III. LE TRADIZIONI ASCETICHE CRISTIANE NEL SECONDO SECOLO

Il secondo secolo è il periodo della solida organizzazione del pensiero e della disciplina nel cristianesimo. Iniziatosi con le manifestazioni carismatiche ed extradogmatiche della letteratura subapostolica esso si chiude con le prime due grandi sintesi teologiche della chiesa organizzata: l’Élegchos di Ireneo di Lione e gli Stròmateís di Clemente Alessandrino. Il processo di maturazione in cui è preso il fatto cristiano fa sentire la sue ripercussioni nel dominio così dei concetti come della pratica morale. I movimenti salienti che lo contrassegnano sono la corrente apologetica, lo gnosticismo e il marcionismo. Ciascuno di questi movimenti ha esercitato la sua azione riconoscibile nella determinazione, così teoretica come pratica, dei postulati ascetici nella società cristiana.

Naturalmente nessuno di questi movimenti, che si sviluppano e si spiegano per entro al vasto ambito della società ecclesiastica, mette ancor capo alla costituzione di comunità cenobitiche o a vere e proprie chiese autonome. La posizione pubblica del cristianesimo nell’Impero offre tali rischi ed è gravida di tali responsabilità, che l’ascesi più ardua è sempre quella di mantener fede nel mondo alla consegna precisa del Vangelo. D’altro canto il simbolo di fede e le norme della disciplina tradiscono ancora qualcosa di così elastico e di così impreciso, che sono consentite, nella chiarificazione del primo e nella canonizzazione delle seconde, una libertà ed una agilità di mosse, che spiegano il fervore di indagini della speculazione cristiana per tutto il secondo secolo. La quale gravita prevalentemente verso il problema del male, pencolando sempre più decisamente, come la morale eroica del Vangelo postulava, verso concezioni antropologiche nettamente dualistiche.

Preoccupati non solamente di accampare al cospetto della cultura profana giustificazioni concettuali del messaggio cristiano, bensì anche, e molto più, di celebrare la novità prodigiosa della morale evangelica, gli apologisti ne enunciano i precetti fondamentali. Il rinnovamento interiore, che san Paolo aveva individuato nell’attimo del battesimo, è, agli occhi degli apologisti, concretato nella quotidiana pratica pura della vita. Dopo aver descritto l’amore, la pietà e il senso di fratellanza onde è tutta pervasa la comunità credente, Aristide esclama con spontaneo entusiasmo: «ecco una stirpe veramente nuova, ecco un lembo del divino entrato nel mondo» (XVI. 4). Come il nucleo di scrittori dell’età apostolica e subapostolica, gli apologisti conservano una coscienza profonda della missione affidata ai cristiani nel mondo. Essa è strettamente associata alla speranza viva del Regno imminente, che conferirà agli uomini la giustizia e la pace, inutilmente vagheggiate attraverso le industrie della «economia» terrena. È questa speranza che sostiene i cristiani nella loro odissea di giusti, esposti alla persecuzione e al martirio –: «perseguitati dalla guerra, proclama Giustino, dall’odio e da ogni perversità, trasformiamo dovunque le armi in strumenti di pace: le spade in aratri, le lance in arnesi agricoli. Nei nostri campi si coltiva la pietà, la giustizia, la fede, la speranza. Condannati alla decapitazione, alla croce, alle bestie, al carcere, al fuoco, a tutte le pene, tutti sanno come noi non desistiamo dal confessare; ma quanto più infieriscono le persecuzioni, tanto più numerosi si fanno i fedeli che aderiscono al nome di Gesù» (Dialogo, CX, 3-4).

L’antropologia che avviva la rigidezza morale patrocinata da Giustino non ha contorni così precisi come negli insegnamenti contemporanei di un Basilide o di un Marcione. Secondo Giustino, il genere umano è composto, praticamente senza eccezione, di peccatori. Sebbene Dio abbia dato a tutti gli uomini una guida divina verso la giustizia e una libertà mercè cui possono, se vogliono, vivere a norma dei principi eterni dell’equità, pure gli uomini, traviati dai demoni, schiavi dell’ambiente, precipitano invariabilmente al male. Di qui il bisogno di una salvezza, che ci immunizzi dalla dannazione imminente. Cristo ha apportato agli uomini questa salvezza, mercè una rivelazione concreta, che non è soltanto illuminazione intellettuale, ma forza viva ed energia operante, la quale pone il credente in grado di debellare vittoriosamente l’insidia demoniaca. Poichè i cristiani sono potentemente infiammati dal messaggio della chiamata del Cristo; non vivono più secondo quella particella di semenza razionale sparsa negli uomini, bensì secondo la conoscenza e la visione della ragione completa, che è il Cristo (Apologia, II, 8). Il mistero della salvezza cristiana è appunto in questo completamento della virtù potenziale che è in ogni uomo: il suo risultato è la pratica perfetta delle leggi che l’equità naturale impone al consorzio umano. Secondo Giustino, come secondo la più affinata scienza del tempo, l’uomo è un amalgama di elementi materiali (tà stoicheía, toút’ésti tèn gén caì tà álla omoíòs, ex òn nooúmen tòn ánthropon gegonénai, Dial. LVII, 2), foggiato da Dio.

L’organismo umano è dotato di un’anima, la quale consta di tutti i suoi coefficienti, non corporei, ad eccezione della ragione. Nessuna differenza fra quest’anima umana e il principio vivente degli animali. A quest’anima puramente «animale» è sovrapposto uno spirito vivente, che le infonde la capacità raziocinatrice e discriminativa. Nell’introduzione al suo Dialogo, Giustino, evidentemente attingendo dalle idee del platonismo circostante, accenna in maniera indiscutibile a questo duplice elemento semplice che presiede allo sviluppo della spiritualità nell’uomo. Ad ogni uomo che entra nel mondo s’impone l’opzione fra una foggia di esistenza metà lógou o áneu lógou (Apol. I, XLVI, 3): le conseguenze sono, naturalmente, nell’uno e nell’altro caso molto diverse. Anche prima di Cristo è stata possibile l’opzione migliore. I grandi dell’antichità la fecero con intuito chiaroveggente. Perchè lo «spirito» che è nell’uomo fu lasciato alla sua pura ispirazione. Il Logos è un effluvio seminale che emana da Dio e appare frammentariamente negli individui umani. Non è una pura capacità conoscitiva, è una forza e un impulso. Cristo, maestro e redentore, ha portato a piena consapevolezza di sè la particella di spirito che ogni creatura umana ha ricevuto da Dio; ha dato possibilità di perfetta attuazione alle sue virtù potenziali; ha reso universale la sua tesaurizzazione, riservata, nell’età precristiana, a pochissimi privilegiati.

Un allievo di Giustino, Taziano, doveva dare forma più organica a questa antropologia tricotomica e doveva ricavarne una precettistica che può considerarsi il primo saggio di una applicazione ascetica dei principi cristiani. Alle opinioni mutevoli e insulse dei filosofi, egli contrappone, senza rispetti umani, la professione della sua fede, che implica una particolare raffigurazione del corpo umano e del suo destino, come una visione precisa degli umani doveri: «Come prima di esistere, non esistendo, ignoravo chi sarei stato, sussistendo unicamente nella capacità sostanziale della materia corporea, una volta divenuto quel che non ero, per il fatto stesso dell’esser nato, ho fede nell’essere. Allo stesso modo io che sono nato e che attraverso la morte non sarò più, e non sarò più visto, pure sarò nuovamente, proprio come ora, generato dopo non essere esistito. Anche quando il fuoco avrà distrutto il mio involucro corporeo, il mondo continuerà a contenere la materia dispersa e volatilizzata. Potrò essere dissipato per fiumi e per mari, dilaniato dalle belve, sempre giacerò nei tesori del mio ricco Signore. L’ateo, l’indigente, può ignorare quel che essi contengono: ma Iddio sovrano, quando voglia, riporterà all’antica forma la sostanza corporea che a Lui solo appare visibile» (VI).

Condividendo col suo maestro le medesime speranze nel regno trionfale dei giusti, Taziano professa esplicitamente la dottrina della immortalità condizionata. Il principio vivente che l’uomo ha in comune con gli animali non ospita in sè alcuna virtù e capacità di sopravvivenza. Dio richiamerà in vita i perversi, per destinarli a una eterna punizione. Solo la conoscenza della verità, la sequela del giusto, la pratica della virtù, l’abbandono cioè dell’anima all’investitura dello spirito, la costituiscono nel dominio sicuro della immortalità, e della partecipazione alla vita divina. «Finchè l’anima è costituita sola al cospetto della materia, pencola fatalmente in basso, votata ad una comune morte con la carne. Ma quando abbia conseguito l’accoppiamento col divino spirito, non è più inerme, ma si leva verso là dove la guida lo spirito. Il quale dimora in alto, mentre la scaturigine di quella è in basso. Inizialmente in verità lo spirito fu associato all’anima. Ma la abbandonò poi, perchè riluttante a seguirlo. Però conservò come una scintilla della potenza dello spirito, e incapace ormai, a causa della scissione, di intuire le cose perfette, cercando Iddio, tratta in errore, seguendo l’insidia dei demoni, si foggiò molti dei» (XIII). Tutta la civiltà pagana è un imbroglio di Satana. Avendo preferito il governo dei molti, alla visione del governo monarchico della provvidenza, i «greci», cioè i rappresentanti della cultura ufficiale, hanno fatto gettito della loro coscienza a demoni forti: «E questi, simili al brigante che ha ragione dei propri simili mercè l’audacia, hanno traviato le loro anime, ingannandoli con superstizioni e menzogneri fantasmi». Anche ai demoni incoglierà la sorte lacrimevole dei perversi. Il compito pertanto dell’uomo savio è quello di riconquistare il perduto e di «attuare nuovamente la unione, quale Dio la vuole, fra l’anima e lo Spirito Santo. Perchè, si tenga ben presente, l’anima consta di molteplici parti, e non di una sola. È infatti composta in modo tale da potersi far manifesta attraverso il corpo. Nè, indipendentemente dal corpo, potrebbe mai dar segno di sè, nè può risorgere l’anima indipendentemente dal corpo. L’uomo non è davvero, come van sentenziando quei cotali dalla voce di corvo, un animale ragionevole, dotato di intelligenza e di conoscenza. Sulle loro orme si potrebbe mostrare che anche gli esseri irragionevoli sono capaci di intelligenza e di conoscenza. Soltanto l’uomo è immagine e simiglianza di Dio, naturalmente intendendosi per uomo non quegli che si comporta come gli animali, ma quegli che si è appressato a Dio, molto al di sopra della comune umanità... L’Iddio perfettissimo ed incorporeo, mentre l’uomo è essenzialmente carne. Legame della carne è l’anima: ricettacolo dell’anima, la carne. Qualora simile composto abbia forma di tempio, Dio agogna di dimorarvi, attraverso lo spirito trascendentale. Ma qualora l’edificio non possegga la purezza di un tempio, la superiorità dell’uomo sugli animali si riduce alla sola favella, e il rimanente della sua vita è pari alla vita dei bruti, perchè non è più la somiglianza di Dio» (XV).

Una antropologia di questo genere serviva di giustificazione dottrinale ad una morale rigidamente ascetica e ne era in pari tempo giustificata. Eusebio ed Epifanio, che dipende da lui, additano Taziano come il fondatore di una particolare setta, che faceva della continenza l’appannaggio necessario della professione cristiana. Il particolare, come tutti i ragguagli patristici che concernono il così detto encratismo, è indeterminato e ha tutta l’aria di una tradizione leggendaria. Noi sappiamo soltanto di sicuro da Clemente Alessandrino che Taziano scrisse un trattato sulla purificazione secondo il Salvatore (Peri toú catà ton Sòtéra cathartismoú) , in cui insegnava che la materia è la sede inguaribile del male e che il matrimonio è un’opera essenzialmente satanica. Motivi di questo genere saranno ripresi da un allievo di Taziano, in un trattato sulla continenza, di cui Clemente Alessandrino stesso riporta qualche esiguo frammento. Ippolito infine, nella sua grande Confutazione , accusa Taziano di negare che Adamo, il primo uomo e il primo peccatore, si sia salvato; di condannare, come Marcione, le nozze e di professare una dottrina intorno agli eoni analoga a quella dei valentiniani. La testimonianza patristica soggiace, evidentemente, alla preoccupazione di fondere quanto più sia possibile le correnti difformi dall’insegnamento ortodosso in un solo amalgama ereticale, stabilendo fra esse collegamenti fittizi e interferenze immaginarie.

La celebrazione della vita castigata, come onere naturale della professione cristiana, è comune a tutta la letteratura apologetica. Atenagora contesta vivamente ai pagani, abbandonati alle peggiori turpitudini, il diritto di biasimare coloro che si dànno alla vita continente o contraggono un matrimonio solo. Egli afferma che è possibile incontrare fra i cristiani molti individui, maschi e femmine, i quali mantengon fede alla vita celibataria fino alla loro estrema vecchiezza, onde raggiungere la più stretta unione con Dio. Non si tratta di rispettare così una integrità tutta esteriore. I cristiani vagheggiano e praticano la purezza dell’anima, soffocando ed estirpando fino il pensiero di ogni incontinenza». Gli intenti morali nella comunità cristiana erano di per sè indipendenti da qualsiasi particolare dottrina antropologica: possedevano una solidità propria ed autonoma. Gli apologeti più riccamente dotati di attitudini e di consuetudini metafisiche ne furono naturalmente indotti a saldare l’etica rigorista ad una visione della natura umana nettamente dualistica. Tanto bastò perchè gli scrittori ecclesiastici ponessero in un sol fascio apologeti intransigenti e maestri gnostici.

Lo gnosticismo tendeva anch’esso, in alcune almeno delle sue principali scuole, al rigorismo ascetico. Ma in questo esso, come in gran parte della sua speculazione teologica e soteriologica, dipendeva in maniera stretta e facilmente riconoscibile, dalle più note tradizioni dell’ellenismo e della misteriosofia. L’antropologia gnostica è un saggio di contaminazione di credenze astrologiche con postulati paolini.

I seguaci di uno dei più insigni maestri della gnosi, di Basilide, erano soliti definire, seconda la testimonianza di Clemente Alessandrino, le passioni, appendici, ritenendole spiriti per essenza, sopravvenuti e innestati sull’anima in seguito ad un turbamento e ad una confusione iniziali. Simile concezione del resto non era propria dei basilidiani: era più tosto un riflesso ed una applicazione alla psicologia umana della concezione cosmica che godeva maggior credito nel mondo colto, durante i primi secoli del cristianesimo. E per comprenderla a pieno non si può dimenticare che ogni idea e ogni teoria fisica ed antropologica risente della universale visione tolemaica del mondo, secondo cui la terra, circondata dalla volta celeste, rappresenta il centro immobile dell’universo. Intorno alla terra si muovono sette astri vaganti. Orbene: secondo i basilidiani e, in genere, tutti coloro che, sulla base della concezione tolemaica, speculano sulla natura dell’uomo, l’anima è scesa dalla sfera suprema e, percorrendo in discesa il cammino degli astri, ha lentamente sorbito qualità impure, che formano, nel loro insieme, un antímimon pneúma, uno spirito contraffatto, che grava sullo spirito genuino e ne debilita le primigenie capacità. Tributario di questa concezione, Arnobio, scriveva ancora agli inizi del quarto secolo: «nel nostro precipitare verso i corpi e nell’avvicinarsi al mondo umano, accade che si apprendano a noi degli influssi dai cerchi cosmici, per cui incliniamo prepotentemente al male, consumiamo le nostre energie in mal fare, ribolliamo nella cupidigia e nell’ira, ci avvoltoliamo, miserabili, nei connubi della pubblica prostituzione». Servio, lo scoliaste di Virgilio, commentando l’Eneide , scrive, sul tramonto del medesimo secolo: «I filosofi insegnano che l’anima, scendendo nei mondi inferiori, perda qualcosa in ciascuno dei cerchi astrali. Per cui gli astrologi suppongono pure che così l’anima nostra come il nostro corpo siano misteriosamente collegati alla potenza di singoli numi. Onde appare che attraverso il loro viaggio di discesa le anime contraggono la molle inerzia di Saturno, la focosa iracondia di Marte, la lussuria acre di Venere, la famelica avidità di Mercurio, l’ambizione di Giove, qualità coteste che suscitano il perturbamento nell’anima e le impediscono di usare del vigore e delle forze proprie». Ma l’esposizione più precisa di questa teoria si ritrova in Macrobio, il neoplatonico del quarto secolo cadente, che ci dà una descrizione grafica del viaggio dell’anima dalla sfera fissa alla terra, la quale può servire di commento esauriente all’antropologia basilidiana: «vi sono di quelli i quali dividono l’universo in due parti, ponendo nell’una il cielo, che si chiama sfera immobile e fissa (aplanés sphaíra); nell’altra, interposta fra essa e la terra e comprendente la terra stessa, le sette sfere mobili (planétai astéres). Secondo costoro, che sembrano di tanto più vicini al vero, le anime beate, immuni da un qualsiasi contatto col corpo, occupano il cielo. Ma quella di loro che sia presa da vaghezza del corpo, e riguardando da quella altissima e indefettibile luce sia mossa dal latente desiderio di quella che, quaggiù, chiamiamo vita, adagio adagio, tratta dal gravame della stessa riflessione terrena, scende verso le regioni inferiori. In ciascuna delle sfere che giacciono sotto il cielo si riveste di una eterea circonvoluzione, onde possa progressivamente acconciarsi al contatto di questo argilloso indumento. Sotto la pressione di un tal gravame, l’anima, scesa dallo zodiaco e dalla via lattea alle sottostanti sfere, in ciascuna di esse non solamente si ravvolge nella virtù del corpo luminoso, ma contrae in pari tempo i singoli moti che svolgerà nell’azione: nella sfera di Saturno contrae la capacità raziocinativa e l’intelligenza; in quella di Giove la forza dell’attività; in quella di Marte l’ardore del coraggio; in quella del Sole la natura senziente e cogitante; in quella di Venere l’istinto del desiderio; in quella di Mercurio la capacità dell’espressione; in quella della Luna l’attitudine allo sviluppo corporeo». Avvenuta la morte, l’anima intraprende il viaggio di ritorno verso la sfera fissa, da cui partì un giorno, e percorrendo in senso inverso la traiettoria attraverso i mondi planetari, rilascia quelle «appendici», che avevano costituito l’ingombrante fardello della sua così detta vita nel mondo. Allora, come è detto nel Poimandres , «la passione e la cupidigia si perdono nella natura irragionevole. E così quanto rimane dell’uomo si precipita in alto, attraverso l’armonioso collegamento del tutto. Alla prima zona (Luna) lascia la capacità di crescere e di decrescere; alla seconda (Mercurio) l’industre arte del raggiro, divenuta impotente; alla terza (Venere) la stolida illusione dei desideri; alla quarta (Sole) l’effimera vanità del comando; alla quinta (Marte) l’empia audacia e la petulante temerità; alla sesta (Giove) l’isterilito attaccamento alle ricchezze, causa di ogni perversione; alla settima (Saturno) la menzogna insidiosa. Denudata allora di tutte le opere contratte dalla armonia cosmica, l’anima perviene nell’ottava natura, ricca solamente della sua energia primigenia e unita al coro dei presenti, scioglie un inno di lode e di ringraziamento al Padre». I basilidiani non si dissimulavano la difficoltà che dalla dottrina delle appendici spirituali poteva ricavarsi contro la libertà dell’azione umana. Isidoro, figlio di Basilide, aveva scritto intorno a «l’anima concresciuta» (perí prosphuoús psichès) un intiero libro, in cui sembra si fosse sforzato di dimostrare come, anche avendo acquistato, durante la calata nel mondo, perversi ospiti, l’anima umana conservava la egemonia nella esplicazione delle proprie energie vitali ed era quindi responsabile delle sue malefatte. Clemente Alessandrino ne riporta un frammento: «lo stesso Isidoro, figlio di Basilide, nel suo libro intorno all’anima concresciuta, trattando di questa dottrina, quasi rimproverando sè stesso, scrive testualmente: in realtà, se avrai lasciato da alcuno supporre che l’anima non è semplice, ma in forza delle appendici diviene una cosa stessa con le passioni degli esseri inferiori, tutti gli scellerati fra gli uomini avranno un valido pretesto per proclamare: fui costretto, fui trascinato, nolente compii l’azione, non volendo, operai; mentre invece ciascuno può dominare le proprie malvagie cupidigie ed è quindi reo di non aver lottato contro la violenza delle appendici. Occorre più tosto che noi, innalzati a più alto livello in virtù della capacità raziocinativa, trionfiamo della natura inferiore, che giace in noi».

In queste parole ultime di Isidoro è tutto il programma morale delle correnti migliori dello gnosticismo. L’ideale ascetico era al principio e al termine delle loro speculazioni. Un frammento della scuola basilidiana, conservato pur esso da Clemente, e riguardante il matrimonio e il celibato, ce ne dà la testimonianza apodittica. Si tratta di un commento isidoriano al C. XIX (v. 10 e 25) del Vangelo di Matteo: «i seguaci di Basilide dicono che avendo gli apostoli formulato la domanda se non fosse stato meglio non sposare, il Signore rispose: non tutti sono capaci di comprendere questo discorso. Vi sono eunuchi dalla nascita, vi sono eunuchi per necessità. E spiegano così la sentenza: alcuni sperimentano fin dalla nascita avversione per la donna. Costoro, avvalendosi di simile temperamento naturale, fanno bene a non prendere moglie. Ecco, dicono, gli eunuchi per natura. Eunuchi per necessità son quegli esercitatori da circo i quali si vincono per accaparrarsi gloria, mutilati per qualsiasi causa. Ma chi è eunuco per necessità, non lo è, evidentemente, per convinzione. Coloro che si fanno eunuchi in vista del Regno eterno, costoro adottano e osservano simile divisamento a causa di tutto ciò che consegue al matrimonio, spaventati dalla preoccupazione nascente dal bisogno di acquistare tutto ciò che è necessario. E il motto – meglio è sposare che ardere – intendono come se l’apostolo, enunciandolo (I. Cor. VII. 9) avesse voluto dire: – non lasciare la tua anima al fuoco, notte e giorno resistendo, perennemente assillato dal timore di precipitare giù dal tuo stato di continente, poichè logorata nella lotta, l’anima finisce col disperarsi. Astienti dunque – dice testualmente Isidoro, nella sua Morale, passando all’esortazione, – dalla donna esuberante, onde tu non sia divelto dalla grazia di Dio, e avendo espulso da te il fuoco della passione, prega in serena coscienza. Quando però, egli continua, la tua azione di grazia si tramuti in supplica, e tu implori ormai non già più di star ritto, bensì semplicemente di non precipitare, sposa. Che se si tratta di un povero, o di un giovane, o di uno fortemente incline ai piaceri sensuali, il quale non vuole sposare, secondo l’aspirazione della ragione, costui non si allontani mai dal fratello. Vada più tosto ripetendo: sono penetrato nella sfera delle realtà sante, nulla più posso patire. E qualora nutra sospetto e timore, dica: fratello imponimi la mano, affinchè io non pecchi, – e attingerà aiuto, così spirituale come sensibile. Noi diciamo talora con le labbra: non voglio peccare, ma il nostro pensiero invece è tutto tuffato nella colpa. Chi è in queste condizioni, solo per timore non fa quel che va almanaccando, onde non sia segnata a suo debito la punizione. La natura umana possiede alcune proprietà, strettamente necessarie ed altre invece semplicemente naturali; ha, ad esempio, bisogno necessario e naturale di vestirsi; l’appagamento dello istinto sessuale è naturale, non già necessario».

L’orientamento ascetico del primitivo e genuino insegnamento gnostico appare qui evidente, nonostante le deviazioni di qualche conventicola gnostica più tarda e le contraffazioni escogitate dalla polemica ecclesiastica.

L’insegnamento originario di Valentino era altrettanto ascetico che quello di Basilide. Nello stesso luogo dove trascrive la teoria basilidiana delle appendici (prosartémata), Clemente, dopo aver rilevato come ciò equivalga ad ammettere, con i pitagorici, due anime nell’uomo, continua: «anche Valentino, scrivendo ad alcuni, si esprime allo stesso modo, a proposito delle appendici. Un solo è buono (Mt. XIX. 17), la presenza del quale è la manifestazione del Figlio. In virtù di Lui soltanto può il cuore divenire puro, espellendo in antecedenza ogni spirito malvagio. Poichè i molti spiriti che naturalmente dimorano nel cuore, non gli consentono di essere puro, compiendo ciascuno di essi le proprie gesta e attossicandolo tutto, nei più vari modi, con le più sconvenienti cupidigie. Pare veramente che il cuore umano sia esposto a subire la sorte di un albergo. Questo è sforacchiato, devastato, spesso fino imbrattato di lordure, qualora vi facciano dimora uomini dissoluti, i quali non ne hanno alcuna cura, col pretesto che si tratta di proprietà altrui. Allo stesso modo il cuore; finchè non sia oggetto di cura, immondo e devastato, è miserevole ricetto di innumerevoli demoni. Ma non a pena vi abbia spinto lo sguardo il solo buono, il Padre, è già santificato, e brilla nella luce. Veramente beato chi possiede un tal cuore, poichè vedrà Dio». Questo motivo valentiniano del cuore, che ha bisogno di essere mondato dalle tracce della dimora screanzata di Satana, avrà un successo larghissimo nella posteriore letteratura ascetica. A simile concezione della perversità organica della materia, che pervade di fermentazioni immonde lo spirito, di una materia che deve essere domata e tenuta in ceppi, corrisponde una cristologia docetica. Cristo è, per Valentino, il perfetto asceta. Appare da un altro suo frammento, pure conservato da Clemente, là dove negli Stromati, celebra la continenza e il dominio di sè: «Nella lettera ad Agatodopo Valentino dice: tutto avendo tollerato, Egli era pienamente signore di sè stesso. Veramente a modo divino operava Gesù. Mangiava e beveva in maniera particolarissima, non restituendo gli alimenti. Così prodigiosa forza di continenza era in lui, che nè pure il cibo si corrompeva nel suo organismo, poichè in realtà non v’era in lui capacità di corruzione» (II 7. 59). Ponendo anzi a raffronto questo tratto con un terzo frammento, oratorio, di Valentino, si ha la riprova convincente del collegamento che esiste fra la cristologia e l’etica, non solamente nel valentinianesimo. Sempre secondo la testimonianza di Clemente, «in una omelia, Valentino aveva ammonito: – voi siete immortali e figli della vita eterna fin dall’inizio. Voleste che la morte fosse ripartita fra voi, onde dissiparla e dissolverla, onde la morte morisse in voi e per voi. Poichè, in realtà, quando scomponete il mondo, senza lasciarvi voi scompaginare, siete i dominatori del creato, siete i superatori di qualsiasi corrompimento».

Può darsi che nelle idealità ascetiche, rivestite di una concezione antropologica nettamente dualistica, risieda la natura specifica e differenziale dello gnosticismo. Sta di fatto che tutta la produzione letteraria marginale dello gnosticismo, quasi tutta cioè la così detta letteratura apocrifa, è improntata ad un medesimo spirito ascetico e nel programma della rinuncia e della continenza ha il suo connotato comune. Si direbbe che attraverso le preoccupazioni e le finalità dell’ascetismo si opera la transizione e la mediazione fra il cristianesimo, come esperienza di attesa escatologica e il cristianesimo, come esperienza di perfezionamento individuale nell’apotaxía.

Se di tale transizione si vuole una espressione caratteristica, è sufficiente porre a confronto le beatitudini del discorso della montagna, con quelle enunciate negli atti di Paolo: «quando Paolo entrò nella casa di Onesiforo, si diffuse una grande gioia. Ci si pose in ginocchio, si spezzò il pane, si parlò il linguaggio di Dio a proposito della continenza e della risurrezione. E Paolo disse: – beati i mondi di cuore, perchè vedranno Iddio; beati coloro che custodiranno casta la loro carne, perchè diverranno tempio di Dio; beati i continenti, perchè ad essi Dio parlerà; beati coloro che avranno rinunciato a questo mondo, perchè piaceranno a Dio; beati coloro che hanno moglie come se non l’avessero, perchè avranno Dio in eredità; beati coloro che nutrono il timore di Dio, perchè diverranno angeli suoi; beati coloro che paventano alle parole di Dio, poichè saranno consolati; beati coloro che accolgono la sapienza di Gesù Cristo, perchè saranno chiamati figli dell’Altissimo; beati coloro che han custodito il sigillo della loro iniziazione battesimale, poichè troveranno riposo presso il Padre e presso il Figlio; beati coloro che hanno accolto la comprensione di Gesù Cristo, poichè entreranno nella luce; beati coloro che per amore di Dio sono usciti dal fantasma del mondo, poichè saranno benedetti alla destra del Padre; beati i misericordiosi, perchè riceveranno a loro volta misericordia e non scorgeranno l’alba amara del giudizio; beati i corpi verginali, perchè saranno accetti a Dio e non perderanno il guiderdone della loro castità, perchè la parola del Padre varrà per essi come opera di salvezza nel giorno del suo Figlio, e avran pace per l’eternità».

Se gli atti di Paolo attestano la diffusione delle correnti encratite nelle comunità cristiane dell’Anatolia, altri frammenti di apocrifi ce ne dimostrano la larga circolazione in Egitto e in Occidente.

Accennando, nel quinto libro della sua grande confutazione contro tutte le eresie, alla dottrina antropologica dei Naasseni, Ippolito romano si esprime così: «dicono costoro che l’anima è realtà ardua a rinvenirsi e a conoscersi. Che non permane, immutabile, nella identica attitudine e nella medesima forma, nè soggiacente ad uno stesso sentimento, sì che sia consentito definirla secondo uno schema determinato o afferrarla nella sua intima natura. Queste cangevoli ed evanescenti nozioni essi attingono dal Vangelo detto degli Egiziani». Contemporaneamente ad Ippolito un altro polemista e teologo, Origene, menzionava il medesimo apocrifo nel suo commentario al prologo di Luca. Ma egli era molto meglio in grado di conoscerne la natura e il contenuto. Viveva nello stesso ambiente che lo aveva visto nascere e in propinquità dei gruppi cristiani che probabilmente ne preferivano il testo e gli insegnamenti al testo e agli insegnamenti di quelli che erano ormai i Vangeli ufficiali. A buon conto, di quel Vangelo egiziano, dalle sensibili tendenze puritane ed encratite, aveva tenuto presenti gli aforismi più tipidi e più suggestivi, tentandone una interpretazione armonistica e accomodata, il suo maestro e predecessore nella direzione del didascaleíon alessandrino, il prete Clemente, quando, nel terzo libro dei suoi prolissi e farraginosi Tappeti, si era accinto a tracciare e a celebrare la dottrina cristiana del matrimonio. Veramente si discute se Clemente attingesse questi aforismi direttamente dall’apocrifo nella sua redazione originale o in una sua rielaborazione ortodossa. C’è di più. Si discute pure se egli ebbe una conoscenza immediata del Vangelo o lo conobbe attraverso la utilizzazione fattane da un encratita intransigente, continuatore di Taziano, quel Giulio Cassiano di cui abbiamo fatto già menzione. Argomenti però della massima verosimiglianza sono in favore di una conoscenza diretta del Vangelo, che Clemente avrebbe acquistata mentre attendeva al proprio lavoro. Il padre alessandrino avrebbe anzi concepito una malcelata simpatia per l’aura di spiritualità e di raffinatezza che avvolgeva e animava l’apocrifo, in contrasto netto e brusco con la tendenza legalistica e realistica che caratterizzava il Vangelo adottato dai gruppi avversari di Alessandria, quelli ebionitici. A centocinquanta anni di distanza da Clemente un altro scrittore ecclesiastico menzionava il Vangelo degli Egiziani: Epifanio di Salamina. Ma là dove meno ce lo aspetteremmo, se dovessimo arguire unicamente dalle reminiscenze di Clemente: nella trattazione cioè consacrata alla eresia sabelliana (Pan. LXII). Quali collegamenti sussistevano fra le tendenze ultraascetiche dell’apocrifo, e il suo ipermonoteismo? E Ippolito, che rimproverava ai Naasseni di ricavare la loro dottrina dell’anima da un testo non canonico, come non aveva veduto che il medesimo scritto racchiudeva l’errore trinitario ch’egli rimproverava con tanta acredine al suo avversario Callisto? Lo stato dei frammenti superstiti del Vangelo non consente alcuna seria discussione di questi spontanei quesiti. Dei Sabelliani, precisamente, Epifanio dice: «tutta la loro ingannevole dottrina e la forza del loro errore ricavano da alcune scritture apocrife, in particolar modo dal Vangelo detto egiziano, al quale appunto alcuni hanno applicato tal nome. In esso infatti sono affastellate con aria di gran mistero molte di tali cose, come provenienti dalla persona del Salvatore, quasi che egli avesse rivelato ai discepoli essere il medesimo il Padre, il medesimo il Figlio, il medesimo lo Spirito Santo». Ora nulla si ritrova di questa professione sabelliana nei pochissimi frammenti superstiti dell’apocrifo, tutti saturi di puritanismo dualistico. Riferisce Clemente alessandrino: «coloro che si inscrivono in falso contro la creazione di Dio (sotto il pretesto di una ben famata continenza, citano anche quelle parole rivolte a Salome, di cui già antecedentemente abbiamo fatto menzione, riferite, penso, nel Vangelo degli Egiziani. Dicono infatti che il Salvatore avrebbe dichiarato: «Io venni a distruggere le opere della donna». E Clemente commenta, con un semplicismo fin troppo ingenuo: «della donna dunque. Vale a dire della concupiscenza; le opere, cioè la generazione e la corruzione». Quindi Clemente prosegue nella citazione: «avendo appropriatamente il Logos accennato al compimento finale, Salome dice: fino a quando gli uomini moriranno? Risponde il Signore ponderatamente: finchè le donne genereranno. E sussumendo essa: bene dunque feci non procreando.... ribatte il Signore dicendo: mangia di ogni erba: ma astienti dall’erba dell’amarezza». Nel medesimo terzo libro dei suoi Stromati Clemente aveva già attinto dallo stesso apocrifo: «domandando Salome quando saranno gli eventi intorno a cui aveva interrogato, dice il Signore: quando abbiate posto sotto i piedi l’indumento della vergogna e quando i due divengano uno, e l’uomo con la donna, nè uomo nè donna. Nei quattro Vangeli a noi tramandati, non troviamo il detto, ma nel vangelo degli Egiziani».

Tutta la letteratura gnostica, dalle origini alle tarde e grossolane deformazioni, è, come il Vangelo degli Egiziani, un tessuto di presunte rivelazioni del Cristo spirituale alla comunità degli eletti. E pressochè tutta è improntata a preoccupazioni rigoristiche, che giungeranno nei più tardi apocrifi alle speculazioni raffinate, intinte di manicheismo, di Leucio Carino.

A differenza delle sètte gnostiche, la cui prolificità letteraria ha del sorprendente, il marcionismo, l’altra grande corrente ascetica del secondo secolo, ha disseminato le proprie comunità, non ha moltiplicato la propria suppellettile speculativa. Solo Apelle aggiunse, per proprio conto, al bagaglio letterario affidato da Marcione alla sua scuola, una raccolta di «rivelazioni» e una catena di «ragionamenti». Nella sua rapida disseminazione il marcionismo si avvalse solamente degli scritti nei quali il maestro pontico aveva concentrato la sua concezione del messaggio evangelico, la sua valutazione del contrasto fra questo e l’economia religiosa d’Israele, della celebrazione perfetta che esso aveva trovato nell’insegnamento di Paolo. Questi scritti inoltre tradivano un singolarissimo carattere. Non contenevano raffinate speculazioni mistico-teologiche o complicate elucubrazioni cosmogoniche. Anzi, proprio di suo, Marcione aveva composto una sola opera, strana ed originale così per il contenuto come per la forma, cui aveva imposto un titolo, anch’esso inconsueto, desunto dalla nomenclatura retorica: Antitesi. E quest’opera stessa non aveva nulla di letterario e di retorico: era la segnalazione nuda, arida, impressionante, dei contrasti irriducibili che sussistono fra l’economia del Vecchio Testamento e quella del Nuovo: più profondamente ancora, delle antinomie che sussistono fra le leggi della giustizia onerosa e quello dell’amore volonteroso; infine, ancora più a fondo, del conflitto immanente fra le cupidigie della sensualità e le aspirazioni della spiritualità che ogni essere cogitante porta in sè stesso. Ma questa stessa opera, nelle intenzioni di Marcione, non doveva essere isolata dal testo canonico, che egli aveva pazientemente ricavato dalla tradizione evangelica e dall’insieme dell’epistolario paolino. Saldamente persuaso che il messaggio del Cristo costituisse una novità strabiliante nel processo di sviluppo della religiosità umana, ma in pari tempo convinto che esso avesse subìto immediatamente, nel gruppo stesso dei primissimi seguaci, una contraffazione sostanziale, Marcione si era accinto a ripristinare il tenore primitivo, costituendo un testo ufficiale, isolato da tutte le contaminazioni degli adattamenti giudaizzanti. Aveva così compilato un vangelo che era il Luca canonico spogliato da quelli che gli apparivano rivestimenti parafrastici tendenziosi e un «apostolico», costituito da dieci lettere paoline, alleggerite anch’esse dagli apporti con cui le aveva contraffatte lo spirito della vecchia religiosità legalistica, insinuatasi per entro alla giovane comunità credente. Di questo testo risanato ed ufficiale, le Antitesi dovevano costituire l’apparato esegetico e il controllo dimostrativo.

Marcione le apriva, eloquentemente, così: «o meraviglia delle meraviglie, è cosa da far rimanere stupefatti ed allibiti, che, intorno all’evangelo, nulla, assolutamente nulla sia possibile dire, nulla pensare, nulla dovunque trovare come possibile termine di confronto!». Noi abbiamo qui subito un chiaro sentore del terreno sul quale il maestro pontico intendeva concentrare il nerbo della religiosità cristiana. Con Cristo aveva avuto inizio, egli diceva, una inaudita e sconcertante «nova et hospita dispositio» senza precedenti e senza paralleli. Il messaggio cristiano non rappresentava una rivelazione fra molte: era la rivelazione. Al cospetto del suo contenuto originale che cosa mai potevano valere le altre «dispositiones» religiose; che cosa mai poteva valere la stessa «dispositio» a cui il cristianesimo ufficiale direttamente si ricongiungeva, quella del Vecchio Testamento? Quest’ultima era tutta nella manifestazione cosmogonica e storica di un Dio creatore e giudice, potente e irascibile. Se una «dispositio» religiosa deve assolutamente ipostatizzarsi in una sostanza divina, si poteva pure riconoscere che il Dio del Vecchio Testamento era stato radicalmente difforme da quello del Nuovo. Dell’assoluta bontà del secondo, Gesù, apparso improvvisamente in mezzo agli uomini nel decimo quinto anno di Tiberio, si era costituito araldo e testimone. È vero: ad argomento della sapienza benevola del Dio creatore si additava lo spiegamento meraviglioso dell’universo sensibile e del mondo umano. Marcione ne storceva il viso, infastidito e nauseato. Bell’affare, in verità, il mondo della creazione materiale, con tutte le sue brutture, le sue deformità, le sue putretudini, le sue basse fermentazioni! Chi, dopo il Vangelo, ha conosciuto la economia della bontà, ha qualcos’altro da ammirare che non le innumerevoli creature materiali, di cui non si sa la ragione e non si vede lo scopo. Il vero problema che tormenta e attanaglia l’esperienza associata dell’uomo è il problema del male e questo problema non ha che una soluzione: quella scoperta dal Vangelo, con la manifestazione della bontà e della longanimità, dei valori cioè che appartengono alla «dispositio» dello Spirito, che è il Signore stesso. E dopo tale scoperta ogni utilizzazione della precedente economia è una contaminazione e un corrompimento. Che effettivamente i capisaldi dell’insegnamento marcionita fossero i princìpi ricavati dalla esperienza della elementare vita spirituale e della valutazione assoluta del rovesciamento dei criteri etici operati dal Vangelo, e non fossero postulati di speculazione teologica, come amano raffigurarli uniformemente i polemisti ecclesiastici, appare dal fatto che Marcione esprime e riprova fondamentalmente il suo dualismo con due detti evangelici che investono propriamente, non già le categorie ontologiche della universa realtà, bensì le connotazioni etiche dell’operare umano e dei cicli storici: le due immagini cioè dell’albero buono o cattivo che dà frutti secondo la rispettiva qualità e l’impossibilità per l’otre vecchia di accogliere vino nuovo.

La bontà di cui Marcione scopriva nel Vangelo la rivelazione impareggiabile portava l’onere dell’assoluta rinuncia, anche a possibili guiderdoni sensibili. L’ascetismo marcionita prescindeva da qualsiasi sanzione. Probabilmente, anzi, era questo l’aspetto del marcionismo che doveva infliggere maggior fastidio alla materialistica e legalistica raffigurazione dei doveri e dei premi, che Tertulliano prediligeva, e molti altri prediligevano con lui. Più che due dei, come gli scrittori ecclesiastici persistono a dire, Marcione, molto probabilmente, mirava sopra tutto a distinguere due reami nel tormentato mondo cui noi apparteniamo, due reami che si confondono drammaticamente in noi stessi: il reame della materia e quello dello spirito. Il primo, contrassegnato dalla avidità, dalla sopraffazione e dalla irruzione della violenza; l’altro guidato dall’ideale della rinuncia e della bontà. Il primo ha avuto la sua manifestazione integrale nel Vecchio Testamento: il secondo ha dovuto attendere la rivelazione arrecata dal Cristo, per essere instaurato sulla terra. Ma immediatamente dopo gli stessi seguaci di Gesù, incapaci di realizzare a pieno la consegna e l’ideale del Maestro, ne hanno adulterato i precetti, frammischiandovi i comandamenti e le sanzioni della economia oltrepassata. I Vangeli recano l’impronta di simili adulterazioni. Paolo è stato l’unico degli apostoli che abbia vissuto e riaffermata la completa e genuina originalità del messaggio cristiano. Anche il suo epistolario però è stato rimanipolato dallo spirito giudaizzante che lo seguiva e lo neutralizzava alle calcagne. Marcione reintegra pertanto, in teoria e in fatto; l’autentica tradizione cristiana, con tanto maggiore e più alacre zelo, in quanto nella assimilazione della vera parola di Gesù, il quale ha dischiuso il mistero della spiritualità e dell’amore, è ormai, per lui, il veicolo infallibile della salvezza. Marcione isola così nella storia dell’umanità il miracolo della redenzione e lo colloca al centro della spiritualità e del suo destino. L’apparizione del Cristo, il suo messaggio, la sua abnegazione al cospetto delle forze materiali onde è retto il mondo e al cospetto del Signore di questo – quando il contrasto dei valori nella vita è sentito violentemente si traduce in una visione pragmatica dualistica – costituiscono un fatto così strepitoso, che è lecito ormai dividere il corso del tempo in due cicli nettamente distinti, da quella data solenne. E precisamente dall’istante in cui il Cristo bandisce la tavola del suo «editto»: il discorso della montagna. In comparazione della novità e della trascendentalità di questa impensabile visione dei rapporti morali fra gli uomini, che cosa possono mai valere i racconti miracolosi dell’infanzia e le dichiarazioni armonistiche e accomodanti, tendenti a conguagliare l’economia nuovissima alle tradizioni superate del popolo che era stato tanto più violento ed iniquo, quanto più si era ritenuto fedele ad una giustizia legale, vincolata farisaicamente ad una mercede sensibile? Marcione ne faceva perciò man bassa, dovunque non era possibile dare dei particolari aneddotici e delle dichiarazioni messianiche realistiche registrate dal Vangelo una interpretazione puramente mistica. Poichè tutto ai suoi occhi, in questo Vangelo, era destinato a valorizzarsi mercè la raffigurazione di una spiritualità eroica; tutto doveva trasfigurarsi in un ciclo di concezioni e di visuali, donde la materialità fosse radicalmente, intransigentemente esclusa. I mezzi e i segni di simile trasfigurazione erano offerti dall’etica eccezionale e inaudita bandita dal Cristo. La quale doveva costituire il compito e la tessera di ogni aderente a Lui, pur sapendosi in anticipo che, come essa aveva portato il Cristo alla croce, avrebbe esposti i proseliti all’odio del mondo e all’ignominia.

Ed è qui l’incalcolabile importanza dell’insegnamento marcionitico nello sviluppo delle correnti ascetiche nel cristianesimo antico. La morale di Marcione era di una austerità dura e intransigente. Coinvolgendo in un unico verdetto di nausea e di condanna l’universo sensibile, Marcione sognava per il credente un’esistenza di pura abnegazione per il bene e per lo spirito, proibendo tutto che rappresentasse una concessione alla materia e una complicità col suo sovrano. Alle sue comunità non si poteva essere iniziati se non si faceva professione assoluta di vita continente. Il maestro pontico trattava il matrimonio con parole di condanna improntate ad un realismo brutale. E la sua precettistica austera, Marcione scioglieva da qualsiasi vincolo di ricompensa eudemonistica. Ai suoi occhi, la «benignitas» del Nuovo Testamento, se nulla aveva di comune con la morale legalistica del Vecchio, nulla nè pure implicava di una qualsiasi escatologia realistica. Il vecchio Dio della legge poteva essere temuto: il nuovo Dio non poteva essere che amato. Polemizzando, Tertulliano prendeva lo spunto da un assioma di questo genere, per domandare ironicamente perchè mai, avendo rinunciato ad una qualsiasi sanzione sensibile, i marcioniti non operavano il male. La risposta di Marcione a tale obbiezione era stata in anticipo pronta e recisa: «giammai, giammai!» La consegna dei marcioniti era quella di rassegnarsi a tutte le rinunce sensibili, a tutte le più aspre mortificazioni della carne, senza chiedere affatto il guiderdone di un Regno beato, e senza compiacersi della futura vendetta che l’Iddio giudice si sarebbe preso dai recalcitranti alla sua economia, nel giorno della sua parusia.

Ad una sublimazione così disinteressata della morale evangelica si ribellava la ottusa mediocrità della chiesa ortodossa, cui era indispensabile una morale sanzionata e una escatologia realistica. Tertulliano fu l’interprete di simile refrattarietà della massa all’ideale impalpabile di Marcione. Nel duello di Marcione e di Tertulliano si concretò per la prima volta un conflitto che non avrebbe mai più lasciato di dilacerare le viscere della società cristiana: il conflitto fra l’aspirazione idealistica al bene, sognato ed attuato come una consegna scaturiente dalla rivelazione estasiante del Dio dell’amore, e la concezione del bene come logorante lavoro quotidiano, da registrarsi nel libro mastro, per il dì in cui un giudice impassibile avrebbe tirato le somme del dare e dell’avere; il conflitto fra la legge del taglione e la libera spensieratezza della abnegazione e della dedizione. Solo le circostante storiche – arbitre sovrane del destino degli uomini – segnarono il marchio dell’eresia sull’asceta pontico, che in altri momenti, probabilmente, sarebbe stato circonfuso dall’aureola di santo.

Tertulliano fu il patrocinatore legale di questa iniqua sentenza contro Marcione. Ma in nessun terreno, come su quello morale, la polemica si trasforma con altrettanta prontezza in rivalità ed in emulazione. Per combattere efficacemente il marcionismo occorreva non farsene prendere la mano nei titoli della rigidezza etica. Per bistrattare al modo di Tetulliano un predicatore di ascesi e un rivendicatore della perfezione cristiana come Marcione, ci voleva una celebrazione altrettanto assoluta dell’eroismo etico e della rinuncia completa. Tertulliano fu automaticamente indotto a rincarare sempre più la dose della sua intransigenza pratica, dal de pallio al de corona, dal de fuga al de monogamia e al de jejunio, proprio dal suo battagliare teorico contro il dualismo antropologico e storico di Marcione.

Il medesimo, analogamente, era accaduto a Clemente alessandrino, il quale, impegnato a fondo nella polemica antignostica, non vuol essere da meno di coloro che combatte, nella celebrazione delle più alte idealità morali. Quindi, dopo aver impugnato i teoremi cosmogonici e antropologici della gnosi, dopo aver rivendicato, contro il suo dualismo esagerato, la santità del matrimonio, si compiace anch’egli di tracciare il profilo del cristiano perfetto, dello gnòsticós ideale, come Filone e i neoplatonici tracciavano il profilo dello spoudaíos.

«Tale, egli scrive, è lo gnostico, che solo per la conservazione del suo corpo cede alle esigenze fondamentali del suo organismo, alla fame, alla sete e a simili bisogni. E quanto al corpo del Salvatore, preoccuparsi di sapere se abbia sentito il pungolo di esigenze naturali sarebbe affatto ridicolo. Infatti il Cristo mangiava non a causa del corpo, retto da una virtù santa, ma perchè gli altri che erano con lui non si ingannassero sulle sue proprietà, come accadde ad alcuni. Egli era però di fatto impassibile e su di lui non vi poteva essere alcun movimento, nè di dolore nè di dispiacere. Gli apostoli essendo riusciti, in virtù dell’insegnamento del Signore, a dominare le passioni, non hanno ricevuto quei beni che rampollavano dai moti passionali, quali l’audacia, lo zelo, la gioia, la letizia. Rimasero invece sempre immutabili nel possesso, dopo la risurrezione del Signore. Lo gnostico nè pur lui nutrirà emulazione, poichè nulla gli abbisogna per rendersi simile al bello e al buono. Il suo non sarà l’amore comune, ma l’amore che va al creatore attraverso le creature. Lo gnostico non è travagliato da brame e da desideri. Di nulla è bisognoso, avendo attuato, mercè l’amore, l’unione con l’amato, col quale vive sotto lo stimolo della sua elezione, standogli continuamente accanto. È così beato per la sovrabbondanza dei beni e si sforza di essere simile al Maestro nella perfetta impassibilità. Sarebbe sciocco il dire che non è consentito togliere allo gnostico e al perfetto la passione e il coraggio, quasi che, mancando, non fosse più capace di ribellarsi alle circostanze esteriori, di tener fronte alle difficoltà quotidiane; quasi che, togliendogli la letizia interiore, finisse con lo straniarsi completamente dalla vita; quasi che, se si astenesse da ciò che è bello e buono, non lo dovesse nè pur prendere più il desiderio delle cose simili a questo. Dappoichè, si dice, se ogni rapporto e contatto con le realtà belle, sgorga dallo stimolo del desiderio, come può rimanere impassibile chi tende alle cose buone? L’obbiezione non vale. Il desiderio dell’amante non è aspirazione verso l’ideale: bensì partecipazione benevola nell’unità della fede, che reintegra lo gnostico, affrancato dalle categorie del tempo e dello spazio. Entrato, per mezzo dell’amore, nel possesso di quelle cose alle quali perverrà, avendo già ricevuto la speranza attraverso la conoscenza, esso non aspira e non si protende più verso una mèta nuova, avendo conseguito e raggiunto il desiderabile. Rimarrà sempre pertanto nella medesima condizione di spirito, e non potrà attingere una ulteriore somiglianza con la bellezza, avendola già conseguita attraverso l’amore. Che bisogno ha dunque mai di coraggio e di desiderio, colui il quale ha toccato la partecipazione col Dio impassibile, mediante l’agápe? Il nostro gnostico perfetto è dunque affrancato da qualsiasi passione psichica, perchè la conoscenza genera lo esercizio continuato, e questo una disposizione, e di qui nasce uno stato di impassibilità, non solamente il dominio delle passioni. L’eliminazione di ogni passione è appunto la impassibilità. Il vero gnostico non deve albergare nel suo animo nè pur quei moti che generalmente sono reputati buoni: quali la gioia, che è legata al piacere; la malinconia, che è affine alla tristezza. Nè pure il desiderio, che può destare l’ira. Sebbene alcuni dicano che tutti questi sentimenti non sono mali, bensì beni. Poichè non è possibile che colui il quale una volta si è perfezionato mediante l’amore e si è abbeverato alla gioia della contemplazione, si diletti poi delle cose di poco valore e materiali».

Clemente alessandrino ritorna di frequente sul concetto che la vita pura della contemplazione costituisce la «genuina pietà religiosa e porta alla vera condizione dell’iniziato cristiano, l’impassibilità. Nel libro quinto degli Stromati (c. II) egli ripete: «è sacrificio accetto a Dio la separazione dal corpo e da tutte le passioni. Non ha forse rettamente sentenziato Socrate che la perfetta vita filosofica consiste nella contemplazione della morte? Infatti, non già colui che segue le visioni sensibili partecipa alla vera filosofia, bensì chi è mondo di cuore e di azione. A questo scopo precisamente mira, secondo Pitagora, il silenzio di cinque anni prescritto ai discepoli, affinchè, alienandosi da ogni realtà sensibile, possano scorgere Dio con l’intelletto puro. I migliori degli elleni hanno speculato su queste cose, attingendo da Mosè».

Clemente va così innanzi nella celebrazione della impassibilità gnostica, da avvicinarla alla condizione degli angeli: «colui il quale comincia con lo sperimentare il soggiogamento delle passioni, e si adopera per sospingere l’anima verso l’impassibilità e la perfezione, è realmente simile agli angeli. È luminoso come un sole che irradia la propria luce. Mercè la retta conoscenza, costui tende a raggiungere, mediante l’amore di Dio, la situazione santa degli Apostoli. È possibile anche oggi a coloro che vivano nell’osservanza dei precetti del Signore, gnosticamente, aderendo compiutamente al Vangelo, di essere inscritti nel novero degli Apostoli».

Ma Clemente non applica meccanicamente al tipo ideale del cristiano gnostico i connotati del saggio stoico o platonico. Egli afferma ripetutamente che lo gnostico non può prescindere dalla fede e che la gnosi è la traduzione razionale di un fatto mistico preesistente. Che le preoccupazioni etico-religiose fossero preminenti nel pensiero e nell’insegnamento dell’alessandrino appare ben chiaro dalla sua Esortazione alla pazienza: «cerca la serenità nelle azioni, la serenità nelle parole, così nella lingua come nel comportamento. Evita gli impeti inconsiderati. A questo modo anche la mente rimarrà salda, e non essendo sconvolta dalla passione, non sarà fiacca, non sarà di corto discernimento. Spesse volte, durante il giorno, poni in comune il tuo pensiero con quello dei tuoi fratelli, ma sopra tutto sta in comunicazione con Dio di giorno e di notte. Il sonno non ti allontani per lungo tempo dalla preghiera e dagli inni, poichè un sonno prolungato è rivale della morte. Costituisciti compagno di Cristo che fa brillare i raggi divini dal cielo. Il Cristo sia la continua e incessante tua gioia. Trascura le molte cure del corpo nutrendo la tua anima di speranze protese verso Dio. Il quale ti assicurerà le cose necessarie e l’alimentazione per vivere, di che coprire il tuo corpo, la protezione sufficiente contro il freddo del verno. Poichè al tuo Signore appartiene la terra e tutto che in essa si trova. Il Signore ha cura delle membra dei suoi fedeli come se fossero suoi altari e suoi membri. Non temere pertanto le malattie che ti sopraggiungano nè la vecchiaia sopravveniente, poichè anche la malattia verrà meno, quando con tutto l’animo adempiamo i precetti di Dio. Sapendo questo, fortifica la tua anima, sii coraggioso come un atleta il quale nello stadio si sottopone a tutte le fatiche con energia indomabile. Non lasciare che il tuo spirito sia invaso dalla tristezza, quando gravi su di te una malattia o qualsiasi cosa spiacevole. Contrapponi invece nobilmente alle avversità la forza del raziocinio, ininterrottamente rendendo grazie a Dio in mezzo alle più aspre difficoltà, poichè i disegni di Lui sono molto più sapienti di quelli degli uomini: son tali che è impossibile all’uomo scoprirli. Nutri compassione per i miseri e implora per tutte le creature umane l’assistenza del cielo, poichè Dio concederà grazia a colui che prega per l’amico e darà soccorso agli sventurati. Egli vuole che gli uomini conoscano il suo potere e vivano nella speranza che, giunti alla piena conoscenza, ritornino a Lui e possano gioire eternamente, quando il Figlio di Dio verrà a restituire le realtà proprie alle cose affini».

Come nel suo continuatore, Origene, la aspettativa della «parusia» prendeva in Clemente l’aspetto di una immensa visione reintegratrice dell’universo nel grembo di Dio. Il suo spiritualismo platonico lo induceva a scorgere nell’universo lo stadio transitorio di una realizzazione incompiuta. E l’uomo, nell’odissea della natura verso la perfezione, non aveva altro compito che quello di attuare, nella contemplazione e nell’ascesi, la conquista perfetta dello spirito.

In Clemente la mediazione fra l’ideale cristiano e l’ideale dell’ascetismo filosofico è compiuto. Con lui, la tecnica dell’ascesi è entrata definitivamente nell’ambito dell’insegnamento ecclesiastico.

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