II. L’ASCESI NEOTESTAMENTARIA E SUB-APOSTOLICA.

«Come potrò raffigurare la mia generazione? Mi par simile a quei ragazzi che, sulle piazze, fanno al gioco lamentoso e al gioco lieto, e si dicono a vicenda: – ecco, vi suonammo il flauto e non danzaste, ci lamentammo, e non vi batteste il petto. – Infatti, si presentò Giovanni; non mangiava e non beveva. Hanno detto: costui è indemoniato. È venuto il Figliuolo dell’uomo: mangia e beve come gli altri. E vanno dicendo: ecco un mangione ed un bevone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Non fa nulla: la sapienza sa trarre il giusto da tutti i suoi figli». (Mt. XI, 16-19).

La parabola, pronunciata indubbiamente in un momento avanzato dell’opera missionaria di Gesù, quando la sorda e ostile resistenza al suo messaggio si delineava irriducibile, mentre scolpisce la differenza profonda che separava la predicazione e la pratica del Battista dal tenore quotidiano di vita di Gesù e del suo primo nucleo di discepoli, fissa la caratteristica specifica dell’etica neotestamentaria, dei suoi presupposti e dei suoi canoni. Il messaggio del Cristo non implica una precettistica ascetica, vale a dire il codice di un paziente tirocinio morale, che addestri l’individuo al dominio costante delle sue forze inferiori, in vista di una superiore impassibilità, refrattaria ad ogni contaminante attacco della sensibilità e della passione. Appunto perchè messaggio religioso, anzichè precetto di scuola o programma di setta, l’annuncio di Gesù getta le sue radici e trae le sue energie esaltanti dall’entusiasmo acceso dalla visuale del Regno imminente. Lo insegnamento suo implica una visione della vita, dell’economia delle sue leggi, dei suoi logici destini, da cui deve fatalmente scaturire il programma e l’obbligo della più larga e radicale rinunzia, senza però che questa sia in alcun modo vincolata ad una precettistica e ad un esercizio paziente, come invece vuole, per definizione, ogni pratica concreta dell’ascesi. Nella esperienza evangelica, avvivata dalla certezza assoluta del prossimo conseguimento del Regno e imperniata sul valore centrale della conversione (metánoia), la perfetta e sdegnosa rinunzia ai beni della terra, ai soddisfacimenti volgari, alle finalità concrete del successo umano e del benessere materiale, rappresenta la conseguenza spontanea di un orientamento spirituale intimo, che non chiede la sua giustificazione teorica ad una antropologia coerentemente dualistica e ad una pedagogia stilizzata. Pur mescolandosi a tutte le espressioni dell’esistenza quotidiana, il credente nel Regno ha l’ago della sua spiritualità costantemente rivolto verso le trascendenti mète della sua speranza e del suo ideale.

Per questo la morale del Vangelo è una morale superascetica, è la morale della sublimità e del paradosso. Il bene operare di coloro che aderiscono ad esso, le manifestazioni della loro pietà religiosa, le loro pratiche devozionali, nulla avranno di comune con l’ostentata compunzione degli istrioni, che nei luoghi sacri atteggiano il volto ad austera gravità, perchè siano riguardati ed ammirati dagli ingenui; che sulla pubblica via offrono i lineamenti contraffatti, perchè si almanacchi sulla estenuata macerazione dei loro digiuni; che ai crocicchi si pavoneggiano delle loro elemosine, perchè se ne esalti la pingue copiosità. Essi al contrario ungeranno il loro capo di olio aromatico, profumeranno il loro volto di essenze, quando mortificheranno spietatamente la loro gola; distribuiranno di soppiatto, senza clangore, le loro elargizioni, dimenticando immediatamente quel che avranno donato, effonderanno nel segreto le loro preci all’orecchio di Dio, rapide e svelte, come può farsi all’orecchio di un padre, cui basta rivolgere un cenno di amore, perchè comprenda ogni bisogno e conosca ogni prova. Naturalmente intimi e sottili sono i coefficienti psichici di una simile disposizione interiore. Per guadagnarla, occorre aver lacerato i velari spessi e opachi che le convenzioni hanno tessuto e hanno innalzato dinanzi allo sguardo umano, onde impedirgli di scorgere nel mondo e nei fratelli il volto radiante di Dio. Gesù li aveva stracciati di colpo. La vita è attossicata dalla cupidigia dell’ingordo benessere materiale e dalle rivalità fatue dell’orgoglio. Il seguace del Figlio dell’uomo dovrà accostumarsi a vivere di spensierata fiducia e di inalterabile letizia. «A che prò preoccuparsi – domanda Gesù ai suoi discepoli – del vostro alimento e del vostro vestito? O che l’anima non val più del cibo, e il corpo, più del proprio indumento? Ecco: contemplate gli uccelli dell’aria. Non seminano, non mietono, non chiudono il raccolto nei granai. Il vostro Padre celeste, immancabilmente, li nutre. Non valete voi più di loro? Prendete esempio dai fragili narcisi del campo. Non si affannano: non tessono. Eppure, in verità, nè pur Salomone, in tutto il fulgore della sua gloria, è riuscito ad indossare una veste simile alla loro. Orbene: se un’umile erba di prato, oggi verde, domani destinata al fuoco, riceve da Dio un abbigliamento di tal bellezza, di che cosa avrete a temere voi, gente di poca fede? Cercate innanzi tutto il Regno di Dio e la sua giustizia. Tutto il rimanente verrà da sè. Perchè dove voi riponete il vostro tesoro, verso là si orienta immediatamente il vostro cuore» (Mt. VI). Quando il cuore dell’uomo sia tutto investito dalla luce del Regno, in cui il Padre spiegherà trionfalmente le risorse inesauste della sua giustizia riparatrice e della sua pace inviolabile; quando sia divorato dalla fiamma della sua speranza operosa; l’uomo sarà come un albero sano e vegeto, sui rami del quale vengono spontaneamente a maturazione i frutti della bontà e del perdono; sarà come una solida dimora, innalzata sulla roccia, contro le mura della quale batteranno invano le acque melmose dell’alluvione mondana. Questa etica della spontaneità e del disinteresse cozzava irrimediabilmente contro l’etica dei codici e delle pratiche prescritte: la oltrepassava e la svuotava di contenuto e di significato. Qual valore si può attribuire ai precetti esteriori della purificazione legalistica e della disciplina rituale, ai mille divieti, in cui si moltiplica, rifrangendosi e depauperandosi, l’esigenza del dovere reciproco, quando la legge assoluta della carità e della mitezza venga attinta direttamente dallo sfolgorio della bontà del Padre, il quale attende i propri figli sui margini del suo reame imminente? Il messaggio di Gesù annullava logicamente tutta la costruzione ponderosa del culto e della casuistica nel Giudaismo, pure salvandone e affinandone la sostanza morale. Di questa stessa morale trapiantava audacemente i canoni e le norme in una sfera di valutazioni superiori, non rifuggendo dal sanzionare atteggiamenti, che alla stregua dei criteri normali, non potevano non essere giudicati opportunistici ed interessati. Egli trasse ad esempio un giorno una comparazione sorprendente dal caso ipotetico di un amministratore fraudolento, che, denunciato al proprio padrone per le sue irregolarità, ricorre ad uno scorretto salvataggio. Chiama uno dopo l’altro i debitori del padrone e cerca di farsene dei protettori benevoli per il dì della sua immancabile cacciata, alterando a loro favore l’ammontare del debito rispettivo (Lc. XVI). E quindi commenta: «il padrone dovette lodare l’amministratore infedele, perchè aveva agito con accortezza. Chè, in realtà, i figli di questo secolo, al cospetto della loro generazione, si rivelano più astuti dei figli della luce. E allora io vi dirò: fatevi pure degli amici col denaro della iniquità, onde, quando venga a mancare, vi accolgano, amichevolmente, nelle tende dell’eternità». Non esiste, evidentemente, agli occhi di Gesù una ricchezza che non sia iniqua: iniqua nelle passioni di cui vive e in cui si ripercuote. Poichè solo la truffa e l’intrigo possono essere i servi di mammona: e solo la cupidigia e l’egoismo possono essere i suoi figli. Il mondo che si affanna perdutamente dietro il miraggio della fortuna materiale, è, per costituzione, il dominio dell’inganno e l’eredità della passione. È fatale ed è irreparabile. Il credente nel Regno riguarderà pertanto con lo sguardo della tolleranza longanime e della indifferenza impietosita l’armeggìo logorante mediante il quale gli uomini si contendono, come cani famelici intorno ad un letamaio in putrefazione, i lembi delle periture floridezze mondane. Ma in pari tempo cercherà di emulare, nel suo traffico che mira unicamente alla luce, l’industriosità piena di risorse che i figli delle tenebre spiegano nella tutela affannata dei loro interessi volgari. Anche dalla iniquità egli saprà spremere mezzi per l’accaparramento delle tende che aspettano in cielo il suo riposo beato. Ma la sua industre accortezza non distoglierà mai la pupilla dai tabernacoli eterni e non scambierà mai i fini della giustizia trascendente per quelli del successo e dell’impinguamento terreni.

Dovunque l’egoismo e la passione minacciano di inquinare l’espansione della spiritualità nell’uomo, la consegna di Gesù è solenne e spietata. La vita morale è un rischioso sentiero. Invece di servire nel percorrerlo, gli organi della sensibilità sembrano elevarsi sul passo dell’uomo come insidiosi trabocchetti. In tal caso dovranno essere soffocati e recisi, perchè il Regno di Dio può accogliere storpi ed orbi, ma non già contaminati ed impuri (Mt. VI). Gesù non dissimula la difficoltà del suo comandamento, che pur pare tanto più agevole della imposizione dura ed aspra del precursore. «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra: non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Perchè sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera. Ormai i nemici ciascuno li avrà in casa propria. Chi ama suo padre e sua madre più di me, non è degno di me: e chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me. E chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi ha cara la propria vita, la getterà allo sbaraglio: e chi avrà per amor mio gettato la sua vita allo sbaraglio, la ritroverà» (Mt. X). In questa legge suprema dell’etica neotestamentaria è in embrione e nel medesimo tempo spinta alle sue estreme possibilità la prassi rinunciataria di tutta l’ascetica cristiana, non raccomandata però ad un materiale ed esteriore distacco dal mondo, bensì ad una spirituale ribellione a tutti i canoni delle sue valutazioni e a tutte le graduatorie delle sue finalità. Proprio dopo aver prospettato i vincoli familiari come un possibile impedimento alla compiuta attuazione della palingenesi cristiana, il Vangelo di Marco (X. 21), nell’episodio del giovane ricco, stabilisce il collegamento imperioso fra la rinuncia al possesso e il conseguimento del Regno. Infine la perfetta continenza è additata, anch’essa, come una condizione postulata dalla prospettiva e dal desiderio predominante del trionfo nel Regno (Mt. XIX).

Strettamente aderente al messaggio etico racchiuso e trasfigurato nella predicazione del Regno, san Paolo affida anch’egli la sublimazione dell’azione etica alla trasposizione della carne nello spirito. Ma lo spirito è per lui il Signore, e il Signore è la comunità stessa. Onde la sua morale si colora strettamente di ecclesiologia e l’economia della nuova vita associata è la norma suprema delle sue valutazioni in fatto di condotta. Paolo è tutto in uno sforzo costante e animoso per instaurare nelle anime dei suoi convertiti, in cui ha abbattuto senza misericordia l’altare della legge, la convinzione gioiosa che la legge è sinonimo di carne, e quindi di peccato e di morte, e che il credente, affrancato dalla tutela mortificante della legge, è anche, in pari tempo, uscito dalla sfera della carne, per essere tuffato nella atmosfera dello spirito, e quindi della impeccabilità e della giustizia. «Voi ormai non siete più nella carne, bensì nello spirito: poichè lo spirito di Dio alberga in voi... Che se Cristo è in noi, oh, in verità, il corpo rimane morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita, in vista della giustizia. E se lo spirito di Colui che trasse Gesù di tra i morti dimora in voi, quegli stesso che ha chiamato dai morti il Cristo Gesù, vivificherà i vostri corpi mortali, mediante lo spirito suo, che è fin d’ora in voi» (Romani VII, 9-11).

I «santi» non possono tornare alla colpa se non esercitando la più mostruosa violenza alla loro nuova natura. Morti al peccato, poichè assimilati alla morte del Cristo, attraverso la iniziazione battesimale, essi sono risorti in lui e procedono ormai in una insopprimibile novità di vita. «Se, dice san Paolo, ci avviticchiammo a Lui nella solidarietà della sua morte, cresceremo insieme a Lui nella solidarietà della risurrezione: ben persuasi ormai che la nostra vecchia individualità fu crocifissa con Lui, onde fosse annientato il corpo del peccato, e noi non fossimo più costretti a servire alla colpa..... Affrancati dalla colpa, fatti schiavi di Dio, i cristiani fruttificano nella santità, verso la loro indefettibile mèta: la vita eterna» (Rom. VI).

Chè, appunto, la prova apodittica della loro rinascita nella fede e del loro intimo rinnovamento nello Spirito, i cristiani la posseggono nelle manifestazioni stesse della loro vita associata, in seno alla quale non è dato più di cogliere quelle che sono le opere della carne, e non si rivelano invece che le opere dello spirito: le quali sono l’amore, la gioia, la pace, la longanimità, la benevolenza, la bontà, la fede, la mitezza, la dignità morale». Contro simili opere non v’è legge che tenga» (Gal. V. 23).

Si direbbe che la stretta saldatura frapposta fra la coscienza morale e l’esperienza mistica la quale sgorga dall’associazione religiosa con le anime guadagnate alla medesima fede, costituisca in san Paolo il surrogato valido del tirocinio ascetico, nella pratica eroica del bene. Nella sua pedagogia, svincolata arditamente da ogni norma esteriore, la nuova radice della purità inculcata ai credenti è nella consapevolezza vigile del legame che stringe ogni fedele alla massa dei fratelli, nei quali si perpetua la vita corporea del Signore. Perchè l’iniziato non appartiene più a sè stesso. Entrato a far parte, attraverso il rito battesimale, di un organismo mistico che rappresenta il proiettarsi del Signore nello spazio e nel tempo, egli non può cedere il proprio corpo al dominio tenebroso della colpa e delle soddisfazioni carnali. Colui il quale è membro della comunità, che è il Cristo e il tempio dello spirito, non può impunemente manomettere la dignità del proprio essere. Ogni compiacimento animale ricavato dalla sensibilità, rappresenta una sottrazione di ricchezze non proprie, una contaminazione di realtà extracarnali. «Non sapete voi che i vostri corpi sono altrettante membra di Cristo? Come mai dunque mi attenterò di prendere le membra del Cristo e di costituirle membra di una cortigiana? O non sapete voi forse che chi avvicina una cortigiana viene a costituire con essa un solo organismo?... Chi invece si accoppia con il Signore, diviene con Lui un solo spirito. Fuggite dunque ogni forma di fornicazione... O non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo dimorante in voi, datovi da Dio, e che voi quindi non vi appartenete più?» (I. Cor. VI. 13-20).

Ma i medesimi valori ecclesiologici che inducevano Paolo a scoprire nel fatto stesso dell’associazione carismatica la scaturigine e la sanzione della trasfigurata moralità nello Spirito, dovevano indurlo a patrocinare, di pari passo con la pedagogia che affida a una profonda consapevolezza della dignità dell’organismo cui si appartiene, la giustificazione della propria abnegazione, la pedagogia della quotidiana mortificazione e della laboriosa ascesi. Il semplice entusiasmo può costituire l’atmosfera in cui maturano spontaneamente le supreme rinuncie sol quando esso spieghi la sua azione in esigui manipoli, divorati da un’ardente fede e da una cieca speranza. Non a pena questi manipoli amplino l’ambito del loro proselitismo e della loro conquista, non a pena la scomparsa degli eccezionali animatori e l’affievolirsi dei vagheggiati miraggi attenuino la sicurezza che non ragiona, l’alto tenore etico della vita associata deve necessariamente essere raccomandato alla dura disciplina del quotidiano tirocinio ascetico.

San Paolo proclama, ad ammonimento e ad esempio, di praticarla. Traendo una efficace comparazione dalle mode sportive del suo tempo, che offrono così di frequente spunto di parallelismo e di analogie alla sua propaganda morale, egli raffigura il campo dell’attività spirituale ad uno stadio; la finalità, al premio dei vincitori; l’esercizio della moralità, all’addestramento ginnastico: «Ognuno che partecipa alle gare dell’agone, tutto si addestra a sostenere. E costoro per conseguire una corona corruttibile, noi invece in vista di una corona immortale. Sicchè anch’io corro in modo da non fallire al traguardo, così meno i miei colpi, da non batter l’aria. Ma copro di lividure il mio corpo e lo tengo schiavo, affinchè dopo aver tanto predicato, non debba meritare proprio io un ripudio» (I. Cor. IX. 25-27).

E le norme caratteristiche e fondamentali dell’ascesi, la continenza nei rapporti sessuali, la penitenza e l’astinenza nel regime alimentare, sono da lui o apertamente patrocinate o coscientemente tollerate nell’ambito delle comunità a lui più legate. Ai fedeli di Corinto che, sotto l’impressione della crescente delusione per il ritardo frapposto nell’avvento del Regno, avevano mostrato di preoccuparsi della sorte poco lieta delle loro ragazze da marito, a cui l’attesa nella verginità faceva perdere propizie occasioni, esponendole ad un irreparabile nubilato, Paolo risponde: «Per quanto riguarda le vergini, non ho comando del Signore: ma dò un consiglio, come uomo che ha ricevuto dal Signore la grazia di esser degno di fiducia. Penso che in vista dell’incombente angustia, ognuno rimanga com’è: che buona cosa è per l’uomo comportarsi così. Sei tu vincolato ad una moglie? Non cercare d’essere sciolto. Se però prendi moglie, non pecchi, e se una fanciulla si marita, non pecca; ma cotesti avranno tribolazioni nella carne e io vorrei risparmiarvele. Questo io dico, o fratelli: il tempo è ormai accorciato. Onde, coloro che han moglie debbano essere come coloro che non l’hanno; coloro che piangono come coloro che non piangono; coloro che tripudiano come coloro che non sono tripudianti; e chi acquista, come chi non debba restare a lungo nel possesso; e chi usa del mondo, come chi non debba usarne fino alla fine. Svanisce l’apparenza del mondo. E io vi voglio senza preoccupazioni. Il celibe non ha in mente che il Signore, e non pensa che al modo di piacere al Signore. Il coniugato pensa per forza a cose del mondo: al come possa piacere a sua moglie. Onde la sua anima ne è divisa. E la donna non coniugata e la vergine ha in cima ai suoi pensieri il Signore, e anela ad esser santa nel corpo e nello spirito. La coniugata rivolge di necessità la sua attenzione a cose del mondo, al come piacere al marito. Dico tutto ciò in vista del vostro vantaggio: non davvero per tendervi un trabocchetto, unicamente perchè, incessantemente, il vostro contegno sia dignitoso e tutto intento al Signore. Che se alcuno ha l’impressione di contrarre un certo disdoro dalla propria vergine, qualora oltrepassi l’età del marito, e reputa necessario che così accada, faccia pure quel che vuole: non pecca. Sposino pure. Ma chi rimane saldo nel proposito del proprio cuore, non essendo stretto da necessità, e può dominare il proprio volere, e questo vinse nel proprio animo, di mantenere cioè la propria vergine (nella sua condizione), farà pure bene. Onde chi dà a marito la propria vergine fa bene, ma chi non la dà, farà meglio».

Qui la preferibilità dell’ideale continente allo stato matrimoniale appare logicamente vincolata alla forte e assorbente aspettativa del Regno. Non è tempo di indugi e di distrazioni: il fedele, secondo Paolo, non può dividere il suo spirito fra le cure del giudizio incombente e quelle, banali e deprimenti, del carnale commercio.

Altrove l’apostolo è, più specificamente, posto dinanzi a pratiche tipiche di mortificazione ascetica, seguite da gruppi convertiti. Nella comunità di Roma, alla quale Paolo rivolge il proprio messaggio nell’ora della pienezza del suo successo e della sua maturità, esisteva un nucleo di fedeli il quale ci teneva a seguire consuetudini vegetariane ed astemie. Gli altri, ostentando quasi una superiore spregiudicatezza, se ne facevano beffe. Fedele al principio centrale del suo insegnamento – nell’amore tollerante è la quintessenza della legge – l’apostolo rimbrotta acremente questi ultimi: «Il debole nella fede accogliete, senza impegolarvi in discettazioni astratte. Ecco che l’uno crede di poter mangiare indifferentemente d’ogni cosa, mentre il debole mangia vegetali. Chi mangia di tutto non tenga in poco conto chi pratica determinate astinenze: e questi non voglia giudicare quegli, dal momento che Dio lo ha accolto ugualmente. Chi sei tu mai che ti periti di giudicare il servo altrui? È cosa che riguarda unicamente il suo padrone se stia in piè o cada. E sta pur tranquillo che rimarrà saldo, perchè è ben in grado il Signore di sostenerlo... Chi mangia di tutto, lo fa in vista del Signore, poichè è anche il suo un modo di render grazie a Dio: e chi non mangia di tutto, lo fa ugualmente per il Signore, e a modo suo rende anch’egli grazie a Dio. Nessuno di voi vive per sè, e nessuno muore per sè. Vivendo, viviamo per il Signore; morendo, moriamo per Iddio. Vivi o morti, al Signore apparteniamo. Che per questo Cristo morì e visse, onde acquistar la signoria di morti e di viventi. E tu perchè ti attenti di giudicare il tuo fratello? O perchè lo tieni in non cale? Tutti, ricordalo, dovremo costituirci dinanzi al Tribunale di Dio... Non ci giudichiamo dunque a vicenda. Ma pensate più tosto a non collocare un inciampo o un trabocchetto sui passi del fratello. So benissimo ed ho la ferma convinzione nel Signore Gesù che nulla, di per sè, è impuro, se non per chi tale lo ritenga, che in tal caso impura la cosa diviene. Se dunque a causa di un cibo il tuo fratello si contrista, tu non marci a norma dell’amore. Sta attento dunque a non trarre, col tuo mangiare, a rovina, quegli per il quale Cristo affrontò la morte. E non sia esposto a biasimo quel che è il vostro bene. Il Regno di Dio, ricordàtelo, non consiste nel mangiare e nel bere, ma nella giustizia, nella pace, nella gioia scaturienti dallo Spirito Santo..... Non distruggere, per un cibo, l’opera di Dio. Tutto, sì, è puro, ma trista cosa per l’uomo mangiare in modo da occasionare una caduta. Ottima cosa invece astenersi dal mangiar carne e dal bere vino, da tutto su cui possa incappare la semplicità del tuo fratello. La convinzione che tu nutri, tientela per te al cospetto di Dio. Beato colui il quale non si procaccia un giudizio, in quel che decide di fare! Ma chi nutre dei dubbi, se mangia, è già condannato, perchè il suo gesto non sgorga da una convinzione profonda. E tutto che non sgorga da convinzione, è peccato. Sicchè noi, i forti, dobbiamo sollevare le debolezze dei fiacchi, senza cercare di piacere a noi stessi» (Rom. XIV.-XV. 1).

Già di per sè il modo nel quale Paolo designa gli «astinenti» della comunità Romana: «deboli ed impotenti» (astheneís caí adúnatoi), mostra come egli non fosse disposto ad ammettere per segni di superiorità morale e religiosa pratiche ascetiche nel regime alimentare. Tutto dominato dalla visuale della parusia del Signore, e tutto preoccupato di instillare quell’entusiasmo divorante che la sua aspettativa doveva suscitare, l’apostolo non può assegnare una importanza rimarchevole a limitazioni scrupolose nella scelta delle vivande e a tassative astinenze. Come il Maestro, egli pensa che non è quanto è consumato dall’uomo, che possa inquinare lo spirito. Ma d’altro canto ha il massimo rispetto per le espressioni timorose di questi spiriti delicati che, pervenuti probabilmente al cristianesimo da correnti ellenistiche addestrate all’ascetismo, portavano nella loro nuova fede i medesimi propositi di mortificazione individuale e le identiche consuetudini di autodisciplina. Agli occhi di Paolo, le virtù caratteristiche del credente sono quelle che sgorgano direttamente dallo Spirito a Dio, la gioia, la pace, la giustizia nel mondo; ma poichè lo Spirito è il Signore, e il Signore vive nella comunità dei credenti, la legge della solidale carità vuole che ciascuno rispetti gelosamente e trepidamente le suscettibilità del proprio fratello, e vieti a sè ogni gesto che possa lasciare traccia di turbamento nella sua coscienza.

D’altro canto era naturale che di fra il mondo pagano, più docilmente inclinassero all’accettazione del messaggio cristiano quegli spiriti, i quali attraverso il dualismo implicito nelle religioni di mistero, o in virtù dell’addestramento platonico e pitagorico, erano stati preparati alla concezione drammatica della vita e del suo destino che il cristianesimo recava in grembo con la sua pessimistica visione del mondo presente e la luminosa aspettativa della palingenesi nel Regno. Sono questi medesimi spiriti che crearono adagio adagio quella atmosfera mistico-dualistica nella quale la tendenza ascetica, onde il programma della palingesi nel Regno era a suo modo saturo, doveva automaticamente tradursi in una concezione antropologica, nelle cui linee fondamentali poteva già conoscersi l’ossatura della propaganda monastica del quarto secolo e delle concezioni spirituali care al medioevo cristiano.

Gli scritti che vanno sotto il nome di Giovanni tradiscono appunto una valutazione dell’uomo e delle sue capacità spirituali in cui il dualismo della predicazione genuinamente cristiana – un dualismo di natura propriamente escatologica, che contrappone innanzi tutto il secolo presente al secolo veniente e trae precipuamente da questa contrapposizione la scala dei suoi valori – si è già incorporato e si è già canalizzato in una dottrina antropologica e cosmica dualistica, che costituirà il tema familiare di tutta la speculazione religiosa del secondo e del terzo secolo. Gesù aveva chiamato i suoi seguaci ad una precisa opzione fra il mondo attuale e il rovesciamento dei valori imposto dalla visione radiosa del Regno. Tutto quello che poteva creare ostacoli sulla via del raggiungimento di questo, doveva essere reciso e abbandonato senza pietà. Ed un solo potere doveva essere temuto: l’insidia del maligno, capace diescludere dal guadagno del guiderdone annunciato. Qui il carattere specifico della contrapposizione di Satana a Dio nei sinottici. Nel quarto Vangelo l’antitesi è acuita e ampliata: essa separa le realtà superiori da quelle inferiori (tá ánò e tà càtò, VIII, 32), il cielo dalla terra ( e cósmos, III, 31; XV, 19), la luce dalle tenebre (I. 15), la verità dall’errore (XIV, 17), la vita dalla morte (VI, 51). Di modo che il conflitto non è dichiarato solamente fra due ipostasi trascendentali, Dio e Satana, ma fra due mondi, uno inferiore ed uno superiore, che sono riprodotti, in miniatura, nell’uomo. «Ciò che è generato dalla carne, è carne, e ciò che è generato dallo spirito, è spirito» (III. 6). E il duplice principio introduce fra gli uomini una dicotomia, destinata a proiettarsi nella eternità. Del certo, fin da ora, solo lo spirito è effettivamente vivo e generatore di vita, la carne è realtà assolutamente impotente: «lo spirito è il principio vivificatore, la carne non vale un bel nulla» (VI. 36).

Il principio teorico del Vangelo giovanneo si traduce in consegna precisa nella prima lettera di Giovanni: «non amate il mondo, nè le cose che sono nel mondo. Se alcuno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui: poichè tutto che è nel mondo, la concupiscenza della carne e la concupiscenza degli occhi e la iattanza della vita, non è del Padre, ma del mondo. E il mondo svanisce con la sua concupiscenza. Chi fa invece la volontà di Dio, perdura nella eternità» (I Giov. II, 15-17).

L’apocalissi canonica, pur con le sue sostanziali difformità dalle raffigurazioni degli altri scritti giovannei, sembra riecheggiarne i presupposti dualistici e i precetti ascetici in qualche particolare delle sue trionfali visioni, che vogliono essere anche un’anticipazione delle finali sanzioni. In quel capo decimoquarto nel quale il veggente, dopo una rapida descrizione del trionfo beato nel Regno Millenario costituito sulla terra col monte di Sion al centro, preannunzia di scorcio i sopravvenienti giudizi quali sono poi ampiamente descritti nei capitoli seguenti, v’è un inciso significativo. «E riguardai, ed ecco l’agnello stava sul monte Sion, e con esso cento quaranta quattro mila, aventi il nome suo e il nome del Padre suo impresso sulle loro fronti. E udii voce dal cielo, quale voce di acque molteplici e quale voce di tuono fragoroso. E la voce che udii qual voce di citaredi suonanti le loro cetre. E cantavano un canto nuovo al cospetto del trono e al cospetto dei quattro esseri viventi e dei vegliardi. E nessuno poteva apprendere il canto se non i cento quaranta quattro mila, i riscattati dalla terra. Questi sono i non inquinati con donne: son vergini. Questi i seguenti l’agnello dovunque vada. Questi furono riscattati di fra gli uomini, primizia offerta a Dio e all’Agnello. Sulle loro labbra non fu còlta menzogna. Sono immacolati» (1-5). Per quanto la raffigurazione della perfezione cristiana familiare all’apocalittista lasci supporre di primo acchito che la purezza premiata al cospetto dell’agnello trionfante sia una purezza metaforica, consistente sopratutto nella intransigente sicurezza della professione religiosa, pure i particolari dai quali è contrassegnata la descrizione delle virtù di coloro che ne sono insigniti, fan pensare logicamente ad una incipiente canonizzazione pratica della continenza sessuale.

La letteratura subapostolica tradisce le tracce del progrediente rafforzarsi delle correnti strettamente e specificamente ascetiche nell’ambito delle comunità credenti. Vi si coglie anzi la preoccupazione di contestare a coloro che si vantano della loro agneía il diritto di assumere fra i fratelli una posizione qualsiasi di preminenza o di accampare una qualsiasi superiorità. In quella lettera di Clemente di Roma ai cristiani di Corinto, nella quale è una così monotona e pressante celebrazione dei doveri della carità e della soggezione tra i partecipi alla medesima fede, è raccomandato: «sia dunque ben conservato tutto il nostro corpo nel Cristo Gesù, e ciascuno sia sottoposto al proprio prossimo, secondo che fu costituito nel suo carisma. Il forte prenda cura del debole, il debole presti ossequio al forte. Il ricco venga in soccorso al mendico, e il mendico renda grazie a Dio che gli ha concesso di avere chi riempia la sua indigenza. L’uomo colto spieghi la sua saggezza, non mediante parole, bensì nella pratica delle opere buone. L’umile di cuore, non dia testimonianza a sè stesso, ma lasci che altri gli dia testimonianza. Chi conserva la sua carne in castità, non ne tragga vanto, ben sapendo, che da altri gli viene la capacità della continenza. Andiamo più tosto rimuginando, o fratelli, di qual genere di materia noi fummo formati, che cosa e chi fummo quando entrammo nel mondo, da qual sepolcro, da qual tenebra colui che ci ha foggiato e formato, ci introdusse nel suo mondo, avendo disposto i suoi doni, prima che noi fossimo generati. Tutto ciò avendo da lui ricevuto, noi abbiamo il dovere di ringraziarlo di tutto». Tutto dominato dalle reminiscenze di Paolo, i cui intenti e i cui concetti trasmigrano in lui facendosi piatti e scialbi, Clemente rielabora la metafora dell’organismo associato, nel quale il singolo ha funzione necessaria ed armonica nello sviluppo della vita d’insieme. Anch’egli come l’apostolo, ma proporzionatamente alle proprie limitate ed ingenue capacità espositive ed edificative, subordina i carismi all’economia della carità fraterna. L’accenno al dono della continenza sessuale è troppo vago e indeterminato, perchè se ne possa ricavare una indicazione precisa sul valore che poteva avere, nella comunità romana del primo secolo cadente, la pratica del celibato ascetico. Noi possiamo semplicemente segnalare, nella fugace allusione clementina, la cura di mantenere la comunità nel senso profondo della solidarietà fraterna e il timore che tale solidarietà possa essere minacciata dall’indebita presunzione di chi vegga nell’esercizio dell’ascesi un livello di privilegio, anzichè un dono dello Spirito.

La medesima preoccupazione traspare nella lettera di Ignazio a Policarpo: «se qualcuno, ammonisce il vescovo avviato al martirio, può permanere in castità a gloria della carne del Signore, non esca per questo dall’umile sentire di sè. Se se ne gloria, è perduto, e se si reputa da più del vescovo, è finita per lui». Anche qui, come già in san Paolo, l’ideale della continenza sessuale sgorga dalla consapevolezza profonda ed efficace della solidarietà dei credenti, ciascuno dei quali fa parte della carne mistica del Cristo, che è la chiesa. Nulla qui di un ascetismo sessuale, che sia collegato, se non indirettamente e remotamente, ad una antropologia pessimistica e ad un dualismo etico cosciente. Il dovere morale del singolo e il suo ideale di perfezione poggiano unicamente sulla convinzione che il Cristo, causa e veicolo di salvezza, si concreta e si trasmette nella continuità visibile della società credente in Lui.

Uno stadio ulteriore della disciplina ascetica sessuale lo si è voluto scoprire nel Pastore di Erma, dove del resto il problema morale occupa effettivamente una posizione così eminente, e la lode della continenza è ad ogni passo ripetuta. Un episodio, fra gli altri, in questo stranissimo libro, dove l’esperienza religiosa intensa e ingenua ha tutte le connotazioni e l’andatura della letteratura apocalittica, ha offerto il fianco alle più disparate interpretazioni. Nella nona Similitudine Erma immagina che il Pastore («angelo della metánoia»), dopo averlo condotto in Arcadia, dopo avergli mostrato dall’alto su un monte altri dodici monti, e la torre, simbolo della chiesa, lo lasci alle vergini, che presiedono al decoro della torre, finchè non torni. Erma, nella sua trepida ingenuità, se ne allarma. E chiede quando il Pastore sia per tornare. «Rispondono le vergini: oggi il Pastore non torna più. Che cosa dunque farò io, si domanda, smarrito, Erma. Fino a vespero, rispondono esse, tu l’attenderai. Se egli sopravverrà, tu parlerai con lui: altrimenti, tu rimarrai con noi fino al suo arrivo». Erma non è molto rassicurato e protesta: lo attenderò fino al vespero, e se allora non sarà venuto, me ne andrò a casa per ritornare domani. Le vergini rispondono: tu sei stato consegnato a noi e non ti è consentito di allontanarti. Ma dove me ne starò? domanda petulantemente, Erma. «Con noi, rispondono, e dormirai come fratello, non già come sposo. Tu sei infatti nostro fratello: e del resto noi vogliamo dimorare con te, poichè ti vogliamo molto bene. Io veramente, confessa Erma, arrossivo al pensiero di dover rimanere con loro. E quella che fra loro sembrava la prima, cominciò a baciarmi e ad abbracciarmi. E quando le altre la videro abbracciarmi, anch’esse cominciarono a baciarmi, a trarmi in giro intorno alla torre, e a giocare con me. Ed io, quasi ringiovanito, mi diedi a giocar con loro. Le une intonavano i cori, le altre ballavano, le altre infine cantavano. Io, in silenzio, giravo intorno alla torre con loro e mi rallegravo con esse. A sera, me ne voleva tornare a casa. Ma non lo permisero, e mi trattennero. Rimasi con loro tutta la notte e dormii presso la torre. Le vergini dal canto loro stesero le loro tuniche di lino a terra e mi collocarono in mezzo ad esse e non fecero altro che pregare. Ed io pure ininterrottamente pregai, non meno di loro. E le vergini erano tutte liete nel vedermi pregare così. E rimasi fino all’indomani con le vergini, fino alla seconda ora».

Non occorre probabilmente scorgere in questo passo un indizio della pratica già esistente delle virgines subintroductae, come dopo l’Hefele, han creduto di dover fare il Funk e l’Achelis. Nè è possibile reputare l’episodio una allegoria. Nell’animo semplice di Erma, speculante sulle forme di vita e le esperienze specifiche della professione cristiana, la visione vuole essere una raffigurazione colorita e drammatica della ingenuità e della limpidezza, cui, nella pratica della comunità, debbono e sogliono ispirarsi i rapporti fra i due sessi. Nulla in tutto ciò dell’ascesi raffinata e dell’antropologia dualistica che, proprio nel medesimo tempo in cui Erma sognava, la predicazione gnostica e marcionitica andavano accreditando nell’ambito della società credente.

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