regno, di una constituzione libera, e di un principe Austriaco, ma independente: alzavano le loro speranze le parole pubblicate dai confederati del volere l'independenza delle nazioni. S'appresentarono Fè di Brescia, Gonfalonieri, Ciani, Litta, Ballabio, Somaglia di Milano, Sommi di Crema, Beccaria di Pavia, legati, a Francesco imperatore a Parigi. Esposte le domande, rispose, anche lui essere Italiano: i suoi soldati avere conquistato la Lombardia: udirebbero a Milano quanto loro avesse a comandare. Entrarono gli Austriaci in Milano il dì ventotto aprile: Bellegarde ne prendeva possessione in nome dell'Austria il dì ventitrè di maggio. Così finì il regno Italico.

Continuava Genova in potestà d'Inghilterra; vivevano i Genovesi confidenti della conservazione dell'antica repubblica. Gli confortavano la rintegrazione promessa dagli alleati di ciascun nel suo, e le dimostrazioni Bentiniane. Ma ecco il congresso di Vienna decretare, dover Genova cedere in potestà del re di Sardegna.

A questa novella il governo temporaneo nel seguente modo favellava ai popoli Genovesi:

«Informati, che il congresso di Vienna ha disposto della nostra patria, riunendola agli stati di Sua Maestà il re di Sardegna, risoluti da una parte a non lederne i dritti impreteribili, dall'altra a non usar mezzi inutili e funesti, noi deponiamo un'autorità, che la confidenza della nazione, e l'acquiescenza delle principali potenze avevano comprovata.
«Ciò, che può fare per i diritti e la restaurazione de' suoi popoli un governo non d'altro fornito che di giustizia e ragione, tutto, e la nostra coscienza lo attesta, e le corti più remote lo sanno, tutto fu tentato da noi senza riserva, e senza esitazione. Nulla più dunque ci avanza, se non di raccomandare alle potestà municipali, amministrative e giudiziali l'interino esercizio dell'ufficio loro, al successivo governo la cura dai soldati che avevamo cominciato a formare, e degl'impiegati che hanno lealmente servito, a tutti i popoli del Genovesato la tranquillità, della quale non è alcun bene più necessario alla nazione. Dalla pubblica alla privata vita ritraendoci, portiamo con esso noi un dolce sentimento di gratitudine verso l'illustre generale, che conobbe i confini della vittoria, ed un'intiera fiducia nella provvidenza divina, che non abbandonerà mai i Genovesi.»

Queste furono le ultime protestazioni, le ultime querele, e le ultime voci dell'innocente Genova. Il giorno susseguente, che fu addì venzette dicembre, un Giovanni Dalrymple, comandante dei soldati del re Giorgio, ne assunse il governo: la diede poscia in mano ai legati del re Vittorio Emanuele.

Così l'Italia, dopo una sanguinosa e varia catastrofe di vent'anni, dalla quale dieci terremoti, e non so quanti volcani sarebbero stati per lei migliori, si ricomponeva a un di presso nello stato antico. Tornava Vittorio Emanuele in Piemonte, Francesco in Milano, Ferdinando in Toscana, Pio in Roma: passò Parma dai Borboni agli Austriaci; conservò Giovacchino il real seggio di Napoli, ma non per durare; le Italiane repubbliche spente: l'acume del secolo trovò, che la legittimità è nel numero singolare, nel plurale no. Solo fu conservato l'umile San Marino, forse per un tratto d'imitazione di più degli andari Napoleonici: la sua esiguità e povertà non eccitavano le cupidità di nissuno. Cedè Venezia a Francesco, Genova a Vittorio. Nè furono i governi di Francesco, di Vittorio, di Ferdinando e di Pio sdegnosi: solo non misurarono la grandezza delle mutazioni fatte nelle menti e nel cuore degli uomini, da sì grandi e sì lunghi accidenti, imperciocchè se esse mutazioni erano, come alcuni pretendono, malattie, richiedevano convenienti rimedj. Giudicheranno i posteri, se i mali che seguirono, debbano agl'infermi od a chi gli doveva sanare, attribuirsi. Felici Giuseppe e Leopoldo, principi santissimi, che vollero consolar l'umanità colle riforme, non ispaventarla coi soldati! Nè ai principi Italiani noi qui parlando, intendiamo accennare instituzioni all'Inglese, alla Francese od alla Spagnuola, le quali a modo niuno si convengono all'Italia; ma bensì riforme che facessero sorgere, a maggior quiete e felicità dei popoli di questa penisola, siccome già abbiam notato nel precedente libro, instituzioni peculiari accomodate alla natura degl'Italiani, cosa del pari facile a concepirsi, che sicura ad eseguirsi. Oltre a ciò la nobiltà esiste in Europa, ed è indestruttibile. E' bisogna pertanto farne stima in un ordinamento sociale tendente allo stato libero, come di un elemento necessario, e darle, come a corpo constituito, quella parte di potestà politica che le si conviene, perchè sia contenta, e non tenti usurpazioni nelle altre potestà della macchina sociale. Ciò eseguito, fia necessario da un altro lato inibirle l'ingresso, e qualunque ingerenza nella potestà popolare, instituita, quanto all'Italia, a modo antico, ma bene e prudentemente inteso, non a modo moderno, che non può esser buono. La divisione tra la nobiltà ed il popolo è nella natura stessa delle cose, e debb'essere ancora nella legge politica. Questa è condizione indispensabile sì per la libertà, e sì per la quiete dello stato, e ad esse niuna cosa è più perniziosa che una nobiltà in aria, ed una potestà popolare composta di conti e di marchesi. Questi principj sono veri, e possibili ad esser ridotti all'atto, o che si viva in monarchìa, o che si viva in repubblica. La chimera dell'equalità politica ha fatto in Europa più male alla libertà che tutti i suoi nemici insieme. L'equalità debb'essere nella legge civile, non nella politica. I principj astratti ed assoluti, in proposito d'ordinamento sociale, son fatti solamente per indicare i fondamenti delle cose, non per esser posti in atto senza modificazione; perchè le passioni, che sono la parte attiva dell'uomo, generano movimenti disordinati, che bisogna frenare. Sono essi principj in economia politica ciò, che sono i geometrici nella meccanica, le passioni, in quella, ciò che l'attrito delle macchine, ed altri accidenti prodotti dalla natura della materia, in questa; e così come si tien conto dell'attrito nell'ordinar le macchine, si dee tener conto delle passioni nell'ordinar la società. L'effetto che si desidera, è la libertà, cioè l'esatta e puntuale esecuzione della legge civile uguale per tutti, ed un'uguale protezione della potestà sociale per ciascuno, sì quanto alle persone, come quanto alle sostanze. Purchè si ottenga questo fine, non si dee guardare alla qualità dei mezzi, e mezzi di diversa natura, secondo la diversità delle nazioni, vi possono condurre. Chi risolvesse bene questo problema, «sino a qual segno ed a qual parte dell'equalità politica si debba rinunziare per meglio assicurare la libertà, e l'equalità civile», farebbe un gran servizio all'umanità. Ma di ciò più ampiamente altri più capaci di noi.

Noi intanto, terminata questa gravosa fatica, alla quale piuttosto per desiderio altrui che nostro ci mettemmo, qui deponiamo la penna, e qui diamo riposo alla mente oggimai troppo travagliata e stanca.

Fine del Tomo VI ed U ltimo.

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