I. LE ORIGINI EXTRA-CRISTIANE DELL’ASCETISMO ORGANIZZATO

L’Egitto antico è stato la terra classica del misticismo, così individuale come associato. I templi delle divinità egiziane sono stati palestre, nelle quali gli spiriti si sono pazientemente addestrati all’esercizio dell’ascesi e al conseguimento della beatifica contemplazione. I «sapienti dell’Egitto» ritenevano che la sola forma di adorazione appropriata alla sacra maestà divina fosse quel culto interno dello spirito che si esplica nel silenzio e si celebra nell’occulto. Un senso profondo dell’intima familiarità col mondo delle realtà soprannaturali accompagna l’esplicazione della vita religiosa nella valle del Nilo. Giamblico, trattando dei misteri egiziani, descrive con minuta precisione i caratteri differenziali che distinguono le epifanie degli dei da quelle degli angeli, dei demoni, degli arconti, delle anime. La misteriosofia egiziana ha impregnato di sè, nelle sue forme più raffinate, la speculazione neoplatonica. Plotino allude molto spesso alle consuetudini liturgiche proprie dei templi della sua patria. Egli colma di vituperi coloro che nelle solennità religiose si danno alla gozzoviglia, «reputando simile godimento quasi più certo che la visione del dio» e che, non avendo praticato l’astinenza necessaria, sono incapaci di partecipare ai misteri. E poichè nelle cerimonie rituali il dio non discopre ad essi il suo volto, essi lasciano di credere alla sua esistenza. «Duro invece e il sentiero del possesso divino. Per giungervi, occorre, secondo Plotino, che l’uomo si affranchi da ogni sensazione, si spogli di ogni desiderio, si liberi da ogni passione, pronto a rimanere solo a solo con l’Uno». La Monade infatti non può rivelarsi e comunicarsi ad una Diade, quale sarebbe la ragione, espressa attraverso la parola: ama bensì l’adorazione silenziosa. Nel segreto di questo culto ineffabile si raggiunge in qualche modo un’anticipazione della immortalità beata. Il mista che ha gustato nell’epoptea il piacere del divino possesso, ha avuto l’arra di quella che sarà la felicità eterna nel regno dei morti, quando egli vivrà in una interminabile contemplazione della divinità, che l’aveva antecedentemente ammesso, attraverso la gnosi, alla sua dimestichezza.

Sulla terra che aveva visto sbocciare forme così elevate di religiosità mistica, l’ascetismo e il cenobitismo cristiano gettavano nel quarto secolo le più profonde e salde loro radici. Corrono fra i due movimenti spirituali delle pure analogie astratte e dei semplici avvicinamenti e parallelismi esteriori, o non più tosto dei vincoli concreti di successione cronologica e di dipendenza causale?

H. Weingarten, docente all’Università di Breslavia, con un saggio sensazionale intorno alle origini del monachismo, sosteneva nel 1876 che non si riscontrano monaci cristiani prima del 340; che la vita di Antonio attribuita a sant’Atanasio non appartiene affatto all’insigne rappresentante della ortodossia nicena; e che se la figura di Antonio non va relegata, come quelle di Paolo l’eremita e di Ilarione nel novero delle leggende, nulla però riusciamo a sapere con sicurezza di lui, al di là della sua esistenza storica. Il monachismo del resto, secondo il Weingarten, non va reputato affatto come un fenomeno tipicamente cristiano. Esso aveva avuto dei precedenti perfettamente analoghi e consanguinei nelle forme pratiche della religione egiziana, e precisamente nel recinto del Serapeo, nell’ambito cioè di quell’insieme di edifici che la pietà e le esigenze dei servizi liturgici avevano innalzato, ad ovest di Menfi, lungo la pianura che di fronte al Nilo costeggia la montagna libica, sulle sepolture ospitanti le spoglie dei tori sacri.

Un insieme di una certa importanza di testi su papiro, tra cui la corrispondenza strana di un tal Tolomeo figlio di Glaukias, vissuto nel Serapeo fra il diciannovesimo e trentesimo anno di regno di Tolomeo Filometore, fra il 164 cioè e il 153 av. Cr., permette di gettare lo sguardo nella vita che si menava nel sacro recinto. I testi, in verità, non sono molto perspicui, e le rapide e vaghe indicazioni che essi racchiudono, non appaiono facilmente e coerentemente comprensibili. Ma il Weingarten – e altri dopo di lui – han creduto di poter da quei testi arguire l’esistenza di comunità ascetiche addette al servizio del tempio, la cui foggia di vita e la cui disciplina associata non dovevano essere sostanzialmente difformi da quelle che cinque secoli più tardi avrebbero praticato in Egitto gli asceti cristiani, pur tradendo caratteristiche peculiari di qualche rilievo.

Una lettera su papiro trovata a Menfi e conservata oggi al Museo britannico ci riporta a distanza di ventidue secoli (la lettera è del 168 av. Cr.) il lamento di una sposa, Isiade, che il marito Efestione ha abbandonato con un figliuolo, per ritrarsi nella clausura del Serapeo. Le condizioni di vita della disgraziata sono disperate ed essa supplica il marito di far ritorno al suo tetto e al suo dovere familiare. Non sembra che Efestione fosse disposto a prestarle ascolto. Le lettere ritrovate nel territorio sacro mostrano che egli non ne volle sapere di ritraversare il recinto. La clausura offriva evidentemente qualche comoda e tranquilla attrattiva.

Proprio nel medesimo giorno in cui Isiade scongiurava il marito chiuso nel Serapeo di tornare in seno ai suoi per alleviarne gli imbarazzi, un amico di casa, Dionisio, mandava anch’egli il suo messaggio, con analoghe raccomandazioni. Anche qui il linguaggio succinto e pieno di inafferrabili sottintesi, non ci consente di scorgere contro quali rischi e quali pericoli la clausura del luogo sacro rappresentasse un rifugio e una tutela sicuri.

Ma ragguagli di gran lunga più copiosi, per quanto tutt’altro che coerenti e ugualmente inintelligibili, ci offre, intorno alla vita menata dai reclusi del Serapeo, la abbondante corrispondenza di Tolomeo. A quanto se ne arguisce, costui, figlio primogenito del macedone Glaukias, era nato nel villaggio di Psichis, nel nomo Eracleopolita. Alla morte del padre, durante i torbidi politici che funestarono il regno di Tolomeo VI Filometore, egli aveva dovuto assumere la cura dei suoi tre fratelli Ippalo, Sarapione, Apollonio. Dell’ultimo, ancor fanciullo, aveva fatto una specie di piccolo suo domestico nel recinto del Serapeo, dov’egli si trovava. Mano mano che Apollonio cresceva in età, il fratello maggiore gli affidava mansioni sempre più notevoli, anche lontano, a tutela degli interessi familiari, messi a repentaglio da ostilità e malversazioni d’ogni genere. Nell’ambito stesso della clausura sacra non mancano i contrasti e le avventure. Non sembra che l’alto patrocinio delle divinità venerate solennemente nel Serapeo riuscisse a premunire gli ospiti del recinto religioso dalle competizioni, dalle rivalità, dalle sopraffazioni. Viveva colà una folla di sacerdoti, di pastofori, di sacrestani, di mercanti, di malfattori perfino, che vi erano venuti a cercare la salvaguardia del diritto di asilo. Non doveva essere pertanto una sinecura la stazione di guardia stabilita nel tempio di Anubis. E non dovevano mancare a Tolomeo, che non aveva per suo conto un temperamento eccessivamente pacifico e longanime, le occasioni per dare libero sfogo al suo malanimo e al suo risentimento. Al sopravvenire di qualche incidente, egli non esitava a porre a soqquadro tutta la gerarchia amministrativa, pur di farsi rendere quel ch’egli reputava giustizia. Egli non rifuggiva dal rivolgersi direttamente al prefetto del nomo menfitico, al re stesso, alla regina Cleopatra. Se l’esito della petizione si faceva troppo a lungo desiderare, Tolomeo tornava tenacemente alla carica. Compilava ripetute tracce per le sue suppliche, sollecitava, presso i gradi della gerarchia burocratica, il rispetto delle concessioni sovrane.

I ricorsi e le lamentele, le raccomandazioni e i messaggi, che Tolomeo, avido e guardingo, petulante e irascibile, spicca con così instancabile prolificità, contengono incisi e allusioni che offrono il destro alle più singolari supposizioni sul regime di vita menato dai reclusi del Serapeo. Nelle sue domande ufficiali egli fa costantemente seguire il proprio nome dalla formola rituale: «che si trova en catoché nel grande Serapeo di Menfi da tanti anni» o dall’altra: «uno di coloro che si trovano en catoché nel grande Serapeo di Menfi». Tolomeo non adopera mai il vocabolo cátochos, che pure designa chi si trova in catochè. Però, una volta, accennando a coloro che conducono una vita simile alla sua, fa ricorso a un termine analogo: oi álloi encátochoi. Nel 19° anno di Tolomeo Filometore, quando da dieci anni egli si trova rinchiuso nel suo ritiro, sembra insinuare che non è mai uscito dal pastoforion. Ripetutamente assevera di non poter abbandonare il tempio per discendere a Menfi e per andarsi ad occupare di persona dei suoi affari. Per due volte consegna al re, in visita al Serapeo, le sue suppliche, attraverso una finestrella: lo stesso fa con il governatore Posidonio. Attraverso questa finestra più d’una volta parecchi, che avevano dei conti da sistemare con Tolomeo, hanno lanciato delle pietre. E pure, nonostante le angherie, i soprusi e le traversie a cui si poteva andare incontro pur nel sacro recinto delle divinità menfitiche, la catoché non doveva sembrare un soggiorno decisamente gravoso, se Apollonio, il giovane fratello di Tolomeo, dopo aver bramato diuturnamente di esservi regolarmente introdotto, dava così crudamente sfogo al suo malumore per il ripudio definitivo, nel messaggio che costituisce probabilmente il testo più enigmatico e insieme più prezioso fra tutti i numeri dell’epistolario del cátochos di Menfi. Scrive Apollonio: «giuro per Serapide, che se io non avessi provato un po’ di vergogna, tu non avresti mai più veduto la mia faccia. Che in verità tutto è menzogna: anche gli dei alla cui ombra tu vivi. Perchè ci hanno sospinto in una densa boscaglia, dove possiamo pure morire. Ed ecco quando siamo in procinto di raggiungere la salvezza, proprio allora siamo sommersi. Sappi che il fuggitivo non permetterà che noi si rimanga qui, perchè, per colpa nostra, è stato multato con quindici talenti. Il governatore arriva al Serapeo domani e farà due giorni di digiuno nell’Anubeio. Non posso più presentarmi a Tricomia, per la vergogna, che noi stessi cademmo da tutte le nostre speranze, ingannati dagli dei e vanamente sperando nei sogni». L’accoramento di Apollonio appare dalla soprascritta ironica e malevola: «a quei tali che pretendono di conoscere la verità....».

Trattandosi di una lettera privata, non possono destar meraviglie gl’incisi oscuri, le allusioni velate, gli spunti misteriosi di questo sconcertante messaggio. La presenza di un linguaggio tecnico e misterioso, che tradisce un convenzionalismo esoterico di iniziati, rende più ardua la raffigurazione della forma di esistenza, su cui la corrispondenza di Tolomeo apre spiragli di luce così vaghi ed incerti.

Sta di fatto che i vocaboli derivati da catéchein, dal loro significato primigenio di impadronirsi e di tener beni in proprio possesso, erano già passati a designare, oltre che la custodia materiale nella prigione, la presa di possesso di un’anima umana da parte della divinità, sia attraverso l’ispirazione profetica, sia attraverso l’esaltazione dell’orgia dionisiaca. L’uso dei papiri egiziani rivelerebbe un’applicazione nuova del termine e indicherebbe precisamente la «prigione spirituale» nella quale dei vincolati da un voto trascorrerebbero la loro esistenza di asceti e di contemplati.

Il Reuvens, il Peyron, il Brunet de Presle l’avevano già pensato, prima che il Weingarten, pur attraverso deduzioni paradossali ed applicazioni arbitrarie, desse all’ipotesi la consistenza di una ricostruzione storica organica ed esauriente. Sfrondandola delle sue appendici leggermente avventate, essa può essere accolta con sufficiente fiducia. Nel recinto del Serapeo, i cátochoi costituivano effettivamente un’organizzazione ascetica. La loro clausura non era a vita: ma era rigida e perfettamente, sebbene solo materialmente, isolata. Stretti da un vincolo di fraternità, che non impediva i conflitti inevitabili dovunque sono gruppi associati, attendevano al ministero del culto e coltivavano le comunicazioni magiche con le divinità venerate nel recinto sacro.

Della loro forma di vita che può dirsi, senza grossa improprietà, cenobitica, non ci dan testimonianza soltanto i papiri di Menfi, bensì anche documenti letterari di incontestabile valore.

Uno degli oroscopi contenuti negli Apotelesmatica attribuiti a Manetone, ma in realtà appartenenti ad un’epoca non anteriore a Settimio Severo, e rispecchianti quasi sicuramente consuetudini religiose egiziane, spiega: «Quando Venere si trovi fra Saturno e Marte, e guardino la Luna e Mercurio a mo’ di tetragono, fanno nascere profeti e indovini, e quei che giacenti nei templi, vivono interpretando sogni: dei quali alcuni legati per sempre alle catochai degli dei, con vincolo indissolubili han vincolato il loro corpo; dalle vesti sordide, dai capelli sul capo simili a code di cavalli, rappresi ed impiastricciati con la cera; altri con asce ferrigne affilate da ambo i lati, pervasi da una divina follia, insanguinano il loro corpo».

E uno stoico, Cheremone, di cui Porfirio ha riprodotto la preziosa testimonianza, racconta che nei templi egiziani i sacerdoti vivono in una disciplinata clausura, attendono alla contemplazione religiosa, all’addestramento astrologico, allo studio dell’aritmetica e della geometria, allo spiegamento della liturgia e del canto sacro. La loro condotta è austera, il loro contegno esterno improntato a serietà. Parchi nel cibo, si astengono dalle bevande alcooliche e da alimenti ricercati. Il loro giaciglio è duro e le loro veglie prolungate.

Dinanzi ad una documentazione storica così ampia e così varia, appare veramente arrischiata la negazione della esistenza di genuine forme di ascesi organizzata nelle file dei sacerdozi egiziani. Di queste forme, quella costituita nel Serapeo di Menfi ci si offre, a distanza di secoli, mercè la grafomane suscettibilità di Tolomeo figlio di Glaukia, nelle sue manifestazioni esteriori salienti. Senza dubbio è andato troppo oltre il Weingarten quando, tutto preso dalla sua manìa di stabilire un parallelismo perfetto e circostanziato fra le organizzazioni cenobitiche cristiane del quarto secolo e la disciplina dei cátochoi, attribuisce a questi un ideale di perfezione etica e una pratica disciplinata ben superiori a quelli che l’epistolario di Tolomeo autorizza a supporre. Parlare di pietà, di apótaxis e di apátheia a proposito dei reclusi nel Serapeo è un’anacronistica deformazione del significato che questi vocaboli hanno tecnicamente acquistato nell’elaborazione concreta dell’ascetismo cristiano, ed è un troppo generoso credito aperto a vantaggio dei cátochoi, di cui appaiono ben apertamente i superstiti vincoli di interessi col mondo. Ma è altrettanto arbitrario disconoscere qualsiasi analogia fra le due manifestazioni nella identica tendenza, squisitamente umana, alla purificazione attraverso il sequestro dal mondo e il servizio liturgico della divinità. Sarà da studiare a suo tempo più tosto in virtù di quali caratteri e di quali tipiche connotazioni, l’ascetismo organizzato del cristianesimo post-costantiniano assume un posto ben individuato nello sviluppo della moralità associata.

Il giudaismo dell’epoca ellenistica conosce anch’esso, così in Palestina come nella Dispersione, forme costituite di esperienza ascetica, a cui si è fatto appello, come a modelli precostituiti del cenobitismo cristiano. Il più abbondante testimone della loro esistenza e delle loro pratiche è, lo si comprende, quell’interprete sottile e raffinato della tradizione storica del giudaismo, il quale, posto cronologicamente a cavallo fra l’economia religiosa del Vecchio Testamento e il messaggio del Nuovo, ha elaborato della prima interpretazioni allegoriche così elevate e ha offerto, inconsapevolmente, alla propagazione del secondo, motivi ideali così appropriati e così fecondi: Filone di Alessandria. La vita di questo esegeta mistico impareggiabile dell’insegnamento biblico ci è frammentariamente nota. Solo un episodio della sua carriera pubblica ci è da lui stesso narrato per disteso. Nel 40 d. Cr., già avanti negli anni, Filone veniva a Roma a capo di una missione giudaica, inviata dalla comunità alessandrina, per portare a Caligola la protesta degli israeliti del grande emporio egiziano, contro le ostilità implacabili delle autorità cittadine e della popolazione pagana. L’inviato ci racconta graficamente l’intervista con l’imperatore; le male accoglienze romane; il viaggio a Pozzuoli, per raggiungere colà, affrontando dileggi ed affronti, il crudele e lunatico sovrano.

Gli antichi scrittori cristiani hanno circondato la memoria di Filone di un alone di schietta ammirazione. San Girolamo nel de viris inlustribus lo colloca all’undicesimo posto dei personaggi insigni che egli menziona, facendo così a lui come a Seneca l’onore di inserirlo, sebbene non cristiano, fra le figure degne di essere ritenute illustri dalla grande comunità cristiana. Prima di Girolamo, Eusebio di Cesarea lo aveva menzionato nel secondo libro della sua storia ecclesiastica, dicendolo di famiglia elevata, vissuto ad Alessandria ai tempi di Claudio e di Caligola, versatissimo anche nella cultura extra-biblica, esperto in particolar modo nelle dottrine di Platone e di Pitagora. Veramente il vescovo palestinese intercala ai suoi ragguagli intorno a Filone particolari di appariscente natura leggendaria. Così egli racconta con molta serietà che egli sarebbe stato a Roma proprio nell’epoca nella quale vi fu anche l’apostolo Pietro: che anzi avrebbe avuto con lui rapporti amichevoli. Eusebio ha ad ogni modo la buona avvertenza di darci un catalogo, non completo e non sempre sicuro, ma ad ogni modo prezioso, degli scritti filoniani. Viene al primo posto la grande opera: «Problemi e soluzioni – Zètémata caí lúseis» nella quale l’esegeta alessandrino ha affrontato in pieno, nei suoi molteplici aspetti, la questione centrale della propaganda giudaica in territorio ellenistico: la conciliabilità cioè della tradizione mosaica con la coltura greca e con la speculazione profana. Segue una corona nutrita di trattati morali, nei quali Filone si propone di indagare e di illustrare, con grandi preoccupazioni di apologetica armonistica, gli aspetti sotto cui si presenta il problema vivo e quotidiano della coabitazione della esperienza religiosa d’Israele nel mondo della vita greco-romana.

Le dissertazioni filoniane non sono mai dettate con intenti aridamente speculativi e rigorosamente argomentativi. Della filosofia, cui egli del resto in alcuni passi delle sue opere mostra di attribuire un valore tutt’altro che assoluto, Filone si serve unicamente come di guida e di propedeutica alla religione. L’esegeta alessandrino non è un dialettico: è un maestro di morale ed un mistico, che dissolve la rigidezza delle tradizioni ricevute nella plastica applicazione del simbolo, preparando così il transito dalla vecchia economia della legge alla nuova ed ineffabile disciplina della salvezza carismatica. Filone è stato veramente il più efficace strumento di mediazione fra la spiritualità ebraica e l’intellettualità ellenica.

Si comprende come sotto l’assillo predominante dei suoi intenti morali; avido solo di mostrare ai rappresentanti della cultura profana quale meraviglioso retaggio di idealità morali conservasse nel proprio grembo la tradizione sacra di Israele; Filone non abbia tralasciato di segnalare una sola di quelle manifestazioni di vitalità etica, che potevano ridondare a gloria della sua razza e della sua fede. Tanto più scrupolosamente egli assolve questo compito di segnalazione e di celebrazione quanto più intensamente egli avverte che in ogni insigne pratica virtuosa è lo sfolgoramento di una eccezionale assistenza di Dio, e che quindi il popolo, nelle cui fila il bene raccoglie stuolo più copioso e più volonteroso di gregari, non può andare spoglio di una singolare investitura carismatica.

Filone è così tratto dalle stesse esigenze logiche della sua apologetica a manodurci nella conoscenza più circostanziata dei movimenti ascetici della società giudaica ai suoi tempi: essenismo e terapeutismo. Dell’essenismo ci parla nel Quod omnis probus, liber e in alcuni frammenti riportati da Eusebio nella sua Preparazione evangelica. Giuseppe Flavio e Plinio il vecchio attingono molto probabilmente da Filone i ragguagli che anch’essi registrano sulle consuetudini singolari dell’ascetismo essenico. Lo scrittore alessandrino si introduce, secondo il suo piano consueto, con una rapida disquisizione sulla vita virtuosa, ch’egli definisce irraggiungibile, finchè si vagoli nel tumulto del mondo.

«Di gente avida di gloria e di piacere è ricolma la terra e il mare: di saggi, di giusti, di buoni, esiguo è il numero, raro il genere». Ma immediatamente dopo s’indugia a rilevare, con compiacimento manifesto, che «la Siria e la Palestina non sono sterili di virtù, abitate da quel popolo quanto mai prolifico che è il giudaico». Gli Esseni sono appunto una delle espressioni tipiche della pietà giudaica. Essi abitano i villaggi, «lungi dalle città tumultuose, disgustati dalle colpe quotidiane dei cittadini, ben sapendo come da esse, quasi da turbine pestifero, si propaga il contagio di un morbo insanabile, che soffoca e uccide lo spirito». La descrizione della loro foggia di esistenza assume rapidamente il tono solenne e idilliaco del panegirico: «In mezzo ad essi non si incontrano schiavi. Tutti vivono, uguali e liberi, nella assistenza e nel servizio reciproci. Condannano recisamente ogni personale dominio, non solamente come ingiusto, in quanto violatore della comune uguaglianza, ma anche come irrimediabilmente empio, perchè sovvertitore delle naturali leggi. La parte della filosofia che involge i procedimenti dialettici, essi lasciano ai cacciatori di parole. Quella, fisica, che investe la natura, lasciano agli oziosi ricercatori delle cose. Ma coltivano quella che implica la conoscenza di Dio e del suo rapporto con l’universo. Studiano assiduamente l’etica. Il loro programma di vita è tutto in queste tre parole: amanti della virtù, di Dio, degli uomini. Nessuno di essi possiede una casa propria: ogni loro dimora è casa di tutti. Una filosofia completamente spoglia del vano lavorio per il possesso della cultura ellenica ha generato questi insigni atleti della virtù». Filone conclude osservando che a giudizio di tutti la vita in comune degli Esseni rappresenta un’immagine luminosa della vita perfetta e della beatitudine.

Per quanto animata da intenti visibilmente apologetici, per quanto tratta inconsapevolmente a trasformarsi in elogio, la descrizione filoniana non si rivela sostanzialmente difforme dai particolari che intorno all’essenismo ci offrono altri scrittori che, pur conoscendola, vi aggiungono ragguagli autonomi. Plinio, facendo una tetra pittura delle forme di esistenza della setta, lontana dagli uomini, schiva di ogni traffico, rinnovante continuamente le sue fila sotto lo stimolo della stanchezza e del disgusto del mondo, si mostra, da buon romano, particolarmente colpito dal fatto che gli esseni si astengano dal contrarre matrimonio. Giuseppe Flavio, più vicino ai luoghi dove l’essenismo spiegava la sua propaganda e realizzava in pieno la sua organizzazione, fa una pittura più circostanziata dei loro usi. Per entrare in un gruppo essenico occorreva superare un vero e proprio noviziato. L’iniziazione completa, seguendo ad un notevole periodo di tirocinio e di prova, era accompagnata dai gesti simbolici di un rito canonizzato, fra cui la consegna di una vanga, di un grembiule e di una veste bianca. L’iniziato doveva solennemente impegnarsi con giuramento a non comunicare nulla agli estranei della vita interna della comunità e in pari tempo a rivelare integralmente la propria coscienza ai fratelli.

Una certa atmosfera di segreto e di mistero avvolge la comunità essenica. Quale, ad esempio, l’etimologico significato del suo nome? Filone stabilisce un’equazione fra Essaíoi e ósioi, i santificati. Ma l’equivalenza ha tutto il sapore di una convenzione voluta. E quanto pure di convenzionale e di stilizzato non entra nella raffigurazione filoniana del comunismo essenico? «Una è la cassa – attesta lo scrittore alessandrino – e a tutti i partecipi della comunità, appartiene. Comuni sono le spese e le vesti; comune il nutrimento. Non sarebbe possibile rinvenire presso altre genti comunanza di abitazione, di vita, di mensa, meglio effettuata che presso di loro. Quanto ogni giorno lavorando ricevono in mercede, non custodiscono come denaro proprio, ma pongono in comune, lasciano a disposizione di chi voglia usarne, provvedendo tutto ciò che occorre ai singoli». La pratica dello scambievole aiuto, sempre secondo Filone, è così rigidamente osservata, che ciascuno nei gruppi essenici sovviene col guadagno del proprio lavoro giornaliero ai bisogni dei fratelli. Così i vecchi come i giovanetti vivono a carico della comunità. Filone come Giuseppe Flavio si profondono in parole di ammirazione per l’altruismo degli esseni, nella cui esistenza riscontrano la perfezione del senso umanitario.

Lo scrittore alessandrino annovera infine le regole concrete della loro vita associata, da cui appare esserne queste le caratteristiche. L’essenismo non conosce schiavi. Il lavoro è onere comune. Il giuramento è tassativamente e severamente vietato. «Tutto ciò che da essi è detto è più forte e valido dello stesso giuramento. E il giuramento è altrettanto malvagio che lo spergiuro: poichè è già intrinsecamente riprovevole quel che ha bisogno di essere corroborato da un appello alla divinità». Ogni unzione è proibita: in cambio gli esseni ricorrono di frequente ad abluzioni nell’acqua gelata, e indossano una candida divisa. I loro gesti e il loro comportamento sono vigilati da un pudore pieno di suscettibilità e di riguardi. Il celibato è di prammatica fra gli esseni. «Sfuggono, attesta Filone, i piaceri sensibili come malvagi e reputano altissima virtù il vivere continenti e il resistere alle passioni... Nessuno degli esseni contrae matrimonio, poichè la donna è un essere egoista e facilmente litigioso, l’uomo che è adescato dalle blandizie femminili ed è avvolto dalle esigenze familiari, da libero diviene schiavo». Si astengono scrupolosamente da ogni sacrifizio cruento, preferendo dedicare a Dio pensieri e atteggiamenti spirituali intimamente armonizzati con le cose sante. Prendono i pasti in comune. Se dobbiamo credere ad una testimonianza tardiva di san Girolamo, il quale potrebbe pure attribuire agli Esseni gli usi ascetici del suo tempo, si sarebbero astenuti dalle carni e dal vino. Un loro uso eccentrico tradirebbe il sincretismo della loro pratica religiosa. «Prima che il sole spunti all’orizzonte, attesta Filone, non pronunciano una sola parola profana e nell’aspettativa raccolta, recitano preghiere, quasi ad implorare il sorgere della sua luce». Cogliamo qui il manifestarsi improvviso di un influsso parsistico? Non è audace il pensarlo. Non è questo del resto l’unico tratto che rivela la natura sincretistica della religiosità e della disciplina dell’essenismo. Gli esseni cercano nelle piante rimedi misteriosi per le malattie. Infine suppongono una reale antitesi fra il corpo mortale e l’anima immortale e al primo assegnano la sede sulla terra, alla seconda in un luogo finale di tripudio o di pena a seconda dei personali meriti.

Un movimento come l’essenico, dai caratteri così variamente compositi, dalla fisionomia così evanescente e così tendenziosamente ritratta dai suoi testimoni storici, non si presta agevolmente ad una valutazione esatta. Quali sono i suoi presupposti, quali le sue interferenze col giudaismo dell’epoca neotestamentaria e con la coltura ellenistica, quali i suoi possibili collegamenti ideali con le correnti rigoristiche del cristianesimo primitivo? Una risposta unilaterale sarebbe, con probabilità, storicamente ingiustificabile. L’essenismo ha tutta l’aria di avere raccolto in sè le più disparate tendenze spirituali, che caratterizzavano la vita morale nel mondo ellenistico alla vigilia del messaggio cristiano e di averle amalgamate nel programma di una perfezione associata, la quale, pur sul solco della tradizione mosaica, instaura una purezza di prescrizioni e una larghezza di proselitismo, in cui non sarà arbitrario scoprire un segno precursore delle future forme dell’ascetismo cristiano.

Di molto maggiore interesse per la nostra analisi comparativa appare la organizzazione dei terapeuti, che Filone descrive ampiamente in uno speciale suo scritto, de vita contemplativa , e che tradisce i caratteri di una vera e propria società monacale. La rassomiglianza fra i due istituti è così palmare, che fin dai suoi tempi Eusebio vi ha preso abbaglio e si è dato ad immaginare che Filone parli precisamente di monaci cristiani. «Si tramanda – egli assevera – che Marco, giunto in Egitto, vi predicò il Vangelo, ch’egli aveva già dettato, e fondò in Alessandria le prime comunità; fin dal primo momento fu così densa la moltitudine di uomini e di donne che abbracciarono la fede di Cristo, che Filone ritenne opportuno ricordare nei suoi scritti le loro occupazioni, le loro adunanze, i loro banchetti, tutto il genere di vita che essi menavano». Eusebio rileva che le regole di condotta, segnalate da Filone come disciplinanti la vita dei terapeuti, son le stesse osservate dagli asceti cristiani ai suoi tempi. L’abbaglio eusebiano ebbe lusinghiera fortuna. Il buon Epifanio di Salamina, sulle orme di un così autorevole testimone, non esitò ad affermare nel suo Panárion che Filone dimorò per un anno intiero presso i terapeuti cristiani, assistendo, in mezzo ad essi, alla celebrazione del rito pasquale. Il medioevo ecclesiastico ripetè, senza ombra di contestazione, l’anacronistico equivoco, finchè la Riforma, preoccupata di dimostrare che l’ascetismo è fenomeno estraneo e contrastante alla primitiva predicazione cristiana, lo abbattè in pieno. Non mancarono i tardivi rivendicatori della esattezza eusebiana. Il Baronio stesso, parlando dei terapeuti, confessava ancora candidamente di non poter ripudiare la testimonianza patristica che scorge in essi una comunità cristiana.

In realtà l’affinità che corre fra la organizzazione ascetica descritta da Filone nel suo trattato intorno alla vita contemplativa e le forme dell’ascetismo cristiano organizzato del quarto secolo è così appariscente, che si comprende l’abbaglio di uno storico apologeta come Eusebio, come si comprende, in una certa misura, al polo opposto, l’ipotesi lanciata da qualche studioso moderno, colpito da questa che può apparire come una voluta ed intenzionale anticipazione.

Nel 1880 il Lucius negava la paternità filoniana del de vita contemplativa. Egli proponeva più tosto di scorgervi un’opera tendenziosa di uno scrittore cristiano del terzo secolo cadente o del quarto incipiente, bramoso di intessere l’apologia dell’ascetismo quale andava rigogliosamente affermandosi intorno a lui e di mostrare che esso era una manifestazione di vita cristiana contemporanea delle origini. Sebbene la tesi del Lucius raccogliesse in sul principio suffragi di molta autorevolezza, essa non era tale da poter resistere all’analisi critica. L’opera contestata figura in tutti i codici filoniani. La sua propagazione dovè essere rapida e insospettata, se Eusebio, scrivendo nel 315, la giudicava autentica. Non si vede, inoltre, quale bisogno vi fosse, agli inizi del quarto secolo, di una falsificazione letteraria per aumentare il credito e la dignità di un movimento che si propagava con un successo ed una rapidità inarrestabili. Solo le elevate autorità ecclesiastiche sembravano nutrire di fronte ad esso qualche ostilità e qualche diffidenza. Non era di certo ai loro occhi che sarebbe potuta apparire persuasiva e disarmante la testimonianza di Filone.

Ma anche a prescindere dalla mole imponente degli argomenti estrinseci, è nel contenuto stesso del trattato sulla vita contemplativa la prova apodittica della sua paternità filoniana. Gli ideali che vi circolano per entro sono quegli stessi che lo scrittore alessandrino celebra in tutte le sue opere e di cui si studia, sempre, di scoprire e di segnalare le realizzazioni più tipiche. Anche senza il de vita contemplativa la produzione filoniana offre argomenti sicuri ed indizi eloquenti per constatare come le aspirazioni ascetiche costituiscono nei primi secoli cristiani un tratto comune a tutta la cultura morale del mondo ellenistico, e sgorgano dal bisogno di creare, di contro all’opprimente gerarchia dei valori sociali e politici, un fascio di liberi rapporti mistici e una impalpabile federazione di coscienze, dominate dal programma della gioia nella rinuncia.

Probabilmente il de vita contemplativa si deve riportare alla giovinezza di Filone, quando in questi era più vivo e desto quell’entusiasmo per la pratica del solitario ascetismo, che più tardi doveva andare affievolendosi. Il motivo centrale su cui Filone intesse la sua esaltazione dell’associazione terapeutica è il suo consueto: il popolo ebraico personifica nel mondo civile quel che v’è di più alto e di più nobile. Le manifestazioni più varie della sua pietà religiosa sono costantemente improntate ad una altissima concezione di Dio e della moralità. La religiosità, a norma dei presupposti consegnati alla tradizione di Israele, implica il proposito di una ininterrotta ascensione psichica, un incessante superamento, un continuo rinnovamento interiore, una genuina, una rinascente metánoia. Il passaggio del Mar Rosso pertanto è il simbolo grafico del progresso quotidiano dell’anima. Tale progresso deve automaticamente far capo alla solitudine e al distacco. «Quanti sono asceti della sapienza, greci o barbari, e vivono in maniera irreprensibile, senza colpa, non bramosi di perpetrare ingiustizie nè di ricambiarle, e sfuggono la compagnia onerosa degli uomini affacendati ed abbandonano i luoghi dove si perde inutilmente il tempo, come i mercati, i tribunali, le curie, le adunanze del popolo, i luoghi tutti dove sia moltitudine di popolo o vanità di occupazioni, costoro, altamente apprezzando la vita pacifica e lontana dai conflitti, divenuti amatori meravigliosi della natura e di tutto ciò che è in essa, vanno avidamente indagando la terra, il mare, l’aria, il cielo, tutte le nature contenute in questi elementi. Essi van circolando col loro spirito nella traiettoria della luna, del sole, degli astri, dei pianeti, delle stelle fisse. I loro corpi poggiano sulla terra, ma le loro anime alate raggiungono l’empireo, per poter misurare colassù le potenze superiori. Divenuti benemeriti cittadini dell’universo, essi riguardano il mondo intiero come una città, e propri concittadini gli amanti tutti della saggezza e della virtù. Ripieni di virtù ed abituati a disprezzare tutto ciò che concerne il corpo e le cose esteriori, evitando di attribuire importanza a tutto ciò che non la merita, agguerrendo assiduamente il corpo contro i piaceri e le concupiscenze, cercano faticosamente di sollevarsi al di sopra delle sofferenze. La loro intelligenza nessuna cosa reputa nuova di quelle che accadono: tutto ad essi appare come una indistinta immagine di cose antiche e passate. Naturalmente ilari nella loro virtù, trascorrono la vita come una permanente festa. Di cotali esiguo è il numero, ma bastano a mantenere accesa la fiaccola della sapienza, affinchè di mezzo alla razza degli uomini non scompaia, cancellata e spenta, la virtù».

Precorrendo motivi destinati a un vasto successo nello sviluppo dell’apologetica e della sociologia cristiana, Filone distingue nettamente la zona della vita civica e politica, dalla vita religiosa e specificamente spirituale; e di rimbalzo scinde il genere umano in due categorie, gli amanti della vanità e quelli che cercano l’amore del prossimo e di Dio. Mostrando questi ultimi costantemente sollecitati dalla speranza inquieta di una più alta perfezione, segnala la assidua preoccupazione loro di affrancarsi e di purificarsi dall’insidiosa contaminazione del corpo, in vista di un’ascensione spirituale che si perde nei fastigi dell’Assoluto.

Veramente non pare che Filone si mantenesse sempre fedele al sogno giovanile della sua idealizzata solitudine ascetica. Nel de fuga et inventione, opera della sua tarda virilità, egli riconosce che solamente tardi, quando si sia esplicata una notevole attività pubblica, si può cedere all’occulto desiderio della vita beata nella contemplazione. E sintetizza le qualità dell’uomo ideale, come egli se lo raffigura, nell’appellativo di asteíos, che, dall’originario valore di cittadino, era assurto a designare le più alte doti spirituali. «L’essere immune da colpa – osserva con una di quelle sentenze vaghe e suscettibili di complesso significato che riempiono i suoi scritti – è solo Dio e forse l’uomo divino: ma che ci si converta dalla colpa è degno del sapiente». Del quale Filone stesso fa una una pittura completa nel De Abraham: «L’uomo compiutamente educato, divenuto amante della vita contemplativa, esce dalla vita normale. Egli va in cerca della solitudine, reputando conveniente rimaner celato, non già per misantropia, che anzi egli è il vero filantropo, ma unicamente per restare lontano da quelle malvagità che la moltitudine generalmente pratica. Egli si rallegra e gioisce di quelle cose che negli altri ingenerano tristezza e si rattrista di quelle che gli altri rallegrano. Per evitare gli ambigui contatti, sta chiuso in casa, a stento oltrepassandone la soglia: oppure, abbandonata la città e il suo tumulto, chiede ospizio alla solitudine, godendo della comunanza con i migliori del genere umano, i corpi dei quali poterono essere disfatti dal tempo, ma di cui gli scrittori alimentano il ricordo, e avvicinandosi ai quali l’uomo si fa migliore».

I terapeuti si sono offerti a Filone come l’attuazione stupenda del suo ideale etico e religioso. La descrizione che egli ci fa della loro forma di esistenza non è esauriente. Dopo aver accennato alla loro uscita dal mondo e dopo aver descritto il luogo del loro rifugio presso lo stagno della Mareotide, nelle vicinanze di Alessandria, egli, premessa una dichiarazione di assoluta ed oggettiva imparzialità, espone gli usi che disciplinano l’esistenza associata di questi transfughi del mondo. Isolati dal consorzio umano, essi vivono in piccole casette, a due a due, avendo un cenacolo comune per il raccoglimento e la lettura. Una volta alla settimana convengono insieme e nella solennità della Pentecoste si raccolgono insieme, terapeuti e terapeutidi, per leggere testi sacri e sciogliere insieme canti religiosi. «La vocazione caratteristica di tali filosofi è spiegata dalla loro stessa denominazione – terapeuti e terapeutidi – poichè praticano una virtù medica superiore a quella praticata nelle città, in quanto questa cura solamente i corpi, quella invece anche le anime possedute dalle malattie crudeli e difficilmente guaribili, in cui le gettarono i piaceri, le concupiscenze, le tristezze, i timori, l’avidità, la stoltezza, le ingiustizie e la moltitudine sterminata di tutti gli altri mali e di tutte le sofferenze. O anche perchè dalle sante leggi e dalla natura furono chiamati ad adorare l’ente che è migliore del bene, più schietto dell’uomo, più antico della stessa unità».

L’allusione al culto monoteistico dei terapeuti, induce naturalmente Filone, senz’altro, a diffondersi in celebrare l’adorazione del Dio unico, contrapponendola alle forme religiose dell’idolatria, che egli definisce come cieco e stolto ossequio agli stoicheía (elementi) del mondo.

«La classe dei terapeuti, già addestrata alla contemplazione di Dio, non si allontanerà dalla meditazione dell’Essere e cercherà di superare il sole sensibile e mai tralascerà questo eccelso esercizio, che conduce alla felicità perfetta. Essi non sono giunti alla loro perfezione religiosa sotto lo stimolo di una consuetudine, di una esteriore esortazione o di una estranea chiamata: ma rapiti dall’amore celeste, come in preda ad un furore bacchico, vivono in un entusiasmo che non si placa se non quando abbiano raggiunto la visione dell’essere cui aspirano... Quasi reputando chiuso il ciclo della loro vita mortale, tutti dominati dalla brama della vita immortale e beata, lasciano quel che posseggono ai figli, alle mogli, ai parenti, prescegliendoli liberamente. Quei che non hanno parenti cedono le sostanze a compagni ed amici. Poichè è ben ragionevole che coloro i quali posseggono una ricchezza eterna abbandonino la ricchezza cieca a quelli che hanno ancora l’intelligenza aderente alle cose del mondo. I greci lodano Anassagora e Democrito, perchè, presi dall’amore della filosofia, abbandonarono i loro poderi alle bestie vaganti. Non si può revocare in dubbio che costoro si mostrarono superiori ai beni terreni. Ma di quanto superiori non dovranno essere giudicati coloro che non vollero mandare in assoluta malora gli averi, ma sovvennero alla povertà dei parenti e degli amici, e loro procurarono un insperato benessere?»

Con questa premessa apologetica Filone si introduce nella descrizione della quotidiana vita dei terapeuti. «Quando essi abbiano abbandonato i loro beni, fuggono senza più rivolgersi indietro abbandonando coraggiosamente i fratelli, i figli, le mogli, i genitori, la parentela, le amicizie, la patria che li vide nascere e li allevò. Poichè la tradizione è una catena durissima e lo spezzarla è fatica asprissima».

L’aforisma filoniano esprime un principio morale caro alla spiritualità ellenistica. Giamblico ammonirà: «quando tu abbandoni la tua casa, non ti volgere mai indietro, perchè hai le Erinni alle calcagna». E Clemente, anche lui, accoglie il monito: «fuggiamo la tradizione, perchè è un vincolo che tiene rigidamente stretto l’uomo e costituisce per lui un tranello, un laccio».

I terapeuti che hanno rinunziato ai loro beni non vanno ramingando di città in città come i servi malvagi o disgraziati che implorano la vendita da coloro che li hanno acquistati, ottenendo così soltanto di cambiare padrone: mai conseguendo la libertà. «Ogni città, osserva Filone, anche la meglio governata, offre il più miserando spettacolo di sommosse, di rovine, di disordini, di modo che colui il quale sia stato preso una volta dall’amore della sapienza, non può rimanervi».

Con una mossa retorica perfettamente comprensibile Filone amplifica la diffusione della vita terapeutica. «Si trovano gruppi di questo tipo in molte parti dell’universo, poichè era conveniente che partecipassero a questa foggia di esistenza barbari e greci; ma sopra ogni altro luogo fioriscono in Egitto e precisamente nelle vicinanze di Alessandria». Di questi terapeuti alessandrini, quelli che egli doveva conoscere di persona, Filone descrive la residenza e le occupazioni. Le piccole case dove essi vivono hanno ciascuna un minuscolo sacello (semneíon), nel quale i solitari compiono i misteri. «È così vivo in essi il sentimento del divino che anche nel sogno hanno la visione della bellezza e della potenza di Dio. Due volte al giorno essi sono soliti pregare: all’alba e alla sera. Al sorgere del sole per chiedere una felice giornata, per impetrare che il loro intelletto sia illuminato dall’alto: al tramonto, affinchè l’anima del tutto sgombra dal tumulto delle esperienze sensibili si raccolga nel proprio riposto sinedrio, nel segreto della impenetrabile coscienza, e segua le orme della verità. L’intervallo dalla mattina alla sera è per essi una ininterrotta ascesi. Attingendo dalle Sacre Scritture, esplorano la legislazione dei padri, seguendo i metodi della ermeneutica allegoristica».

Così, nella dissertazione apologetica di Filone, il vocabolo áscèsis guadagna una connotazione nuova e una sfumatura originale. Per Musonio e, in genere, per tutta la scuola stoica, esso indicava l’addestramento oculato e paziente, mediante il quale l’uomo si dispone al laborioso tirocinio della lotta interiore, al dominio faticoso delle proprie passioni inferiori, al conseguimento della serena e impassibile vita spirituale. Nel de vita contemplativa viene ad implicare anche la lettura di testi sacri e l’indagine delle proprie tradizioni religiose.

Secondo la descrizione di Filone, i terapeuti trascorrono sei giorni nelle loro solinghe ed esigue dimore, non oltrepassandone la soglia, non scorgendosi neppure di lontano. Il settimo giorno si trovano raccolti insieme nella comune adunanza, dove seggono in ordine di anzianità, in atteggiamento composto e meditabondo, tenendo le mani nascoste fra le vesti, la destra fra la barba e il petto, la sinistra lungo il fianco. Quando tutti sono presenti, il decano e il più dotto nelle cose sacre, si fa avanti a spiegare la Scrittura, dignitoso nello sguardo, con voce piana, con riflessione e intelletto, non già sfoggiando ricercatezza dialettica come i retori e i sofisti, ma tentando di penetrare nel valore profondo dei concetti, trascurando quel che appare alla superficie, per toccare quello che, attraverso l’udito, scende nell’anima e vi rimane ben saldo. Gli altri ascoltano in silenzio, esprimendo il loro intimo compiacimento col moto degli occhi.

Avendo segnalato la separazione dei due recinti, quello destinato agli uomini e quello riservato alle donne, Filone descrive la celebrazione della Pentecoste qual’è praticata dai terapeuti: «Essi si riuniscono dopo sette settimane, poichè venerano non solamente la settimana, bensì anche la sua potenza. È infatti nel giorno precedente la grande festa che cade appunto il cinquantesimo giorno, il più santo dei numeri, perchè nasce dal quadrato del triangolo rettangolo, che è il principio della generazione di tutte le cose. Quando si siano radunati tutti recinti di candide vesti, sereni nell’aspetto, pieni di dignità e di compostezza, al cenno di uno degli efemereuti – così sogliono appellare coloro che sono destinati al compito, – prima di assidersi, ritti in piedi, con lo sguardo e le mani levati al cielo, quello perchè abituato a riguardare nel fulgore della dignità divina, le altre perchè pure e monde da qualsiasi contaminazione di appropriazione, pregano Dio, perchè vi sia la letizia e il convito si svolga secondo il desiderio». Narra poi Filone lo svolgimento del banchetto, durante il quale si leggono i testi sacri e si spiegano allegoricamente. Ai terapeuti la scrittura appare come un organismo vivo, in cui la parola simboleggia il corpo, il significato, lo spirito. Infine vien intonato un inno religioso prima dagli uomini, poi dalle donne. Segue un coro in comune. Conchiuso il canto, i giovani della comunità recano il tavolo su cui è imbandito l’alimento santissimo, un pane fermentato con sale e issopo. Consumato il quale si riprendono i canti, i quali si protraggono per tutta la notte.

E Filone conclude: «Ebbri dunque di questa santa ebbrezza, non col capo appesantito ed ubriachi, ma più vigili e desti di quando si recarono al banchetto, con gli occhi e tutto il corpo vòlti al sole nascente, alzano le mani al cielo, e, quando lo abbiano scorto spuntare, implorano una serena giornata, la verità e la riflessione. Dopo la preghiera solenne ciascuno torna al proprio semneíon e riprende la consueta foggia di esistenza. Tutto ciò è stato esposto a proposito dei terapeuti, i quali trascorrono la loro esistenza nella contemplazione della natura e che vivono in questa, con le sole potenze dell’anima, cittadini del cielo e del mondo, che posseggono l’intimo contatto col Padre a causa della loro pratica virtuosa, la quale ha procacciato ad essi tale amicizia e ha assicurato una vecchiaia amante del vivere probo ed onesto, superiore ad ogni fortuna, unica capace di condurre all’apice della beatitudine».

Se noi sfrondiamo la pittura filoniana degli ornamenti pittorici che la sua preoccupazione apologetica gli ha suggerito; se riduciamo alle ragionevoli proporzioni storiche la sua testimonianza, liberandola dalle amplificazioni sgorgate dall’intento proselitistico; noi abbiamo ancora tanto per pensare legittimamente che in pieno secolo neotestamentario, alle porte di Alessandria, una comunità giudaico-sincretistica attuava quel programma della rinuncia al mondo e dell’isolamento nella contemplazione, che tre secoli più tardi, avvivato da una particolare fede soteriologica, costituirà l’espressione più alta della esperienza cristiana.

Tale programma del resto, agli albori dell’era nostra, costituiva l’ideale caro alle più elevate e affinate scuole filosofiche. Lo stoicismo, nei frammenti di Musonio, nelle principali lettere di Seneca, nel Manuale e nelle Dissertazioni di Epitteto, nelle Considerazioni di Marco Aurelio ha toccato le vette della più alta idealità morale. Esso colloca l’apice della felicità (eudaimonía) in un rinnegamento spietato del piacere sensibile e del soddisfacimento materiale, in uno spiegamento totale della virtù raffrenatrice e disciplinatrice della ragione. Avendo distinto nell’uomo, oltre i cinque sensi, altri tre elementi, la capacità seminativa (lo spermaticón) quella orale (il fònèticón), quella inibitrice (l’ègemonicón), gli stoici asseverano che mediante l’esercizio di questa ultima, l’uomo, abnegando il fascino della vita sensibile, concentrando lo spirito nella sua vita intima, assurge al possesso del divino. Simile esercizio non implica necessariamente l’isolamento dal mondo. Ammonisce Marco Aurelio: «Molti cercano ansiosamente l’allontanamento dal mondo, la vita del mare, dei campi, dei monti. Una volta la bramavi ardentemente anche tu. E pure nulla si potrebbe immaginare di più stolto. Tu potrai, in qualunque ora, ritirarti nel tuo spirito. In nessun luogo l’uomo può godere tale pace e serenità, quali troverà nell’animo proprio, specialmente quando si possegga nello spirito tale ricchezza, da poter rimanere pienamente e beatamente appagati affacciandosi ad esso. Per beatitudine voglio intendere l’ordine delle proprie facoltà. Cerca dunque in te stesso, costantemente, il vero allontanamento dal mondo e rinnovati». L’uomo dunque, a norma della pedagogia stoica, deve portare al massimo spiegamento di sè quella che è la caratteristica specifica dell’individuo consapevole, la ratio, l’ègemonicón. Epitteto sentenzia: «non compiere mai alcuna azione come un animale irragionevole. Altrimenti tu avrai distrutto la tua natura di creatura umana e avrai annullato il programma inalienabile della tua costituzione spirituale». E per differenziarsi dalle bestie, l’uomo non ha che un mezzo: spezzare ogni vincolo materiale, e, vivendo nel foro raccolto della propria coscienza, mirare a redimere sè stesso. «Rivendica te a te» – questa la consegna di Seneca all’amico Lucilio. Lo stesso criterio morale ritorna insistentemente nelle meditazioni di Marco Aurelio. L’uomo, secondo l’imperatore filosofo, non deve preoccuparsi delle cose esteriori. Egli è come il sacerdote e il cooperatore degli dei: vivendo assiduamente la vita dello spirito, sarà libero dai piaceri, invulnerabile di fronte ad ogni fatica, intatto da ogni violenza, insensibile ad ogni malvagità, operatore solo di quel che è buono: tale insomma da non essere colpito dalla sofferenza. Per esplicare la sua facoltà raziocinatrice l’uomo deve cominciare con il valutare convenientemente le cose che sono in suo potere (eph’èmín) da quelle che non lo sono (ouc eph’èmín).

Questa distinzione è in capo al Manuale di Epitteto: «Le cose in nostro potere sono il giudizio, l’istinto, la brama, l’avversione, in una parola tutto ciò che sgorga e si sviluppa su dal nostro organismo. Non sono invece in nostro potere l’istinto bestiale, la ricchezza, le opinioni, il comando, in una parola, tutto quello che non si sviluppa dal nostro organismo. Le cose che sono in nostro potere sono per natura libere, non impedite: le altre sono deboli, schiave, impedite, straniere. Ricordati che se riterrai libere le cose che sono schiave per natura, e straniere le cose che ti appartengono, sarai tu stesso schiavo, triste, turbato e biasimerai gli dei e gli uomini». Dal punto di vista dell’etica strettamente individuale, una precettistica così alta e così pura può apparire degna di figurare di fianco alle migliori regole dell’etica evangelica. Ma la rassomiglianza è puramente esteriore. Mentre lo stoicismo invita e sollecita l’uomo ad affrancarsi da tutti gli impaccianti vincoli del mondo sensibile nella limpida e inaccessibile ataraxía dello spirito, il cristianesimo, nell’atto stesso in cui predica i medesimi ideali di rinuncia, gli addita un miraggio altissimo, che si realizzerà al di sopra e indipendentemente da lui: il Regno di Dio.

Del resto le rassomiglianze e i parallelismi esteriori si spingono anche più in là. Negli scrittori stoici ricorre di frequente l’immagine della vita raffigurata come un pellegrinaggio: «come può accadere nella navigazione, osserva Epitteto, che ormeggiandosi la nave nel porto tu venga a terra per cercare acqua e ti arresti a raccogliere una conchiglia o un pesciolino, pure avendo sempre l’intenzione rivolta alla nave, nell’attesa che il pilota ti chiami: che se ti chiama, ti convien lasciare ogni cosa, – così anche nella vita, se invece di una conchiglia o di un pesciolino ti accada di aver moglie o figli, per nulla mai ti trattengano. Quando il pilota chiama, corri alla nave, lasciando ogni cosa alle tue spalle, mai volgendoti indietro. Se poi sei vecchio, guarda bene a non allontanarti troppo dalla nave, affinchè se il pilota ti cerca e non ti trova, ti debba lasciare a terra».

Ma questa morale della rinuncia e dell’autorinnegamento predicata dallo stoicismo, tradisce essa mai presupposti e canoni di vera ispirazione religiosa, sì da poter essere non arbitrariamente avvicinata ai criteri e ai postulati della morale evangelica e dell’ascetismo cristiano? Una negazione recisa e indiscriminata a questa domanda sarebbe frettolosa e ingiustificata. Se l’ispirazione e il contenuto religioso appaiono scarsi e lacunosi in Seneca, sono invece profondi e vivi in Epitteto. Questi concepisce la sua missione di filosofo come una mansione religiosa, come una testimonianza, prestata in nome della divinità. Un brano della sua dissertazione, che racchiude un parallelismo sorprendente alla concezione evangelica della marturía religiosa, è, al riguardo, di un’eloquenza decisiva: «Come dunque ti presenti ora?, dice Giove al filosofo. Come un testimonio citato da Dio. Vieni avanti ed enuncia la tua deposizione. Tu meriti di essere ritenuto testimone da me... Ma quale testimonianza offri tu al tuo Dio? Ecco – replica il filosofo: – per lui sono nelle pene e sono infelice. Nessuno mi guarda, nessuno mi aiuta, tutti mi bistrattano e mi biasimano. Ebbene, conclude Giove, ecco la testimonianza che deponi al cospetto di Dio. Vuoi lamentarti tu della chiamata, dopo che egli ti concesse questo onore e ti ritenne degno di presentarti per deporre così?» Nella terza dissertazione il filosofo esprime il suo intimo compiacimento per il compito aspro e arduo affidatogli: «Quale gioia il poter dire a sè stesso: quel che i retori stanno a parole esaltando nelle scuole, io lo realizzo. Sedendo in cattedra, essi elogiano le virtù che io pratico e che mi esaltano. Perciò Giove volle trarre da me una prova e vedere se avesse in me un soldato e un cittadino quale si conviene, ed inviare me come testimone al cospetto degli uomini, intorno ai fini che essi debbono raggiungere. Voi potete constatare che senza fondamento temete e inutilmente cercate le cose dietro cui correte. Non cercate più il bene al di fuori di voi: chè altrimenti, non lo troverete. Per testimoniare intorno a queste verità Dio mi ha qui mandato. Eccomi, esposto al pubblico, povero, senza potere, malato. Mi manda nell’isola di Giava, mi spinge in prigione non perchè mi odii – non sia mai – (chi può odiare il migliore dei propri servi?) – nè perchè si sia dimenticato di me, egli che non trascura alcuno dei più esili esseri, ma per esercitarmi e per adoperarmi quale testimone efficace al cospetto della moltitudine». Nella dissertazione successiva Epitteto torna sul medesimo concetto: «Quegli è genuinamente il filosofo cinico che è stato ritenuto degno da Giove, atto ad impugnare lo scettro, a cingere il diadema, il quale grida agli uomini: Sappiate, o uomini, che cercate la felicità e l’impassibilità dove esse non si trovano, come io sia stato mandato a voi dalla divinità come un modello. Sono senza potere, senza sostanze, senza casa, senza moglie, senza figli. Non ho nè pure un giaciglio; nè pure un indumento di ricambio. E pure guardate come sto bene. Mettetemi orsù, a prova. Mi troverete impassibile. Apprendete quali sono le medicine con le quali mi curo. Farvele conoscere è nobile indizio di filantropia. Ma sappiate bene di chi è opera la guarigione: di Giove, a vantaggio di colui ch’egli ha stimato degno di prestare tale servizio, affinchè lo riveli a molti e la cura non renda vana».

La morale stoica, tutta saturata del concetto che la virtù è nel rinnegamento e il bene nella rinuncia, si rivela così ispirata dal presupposto che l’abnegazione nelle opere è una squisita testimonianza offerta al divino. Le regole concrete della vita ascetica organizzata del quarto secolo son già potenzialmente in questa precettistica dura ed esigente, che impone il distacco dal mondo e la gioia della impassibilità. La vita intima e raccolta dello spirito è additata dallo stoicismo come la base prima di ogni perfezione etica; la contemplazione della morte è da esso proclamata come il preliminare di ogni ascensione spirituale; la stessa vita continente e celibataria è celebrata come il fastigio delle capacità psichiche dell’uomo.

Il neoplatonismo non è da meno dello stoicismo nella rivendicazione di tutti i valori della virtù privata e nella celebrazione dell’allenamento interiore, mezzo e propedeutica alla felicità e alla perfezione dello spirito. Non tutti i rappresentanti noti di questa scuola, nella quale la moralità extracristiana sembrò mandare i supremi suoi bagliori, tradiscono tendenze ascetiche ugualmente pronunciate. Plotino colloca anche l’amore sensibile, l’éròs fra i coefficienti capaci di manodurre al conseguimento della theòría, che non è pura e astratta virtù di contemplazione, ma anche energia fattiva e creatrice. Nelle Enneadi (I. 31) egli afferma una volta che l’amante il quale tende ad ascendere dalla bellezza sensibile a quella increata, si trova già sulla scala che conduce alla perfezione. Qualcosa di altero e di sprezzante è nella sua pietà e nel suo senso religioso. Ma se in Plotino la pedagogia dell’ascetismo non viene enucleata in tutti i suoi canoni e in tutte le sue possibili applicazioni, i suoi presupposti antropologici sono fissati in una foggia così stringata e così perentoria, che non può essere trascurata da chi vada in cerca di parallelismi al grande movimento dell’ascesi organizzata cristiana. La concezione plotinica dell’uomo è nettamente dualistica. Tra la carne e lo spirito è lotta eterna ed implacabile. L’anima è prigioniera nella materia e solo la contemplazione pura e intellettuale può innalzarla al possesso del divino. Nella prima Enneade (VI. 9) Plotino spiega come, per compiere l’opera della integrale purificazione, l’uomo deve porsi al cospetto della propria anima come l’artista si pone al cospetto della propria opera. «Rientra in te stesso e contemplati. Qualora tu non ti riconosca bello ed ornato, fa quel che fa lo scultore dinanzi alla statua: qualcosa toglie, qualcosa aggiunge, e ne rende la superficie polita e levigata, finchè non abbia raffigurato un simulacro di perfetta bellezza. Similmente tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è sinuoso, trasforma, mercè il tuo assiduo lavoro, le tenebre in luce, e non tralasciare di battere ostinatamente sulla tua statua, finchè tu non scorga in essa la pompa divina della virtù e non vi riconosca la temperanza assisa su un trono di purezza». Analogamente allo stoicismo, il neoplatonismo inculca la purificazione individuale, mercè il soffocamento delle passioni, il dominio del proprio corpo, lo allontanamento dal mondo dei sensi e degli interessi umani, la progressiva ascensione nella assoluta impassibilità. «Non è possibile, continua Plotino, vivere felicemente nella vita pubblica. Già Platone ha sostenuto giustamente che il bene lo si può ricevere solamente dall’alto. In alto deve dunque riguardare chiunque brama di diventare saggio e felice, rendendosi simile a Dio e vivendo a sua norma. Questo l’unico fine della vita. Tutto il rimanente è una rete di fini esteriori, dai quali non può derivare alcun vantaggio alla vita felice dello spirito. Occorre dunque tenervi lo sguardo come su eventi passeggeri, poveri di significato, di importanza e di efficacia». Agli occhi di Plotino il corpo appare come una lira. Occorre pertanto adoperarlo, come il musicista usa il suo strumento, «cambiandolo quando è divenuto inservibile, gettandolo via, quando ha perduto la sua virtù. L’ideale dello spirito è quello di sciogliere l’inno a Dio, senza far ricorso ad organi esteriori».

Agli inizi delle Enneadi, Plotino si chiede come sia mai accaduto che le anime si siano dimenticate del Padre e abbiano perduto di vista la loro sorte che nasce di là, e abbiano finito con l’ignorare il Padre e la loro origine. E risponde riconoscendo come prima causa del male la iattanza, e poi l’oscuro perturbamento provocato dall’istinto sessuale, infine l’eterogeneità delle nature e dei fini, la volontà di essere qualcosa per conto proprio. La rovina delle anime fu segnata nell’istante in cui esse pretesero di agire per istinto autonomo ed abusarono della loro capacità di semovenza, traendosi per vie antitetiche a quelle della verità. «Le anime apostatiche si costituirono così simili a fanciulli che, allontanati dai padri e cresciuti per molto tempo lungi da loro, li hanno dimenticati e hanno smarrito la giusta consapevolezza di sè». «Avendo perduto di vista il loro padre, avendo miseramente smarrito la nozione di sè, quasi sorprese e tratte in inganno dalla propria bellezza, si allontanarono dal loro tipo iniziale. Il culto delle cose esteriori, il disprezzo inconsapevole di sè, generarono la dimenticanza. Mettendosi ad inseguire altre finalità, facendosi colpire da meraviglia dinanzi al fantasma del mondo esteriore; quasi atteggiandosi ad inferiori, di fronte ad esso che nasce e muore, ritenendosi anzi più fragile e peritura di tutti; l’anima ha abbandonato la cognizione della potenza e della natura divine». La purificazione (cátharsis) s’impone a chi voglia riguadagnare la dignità offuscata dell’anima. E la purificazione è alla fine una lotta assidua contro il fascino delle apparenze caduche che hanno trascinato l’anima alla sua perdizione e alla sua funesta dissipazione.

La vita ed il pensiero di Plotino hanno trovato in Porfirio l’illustratore sagace e fedele, l’interprete sottile e amorevole. Nella biografia del maestro che precede la raccolta delle Enneadi, Porfirio insiste nel porre in luce l’impetuoso e fiammante senso spirituale di lui, così compreso della bassezza ripugnante della natura, «da provar vergogna del proprio abitare in un corpo». E del maestro celebra la stupenda pittura dell’uomo onesto e virtuoso (spoudaíos) che ha riguadagnato, nell’ascesi, l’equilibrio e la tranquillità. «L’uomo probo – è l’insegnamento plotinico – è sempre sereno. La situazione del suo spirito è l’imperturbabilità. I suoi ideali sono misurati. Quel che è comunemente ritenuto per male non investe ed ottunde la sua placidezza. Che se altri va in cerca di un diverso ideale di gioia e di piaceri, costui non può dirsi che cerchi l’ideale della vita proba».

Come poi dovesse realizzarsi in concreto il programma etico dello spoudaíos, Plotino ebbe modo di dichiararlo a contatto col gruppo gnostico che un giorno fece irruzione nella scuola di Roma. Attraverso ad esso, Plotino ebbe sentore della dottrina soteriologica cristiana, della credenza cioè in un gesto esteriore compiuto da un essere soprannaturale per il riscatto dell’anima, altrimenti incapace del proprio salvamento. L’immanentismo assoluto di Plotino dovette restarne infastidito. Incaricò qualcuno dei suoi allievi di confutare gli scritti ufficiali della sètta e direttamente prese a combatterli, proclamando energicamente che è fallace un qualsiasi ideale se posto al di fuori delle capacità psichiche dell’individuo razionale. L’uomo «probo» cerca unicamente in sè le capacità e i mezzi del proprio affrancamento e della propria perfezione.

Lo rende sufficiente a sè stesso la sua consapevole superiorità su tutte le oscillanti fortune del mondo sensibile. Se esistono nel mondo differenze economiche e sociali, lo spoudaíos non si rammaricherà per questo: d’altronde egli ricava i criteri delle sue valutazioni. Ma, tradendo così le ragioni profonde e inavvertite della sua opposizione alla soteriologia cristiana, nella quale è l’unica scaturigine e l’unica giustificazione possibile dell’universale solidarietà umana, Plotino assevera che vi sono individui così radicalmente inadatti alla vita spirituale e così funzionalmente incapaci di prender posto fra i «probi», che ad essi non compete nella vita altro compito, se non quello di amministrare agli altri le indispensabili cose materiali.

Sensibilmente più appariscenti le affinità con l’ascesi cristiana che rivelano gli scritti personali di Porfirio. Ma alla loro valutazione esatta occorre proporre un quesito di non agevole soluzione: quali sono stati i rapporti diretti fra Porfirio e il cristianesimo, quale la efficacia che l’insegnamento cristiano ha esercitato sul suo spirito e la sua cultura? Se non è possibile definire con verosimile approssimazione i rapporti corsi fra Porfirio ed Origene a Tiro e, più in generale, tra il futuro discepolo di Plotino e le comunità cristiane della Siria, della Palestina e dell’Egitto poco oltre la metà del terzo secolo, è giocoforza però riconoscere la vasta, profonda e diretta conoscenza che Porfirio dovette possedere della tradizione biblica e della letteratura cristiana. I frammenti superstiti della sua grande opera contro i cristiani mostrano a quale diligente lavoro di esplorazione egli si fosse sobbarcato, prima di ingaggiare la polemica. Di simile circostanza deve assolutamente tenersi conto nel valutare l’apporto di Porfirio alla formazione della tradizione ascetica che sboccherà poi nel quarto secolo nelle forme disciplinate dell’ascetismo monastico.

È specialmente nella lettera alla moglie Marcella, – che Porfirio scrisse in età molto avanzata dall’oriente, e che può considerarsi come il suo testamento spirituale, – che par di cogliere più sensibile e più trasparente la reminiscenza e la sopravvivenza di motivi cristiani. Porfirio, ad esempio, vi abbozza una schematica raffigurazione della vita dello spirito e dei coefficienti che l’alimentano e la disciplinano: «quattro elementi principali, egli inculca alla sposa, siano saldi nella tua anima: fede, verità, amore e speranza. Poichè unica genuina salvezza è quella che si ottiene rivolgendosi a Dio, bisogna cercare, per quanto è possibile, di nutrire giuste cognizioni intorno a Lui: conosciutolo, lo si deve amare. Amandolo, occorre saturare l’anima di alte speranze intorno alla vita. È infatti in virtù delle buone speranze che i buoni la vincono sui malvagi. Tali cardini così importanti, siano dunque ben saldi». Dinanzi ad un’antropologia mistica di questo genere, il pensiero ricorre spontaneamente alla finale del canto paolino dell’amore (I. Cor. XIII. «tre grandi elementi sono al mondo, fede, speranza, amore: più grande, l’amore»). Sta di fatto che la singolare teoria dei quattro «elementi» (stoicheía) necessari, come piloni, all’edificazione del tempio divino dentro di noi, non ha riscontro nei precedenti della mistica plotiniana, mentre appare compiutamente spiegabile se si pensa che Porfirio sia giunto ad essa mediante una vera contaminazione di motivi cristiani e di motivi neoplatonici. Paolo aveva proclamato la necessità di tre fondamentali valori religiosi: la pístis, l’elpís, l’agápè. Porfirio deve essere rimasto colpito e in pari tempo insoddisfatto di questa formola incisiva. L’agápè non aveva valore per lui, che pure andava cercando una tavola di valori programmatici per il perfetto spoudaíos. Plotino non aveva asserito, in armonia con la tradizione platonica, che nell’opera faticosa della elevazione spirituale il filosofo, l’amico delle Muse, e l’uomo che ama, portano condizioni di spirito favorevolmente predisponenti? Porfirio poteva pensare che fosse conveniente, in un assioma sintetico riassumente la legge della vita interiore, parlare più tosto di éròs anzichè includere la concezione, di uno strano sapore barbarico, dell’agápè. E doveva in pari tempo pensare che fra i coefficienti di una integrale esperienza del divino non potesse mancare l’alétheia. Da simile processo di elaborazione del motto paolino deve esser nato il capitolo più caratteristico della lettera a Marcella.

Può darsi anzi che non sia azzardato scoprire più da presso il processo di adattamento, quando si scopre il filosofo parlare non di «speranza» al singolare – categorico precetto, caro ad ogni anima di cristiano primitivo aspettante il Regno – bensì di «speranze» buone, solo capaci di diversificare nel mondo gli uomini retti dagli stolti. Ma forse può dirsi di più. Simile processo di adattamento e di interpretazione filosofica si coglie in sviluppo anche al di là di Porfirio. Questi nel suo programma di vita spirituale aveva fatto proprio, integrandolo, il postulato paolino. La triade dei carismi si era trasformata in una tedrade. Ad un secolo circa di distanza, Proclo tornava, forse per amore di simmetria retorica, alla formulazione triadica e sacrificava, nella formula porfiriana, la categoria etica che per lui aveva minor valore: la «speranza». Cogliamo qui l’ultimo stadio delle trasformazioni subìte dal motto paolino, nel suo passaggio attraverso il recinto neoplatonico.

Ma pur se più o meno consapevoli tracce di formazione cristiana affiorano nella pedagogia mistica di Porfirio, il suo pensiero, la sua visione della vita spirituale rimangono squisitamente dominati dall’ispirazione neoplatonica, giunta in lui alla più pura espressione di sè. Nei suoi ammonimenti l’intento etico si accoppia costantemente allo slancio della contemplazione mistica e della devozione. Sempre nella lettera a Marcella raccomanda: «Per mezzo delle preghiere degne è concesso di contemplare come in uno specchio Iddio, il quale non è veduto da occhio corporeo, nè da animo maculato da turpitudini o oscurato da vizi. La bellezza di Dio è senza macchia, vivificante e fulgente di verità. Il vizio si nasconde sotto l’insipienza e genera la vergogna morale. Chiedi adunque a Dio quel che rappresenta il suo volere e che Egli stesso è: saldamente convinta che quanto più un’anima va dietro ai desideri foschi del corpo, tanto più si allontana da Dio, precludendosi la possibilità della sua conoscenza, anche se gli uomini la ritengano divina. Segua dunque la mente Dio, riguardandosi nella somiglianza di Dio. Alla mente tenga dietro l’anima, e all’anima la figura corporea, con quella purità che le è possibile, poichè il corpo dominato dalle passioni, riverbera sull’anima la sua obbrobriosa schiavitù».

Ed è in questa concezione mistico-ascetica della vita spirituale che Porfirio si ricongiunge al grande movimento ascetico post-costantiniano. Alcuni suoi aforismi antropologici ed etici costituiscono parallelismi precisi alla precettistica ascetica cristiana. Anche negli ultimi suoi scritti, come le Aformai, Porfirio si rivela fedele al suo programma: «l’anima – egli dice – è vincolata al corpo a causa del suo tendere verso le passioni che emanano come una caligine dall’organismo corporeo. Se ne scioglie, in virtù della impassibilità dei medesimi organi sensibili. Vi sono infatti due generi di morti: il primo è quello letterale, noto a tutti, il secondo è quello che implica il discioglimento dell’anima, la quale si divincola dal corpo e se ne affranca. Questo secondo genere di morte non è a tutti noto: è la morte dei filosofi». Ad essa si perviene per gradi, in virtù di uno speciale tirocinio virtuoso. «Vi sono tre categorie di virtù, perchè altra è la virtù dell’uomo politico, altra quella del filosofo, altra infine quella dell’intelletto, giunto alla perfetta contemplazione dell’estasi». Ma ogni virtù esige sforzi e tirocinio laboriosi: «Chiunque vuol raggiungere il bene operare deve assiduamente sforzarsi. Sai bene – dice Porfirio alla moglie (c. 7) – che anche Ercole, i Dioscuri, Esculapio, altri figli di dei, attraverso fatiche aspre e dure prove batterono la via che conduce alla beatitudine dei celesti. Similmente Dio non è cercato dagli uomini amanti dei piaceri, bensì da quelli che imparano a sopportare nobilmente le difficoltà e i disagi della vita.... Non è possibile che chi ama Dio ami anche il piacere e il corpo. Poichè chi ama il corpo e i piaceri, è anche avido di ricchezze, e quindi ingiusto ed empio verso Dio e verso i genitori, e pecca anche verso gli altri; cosicchè, anche se faccia sacrificio di ecatombi e adorni i templi di doni innumerevoli, è tuttavia irreligioso ed intenzionalmente sacrilego».

Un senso così profondo e così affinato del dovere che vincola l’uomo all’intimo congiungimento col divino nella attuazione del bene non poteva andare disgiunto da un disdegno geloso per ogni banale e plebea profanazione del sacro. Nessun discorso alla folla – prescrive Porfirio – intorno a Dio. Nulla di comune, giammai, fra la sapienza divina e l’anima che cerca il cicaleccio degli uomini e il plauso pubblico. È molto meglio tacere che profferire intorno a Dio parole profane. «Ti renderà degna di Dio il non dire nè fare nè sapere nulla che sia di Dio indegno, poichè l’uomo che è degno di Dio è sulla via di diventare egli stesso Dio».

Gli insegnamenti e i consigli di Porfirio in materia religiosa si riducono così ad inculcare il disprezzo del culto esteriore, quando non sia accompagnato dalle opere buone e da un puro sentimento del divino; l’unione con Dio, attuata nella condotta immune dal malefico influsso dei demoni; la pratica della pietà, attraverso il culto mondo della virtù più vigile e più zelante. La conclusione della lettera a Marcella è la più tipica e la più completa formulazione della precettistica ascetica. Dopo aver segnalato la triplice categoria di leggi, la categoria divina, quella naturale e quella sociale, Porfirio proclama che l’uomo consapevole del suo destino deve assolutamente disinteressarsi del conseguimento di un qualsiasi bene materiale, onde vivere intensamente la vita dello spirito. «Se noi siamo per natura legati strettamente ai vincoli materiali (edéthèmen phúseoòs desmois), possiamo però infrangere la naturale catena e imprigionare a nostra volta il corpo che ci lega, che è morte ed abbiezione (désai tón désanta). È immensamente beato tutto ciò che nasce da un’anima vergine e da un’eccelsa mente, giacchè solo dalle cose incorruttibili promanano le incorruttibili, mentre quanto è generato dal corpo è stato giudicato immondo da tutti gli dei».

Pochi anni dopo la morte di Porfirio, un altro filosofo, della medesima scuola, portava ad un più alto livello di concretezza e di realtà gli ideali ascetici enunciati dal predecessore: Giamblico, orientale anche lui di nascita, più ricco di elementi pitagorici e di tendenze misticizzanti. Come Porfirio, egli muove da un postulato che desterà più tardi così profonda impressione in sant’Agostino: «Il corpo deve essere crudamente rinnegato e mortificato, perchè l’anima possa rimanere, felicemente, con Dio». Nel Discorso esortatorio alla filosofia , attingendo alle migliori tradizioni della spiritualità neoplatonica e neopitagorica, Giamblico espone tutta una disciplina ascetica, di cui sono realmente sorprendenti le affinità di ispirazione, e a volte anche di dizione, con le regole di uno dei più insigni ed eloquenti rappresentanti dell’ascetismo cristiano nel quarto secolo, Evagrio pontico. In forma simbolica e aforistica Giamblico addita il sentiero della piena vitalità spirituale. Avvicinati ai templi a piedi nudi (nutrisci cioè in te il senso più rispettoso del divino); evita le vie battute (vivi nella compagnia dei pochi); conserva la tua lingua nel silenzio; adora prostrato la voce della brezza che soffia (simbolo dello spirito); non stropicciare con la spada il fuoco (rispondi cioè con la pazienza e la mansuetudine all’ira); avvicinati all’uomo che porta un gran peso sulle spalle e alleggerisci il suo carico; nulla ti appaia incredibile di tutto ciò che riguarda il divino; non portare anelli (la filosofia è un’assidua riflessione sulla morte; l’anello è il corpo, da cui ci dobbiamo disciogliere); non sposare donna che porti oro (non seguire quei sistemi filosofici che alimentano la boria, la vanità, la superbia ed il fasto).

Così gl’ideali etici raggiungevano, anche nel paganesimo, un’elevatezza e una purità singolari, proprio quando il cristianesimo, superata la prova della persecuzione, divenuto religione ufficiale, andava incontro al più serio e insidioso cimento: quello racchiuso nel pericolo della corruzione mondana.

Lo storico, il quale va alla ricerca dei presupposti e degli antecedenti del grande fenomeno monastico ed ascetico, che dal quarto secolo non ha più cessato di accompagnare e contrassegnare la vita del cattolicismo nel mondo, non può fare a meno di segnalare e di confessare le sostanziali simiglianze che avvicinano l’una all’altra la spiritualità del monachismo e la concezione mistico-antropologica e la pratica ascetica di alcune scuole filosofiche e di alcune organizzazioni del paganesimo sincretistico.

Ma cogliere delle affinità non equivale giammai a risolvere un problema: significa sempre, più tosto, porlo. Nella lenta elaborazione delle loro forme, la cultura e la spiritualità del paganesimo mediterraneo erano pervenute a concezioni di etica individuale altissime, e a precetti pratici di una purezza e di una nobiltà irreprensibili.

Il problema dunque si pone netto e circoscritto: quali sono gli elementi specifici che hanno assicurato il trionfo alla morale cristiana e quali sono i tratti differenziali che hanno provocato il proselitismo rapido e vittorioso dell’ascetismo organizzato del quarto secolo?

La risposta sarà data da una esplorazione del processo mediante il quale le concezioni ascetiche, nello stretto significato del termine, si sono lentamente acclimatate nel cristianesimo, per trovare, nell’epoca post-costantiniana, una realizzazione pratica vasta ed organica.

Noi potremo così probabilmente constatare che le ragioni del trionfo cristiano non vanno ricercate nei principi della sua morale privata e individuale, di fronte alla quale alcune forme di morale pagana non avevano nulla da invidiare: bensì in alcuni suoi principi di morale pubblica, che gli hanno conferito dei sorprendenti poteri di trasformazione nel fascio dei valori sociali costituiti. E che l’ascetismo cristiano organizzato, all’indomani della conversione di Costantino e della incipiente mondanizzazione ecclesiastica, ha voluto rappresentare uno sforzo imponente per mantenere, ad ogni costo, alla morale pubblica del Vangelo, la sua efficienza e la sua purezza.

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