LA COMMEMORAZIONE DELLA «RERUM NOVARUM»

Frattanto Roma aveva avuto modo e forse aveva sentito la necessità di lasciare di fronte alla Russia la politica degli armeggi diplomatici e degli approcci politici, per tornare alle sue proclamazioni teoretiche anticomuniste.

Nel 1931 era caduto il quarantennio dalla divulgazione della Rerum novarum. Era una data che meritava di essere commemorata e Pio XI la commemorava con la Enciclica «Quadragesimo Anno».

Non si potrebbe dire che l'Enciclica, per ampiezza di respiro, per larghezza di visuali, per consapevolezza dei problemi sociali presenti, fosse all'altezza della Enciclica di cui voleva istituire in qualche modo la celebrazione solenne. Il documento tradiva una certa preoccupazione che le dottrine formulate nella Rerum novarum, che pur non avevano nulla di rivoluzionario, avessero potuto o potessero ancora destare in qualche spirito timorato apprensione e diciamo pure la parola che il Pontefice stesso del resto vi adoperava, un certo sentore di scandalo. Vi diceva infatti il Pontefice: «La dottrina di Leone XIII, così nobile, così profonda e così inaudita al mondo, non poteva non produrre anche in alcuni cattolici una certa impressione di sgomento, anzi di molestia e per taluno anche di scandalo. Essa infatti affrontava coraggiosamente gli idoli del liberalismo e li rovesciava, non teneva in nessun conto pregiudizi inveterati; preveniva i tempi ogni oltre aspettazione; onde che i troppo tenaci dell'antico disdegnavano questa nuova filosofia sociale e i pusillanimi paventavano di ascendere a tanta altezza; taluno anche vi fu, che pure ammirando questa luce, la riputava come un ideale chimerico di perfezione più desiderabile che attuabile. Per queste ragioni – continuava Pio XI – mentre con tanto ardore da tutto il mondo e specialmente dagli operai cattolici, che da ogni parte convengono in quest'alma città (Roma naturalmente) si va solennemente celebrando la commemorazione del quarantesimo anniversario dell'Enciclica Rerum Novarum, stimiamo opportuno di servirci di questa ricorrenza, per ricordare i grandi beni che da quella Enciclica ridondavano alla Chiesa, anzi a tutta l'umana società; per rivendicare la dottrina di tanto Maestro sulla questione sociale ed economica contro alcuni dubbi sorti in tempi recenti e per svolgerla con maggior ampiezza in questo o in quel punto; e infine, dopo una accurata disamina della economia moderna e del socialismo, per discoprire la radice del presente disagio sociale, ed insieme additare la sola via di una salutare restaurazione, cioè la cristiana riforma dei costumi».

Nessuna meraviglia che, dall'alto della fede pontificale romana, si insistesse così, ancora,una volta, sulla necessità di mandare innanzi ad una qualsiasi riforma sociale la riforma morale e il rinnovamento della spiritualità cristiana. Ma perchè questi reiterati moniti alla restaurazione di costumi rimanevano praticamente senza effetto? Perché la Chiesa si rivelava così ancora a quarant'anni di distanza costretta a ripetere, pressochè con le stesse formule, quanto era stato detto dalla Rerum novarum, mentre il mondo aveva continuato a fare tanto cammino nella direttiva dei movimenti sociali tutti avvivati da spirito laico, anzi diciamo meglio da spirito nettamente antireligioso e anticristiano? La rivoluzione comunista, è vero, aveva trovato il terreno adatto in un paese tradizionalmente ostile a Roma come la Russia, ereditante da secoli la vecchia rivalità di Bisanzio contro la Sede del primato latino di san Pietro. Ma movimenti comunistici si profilavano sempre più invadenti e aggressivi nei paesi classici del cristianesimo occidentale, e in Germania, a quarant'anni di distanza dalla Rerum novarum, il partito del Centro, che era stato sempre animato da un ardito programma cristiano sociale, stava per essere sommerso dal nazionalsocialismo. È questa un'osservazione che si potrebbe probabilmente ripetere anche per altri aspetti dell'attività dottrinale e pedagogica del magistero cattolico. I princìpi solennemente affermati dalla Sede romana nei suoi pubblici documenti e nelle manifestazioni ufficiali del suo magistero risuonano come enunciazioni indiscutibili di un patrimonio dogmatico, che si è mantenuto inalterato nei secoli. Il pubblico ecumenico ne riconosce la impeccabile validità astratta e la perfetta coerenza al patrimonio tradizionale dell'ortodossia cattolica. Ma in concreto il mondo sembra procedere per le sue vie con una logica che si direbbe si sottragga ostinatamente alla presa e all'efficacia del magistero medesimo. Non è in questa soluzione di continuità e in questa mancanza di contatti tra l'insegnamento canonizzato dell'ortodossia romana e il corso fatale dell'evoluzione storico-sociale, una delle ragioni più profonde del disagio attraverso cui il mondo sembra essersi avviato ad una delle sue più preoccupanti crisi che da secoli e secoli si siano mai registrate?

L'Enciclica Quadragesimo Anno, riecheggiando la Rerum novarum, stimolava i Governi a favorire e a praticare, nella più vasta misura possibile, una politica sociale, mercè cui fossero tutelate le legittime esigenze della classe operaia nei contratti di lavoro, nella pubblica assistenza, nel miglioramento sempre più avanzato delle condizioni igieniche e morali del popolo. Esagerava un po' probabilmente l'Enciclica nel definire la Rerum novarum come «la magna charta» sulla quale doveva posare tutta l'attività cristiana nel campo sociale, come sul proprio fondamento. Ed era forse eccessivamente dura ed aspra nel bollare «coloro che mostrano di fare poco conto di quella Enciclica e della sua commemorazione» con parole particolarmente severe. Diceva, infatti che costoro «o bestemmiano quel che non sanno, o non capiscono quello di cui hanno solo una superficiale cognizione, o se lo capiscono meritano di essere solennemente tacciati di ingiustizia e di ingratitudine». La storia, tutta la storia delle agitazioni sociali degli ultimi decenni non era lì a dimostrare che fra le teorie della Rerum novarum e la pratica della vita internazionale correva un divario incolmabile?

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