IV. ORIGENE E METODIO DI OLIMPO

Nessuno scrittore precostantiniano ha destato impressione altrettanto profonda che Origene: nessuno ha lasciato una eredità spirituale altrettanto complessa e discussa. Ma su un punto ammiratori entusiasti e detrattori implacabili sono stati sempre concordi: nel riconoscere le elevatezza morale e l’ascesi rigidissima di questo maestro impareggiabile di esegesi e di apologetica.

Eusebio di Cesarea, che ha consacrato presso che un intiero libro, il sesto, della sua storia ecclesiastica alla celebrazione del teologo alessandrino, tradisce in maniera significativa l’importanza attribuita alla prassi e all’insegnamento di Origene nello sviluppo delle idealità ascetiche nel cristianesimo, ponendone in rilievo le manifestazioni salienti e delineandone i connotati: «quando Origene vide gli allievi assieparsi più numerosi alla sua scuola, che Demetrio, il capo della chiesa, riconosceva come unica scuola di catechesi, ritenendo disdicevole il tirocinio delle discipline grammaticali all’acquisizione e all’esercizio delle conoscenze divine, immediatamente la ruppe con tutto ciò che, puramente grammaticale, appariva incompatibile con le discipline sacre. Quindi stipulò un patto, onde non essere più nel bisogno di far ricorso all’aiuto altrui: donò cioè tutto quel che aveva di opere antiche, trascritte in copie eccellenti, contentandosi per il sostentamento di ogni giorno dei quattro oboli che l’acquirente gli assicurò. Per molti e molti anni Origene si attenne a questo genere di vita, squisitamente filosofico, recidendo da sè tutto quello che avrebbe potuto alimentare le passioni giovanili. Ogni giorno egli si sottoponeva a duri esercizi ascetici. Gran parte della notte consacrava allo studio delle scritture divine. Si atteneva nella più alta misura possibile al genere di vita filosofico, ora addestrandosi negli esercizi del digiuno, ora concedendo al sonno un lasso di tempo limitatissimo, non prendendolo in generale su un giaciglio coperto, ma sulla nuda terra. Egli riteneva doversi sopra tutto ottemperare alle parole evangeliche del Signore, le quali inculcano di non avere due vestiti e di non servirsi di sandali, come anche di non consumare il proprio tempo nelle preoccupazioni dell’avvenire. Di più, con una capacità di resistenza superiore alla sua età, si ostinava a restare nel freddo e nella nudità, spingendo la povertà fino al limite estremo. Quelli che egli erano da presso ne erano impressionati. Moltissimi anzi ne erano desolati e lo scongiuravano di accettare la comunanza dei loro beni, vedendolo sopportare così aspri disagi per l’insegnamento divino. Ma egli resisteva a tutte le loro pressioni. Si dice anche che per molti anni egli andò attorno senza mai servirsi di calzari. Per più tempo ancora si astenne dall’uso del vino e di tutti gli alimenti non indispensabili al sostentamento. Onde ne cadde in pericolo di spostamento e di alterazione del petto. Egli offriva a coloro che ne erano testimoni tali esempi di vita filosofica, a buon diritto provocando numerosi allievi a concepire la medesima emulazione con lui, che allora pagani non credenti e personaggi di cultura e di filosofia, e non i primi venuti, erano attratti dall’insegnamento che egli impartiva. Anzi questi, avendo accolto schiettamente da lui nel fondo della loro anima la fede nella parola divina, si segnalarono in quell’epoca di persecuzione, sì che alcuni furono catturati e finirono martiri».

L’ammirazione illimitata del vescovo costantiniano per il maestro alessandrino dà un sapore di artificio e di amplificazione a questa pagina biografica, della cui sostanziale verità storica non v’è però alcuna ragione di dubitare. Tutto l’insegnamento origeniano tende conformemente alla celebrazione dell’ideale «filosofico», vale a dire ascetico, della prassi cristiana. E l’antichità cristiana ha riconosciuto concorde che Origene non tollerava difformità fra le teorie professate e la vita vissuta.

Oltrepassando le caute e ponderate enunciazioni di Clemente, costantemente preoccupato di cadere nel dualismo gnostico ogni qual volta avesse detratto esageratamente alla dignità dello stato matrimoniale, Origene, pur combattendo i partigiani di una verginità costretta, bistratta in tutte le maniere la condizione dei coniugati e celebra in tutti i toni la verginità e la continenza.

Egli esalta con entusiasmo l’ideale della verginità, pur ponendo gli asceti in guardia contro la vanità che potrebbero essere tentati di concepire per la eccellenza della loro condizione. Solo i vergini hanno compreso integralmente il messaggio del Cristo e hanno visto in Gesù e nei santi l’esemplare della loro esistenza. La brama di assumere a propria volta la croce e di seguire il Cristo, di non più vivere per sè stessi, ma nel Cristo spirituale, ha destato l’abnegazione degli asceti. Loro ricompensa, è la partecipazione al divino. Sarebbe arrischiato ricavare dai passi nei quali Origene inculca ai credenti la consacrazione della loro vita alla perfetta rinuncia e alla pratica della assoluta continenza un argomento sicuro in favore della esistenza di un voto, identico a quello introdotto più tardi nelle forme dell’ascetismo disciplinato e organizzato. La sua è una parenesi che prescinde ancora da ogni stilizzazione concreta della promessa che si fa a Dio, nell’intimo foro della coscienza. Egli non inculca tanto il materiale allontanamento dal mondo, quanto la solitudine e il raccoglimento dello spirito, intento alla contemplazione degli ideali divini.

In questo egli è il patrocinatore coerente e completo dell’adattamento cristiano del programma ascetico, caro alle migliori correnti della tradizione filosofica. E per questo il suo insegnamento e la sua disciplina poterono godere così largo credito anche nel mondo della cultura e della spiritualità extra-cristiana. Eusebio attesta in proposito: «testimoni del successo di Origene gli stessi filosofi greci che fiorivano nell’età sua. Nei loro scritti noi troviamo frequente menzione di lui. Talora essi gli dedicano i loro scritti. Tal’altra li sottopongono al suo giudizio, come a quello di un Maestro. Ma val la pena di ricordare tutto ciò, quando, ai tempi nostri, in Sicilia, quel Porfirio che ha compilato grosse opere contro di noi, che ha cercato di bistrattare in esse le Sacre Scritture e ricorda così coloro che le hanno commentate, non riuscendo ad accampare alcun argomento di biasimo contro le dottrine, in mancanza di argomenti, fa ricorso alle invettive e investe gli esegeti? Costui se la prende in maniera particolarissima con Origene. Dice di averlo conosciuto nella sua età giovanile e si attenta di diminuirne la figura. Ma suo malgrado finisce invece con l’esaltarla, sia quando dice la verità, essendogli impossibile fare diversamente, sia quando mentisce, là dove si illude di non essere scoperto. A volte insorge contro Origene, perchè cristiano; a volte invece descrive i suoi insigni progressi nelle dottrine filosofiche. Ecco quel che dice testualmente. – Alcuni, tutti presi dal desiderio di trovare il mezzo, non già di romperla del tutto con le scritture giudaiche, ma di affrancarsene, fanno ricorso a commenti incoerenti e senza collegamento con i testi, i quali, anzi che una spiegazione soddisfacente agli occhi degli estranei, apportano più tosto ammirazione e lode ad uno di coloro che sono di casa. Ostentano e gabellano così per enigmi cose che in Mosè sono dette chiaramente e le proclamano pomposamente come oracoli ricolmi di misteri reconditi. Offuscano così col fumo dell’orgoglio il senso critico dell’anima, e si apprestano quindi a sciorinare i loro commentari... Simil genere di assurdità viene specialmente da un uomo che anch’io ho praticato nella mia prima giovinezza, uomo venuto in gran fama e tuttora celebrato per gli scritti che ha lasciati. Parlo di Origene, la cui gloria si propaga vastamente fra i seguaci di queste dottrine. Egli è stato infatti uditore di Ammonio, il quale ha conseguito alla nostra, età un lusinghierissimo successo in filosofia. Egli ha ricavato dal maestro un prezioso ausilio per divenire eccellente nella capacità didattica, ma per ciò che concerne il retto orientamento della vita ha scelto la via contraria alla sua. Perchè Ammonio era cristiano, dai genitori educato fra cristiani. Ma quando ebbe gustato del retto ragionare e della filosofia, immediatamente trasmigrò alla foggia di vita conforme alle leggi. Origene al contrario, greco, educato nelle greche discipline, è andato ad incappare in questa barbara audacia: incaponendosi nella quale, deformò la sua stessa capacità e abilità dialettica. Nel suo modo di vivere fu cristiano e si pose fuori della legge, ma per tutto ciò che investe le opinioni intorno alle realtà e intorno al divino, fu greco e non fece che applicare l’arte dei greci ai miti stranieri. Aveva familiare Platone. Le opere di Numenio, di Cronio, di Apollofane, di Longino, di Moderato, di Nicomaco e degli uomini esperti nelle dottrine pitagoriche costituivano il suo pascolo quotidiano. Egli si serviva anche dei libri di Cheremone lo stoico e di Cornuto, dai quali apprese il metodo allegorico nella interpretazione dei misteri greci, applicandolo poi alle scritture degli ebrei».

Senza volerlo, ispirato dal suo malanimo contro Origene, tanto più vivo quanto più profonda ne era la radice nel suo senso di mascherata invidia per la superiorità della sintesi origeniana sulla propria raffigurazione della spiritualità, Porfirio ci dà graficamente i connotati tipici della posizione di Origene, così sul problema della prassi ascetica, come, del resto, su tutti gli altri della cultura religiosa al suo tempo. Origene è un meraviglioso mediatore fra la cultura ellenistica e il messaggio cristiano: le sue idealità ascetiche sono idealità platoniche e pitagoriche, trasferite su terreno evangelico. Con lui il vecchio iperascetismo neotestamentario, che aveva avuto una momentanea reviviscenza al tramonto del secondo secolo con il movimento montanista, cede definitivamente il posto alla prassi ascetica, che verrà adattando alla organizzazione della comunità cristiana i principi cari alla pedagogia dello Stoa e delle scuole pitagoriche. Un’ultima resistenza, tale primitivo iperascetismo la opporrà con Metodio di Olimpo, antiorigeniano e grande predicatore, in pari tempo, della rinuncia assoluta. Ma il suo millenarismo ne farà un isolato, che Eusebio non nomina mai nella sua storia e su cui Girolamo sorvola, nel De viris inlustribus (n. 83).

In verità, fuori dalla cerchia della letteratura neotestamentaria e di quella subapostolica, l’autore dagli scritti del quale noi possiamo più nitidamente desumere le affinità e le differenze fra l’attitudine ascetica presieduta e disciplinata da presupposti filosofici e le aspirazioni e le esperienze caratteristiche del messaggio cristiano, è appunto Metodio di Olimpo, il quale, alla vigilia della riforma costantiniana, sembra riprodurre, nei suoi scritti mistici, i tratti entusiastici della primitiva aspettativa escatologica.

A prima vista il destino di Metodio nella storia letteraria del quarto secolo cristiano sorprende. Scrittore di sottile e ornata eleganza, avvivato da un profondo e caldo sentimento religioso, circondato dall’aureola del martirio, egli non ricevette, ciononostante, dai suoi contemporanei e dai suoi immediati successori, quel riconoscimento e quella considerazione che la sua attività letteraria e la sua fine gli avrebbero dovuto meritare. Adananzio riproduce larghi estratti così dal De autexusio e dal De resurrectione di Metodio, ma senza citare affatto il nome del loro autore. Anche Eusebio cita un considerevole tratto del primo di quei due scritti, attribuendolo però a Massimo (De praep. evang., VII, 22). Da Girolamo però apprendiamo che nel sesto libro della sua apologia di Origene, Eusebio stesso indirizzava a Metodio il medesimo rimprovero che Rufino rivolgeva a Girolamo.

Se noi però ricordiamo lo spirito irriducibilmente antiorigeniano del vescovo martire, e dall’altra parte le radicate simpatie origenistiche che contrassegnano la produzione letteraria dei più eminenti rappresentanti della cultura ecclesiastica in Siria e in Anatolia nell’epoca costantiniana, noi possiamo agevolmente comprendere come la fama postuma di Metodio andò rapidamente eclissandosi e individuare di rimbalzo le ragioni del favore con cui lo nomina Epifanio, citandone larghi brani nel suo Panarion. Ragione di più per ricercare come mai i grandi ideali della rinuncia, che Origene aveva celebrato e praticato e Metodio a propria volta si accingeva ad esaltare, si ricollegavano nell’uno e nell’altro a presupposti antropologici e a visioni escatologiche così contrastanti.

Fra le molteplici manifestazioni della rinuncia ascetica, la continenza verginale occupa, naturalmente, il primo posto. Il principale dialogo di Metodio, il Simposio, o Della castità, concepito e redatto sullo schema dei dialoghi platonici, è, precisamente, un penegirico della verginità. Metodio immagina che la vergine Gregoria (la «vigilante» che attende lo sposo, secondo la similitudine evangelica) gli narri gli elogi alternati dedicati nel giardino della Virtù da dieci vergini alla castità. L’ultima, Tecla, la protagonista degli Atti di Paolo, scioglie alla castità un inno ritmato, il cui ritornello suona così: «Io dedico a te, o sposo, la mia carne casta e impugnando la lampada lucifera vengo a te incontro».

Vi sono strofe in questo inno dalle quali traspare chiaramente che Metodio avvertiva come il suo insegnamento intorno alla perfezione cristiana rappresentasse, in quel momento, qualcosa di inconsueto e di oltrepassato, alla cui sanzione fosse necessario fare appello a una rinnovata esplosione di fervore messianico:

«Dall’alto, o vergini, si ode un clamore risuscitante i morti che invita ad andare, d’ogni parte, incontro allo sposo, con le vesti candide, con le lampade accese, verso il nascente sole. Destatevi, prima che il Signore venga ad assidersi nella sua casa regale.

Sdegnando i piaceri mortiferi, rinunciando ai diletti della vita lussuriosa e all’amore, io bramo di riposare nell’ombra delle tue braccia, apportatrici di vita, e di contemplare la tua bellezza, in eterno, o beato.

Abbandonando i talami terreni e la dimora delle nozze mortali, abbagliata dal tuo mirifico splendore, o Signore, venni, in veste immacolata, per riposare con te nei talami beati.

Sono venuta sottraendomi alle mille insidie del dragone, affrontando e sopportando la fiamma del fuoco, gli assalti mortali delle bestie malefiche, te aspettando dai cieli.

Ho dimenticato la mia patria, protesa verso la tua grazia, o Logos; ho dimenticato perfino le danze delle vergini mie coetanee, l’ira della madre e dei congiunti, poichè tu sei tutto per noi, o Cristo.

Tu sei il corifeo della vita. Salve, o luce senza tramonto. Accogli il grido: il coro delle vergini inneggia a te».

L’inno al Cristo si protrae ancora per alcune strofe. Poi si indirizza alla chiesa, alla sposa. E il tono si fa ancora più alto: il cantore è più intimamente consapevole della singolarità del suo messaggio:

«Noi ci rivolgiamo a te, o beata sposa di Dio, e sciogliamo a te un inno, noi tue ancelle, a te, vergine ingenerata, dal niveo corpo, dalla chioma ornata di lapislazzuli, senza macchia, oggetto di infocato desiderio.

La corruzione si è dileguata. Il tormento di quei mali che strappavano le lacrime è scomparso. Soppressa è la morte. Finita è la stoltezza. La tristezza che liquefa i cuori è, anch’essa, svanita. È venuta a risplendere sugli uomini la gioia di Gesù Cristo.

Il paradiso non è più vuoto di mortali, perchè di nuovo viene ad abitarlo, secondo la divina costituzione, l’uomo sottrattosi alle insidiose arti del dragone, divenuto incorruttibile, senza timore, beato.

Il coro delle vergini di nuovo ora scioglie a te un inno e lo lancia verso il cielo, o regina, tutta luce, a te che stai sui candidi calici dei gigli e che tieni fra le mani fiamme risplendenti.

O tu, beatissimo, che abiti le immacolate sedi celesti, o tu che non riconosci sopra di te comando alcuno, o tu che tutte le cose avvinci in perpetuo legame di forza, ricevi anche noi col tuo Figlio, dentro le tue sacre porte; noi siamo qui, o Padre».

Le difformità della concezione ascetica del vescovo anatolico da quelle di Clemente e di Origene appaiono in tutta la loro entità nel trattato intorno alla risurrezione, il perì anastáseòs. Il quale è precisamente un trattato polemico contro gli origenisti. Metodio vi immagina che a Patara, nella casa di un medico, Aglaofone, si discuta il problema se la carne sia effettivamente destinata a partecipare alle gioie della risurrezione e della immortalità. Due degli interlocutori, l’ospite Aglaofone e Proclo, son d’accordo con Origene nel negare al corpo umano, quale ha vissuto sulla terra, alcuna capacità di condividere con lo spirito la vita beata. Metodio sostiene al contrario che quel medesimo corpo umano il quale è passato dal mondo al trionfo della incorruttibilità, parteciperà precisamente a questa vita. Con dinanzi agli occhi una prospettiva escatologica, che ricorda da presso quella delle prime generazioni cristiane, Metodio assevera che l’universo sensibile non è così radicalmente corrotto da non poter entrare, come elemento integrante, in quella universale palingenesi, attraverso la quale la gloria del Cristo trionfante si rivelerà, e che, nel quadro di essa, l’uomo, con la sua costituzione corporea, non è l’espressione del male e del pervertimento, bensì è l’opera di un divino artefice, la quale non ha bisogno che di pochi ritocchi per godere, senza limiti, della benedizione e della letizia del Padre.

«Iddio non poteva tollerare, vedendo l’uomo, l’essere più bello della sua creazione, viziato dalle insidie invidiose del maligno, che rimanesse in simile condizione, – perchè Dio ama l’uomo – e che, per l’eternità, fosse oggetto di spregio, portando con sè il suo abbominio. Per questo, attraverso la morte, ricondusse l’organismo umano ai suoi elementi essenziali, affinchè, attraverso una nuova formazione fossero distrutti e annullati tutti gli elementi malefici».

Agli occhi di Metodio, pertanto, la morte non è, come nel pensiero di Origene, la distruzione di questa fetida prigione corporea, nella quale l’anima è reclusa in espiazione di una peccaminosa volontà originaria. È più tosto il ponte di passaggio verso una provvidenziale reintegrazione dell’organismo umano, chiamato ad un trionfale destino. Qui Metodio è in antitesi perfetta con la concezione platonizzante di Origene. Egli la investe ed impugna apertamente.

«Se quanto è generato è per questo solo malato, e soffre così a causa della generazione e dell’alimentazione (è accresciuto, infatti, com’egli dice, da ciò che è aggiunto ed è diminuito da ciò che è tolto), quanto non è generato, sarà, per questo stesso, felice, poichè non è malato, non abbisogna di nulla, nè desidera, mentre tutto ciò che è generato, è stimolato dalla concupiscenza e brama il nutrimento, e il bramare è già un essere malati, mentre l’esser sani è precisamente il non aver bisogno di nulla e il non desiderare. È malato pertanto quel che è generato, perchè desidera: e il non generato invece non è malato. E tutte le cose che soffrono, soffrono sia per la sovrabbondanza di elementi che sopraggiungono, sia per quelli che si sottraggono».

Metodio ricava di qui un argomento ad hominem. Se, come Origene sostiene, tutto che è generato è intimamente corrotto, perchè è travagliato da bisogni e da appetiti, mentre è sano ed integro solamente ciò che non sperimenta nè gli uni nè gli altri, e, di conseguenza, l’uomo, il quale è generato, non può essere immune da passioni e quindi non può essere immortale, ne segue che anche gli angeli e gli spiriti, generati gli uni e gli altri, sono nelle identiche condizioni e quindi periranno. Invece nè gli angeli nè le anime periscono, perchè sono immortali e indistruttibili, come il loro Creatore ha voluto che fossero. Alla stessa stregua anche l’uomo è immortale.

Ma Metodio non si arresta all’aspetto negativo della sua dimostrazione. Assurgendo ad una vasta visione cosmica, in cui è veramente il tratto differenziale del suo insegnamento etico e religioso, Metodio si appropria i motivi celebrati da san Paolo nel capo ottavo della lettera ai Romani, e chiamando la creatura universa a partecipare a condividere l’aspirazione umana alla gioia e alla beatitudine, scioglie la professione della sua fede millenaristica: «non mi piace quel che vanno dicendo, che tutto, cioè, debba essere consumato fino alla radice e che (nel Regno di Dio) non vi saranno più nè terra, nè esseri, nè cielo; che il mondo intero, divorato dal fuoco, sarà incendiato per la purificazione e per il rinnovamento, che esso andrà verso la rovina e la universale distruzione. Se infatti fosse meglio per il mondo il non esistere, anzichè l’esistere, per quale mai ragione Iddio, creando il mondo, avrebbe scelto il partito peggiore? Iddio non fa nulla stoltamente e attenendosi alla soluzione inferiore, Iddio dunque operò la creazione perchè essa rimanesse, come attesta esplicitamente la Sapienza proclamando: – Dio creò tutte le cose perchè fossero, e salutari sono le generazioni del mondo, e non vi è in esse elemento di perdizione. – E anche Paolo saggiamente attesta dicendo: – l’aspettativa della creazione si protende verso la rivelazione dei figli di Dio: poichè la creazione fu assoggettata alla vanità, non per suo volere, ma per volere di colui che ve l’ha assoggettata, nella speranza che la creazione sarà un giorno liberata dalla schiavitù della corruzione, per partecipare alla libertà della gloria dei figli di Dio. – Dice: alla vanità fu assoggettata la creazione. – Ma soggiunge: – per essere liberata da simile servitù. – Vuol dunque indicare, per creazione, questo mondo. Poichè non le cose che non si vedono, servono alla corruzione: bensì quelle che si vedono. Rimarrà dunque la creazione alla risurrezione, rinnovata e trasfigurata in una condizione più radiosa, felice e tripudiante per i figli di Dio, per i quali ora geme e soffre le doglie del parto, attendendo il nostro riscatto dalla corruzione del corpo. Chè quando noi risorgeremo, e quando avremo espunta da noi la mortalità della carne, secondo quel che è scritto: – Scuoti da te la tristezza, o Gerusalemme, e sollèvati, – quando cioè noi ci saremo affrancati dal peccato, la creazione stessa tutta sarà sciolta dai legami della corruzione, non più schiava della vanità, bensì della giustizia».

I millenaristi cristiani del secondo secolo, fra cui Papia e Ireneo sono le figure più tipiche e più autorevoli, avevano stilizzato le loro aspettative mistico-religiose nel quadro di una palingenesi cosmica che avrebbe assicurato agli eletti una beatitudine coinvolgente tutto il loro essere, rallegrata dal ringiovanimento e dalla fecondità esuberante della natura fisica. Questa prospettiva lusingatrice aveva loro dato il coraggio necessario per sostenere la lotta cruenta col mondo pagano. Ora, all’alba del quarto secolo, dopo che all’ingenuo e fantastico idealismo del cristianesimo primitivo aveva fatto seguito la faticosa elaborazione concettuale degli gnostisci e della metafisica alessandrina, Metodio riviveva a suo modo la gioiosa idealità del millennio e di rimbalzo tutta la sua esperienza cristiana ne era approfondita, tratta ad una più vigile consapevolezza della sua irriducibilità ai valori e alle aspirazioni del mondo. In tutta la sua argomentazione Metodio segue alle calcagne la escatologia ultra spirituale di Origene, per batterla e sovvertirla. «Ma allora, sussurrano i nostri avversari – egli dice – se l’universo non sarà distrutto, perchè mai il Cristo annunciò che il cielo si sarebbe disciolto come fumo e la terra si sarebbe inaridita come stoppia?» E Metodio risponde acutamente: «la scrittura vuole adoperare il vocabolo distruzione (apóleia) per indicare la trasformazione (metabolè) della presente configurazione cosmica in qualcosa di migliore e di più glorioso, dissolvendosi la forma preesistente nel cambiamento di tutte le cose verso uno stato migliore». Sicchè, secondo Metodio, quando noi leggiamo nelle Scritture di una rovina dell’universo sensibile, noi dobbiamo pensare ad una provvidenziale palingenesi, attraverso la quale la creazione animata ed inanimata sarà innalzata ad una condizione di esistenza la quale, pur non cancellando i connotati fondamentali del mondo attuale, li esalterà e li migliorerà fino al più alto livello. Metodio conclude trionfalmente la sua polemica contro Origene, proclamando solennemente che essendo tutte le cose essenzialmente buone, procedendo dalla mano creatrice di Dio, anche l’uomo, composto qual’è di anima e di corpo, rappresenta, per sè stesso, una natura buona, destinata a partecipare alla gioia della vita immortale con tutti gli elementi del suo essere composito, nessuno eccettuato.

Questi eloquenti estratti dalle due principali opere di Metodio bastano a mostrare l’importanza di questo scrittore nello sviluppo delle concezioni etiche e metafisiche all’alba del quarto secolo. Essi offrono in pari tempo una riprova significativa delle profonde interferenze che legano l’etica alla escatologia. Quanto più la morale è rigida ed elevata, altrettanto più si tradisce collegata ad una aspettativa intensa di una imminente risoluzione provvidenziale, la quale imprimerà un nuovo orientamento al corso degli avvenimenti e imporrà un termine alle ingiustizie e alle sperequazioni che sussistono, funzionalmente, in ogni organizzazione sociale. In mezzo allo sforzo che la società cristiana sta compiendo nel quarto secolo per ridurre il messaggio evangelico a formole di una religione formalistica e conservatrice, suscettibile di adattamento alle circostanze politiche esteriori e di compromesso con queste, l’attitudine di Metodio appare come l’ultima sopravvivenza di quella vocazione all’eroismo che era stata familiare al cristianesimo primitivo ed era stata sostenuta dal grande sogno chiliastico. E mentre al tramonto del quarto secolo, con Epifanio e con Girolamo, la pratica ascetica e la dottrina della risurrezione della carne appaiono come la conciliazione definitiva di un’ascesi di provenienza extra-cristiana con una forma di escatologia che è il surrogato del primitivo chiliasmo, nell’epoca di Diocleziano e di Massimino il vescovo di Olimpo, candidato al martirio, affida alla società cristiana l’ultimo proclama della perfetta rinuncia, sotto l’unico stimolo di una fede entusiastica nella restaurazione dell’universo nella gioia e nella libertà dei figli di Dio.

La società cristiana non lo raccoglieva. Solo a pochi anni di distanza dalla morte di Metodio, poco dopo la vittoria di Licinio su Massimino, Eusebio di Cesarea introduceva e patrocinava fra i cristiani una dicotomia, la quale, per quanto destinata ad un successo clamoroso nella successiva evoluzione della società cattolica, rappresentava ad ogni modo l’abbandono radicale di quel programma di perfezione che, secondo la maggioranza degli scrittori cristiani precostantiniani, avrebbe dovuto rappresentare l’appannaggio indispensabile di ogni credente, chiamato ad essere téleios. Nella sua Dimostrazione evangelica Eusebio scrive: «anche per la chiesa del Cristo sono state fissate norme per due generi di vita. L’uno è al di là della natura e fuori della foggia normale della esistenza. Non consente il matrimonio: non tollera la procreazione dei figli: non fa lecito l’acquisto o il mantenimento della proprietà. Trasforma la normale e consueta condotta degli uomini dal principio alla fine e li fa servire solamente a Dio, sotto l’impulso di un celeste amore. Coloro i quali si convertono a questo genere di vita sembrano morti alla comune foggia di esistenza dei mortali e non fanno che trascinare il loro corpo sulla terra, dappoichè la loro anima è già trasferita misticamente in cielo. Come inquilini del cielo essi riguardano la quotidiana vita degli uomini, consacrati, per tutto il genere umano, al Dio che è al di sopra di tutte le cose... non già mediante sacrifici di buoi e con sangue, nè con libazioni e aromi, nè con fumo nè con fuoco divoratore... ma mercè sane dottrine, improntate a pietà vera, mercè la disposizione di un’anima pura, mercè opere e parole sature di bontà. In tal modo, propiziando la divinità, costoro assolvono un compito sacerdotale, a vantaggio loro e a vantaggio degli altri». Questa è la norma della perfetta vita cristiana. Ma v’è, continua Eusebio, un’altra via, nell’ambito delle ordinarie capacità umane, la quale non esige il ripudio dei diritti e dei doveri che sono inerenti alla vita politica e sociale del genere umano. Contrarre matrimonio, procreare, attendere agli affari, sottostare docilmente alle leggi dello stato, e assolvere, in ogni sfera d’azione, i compiti del cittadino normale, ecco altrettante espressioni di vita perfettamente compatibili con la professione cristiana, purchè siano accoppiate allo strenuo proposito di conservare la pietà e la devozione verso il Signore. Il cristiano accetta parimenti come del tutto commendevole questo secondo genere di vita, onde nessuna classe di uomini e nessun popolo possano ritenersi privati dell’eminente beneficio della «manifestazione salutifera» del Cristo.

Così Eusebio, il futuro consigliere di Costantino, formulava quella distinzione fra precetti e consigli su cui l’etica del cattolicismo doveva porre la sua base. Anche Origene aveva distinto, tra i cristiani, i practicoí dai theòrèticoí: ma ai primi aveva assegnato come luogo appropriato solamente l’atrio del tempio, mentre aveva assicurato l’accesso solamente ai puri. Ora Eusebio, rispecchiando le pressanti esigenze della cristianità, la quale, sotto lo stimolo del suo stesso proposito di divenire religione di maggioranza, era costretta a mitigare il suo primitivo programma etico, fondeva nella identica professione le due categorie di credenti. Si comprende come ai suoi occhi il misticismo esaltato di Metodio e il suo tentativo di riattizzare l’entusiasmo della rinuncia cristiana ravvivando il fervore dell’aspettativa chiliastica, doveva apparire come l’illusione fatua di un uomo irrimediabilmente fuori del suo tempo. Lo storico il quale aveva definito Papia di Gerapoli come un «corto di cervello», non avrebbe potuto concepire simpatia per il suo continuatore del quarto secolo. Metodio doveva aspettare lunghi decenni prima di trovare in Epifanio di Salamina un apprezzamento equo della sua dottrina della risurrezione della carne, sebbene pure nel Panarion fosse viva la preoccupazione di purgare il suo insegnamento antiorigeniano dalla taccia di chiliasmo.

La società cristiana posteriore a Costantino trovò opportuno adottare la netta distinzione introdotta da Eusebio fra le due diverse vie in cui è possibile vivere a norma del precetto evangelico. Ma nel corso dei secoli ogni rinascita religiosa si rivolse automaticamente alla concezione mistica delle primitive generazioni cristiane, per le quali il messaggio del Cristo non aveva lasciato altra alternativa che quella della rinuncia al mondo, nell’aspettativa della perfetta giustizia.

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