V. LA CRISI RELIGIOSA DEL QUARTO SECOLO E LA GENESI DEL GRANDE CENOBITISMO CRISTIANO

Quando, sconfitti ad Adrianopoli nel luglio del 324 gli eserciti di Licinio, Costantino entrava a Bisanzio, mentre il labarum sventolava alla testa della cavalleria della guardia imperiale, egli attuava il sogno politico dell’unificazione dell’Impero. Annullava il regime tetrarchico concepito da Diocleziano, ma in pari tempo ne proseguiva il programma etico-sociale, che consisteva nel piegare lo Stato romano alle consuetudini dell’Oriente. Se favorendo il cristianesimo Costantino parve introdurre nella costituzione dell’impero un fattore nuovo d’imponente efficienza, in realtà non fece con ciò che perseguire in nuova forma e con diversi elementi il fine medesimo cui aveva mirato, con mezzi impari allo scopo, l’imperatore dalmata: spostare verso levante l’asse politico-militare dell’Impero, così smisuratamente sviluppato e così bisognoso di difesa ai confini, e cercare nelle popolazioni della periferia orientale il fulcro della sua rinsaldata solidità. Soltanto, chiamando al riconoscimento ufficiale la religione cristiana, Costantino cercava nelle classi orientali che Diocleziano, Massimino e lo stesso Licinio avevano più aspramente malmenato, la base etnico-sociale per la vagheggiata sicurezza del suo impero unificato. Si sarebbe il cristianesimo orientale acconciato a questo sottile accaparramento della sua efficienza pubblica a vantaggio di quel potere politico, contro cui la propaganda cristiana aveva costituito inizialmente le sue comunità? Si riaffacciava ad Oriente il medesimo problema che aveva travagliato il cristianesimo latino dopo il 312: ma data la molto maggiore vastità della penetrazione cristiana in Oriente, dati i vantaggi molto più diretti e molto più appariscenti che la conversione di Costantino e la sua protezione aulica arrecavano alle chiese dell’Anatolia e della Siria, si comprende come le conseguenze del gesto religioso costantiniano e delle sue implicite intenzioni politiche dovessero essere ben più vaste e più profonde di quelle suscitate in Occidente dall’editto di Milano e dalla protezione accordata agli ortodossi dell’Africa romana.

Tre grandi crisi infatti si delinearono sollecitamente nell’ambito della società religiosa, cui il sovrano veniva a chiedere una continuata cooperazione nello svolgimento del suo programma politico: una crisi cioè filosofico-teologica, una crisi costituzionale, una crisi etica. Le loro vicende empiono di sè la storia del quarto secolo cristiano e hanno lasciato orme incancellabili in tutto il posteriore sviluppo del cristianesimo cattolico.

Quando Costantino riportava la sua decisiva vittoria su Licinio, la controversia ariana covava già da parecchi anni ad Alessandria. Ma quasi sicuramente la sua eco non avrebbe valicato i confini della organizzazione cristiana in Egitto, non avrebbe suscitato interesse così rumoroso, se, trasportata in Siria e in Anatolia nell’ora stessa del grande successo militare costantiniano, non fosse venuta ad innestarsi sull’immenso rivolgimento di spiriti e spostamento di ceti sociali che la nuova politica religiosa del trionfatore provocava in Oriente. Dopo un primo momento di esitazione e di incertezza, spiegato dalla ancora scarsa familiarità di Costantino con le popolazioni orientali e dall’ancora deficiente discernimento dei fattori etnico-culturali che meglio potevano secondare il suo programma statale – momento di incertezza che permise la vittoria della ortodossia omousiana a Nicea – l’Impero drizzò risolutamente il suo favore verso l’arianesimo. Non avrebbe potuto essere diversamente. Nel sistema del prete alessandrino, erede di una tradizione di pensiero che solamente il regime della persecuzione aveva reso fino allora innocua nell’ambito della società cristiana, la dottrina relativa a Dio e alla sua opera nel mondo smarriva automaticamente ogni contenuto misterioso e soprannaturale, quindi tipicamente numinoso, e si riduceva alle proporzioni di un comune sistema filosofico, perfettamente equiparabile ai molteplici indirizzi della speculazione filosofica. Dai quali lo Stato romano non aveva mai avuto a temere limitazioni teoriche all’esercizio dei suoi poteri e sui quali non erano mai venute costituendosi comunità spirituali, capaci di erigersi in competizione con lo stato e di rivendicare al suo cospetto l’autonomia del proprio programma morale e la inviolabilità delle proprie aspirazioni ultra-empiriche. Non va dimenticato che, condannando nel primo momento di successo atanasiano a Nicea gli scritti di Ario, un editto imperiale li equiparava, con un avvicinamento pienamente logico, alle opere di Porfirio. L’arianesimo, nei suoi postulati, rappresentava di fatto un tentativo di ridurre la teodicea e la cristologia ecclesiastiche a proporzioni strettamente razionali, e quindi di fare del pensiero cristiano un sistema concettuale puramente umano, da cui l’impero avrebbe potuto proficuamente attingere le idee atte a quella disciplina intellettuale, che è, anche essa, un ottimo strumento di governo. Anche il neoplatonismo aveva rappresentato la volontà di imporre al paganesimo una interpretazione rispondente alle raffinate esigenze spirituali del terzo secolo cadente, senza rinnegare la tradizione culturale dell’ellenismo e senza spo […] associazione religiosa sorta dalla divinazione del numinoso, venivano ad essere esclusivamente conferiti in un organismo investito della amministrazione carismatica. Ponendo Dio Padre in una solitudine ineffabile, dalla quale non era uscito che nel momento designato per la creazione; dando alla divina paternità una origine nel tempo; collocando il Verbo al principio delle realtà create, come primogenito ed esemplare; sopprimendo pertanto il mistero trinitario e, di rimbalzo, quello cristologico, Ario eliminava ogni elemento superrazionale dalla dogmatica cristiana. La laicizzava senza pietà e la rendeva quindi insufficiente e inadeguata a giustificare teoricamente l’esistenza di una intransigente società religiosa, chiamata da Dio a porre e ad alimentare rapporti carismatici fra gli uomini e fra gli uomini e l’assoluto. Ario uccideva così la chiesa nella sua essenza più originale e più delicata: abbattendo il mistero, sopprimeva l’autonomia della società chiamata ad amministrarlo, vulnerava la sovranità dei suoi poteri spirituali. D’altro canto, conservando alcuni esteriori elementi cristiani e incorporandoli in una teodicea puramente razionale, rendeva possibile all’Impero convertito di riprendere quella pienezza di diritti etici e di mansioni spirituali, che la Chiesa era sorta appunto per sottrargli e che in tanto poteva sottrargli, in quanto essi si ritenevano tali da coinvolgere un fascio di esperienze sacramentali e di rapporti mistici, sfuggente ad ogni controllo di quella associazione burocratica puramente empirica, che è, per definizione, lo Stato. In virtù di quell’istinto infallibile che guida prontamente le istituzioni ad avvertire in ogni corrente di pensiero e in ogni tentativo di organizzazione quanto vi si può nascondere di profittevole o di ostico alla affermazione del proprio programma, la massa dei credenti intuì oscuramente l’opposizione funzionale che l’arianesimo implicava ai fini e ai valori della società cristiana, come lo stato e le classi associate ai suoi interessi compresero quale formidabile strumento di lotta antiecclesiastica esso potesse divenire. Per lunghi decenni intorno alle formole ariane, vescovi e sovrani si contesero la validità dei loro poteri e l’inviolabilità delle rispettive pretese. Ma la società che aveva lottato per tre secoli onde imporre allo stato il riconoscimento della propria autonomia, non avrebbe poi potuto barattarla con dei privilegi e delle lusinghe. Per quanto in alcuni momenti l’episcopato stesso, quasi al completo, sembrasse tentennare e cedere al favore insidioso di Cesare, la collettività dei fedeli seppe portare in salvo, al di là della crisi ariana, i titoli della propria esistenza associata.

La crisi teologica abbattutasi sul cristianesimo in Oriente all’indomani della unificazione imperiale e dello intervento di Costantino nelle difficoltà interne della chiesa, un’altra ne conteneva nel proprio seno, di natura strettamente giuridico-costituzionale. Dall’immenso spostamento di interessi e di rapporti burocratici, che portò con sè la creazione della nuova capitale imperiale sulle rive del Bosforo; dalla vasta sostituzione di ceti al potere che derivò dalla nuova professione religiosa di Costantino, doveva logicamente levarsi il problema: la religione, assurta ora agli onori del pubblico riconoscimento, avrebbe conservato di fronte al potere politico i medesimi rapporti e la stessa situazione di dipendenza che avevano vincolato allo Stato il paganesimo tradizionale e i suoi sacerdoti ufficiali? E Bisanzio avrebbe esercitato sulla vita della comunità cristiana la medesima azione che Roma aveva spiegato nella esplicazione del rito e della disciplina del paganesimo? In altri termini, il passaggio ufficiale dell’Impero alla professione del cristianesimo gli avrebbe mai conferito il potere di manometterne la libertà e di sorvegliarne le mosse? Le prime azioni di Costantino, eloquentemente sintetizzate nella frase che Eusebio gli attribuisce: «io sono il vescovo della chiesa per gli affari esterni», stanno ad indicare come l’imperatore dell’editto di Milano intendesse risolvere il problema. Ma anche sul terreno della prassi governativa, come su quello delle formulazioni dogmatiche, la Chiesa avvertì immantinenti il pericolo e l’insidia che potevano nascondersi nel favore imperiale. Per tutto il quarto secolo, contemporaneamente alla lotta ariana, ad essa anzi intimamente associata, si svolge la lotta per la affermazione della indipendenza assoluta dell’autorità ecclesiastica e del suo potere sovrano nella sfera dei valori e delle finalità della religiosità cristiana. Il primato spirituale della vecchia Roma, che trova a Sardica nel 343 l’epifania più solenne, deve al patrocinio di Atanasio e, in genere, alla resistenza del cristianesimo alessandrino in lotta contro Bisanzio e fedele ai suoi vincoli con la metropoli dell’Occidente, molto più di quanto comunemente non si creda.

Infine il riconoscimento pubblico della legittimità della società cristiana, l’ingresso trionfale di questa nell’orbita delle istituzioni imperiali, il mutato atteggiamento dei sovrani e il conseguente impinguarsi della comunità, sorta inizialmente dall’annuncio del Regno e dalla pratica della rinuncia, dovevano inevitabilmente generare una crisi etica, che fu senza dubbio, fra quante ne suscitò la conversione di Costantino, la più sottile e la più significativa.

Noi abbiamo visto come l’annuncio neotestamentario non è un codice di ascetismo, nel significato originale ed etimologico della parola: non implica cioè le regole di un laborioso allenamento interiore, attraverso il quale sia possibile ridurre e sottoporre ad aggiogamento gli istinti dell’animalità e riuscire a costituirsi atleti vittoriosi nell’agone spirituale. In questo senso anzi può sembrare che fra il cristianesimo, da una parte, e, dall’altra, l’ascetismo inculcato dalle scuole della filosofia ellenistica, dallo stoicismo sopra tutte, corra un divario insanabile. Questo non vuol dire però, come abbiamo mostrato, che al cristianesimo primitivo siano estranei gli ideali della rinuncia e dell’affrancamento dalle cure del mondo onde si ispira la dura disciplina della pedagogia ascetica. Vuol dire soltanto che il cristianesimo, movimento tipicamente religioso, affida l’attuazione di simili ideali allo entusiasmo che sgorga dalla speranza, e al capovolgimento di valori che segue alla palingenesi interiore (metánoia). L’ascesi stoica e neoplatonica invece, come si conviene a scuole di pensiero e di sviluppo dialettico, la subordina ad un lento processo di purificazione interiore, concepito e praticato come una quotidiana ginnastica. La quale presuppone un pessimismo e un dualismo antropologico molto più fosco e molto più netto di quello che non fosse trapelato a volte negli inni sciolti da Paolo alla santità dei fedeli, vincitori della carne e pervenuti alla impeccabilità dello spirito. Quando l’entusiasmo delle prime generazioni cristiane, quell’entusiasmo che alimentava la loro attitudine alla rinuncia psicologicamente forse più fruttifera della stessa rinuncia effettiva, cominciò ad affievolirsi, e la materia incandescente delle loro esperienze ebbe bisogno di coagularsi in forme stabili di credenza e di prassi, anche gli ideali della rinuncia, alimentati da prima dal grande sogno messianico, dovettero essere raccomandati a manuali pedagogici, i quali servissero alla vita quotidiana della comunità credente, accresciuta di numero, ma non arricchita di fervore e di purezza. Non abbiamo mancato di segnalare la coincidenza per cui le prime infiltrazioni coerenti e consapevoli dell’ascetismo filosofico nell’ambito della vita cristiana compaiono in quegli stessi scrittori alessandrini i quali, mentre da una parte suggeriscono ai fedeli come ideale etica una impassibilità (apátheia) che è in aperto contrasto con quella intensificazione multiforme e gioiosa di vita che Paolo sognava come prerogativa dei suoi convertiti, dall’altra redigono l’apologia della gnosi e ne patrocinano l’ammissione nel novero dei valori cristiani. Le prime manifestazioni dell’ascetismo organizzato agli albori del quarto secolo, il movimento pacomiano cioè, dopo le grandi guerre del primo periodo costantiniano, e l’anacoretismo di Antonio, quale ci si presenta nella biografia redatta da Atanasio, tradiscono una potente riviviscenza del primitivo entusiasmo cristiano. Più tardi ancora, l’ascetismo cristiano, dal punto di vista etico, non fu sostanzialmente diverso da quello praticato nei circoli neoplatonici e nelle comunità dei terapeuti. Ma l’organizzazione monastica del quarto secolo, realizzando nel girone della grande società cristiana quell’ideale della integrale rinuncia, che era appunto nel Vangelo il retaggio normale di ogni credente nel Cristo e di ogni associato alla speranza del suo ritorno, permise alla chiesa di vivere nel nuovo ambiente politico-sociale creato dalla conversione costantiniana, senza smarrire completamente i connotati delle origini, e senza rinnegare le ragioni profonde della sua esistenza. E da allora, la rinuncia perfetta, che si attua sui margini della collettività cristiana, nelle organizzazioni ascetiche, rappresenta, insieme alla fede ingenua della plebe cristiana, il correttivo e l’antidoto dello spirito mondano che la mescolanza con questo «secolo» ha fatalmente insinuato in una società che, nelle visuali originarie, doveva rappresentare un circoscritto fermento di bene nella grande massa degli uomini.

Del resto, il grande successo dell’ascetismo cristiano organizzato nel quarto secolo non è dovuto soltanto ad un movimento di comprensibile reazione al mondanizzarsi della chiesa in seguito al favore imperiale. Esso non è che una delle manifestazioni molteplici del pessimismo, da cui sono dominate in quell’epoca le correnti migliori della spiritualità colta in tutto l’impero. Una delle altre manifestazioni tipiche è la rapida disseminazione del manicheismo. È nel 275, probabilmente, che il re di Persia Bahram I catturava Mani e lo faceva scuoiare, sospendendo poi la sua pelle, imbottita di fieno, a una delle porte della città di Gunde-Shapur. «Già prima del suo supplizio, le idee professate ed inculcate dal profeta erano penetrate da Babilonia nell’impero romano. La tradizione occidentale, che gli attribuisce l’invio di tre apostoli, Tommaso, Addai ed Erma, a predicare in varie regioni, è senza dubbio leggendaria ed è derivata dalla adozione di apocrifi cristiani, attribuiti ad autori rispondenti a questi nomi. Gli altri fatti riferiti negli Acta Archelai, il carattere apocrifo dei quali è ormai assodato, non meritano maggior credito, sebbene siano stati ripetuti e commentati all’infinito dagli scrittori romani e bizantini. Ma Epifanio, che era stato vescovo di Eleuteropoli in Palestina, sapeva che nel 274 un veterano, di nome Akuas, aveva importato colà, dalla frontiera della Mesopotamia, la pericolosa eresia. Gli autori però collocano comunemente l’apparizione della nuova setta qualche anno più tardi, sotto il regno di Probo, vale a dire al momento stesso del supplizio di Mani. I seguaci di lui furono ferocemente perseguitati nel regno sassanide. Molti dovettero cercare un rifugio valicando la frontiera dell’Impero ed è lecito arguire lo zelo proselitistico spiegato da questi emigranti. I quali guadagnarono una folta schiera di adepti nella Mesopotamia romana. Subito dopo erano invase la Siria e la Giudea. Dalla metà del quarto secolo i dignitari ecclesiastici di queste regioni, Cirillo di Gerusalemme, Tito di Bostra, Eusebio di Emesa, Giorgio di Laodicea combattono a gara le idee sovversive dei novatori, ed Epifanio consacra ad esse la confutazione più ampia del suo Panarion. L’Egitto, crocicchio dove si incontravano tutte le religioni, adottò anch’esso sollecitamente le credenze manichee. I primi propagatori ed esegeti ne furono discepoli immediati del fondatore, che lo avevano conosciuto di persona. Essi reclutarono aderenti fin nelle file del clero cristiano, una parte del quale doveva conservare per lunga pezza segreti collegamenti con le dottrine ascetiche di Mani. Le quali furono condannate dallo Stato prima ancora che dalla chiesa. L’ostilità stessa che aveva dimostrato per esse Diocleziano doveva costituire una benemerenza al cospetto della società cristiana».

Il manicheismo riusciva intollerabile alla concezione della civiltà romana per il suo ascetismo spinto. Era una vera forma di sabotaggio contro la prosperità di ogni costituzione politica, per la sua irriducibile avversione al matrimonio, alla famiglia, alla professione militare, a qualunque espressione di vita pubblica che implicasse una sopraffazione e una violenza.

È noto come il manicheismo attribuisse l’origine dell’universo a un tragico duello iniziale tra il principio della luce e il principio delle tenebre, nel quale il principio della luce aveva avuto la peggio, con incorporazione dei suoi elementi nel mondo tenebroso della materia. In questa visione cosmogonica ultra-pessimistica, l’antropologia manichea si innestava come l’applicazione più impressionante e più feconda di conseguenze. Recenti ritrovamenti di testi manichei tradotti in cinese hanno permesso di ricostruirla con molta approssimazione. Dopo aver tracciato il racconto della formazione del cosmo, per opera del Vento puro e della Madre della vita, il testo cinese espone con larghezza la genesi del corpo umano. In questa versione non troviamo accennato, come in alcune esposizioni polemiche patristiche, un congiungimento carnale di demoni per giungere alla produzione dell’organismo corporeo dell’uomo e per racchiudere in esso gli elementi di luce che il movimento rotatorio dei pianeti, le fasi lunari, l’incessante moto solare minacciano di ritogliere al cosmo: bensì una ricapitolazione schematica di tutto l’organismo cosmico, la formazione di membra che servano a tener prigione, attraverso la serie delle generazioni, la luce, avida di riscatto, in perfetta contrapposizione agli organi celestiali, la cui funzione è quella di riportare ininterrottamente questa luce smarrita ai suoi primitivi ricettacoli.

— Quando – è detto in questo testo – il demonio della cupidigia ebbe visto tali cose (la formazione del cosmo) nel suo cuore avvelenato concepì nuovamente un perverso progetto. Comandò a Lu-i e a Le-lo-jang di imitare il Vento puro e la Madre della vita. In questo (macrocosmo), mediante una trasformazione, costituirono il corpo dell’uomo e vi imprigionarono le nature luminose, onde imitare il vasto mondo. Così dunque il corpo carnale, con la sua cupidigia e la sua concupiscenza avvelenate e malvagie fu, benchè in miniatura, l’immagine fedelissima dell’universo dei cieli e della terra. Come quando un gioielliere, ritraendo le forme di un elefante bianco, l’incide su un cammeo, sì che rassomigli esattamente al corpo dell’elefante reale; così appunto l’uomo è simile all’universo. Inoltre il Vento puro aveva fatto due navi luminose ch’egli aveva spinto sul mare della vita e della morte, onde potessero traversarlo i figli buoni (cioè gli elementi di luce che si avviano alla redenzione) e per condurli nel loro mondo primitivo, in modo che la loro natura luminosa fosse definitivamente calma e felice. Quando il demonio dell’odio, l’arconte della cupidigia, ebbe visto ciò, ne concepì sentimenti di irritazione e di gelosia: foggiò allora le forme dei due sessi: la maschile e la femminile, onde imitare le due grandi navi luminose che sono il sole e la luna, e ingannare e turbare la natura luminosa, di modo che salisse sui vascelli dell’oscurità, che, da essi trascinata, penetrasse negli inferi, emigrasse attraverso le cinque condizioni di esistenza, che subisse tutte le torture, che, insomma, le fosse straordinariamente arduo essere affrancata.

Il passo, consacrato a fornire la spiegazione dell’apparizione dei sessi, è d’un interesse unico per l’intelligenza completa dell’antropologia manichea. Esso ci dà il modo di riconoscere la vera fra le molteplici tradizioni cui è affidato il ricordo della credenza manichea circa la formazione della prima coppia umana; ci dà la possibilità di ristabilire l’equilibrio e la coerenza in tutto il sistema di Mani, per quanto riguarda l’origine e la distribuzione della vita: infine fornisce la vera ragione della ostilità manichea al matrimonio, dell’orrore professato dai manichei per la riproduzione carnale dell’organismo umano, che faceva di essi dei terribili sabotatori della convivenza sociale.

Nella concezione attestata dal documento cinese la differenza dei sessi nella coppia umana costituisce l’antitesi precisa al sole e alla luna. Come il sole e la luna, nel macrocosmo, sono gli strumenti mobili, i veicoli instancabili per cui si effettua la liberazione degli elementi luminosi strappati alla contaminazione del mondo, trasmessi dal sole alla luna, e da questa trasportati nella regione di luce del Padre, così i sessi sono i demoniaci veicoli e i perversi strumenti, mediante i quali il re delle tenebre riesce a tenere vincolata nel mondo la luce sua prigioniera. I movimenti del sole e della luna, formati dallo spirito vivente, servono, nella economia del dramma cosmico, alla reintegrazione di quelle porzioni di luce che l’Uomo primordiale e i suoi cinque figli diedero in pasto al sovrano delle tenebre, quando furono dolorosamente sconfitti. Il sesso maschile e il sesso femminile rappresentano il tentativo di pronta rivincita, compiuto dal re tenebroso, per assicurarsi, mercè la riproduzione bisessuale e gli incomposti movimenti che l’accompagnano, il possesso duraturo della luce che esso tiene prigioniera e fissarne la peregrinazione interminabile nell’oscuro e pauroso dominio del male. Per Mani, l’uomo e la donna sono i termini correlativi e antitetici del sole e della luna: questi, veicoli di reintegrazione, quelli, in virtù del loro contatto sessuale, strumenti malvagi di permanente schiavitù della luce.

Solo riconoscendo, sulla base di questo testo, un compiuto e pregiudiziale valore al parallelismo, o meglio, all’antitesi costituita fra il sole e la luna da una parte, l’uomo e la donna dall’altra, come fra le rispettive funzioni nel processo dello affrancamento lento o dell’imprigionamento continuato della luce, è lecito comprendere nelle sue ragioni e nella sua portata, l’etica antimatrimoniale del manicheismo. Tito di Bostra insiste a lungo nel rimproverare ai manichei una teoria secondo la quale il matrimonio è un tranello infernale, teso all’uomo per prolungare all’infinito la prigionia degli elementi di luce. Sant’Agostino afferma esplicitamente che, secondo il sistema manicheo, la distinzione dei sessi è opera strettamente diabolica, e che l’atto coniugale mira precisamente a perpetuare all’infinito la prigionia della luce, sotto la potestà del sovrano delle tenebre. Nella sua propaganda vivace in favore della continenza e dell’ascesi san Girolamo protesta di non aver nulla di comune con i marcioniti e con i manichei, nel sistema pratico dei quali la condanna delle nozze costituiva un postulato centrale. San Giovanni Crisostomo ha parole aspre contro coloro, che si sottopongono alla evirazione per affrancarsi dagli attacchi della concupiscenza sessuale, perchè, egli osserva, costoro offrono così una conferma di un certo valore alla teoria manichea dell’origine diabolica dei sessi. Infine i discorsi di sant’Efrem ad Ipazio racchiudono squarci che rappresentano una eloquente riprova della interpretazione dell’antropologia manichea, quale si ricava dal testo cinese di Tun-huang.

Qualora a stabilire le affinità profonde e le interferenze appariscenti tra i presupposti teorici e le pratiche disciplinari del manicheismo e dell’ascetismo cristiano organizzato non fossero sufficienti il confronto dei rispettivi insegnamenti e la stereotipata accusa di manicheismo sollevata contro i predicatori ecclesiastici di ascesi, soccorrerebbe una esplicita menzione del primo organizzatore del cenobitismo egiziano proprio in una serie di anatematismi antimanichei dell’epoca giustinianea. Infatti la più antica formola di abiura imposta ai manichei, risalente appunto all’epoca di Giustiniano, faceva loro maledire «Ieraca, Eraclide e Aftonio, interpreti e commentatori dell’empio Mani». Ora Aftonio è il capo dei manichei alessandrini, con cui Aezio ebbe un contraddittorio nel 345. Eraclide ci è sconosciuto. Ieraca è anch’egli egiziano ed è stato a buon diritto identificato con quel capo degli Ieraciti, che visse a Leontopoli agli albori del quarto secolo, e di cui parla Epifanio. Le dottrine di questa setta, quali la condanna assoluta del matrimonio, l’astinenza dal vino e da ogni alimentazione carnea, la negazione recisa di qualsiasi risurrezione della carne, la pongono in istretto rapporto col manicheismo. Orbene: sempre secondo Epifanio, Ieraca avrebbe organizzato in Egitto la prima comunità di cenobiti.

Non bisognerebbe però fare troppo a fidanza con le informazioni, specialmente di Epifanio, relative al primo delinearsi organico dell’ascetismo disciplinato nell’Egitto cristiano del quarto secolo. Come tutte le origini dei vasti movimenti sociali, anche quelle del monachismo sono avvolte nella leggenda. A costituire la quale hanno portato il loro contributo i motivi tradizionali dell’ascesi extracristiana, gli interessi dei vari partiti teologici nell’epoca dei secondi flavi, la fantasia poco discreta di alcuni scrittori ecclesiastici, la stessa oscillante, mal distinta molteplicità dei tipi nei quali si è andata concretando, più o meno eccentricamente, l’aspirazione alla perfezione della rinuncia e della solitudine.

Scrivendo nel 382 alla sua giovane amica Eustochio il panegirico della vita continente, san Girolamo ricordava: «poichè ho accennato ai monaci e so che tu ami di sentir parlare di cose sante, stammi un momento ad ascoltare. Vi sono tre generi di monaci in Egitto: i cenobiti, che vivono in comune, gli anacoreti, che vivono isolati nei luoghi deserti e traggono precisamente il loro nome dal fatto che si allontanarono dagli uomini, e i girovaghi, il solo o quanto meno il più noto fra noi. Questi ultimi a due a tre o poco più, vivono insieme, a loro libito. Lavorano e del lavoro mettono in comune fra loro il ricavato. Dimorano di consueto nelle città e nei borghi, e quasi che la professione, non la vita, sia improntata a santità, credono di poter vendere a più caro prezzo quel che essi producono. Tra costoro scoppiano di frequente i litigi, dappoichè, vivendo del proprio, non tollerano soggezione ad alcuno. Si dan l’aria di contendere per il primato nel digiuno. Di fatto scambiano per vittoria, quel che è fatto in segreto. Tutto è ostentazione in loro: le maniche rilasciate, i calzari scialacquati, le vesti grossolane, i sospiri frequenti e compunti. Amano far visita alle ragazze e sogliono dir male del clero. In giorno di festa si satollano fino a recere. Lasciamo star costoro, ripugnanti come la peste, e veniamo a quei che costituiscono comunità numerose, ho detto i cenobiti. La prima comune consegna fra loro è quella di obbedire ai superiori e di fare qualunque cosa comandino. Sono divisi per decurie e centurie, in modo che su dieci individui, ve ne sia uno il quale sorveglia e guida gli altri nove. E di nuovo il centesimo, abbia sotto di sè i nove decurioni. Vivono separati ciascuno nella propria cella. Di regola, fino a nona, nessuno visita l’altro, se non il decurione, onde se alcuno ha dei pensieri dissipanti, si corrobori e consoli con la sua conversazione. Dopo nona, si trovano tutti insieme e si recitano i salmi. Terminate le preci, e tutti postisi a sedere, in mezzo a loro quegli che essi chiamano padre, inizia la sua dissertazione. E mentre egli parla, il silenzio è così profondo che nessuno si attenta neppur di guardare l’altro. La parola dell’oratore è pianto degli ascoltatori. Le lacrime scorrono silenziosamente: il dolore non erompe mai in singulti. E quando l’oratore comincia a parlare del Regno di Cristo, della beatitudine futura, della gloria veniente, tu potresti vedere tutti, con le labbra sommessamente sospiranti, con gli occhi levati al cielo, mormorare a vicenda: chi mi darà penne simili a quelle della colomba, onde possa levarmi a volo e trovarmi nel riposo? Dopo di che l’adunanza si scioglie e ciascuna decuria, col proprio padre, va a mensa, a cui servono essi stessi con un turno settimanale. Si mangia in silenzio. Si vive là di pane, di legumi e di erbaggi, conditi di solo sale. Solo i vecchi bevono del vino, i quali dividono spesso il desco con gli adolescenti, affinchè dei primi sia la stanca età sostenuta, dei secondi non si spezzi la tenera resistenza. Levate le mense e recitato un inno, tornano alle loro sedi. Ed ivi rimangono fino a notte, ciascuno intrattenendosi con i propri, e dicendo: hai visto il tale di quanta grazia è ricco, come è valente nel silenzio, come è dignitoso nel comportamento? Se v’è un infermo fra loro, lo consolano: se scorgono uno fervente all’amore di Dio, lo esortano allo zelo. E poichè durante la notte, oltre alle preci in comune, ciascuno veglia nella propria cella, i decurioni perlustrano le celle di tutti e, orecchiando, sorvegliano scrupolosamente su quel che ciascuno fa... È prescritto il lavoro quotidiano. E il prodotto, consegnato al decurione, è poi portato all’economo, il quale, tremebondo, nè dà mensilmente conto al superiore generale... Gli anacoreti son coloro che, uscendo dai cenobi, con una provvista di pane e di sale, se ne vanno nel deserto, null’altro portando con sè. L’inventore di simil genere di vita, Paolo: esempio magnifico, Antonio. Ma principe, per valore più alto, Giovanni Battista».

Quando Girolamo scriveva questa lettera, veramente, non aveva mai ancora visitato l’Egitto. Egli aveva soltanto dimorato, da asceta, nel deserto di Calcide, Dio sa con quali strane e poco edificanti esperienze! Ma la sua fantasia non aveva bisogno di sopraluoghi per immaginare la vita degli asceti egiziani e quando si trattava di stillare una pagina ricca di particolari suggestivi e stimolanti, la sua abilità consumata poteva darsi al libero volo. In questo caso egli poteva lasciarsi dominare dalle reminiscenze del de vita contemplativa di Filone e anche, in sott’ordine alla apparenza, in prima linea nella realtà, dal desiderio istintivo di accreditare quel suo romanzo agiografico, degno di prendere il posto fra i migliori esemplari dell’aretalogia classica, che è la vita di Paolo di Tebe, con la quale egli aveva dato inizio alla sua movimentata carriera di scrittore.

Anche Cassiano, a meno di un cinquantennio di distanza, riprende la triplice ripartizione degli asceti, non senza attestare le modificazioni che la terminologia e la consuetudine del monasticismo era venuta nel frattempo subendo. Egli, ad esempio, riprende l’uso ormai invalso di chiamare monasterium il luogo dove dimorano coloro che fanno vita comune, anzichè quello in cui i solitari si raccolgono per leggere e per pregare. Così un termine divenuto familiare alla letteratura ascetica del IV secolo è quello di monàzontes, designante i monaci menanti nel deserto vita solitaria. Val la pena di ricordare a questo proposito che proprio il medesimo vocabolo aveva servito agli scrittori dei primi secoli per designare individui dati ad un genere di vita riprovevole, dal punto di vista della socievolezza cristiana. Lo scrittore, ad esempio, della lettera di Barnaba aveva ammonito di non cercar mai di vivere isolati (monàzontes), quasi ci si fosse ritenuti pienamente giustificati. E il Pastore di Erma aveva immaginato un monte solitario, invaso dai serpenti e da animali insidiosi, disseminato di pietre. Tra queste, quelle macchiate simboleggiavano i ministri delle comunità che hanno male amministrato il denaro; quelle puntute e scabre rappresentano coloro che han portato al naufragio la loro anima, astenendosi dal partecipare alla vita dei fratelli e menando vita solitaria (monàzontes). Così, per una singolare inversione di valori spirituali, i monàzontes del secondo secolo divengono i genuini rappresentanti del perfetto ideale cristiano del quarto. Altre designazioni comuni alla letteratura dell’ascetismo organizzato son quelle di spirituali e di mondani (pneumaticoí contrapposti a cosmicoí). Ma mentre nella letteratura gnostica le due categorie di persone che esse indicavano erano poste in una nettissima contrapposizione l’una all’altra, nella letteratura ascetica additano semplicemente due fogge di esistenza: la contemplativa e la pratica. Evagrio Pontico sentenzierà aforisticamente: «le carni del Cristo sono le forme pratiche di vita; il sangue è la contemplazione delle cose divine; il petto del Signore è la conoscenza di Dio. Chi riposa su questo, diviene saggio. L’individuo dedito alla contemplazione (pneumaticós) e quello dedito all’esistenza pratica si incontrarono per via, e il Signore si trovò in mezzo a loro».

Del resto la terminologia ascetica nel quarto secolo è qualcosa di variabile e di oscillante. Indizio cotesto della indeterminatezza e della vivacità delle correnti che essa doveva indicare. Concezione predominante è ad ogni modo che gli asceti siano degli esseri infinitamente superiori agli altri, gareggianti ormai con le virtù e le proprietà degli angeli. Simile pretesa doveva suscitare automaticamente una certa opposizione nella organizzazione episcopale. Gli echi del dissidio si possono cogliere a volte nella storia a Lauso. Così, al capo undecimo, si parla di un tale Ammonio, che con tre fratelli e due sorelle si era ritirato a menare vita eremitica. Gli abitanti della città vicina lo vogliono per loro vescovo. Egli rifiuta: il popolo torna ad insistere. Allora Ammonio, per sottrarsi ad una consacrazione violenta, si recide un orecchio. I cittadini lo importunano ancora con le loro richieste, trascurando le prescrizioni del sinodo niceno, che vietava l’assunzione all’episcopato di chi avesse subito una qualsiasi mutilazione. Ammonio minaccia di tagliarsi la lingua: solo allora il popolo desiste. L’aneddoto tradisce l’ostilità latente del monachismo contro le dignità ecclesiastiche. Più appariscente simile ostilità si ricava dalla lettera di Atanasio al monaco Draconzio, il quale, non solamente rifiutava l’episcopato, ma soggiungeva che quella dignità gerarchica costituiva una magnifica occasione al peccato.

Nulla in ciò di sorprendente. Gli asceti si reputano i martiri dell’età di pace. Mortificando perennemente il proprio corpo, macerando la carne con la penitenza, combattendo, fino a soffocarle, le passioni, l’asceta veniva in qualche modo ad effondere il proprio sangue, che è la sede della vita e di tutte le concupiscenze. Simile parallelismo fra martiri e monaci ispira gli Apoftegmata dei padri, la lettera 108 di san Girolamo a Paola, molti documenti del monachismo posteriore, anche occidentale, come l’omelia edita nel 1914 dal Reitzenstein.

Ma un’altra caratteristica, degna di più attenta considerazione, della mentalità monastica è l’idea della ostinata emulazione nella pratica della autorinuncia, la convinzione dell’umana capacità di vincere e di debellare il male. Circola, soggiacente, per entro a tutta la letteratura ascetica, un senso profondo della potestà volitiva dell’uomo, delle forze che la creatura ragionevole può spiegare nella disciplina del proprio organismo. È, sopra tutti, in Atanasio che traspare l’esaltazione del libero arbitrio, così nella Biografia di Antonio come nell’Apologia contro i greci. Egli dice una volta: «La mitologia è un eterno inganno, ma la via della verità mira al vero Dio. Per battere questa via noi non abbiamo bisogno che di noi stessi. Per il fatto che Dio è sopra tutte le cose, non si deve pensare che la strada la quale porta a Lui, sia in Lui. Invece essa è in noi, perchè il Regno di Dio è dentro di noi, la possibilità di fare il bene è in noi stessi... All’inizio non esisteva il male. L’uomo lo suscitò dinanzi a sè, conferendogli una esistenza reale. Ma il foggiatore del mondo, superiore ad ogni sostanza e ad ogni concezione umana, perfettamente buono e lucidamente risplendente, attraverso Gesù ricreò il genere umano e lo fece capace di contemplare Dio, in modo che egli può esultare ininterrottamente, attuando una forma di vita beata, senza ostacoli. L’uomo così affrancato, nulla ha più di comune con le passioni, è al di fuori dell’universo sensibile. Chè la purezza e la santità dell’anima sono tali da renderla capace di scorgere e di affissarsi in Dio».

Il realismo soteriologico di Atanasio si accoppia con una valutazione elevata della innata virtù dello spirito. La familiarità con i modelli consueti dell’ascesi extracristiana, stoica e pitagorica, lo induce ad adottare i presupposti antropologici della speculazione ellenistica. Nel 337 egli dettava la Vita di Antonio, il patriarca dell’anacoretismo. Secondo le memorie tradizionali Antonio sarebbe nato nel 250, in piena persecuzione deciana, ad Eracleopoli nel Medio Egitto. Da fanciullo, avrebbe dimostrato la sua predilezione per la solitudine. Ribelle allo studio, sarebbe rimasto per tutta la vita un ignorante, non comprendendo il greco, e poco conoscendo il copto. Morti i suoi genitori verso il 270, avrebbe venduto i suoi beni, avrebbe fatto accogliere la sorella, di lui più giovane, in un ospizio di vergini, e si sarebbe dedicato alla più rigida ascesi, da prima sulla porta di quella che era stata la sua casa, poi girovagando nel paese, infine in una tomba abbandonata. Dopo quindici anni di vita solitaria, attraversato il Nilo, avrebbe preso dimora a Pispir, fra le rovine di un diruto castello. E là, trascorsi altri vent’anni, lo avrebbe raggiunto una schiera di altri asceti, bramosi di porsi sotto la sua guida spirituale. Antonio li avrebbe accolti con benevolenza, ma sperimentando sempre più pungente l’attrattiva della solitudine perfetta, si sarebbe mescolato ad una compagnia di beduini che partiva verso il Mar Rosso. Là avrebbe vissuto ancora a lungo, morendo, più che centenario, nel 356.

Questa l’ossatura cronistorica della biografia atanasiana. I primi suoi sette capitoli trattano dell’infanzia e della «conversione» di Antonio; i tre seguenti della esistenza nel sepolcro vuoto; dal capitolo undecimo al decimosettimo è descritta la residenza a Pispir e l’affluire degli imitatori. Poi l’autore inserisce un lunghissimo discorso di Antonio ai compagni di ascesi, che va dal capitolo decimottavo al quarantesimo terzo. Di qui alla fine, al capitolo novantesimo, è ripresa la narrazione della vita dell’eroe.

Il carattere leggendario dello scritto salta agli occhi. Ma occorre ponderatamente valutarne i limiti e rintracciarne gli elementi. Il Weingarten aveva negato la paternità atanasiana dello scritto, asseverando che esso rappresenta più tosto uno scritto apologetico-monastico del tramonto del quarto secolo. Gli argomenti principali da lui addotti a sostegno della propria tesi erano due: il fatto che Atanasio, nella sua lettera festale del 338, parlando a lungo del deserto non accenna affatto agli anacoreti che vi avrebbero già menato vita ascetica, e il silenzio assoluto di Eusebio sull’esistenza di un ascetismo egiziano già in piena fioritura. Probabilmente premesse di tal natura non consentono una conclusione così assoluta. È largamente constatata la precarietà delle induzioni ricavate dal silenzio degli scrittori. L’omissione della lettera festale può rappresentare una pura amnesia e il silenzio di Eusebio, nella fattispecie, ha dal canto suo una giustificazione esauriente. Non doveva riuscire a lui così astuto nell’eludere le posizioni sanzionate a Nicea, straordinariamente grato un movimento ascetico postosi con tanto entusiasmo a rincalzo di Atanasio e della sua posizione dottrinale. Negando l’esistenza storica di Antonio, o pure semplicemente spostandola di un secolo, non si riesce più a spiegare la diffusione rapidissima dell’anacoretismo, l’orma profonda che la figura del suo patriarca ha lasciato in tutta la letteratura ascetica del quarto secolo.

La ricerca va impostata su altre basi. Come istituire la cernita fra elementi storici ed elementi leggendari nella biografia atanasiana e come individuare i motivi stilizzati, di provenienza scolastica, su cui era stata intessuta? La pittura che Atanasio traccia del suo eroe tradisce reminiscenze pitagoriche, di un particolare tipo, che non è sempre e dovunque quello adottato poi dal successivo sviluppo della disciplina monastica. Antonio, nella pittura atanasiana, ha qualcosa di ilare e di gaio, che lo contraddistingue nettamente dal profilo disseccato dello apathés, caro alla letteratura monastica posteriore. C’è qualcosa della primitiva esperienza cristiana in questa raffigurazione, che non manca di sfumature idilliache, della vita randagia del primo anacoreta. «L’atteggiamento della sua anima era puro. Non era paralizzato dall’afflizione, o effeminato dal piacere. Non si effondeva in una eccessiva scomposta ilarità, nè ostentava tristezza. Bensì tutto era uguale in lui, come individuo governato dalla ragione e costituito nella norma della natura». Atanasio fa la teoria di simile disciplina interiore: «purifichiamoci, egli esorta, che son sicuro poter l’anima, integralmente purificata, e costituita a norma di natura, vedere realtà più grandi e più copiose di quanto non ne vedano i demoni, divenuta perspicacissima». Antonio era trasfigurato dalla sua purezza: «aveva volto di grazia straordinaria. Tal dono gli era stato elargito dal Salvatore. Che se era frammisto ad una adunanza di monaci e qualcuno voleva vederlo, senza averlo prima conosciuto, avvicinandosi, immediatamente gli altri tralasciava, e a lui correva, come attratto dalle sue sembianze. Non si differenziava dagli altri per statura o per proporzioni, ma per le disposizioni dello spirito e per la purezza dell’anima. Essendo l’anima imperturbabile, anche le espressioni esteriori erano limpide e tranquille, e avvivando la letizia il suo spirito, anche dal volto trapelava la serenità». Atanasio concepisce così alto il potere autodisciplinatore dell’uomo. Egli fa dire ad Antonio: «essendoci incamminati sulla via della perfezione non rivolgiamoci mai indietro, perchè la virtù è nelle nostre facoltà». E nel lungo sermone diretto ai monaci: «i greci traversano il mare per apprendere le lettere: per noi nessun bisogno di intraprendere dei viaggi per possedere il regno dei cieli ed esporci a rischi per conseguire la virtù, perchè il bene germoglia dalla possibilità del nostro essere».

I seguaci di Antonio vivevano in celle divise l’una dall’altra, senza regole fisse, esercitando un lavoro manuale, che consisteva in prevalenza nella preparazione di stuoie. Molto tempo trascorrevano assorti nella preghiera. Unico vincolo associato fra tutti la liturgia in comune, una volta alla settimana. Nell’anacoretismo predomina così il senso dell’autonomia individuale, mentre nell’organizzazione cenobitica pacomiana la vita associata dei monaci in unità di disciplina è cardine essenziale. Il primitivo tipo però della vita antoniana sortì ben presto modificazioni, di cui ci è testimone Palladio nella Historia Lausiaca: «dopo aver trascorso, egli racconta, tre anni nei monasteri contigui ad Alessandria, ricchi di saggi e virtuosi uomini, fino in numero di duemila, essendo partito di là giunsi alla montagna della Nitria. Fra questo monte ed Alessandria giace la palude Mareotide. Avendola attraversata in un giorno e mezzo, giunsi al monte verso il mezzogiorno. In quel monte è un continuo succedersi di vita eremitica, fino all’Etiopia e alla Mauritania. Ivi dimorano cinquemila uomini, i quali menano una vita ciascuno diversa dall’altro, ognuno come può e come vuole, o da soli, o in due, o a gruppi. Vi sono in questo monte sette forni che provvedono il pane necessario a questi cinquemila e ai seicento che vivono nel deserto. Avendo trascorso un anno intero fra loro e molto giovamento essendomi venuto dai beati padri Artisio il grande e Putubaste, e Asionio, e Cronio e Serapione, e stimolato dai loro racconti, raggiunsi anche le parti più remote. In questo monte della Nitria vi è una vasta chiesa, nella quale sono tre palme, a ciascuna delle quali è affisso uno staffile, uno per ridurre a ragione i solitari caduti, il secondo per i ladri se ve ne siano, il terzo per i forestieri intrusi. Quando uno è caduto nella colpa, abbraccia la palma che gli spetta e dopo aver ricevuto il numero di colpi prescritto, è assolto. Presso alla chiesa si trova una casa per i forestieri, nella quale lo straniero, finchè non se ne vada volontariamente, rimane tutto il tempo, anche per due o tre anni. Ora, dopo avergli concesso una settimana nella inattività, gli altri giorni lo si chiama ai lavori del giardino, o del forno o delle cucine. Ma se è persona di riguardo gli si dà un libro, aspettando l’ora in cui può parlare con gli altri. In questo monte sono pure dottori e dolcieri. Bevono vino e ne vendono. Fanno con le loro mani tessuti di lino, in modo che nessuno ha bisogno di nulla. Intorno all’ora nona è possibile udire da ogni piccola comunità innalzarsi salmodie, sicchè sembra di stare in paradiso. Si recano in chiesa il sabato nel giorno del Signore. Sono a capo di questa chiesa otto sacerdoti».

In questa descrizione noi vediamo già sull’anacoretismo antoniano innestato lo spirito del cenobitismo di Pacomio.

Pacomio era nato nell’Alto Egitto, lungi da Alessandria, al sicuro da qualsiasi influsso della cultura e della civiltà greco-romana. La chiamata al servizio militare avrebbe segnato la data della sua «conversione». Da chi potrebbe essere stato emanato l’ordine di arruolamento? Benchè il bíos precisi e parli esplicitamente di una leva bandita in Egitto da Costantino, sembra più verosimile pensare ad un ordine emanato da Licinio, al tramonto del 314, a più di un anno dall’editto di Milano. Un particolare delle fonti biografiche sembrerebbe confermarlo. Chè, si dice, mentre Pacomio era ancora nell’Alto Egitto, ad Esneh (Panopoli), venne la notizia della pace, chiesta appunto da Licinio a Costantino nel novembre del 314. Le truppe vennero pertanto congedate. Durante il breve periodo dell’arruolamento, Pacomio era rimasto profondamente colpito dalle manifestazioni di carità e di interessamento con cui i cristiani avevano accolto lui e i suoi compagni nei loro provvisori accampamenti. Lasciato libero, prima di far ritorno al suo paese Pacomio è preso da vaghezza di conoscere direttamente e a pieno la natura della professione cristiana. Risale quindi verso l’Alto Egitto e si arresta qualche tempo presso il tempio di Serapide. Messosi da prima alla sequela di un anacoreta, è colto ben presto dal proposito di traversare il Nilo e a Tabennisi costituisce la prima comunità cenobitica.

L’iniziativa sortì ripercussioni sorprendenti. Alla sua morte numerosi erano i cenobi pacomiami maschili. La sorella di Pacomio ne aveva organizzati due femminili.

A quanto è lecito arguire dalle fonti superstiti, la regola pacomiama è caratterizzata dallo spirito di mitezza da cui è informata. A norma di essa i monaci sono liberi di digiunare e di far penitenza secondo le loro predilezioni. Nessuno però ve li costringe. Un giorno che Pacomio si era allontanato dalla sua residenza per far visita a un fratello infermo, il cuciniere, lusingandosi di occupar meglio il suo tempo, decide di dedicare alla fabbricazione di stuoie il tempo che sottrae alle cure della cucina. Al ritorno di Pacomio, i monaci si lamentano delle privazioni a cui questa scelta li ha costretti. E il Maestro non solamente rimprovera il cuciniere che ha imposto l’astinenza ai compagni, ma brucia fino all’ultima le molte stuoie, la cui fabbricazione ha rappresentato una grossolana infrazione alla legge della carità.

L’eroismo ascetico del monachismo egiziano ha avuto il suo poema: e questo poema è la Historia Lausiaca. Sebbene in alcuni manoscritti di questa Historia figuri come nome di autore quello di Eraclide, la testimonianza paleografica più numerosa, come la notizia degli storici ecclesiastici del quinto secolo, ci assicurano che il vero autore di questa pròs Laúson istoría periéchousa bíous osíòn patéròn («storia a Lauso contenente le vite dei santi padri») è Palladio, nato nella Galazia verso il 364, ritiratosi ad Alessandria nel 383, vissuto nelle Celle presso Evagrio Pontico fra il 390 e il 399, tornato alla morte di lui in Palestina, consacrato vescovo di Elenopoli nella Bitinia nel 400. Egli partecipava al sinodo della Quercia nel 403. Due anni dopo visitava l’Occidente. Nel 406 era esiliato a Line nell’Alto Egitto. Tornato in Anatolia e trasferito alla sede di Ospuna stendeva verso il 420 la sua Storia, per soddisfare la richiesta di Lauso, l’uomo di corte di Teodosio II.

Per lungo tempo una grande incertezza ha coinvolto il problema della forma originaria della Historia. La tradizione manoscritta più comune ce ne aveva tramandato tre versioni latine, ciascuna rappresentante una speciale redazione del libro. Niun testo greco ne era ancora apparso per le stampe, quando il Rosweyd, nella prima edizione delle monumentali Vitae Patrum, affrontava decisamente il problema e si decideva a favore del testo della redazione più ampia, collocandola senz’altro nel corpo della sua raccolta e relegando in appendice le due redazioni minori. La sua opinione si impose. Solo in tempi recentissimi il Butler ha dimostrato che i due testi breviori sono i più antichi e che il testo longiore non ha fatto altro che incorporare nella Historia di Palladio anche la Historia monachorum, tradita sotto il nome di Rufino, che ne è però solamente il traduttore.

Questa Historia Monachorum si presenta come il resoconto diretto di un ciclo di visite fatte ai più illustri solitari egiziani nell’inverno fra il 394 e il 395. I parallelismi esistenti fra il suo testo e quello della Historia Lausiaca non erano sfuggiti, naturalmente, alla perspicacia del Rosweyd. Ma questi li aveva spiegati supponendo che uno dei due scrittori avesse liberamente attinto dall’altro ed entrambi da una ignota fonte preesistente. Il Weingarten aveva enunciato la convinzione che Palladio avesse attinto da Rufino; il Müller aveva supposto l’esistenza di un primitivo documento greco, tradotto in latino da Rufino, e fatto proprio da Palladio; lo Zöckler aderiva a questa seconda tesi.

L’indagine però era stata sempre resa ardua ed aleatoria dalla mancanza di una corretta edizione critica così della Historia Lausiaca come della versione greca della Historia Monachorum.

Dei tre testi della Lausiaca pubblicati dal Rosweyd, il più ampio non faceva che riprodurre l’edizione di Genziano Hervet, apparsa a Parigi nel 1551. Delle due redazioni più brevi, relegate in appendice, la prima appare da mille indizi, così interni come esterni, quale una semplice deformazione e corruzione del testo corrente. L’originale greco della seconda era stampato per la prima volta a Leida nel 1616 da Giovanni Meurzius, di su un manoscritto del X secolo della Biblioteca Palatina allora ad Heidelberg, oggi alla Vaticana. Infine l’originale greco del testo latino più ampio fu pubblicato a Parigi da Fronto Ducaeus nel 1624. Di questo originale greco esistono tre manoscritti alla Biblioteca Nazionale di Parigi: ma il testo dato dal Ducaeus, anzichè attinto da questi, appare più tosto come il risultato di una correzione e di un ampliamento del testo greco del Meurzius, mercè complementi ricavati dalla Historia Monachorum, sulla falsariga della traduzione latina edita da Hervet.

Della Historia Monachorum il Preuschen ha dato per conto suo il testo greco nel 1897, sostenendo però che l’originale sia il latino di Rufino e che il greco ne rappresenti una versione. Il Butler ha sagacemente stabilito la verità su tutti questi problemi testuali.

Egli ha mostrato, può dirsi inoppugnabilmente, che il testo primitivo della Historia Lausiaca è quello pubblicato dal Meurzius; che il testo longiore rappresenta la sua contaminazione con la Historia Monachorum; che l’originale di questa seconda è il greco e non il latino; che Rufino ne è stato semplicemente il traduttore.

Intanto appare evidente che Rufino non può aver fatto parte della comitiva di cui la Historia Monachorum narra il pellegrinaggio fra i solitari egiziani. Infatti la comitiva era con Giovanni di Licopoli poco dopo la vittoria di Teodosio su Eugenio, vale a dire verso la fine del settembre 394, e quando raggiunse Nitria, Macario di Alessandria, spentosi agli inizi del 395, era già morto. Ora, in quell’epoca, Rufino, che aveva visitato l’Egitto a due riprese, nel 375 e nel 385, si trovava a Gerusalemme. Di più, la comitiva appare formata da sette laici e da un diacono, mentre noi sappiamo che nel 395 Rufino era prete. Infine l’autore della Historia Monachorum (cc. 28 e 29) parla di due Macarii come di personaggi che non ha potuto conoscere, mentre Rufino ricorda di aver ricevuto una volta la loro benedizione.

D’altro canto il collegamento di Rufino col testo latino della Historia non potrebbe essere revocato in dubbio. Nella sua lettera a Ctesifonte (la 133) Girolamo, dopo aver parlato della vita di Evagrio, continua: «i libri di costui nell’originale greco, per l’oriente, nella versione latina compilata dal suo discepolo Rufino, in occidente, molti sogliono oggi leggere. Il quale Rufino scrisse anche un libro dedicato ai monaci, annoverandovene di quelli che non sono mai esistiti. Quelli, reali, che nomina, furono origenisti, indubbiamente condannati dai vescovi: vale a dire, Ammonio, Eusebio, Eutimio, Evagrio, Ori, Isidoro e molti altri, di cui non occorre snocciolare i nomi. Pone però a principio del suo libro quel Giovanni, che fu certamente individuo cattolico e santo». La lista dei nomi e la collocazione di Giovanni di Licopoli al primo posto mostrano perentoriamente che lo scritto cui Girolamo allude è la Historia Monachorum.

Di più, alla fine del c. 29 della Historia sono inserite queste parole di rimando: «sed et multa, ut diximus, alia de operibus sancti Macarii alexandrini mirabilia feruntur, ex quibus nonnulla in undecimo libro Ecclesiasticae Historiae inserta qui requiret inveniet». Il rimando va precisamente al secondo dei due libri che Rufino aggiunse alla sua versione di Eusebio, dove, al c. 4, si trovano effettivamente informazioni complementari relative a Macario.

D’altro canto ancora che il greco rappresenti l’originale traspare da indizi significativi, così esterni come interni. Proprio il rinvio testè segnalato manca nella redazione greca. Al capo 27 il testo latino accenna ad Evagrio come tuttora vivente: e il testo latino deve essere posteriore al 400, perchè il compilatore, come abbiamo visto, vi ha introdotto rimandi alla volgarizzazione di Eusebio, che va assegnata, al più presto, al 400 stesso. Ora Evagrio è morto precisamente agli inizi di quest’anno. Se non si vuole incappare in un appariscente anacronismo occorre supporre che l’originale è il greco e che questo fu compilato a breve distanza dal viaggio.

V’è di meglio. Nella redazione latina, il racconto della visita ad Apelle s’inizia con le seguenti parole: «vidimus in vicina regione» (c. 15). Il greco porta: eídomen, en tois méresi tès Achóreòs. L’inciso latino è una interpretazione sbagliata. Achòris è città perfettamente individuata fra Antinoo ed Eracleopoli e il traduttore latino è stato tratto in inganno dalle deviazioni che il nome greco aveva già subìte nella trasmissione manoscritta. Il Preuschen e il Butler pensano verisimilmente che il traduttore potesse avere dinanzi agli occhi en tois egchòríois.

Ma la prova palmare della dipendenza del latino dal greco, la cogliamo al c. VIII, dove, a proposito del trattamento da usarsi con gli stranieri, è citato nel greco uno squisito detto ágraphon del Signore, altrimenti noto alla tradizione patristica: eídes ton adelfón sou, eídes cúrion tòn theón sou, che il traduttore latino cambia con un riferimento al Matteo canonico (XXV, 35): «Hospes fui et suscepistis me».

Chi sia poi l’autore di simile originale greco non può affermarsi con sicurezza. Il Butler ha raccolto ingegnosamente tutti i dati al riguardo. Sozomeno ci è garante che una Storia di monaci era stata redatta da Timoteo, vescovo di Alessandria. Socrate, dal canto suo, ci parla di un Timoteo arcidiacono d’Alessandria, candidato al patriarcato alla morte di Teofilo nel 412, contro cui Cirillo, nipote dello scomparso, ebbe il sopravvento. La notizia di Sozomeno non può essere completamente esatta, perchè Timoteo patriarca morì nel 385 e l’Historia è posteriore a questa data di un decennio. Può esservi stata confusione di nomi e il Timoteo rivale di Cirillo può aver benissimo rappresentato una corrente favorevole a quei monaci, contro cui Teofilo aveva mostrato tanta ostilità. Nulla v’è negli esigui particolari biografici dell’autore della Historia che non si possa attagliare, per altri periodi della sua vita, ad un arcidiacono alessandrino.

Non bisogna dimenticare che queste opere, a prima vista così idilliache raffigurazioni di gesta monastiche, sono tutti scritti di polemica e di battaglia. Girolamo non si stanca di accusare Palladio di pelagianesimo e di origenismo, per la illimitata fiducia ch’egli dimostra nell’attitudine dell’uomo a toccare, con le sue forze, la condizione perfetta, che è la impassibilità. L’accusa non è, veramente, giustificata. Ripetute volte Palladio assevera che la distinzione degli uomini in buoni e cattivi va assegnata alla volontà o alla permissione di Dio, che quanto gli uomini operano secondo virtù avviene per volere di Dio, quanto invece operano di malvagio, avviene col permesso di Dio. Chi, secondo Palladio, esercita la virtù per piacere agli uomini, è abbandonato da Dio e cade. Costui è funzionalmente lontano dal vero bene. L’uomo può così convincersi che vani soni i logismoí e che, per sollevarsi e per mantenersi in alto, è assolutamente indispensabile il soccorso di Dio. La fantasia dello scrittore si muove in una atmosfera di portento e di miracolo, che se attinge parecchi dei suoi motivi dal materiale tradizionale dell’aretalogia ellenistica, tradisce d’altra parte un temperamento mistico e una fede ingenua e salda. Palladio vuol dare la dimostrazione che la vita della rinuncia ascetica non costituisce un monopolio dell’Egitto e ci offre quindi il profilo dei principali rappresentanti del monachismo nella Siria, nella Palestina, in Oriente e in Occidente.

Alcune delle sue narrazioni rivelano nella foggia più singolare la penetrazione dei motivi aretalogici nella leggenda cristiana. Tipica, in proposito, l’odissea di Serapione Sindonita, le peripezie del quale ricordano così da presso il romanzo di Apollonio di Tiana.

Serapione si vende come schiavo ad una coppia di mimi e riesce, con le sue parole e con il suo esempio, a convertirli. Ottenuto il suo intento, se ne parte, nonostante le preghiere dei suoi padroni. Da Atene si reca a Roma, imbarcandosi di soppiatto su un veliero e rimanendo per parecchi giorni in un digiuno pitagorico. Giunto a Roma, chiede della più famosa asceta. È questa una vergine che vive in clausura strettissima da venticinque anni, morta a quanto è materiale, tutta assorta «nel suo viaggio verso Dio». Serapione la vuol mettere a prova. E le propone di uscire e di seguirlo, dopo essersi tolta di dosso tutti gli indumenti e averli collocati sulle sue spalle. La vergine si meraviglia di simile proposta e rifiuta di acconsentire, temendo di divenire oggetto di scandalo e di passare per indemoniata. Confessa così di non essere pervenuta al più alto livello del disprezzo del mondo e Serapione se ne va, lieto di aver infranto e umiliato l’alterigia della vergine.

L’Historia Lausiaca non è soltanto un florilegio di gesta strane e prodigiose di rinunciatari del mondo e di realizzatori della perfetta ascesi. È, in pari tempo, la registrazione di forme di vita mistica associata, il cui spirito era improntato alla massima temperanza e discrezione. Il capo XXXII riporta la regola di Pacomio. È lecito supporre che la disciplina iniziale doveva constare di prescrizioni più semplici e più limitate. Il testo, quale noi lo leggiamo qui, rappresenta già, a non dubitarne, il risultato di una elaborazione provocata dalle aggiunte di discepoli, come Orisii e Teodoro. «Tabennesi è un luogo nella Tebaide nel quale visse un tal Pacomio, uomo fra tutti coloro che praticarono la rettitudine tale da meritare uno spirito profetico e straordinarie visioni angeliche. Egli giunse ad un grado elevatissimo di filantropia e di amore per i fratelli. Mentre era in una grotta, gli apparve un angelo, che gli disse: – tutto quello che potevi fare per te, l’hai compiuto. Ora è inutile che tu rimanga nella tua spelonca. Escine, riunisci i monaci, abita con loro, a norma della disciplina che ti dò. – E l’angelo gli dà una tavoletta di bronzo su cui erano scritte le seguenti cose: – Permetterai a ciascuno di mangiare e di bere secondo la propria esigenza. E secondo la misura del mangiare, assegnerai a ciascuno un lavoro proporzionato. Non impedirai però il digiuno. Distribuirai così le opere faticose ai più validi e a coloro che mangiano: le opere più lievi, ai più deboli. Edificherai tante cellette: in ciascuna cella potranno stare tre monaci. Prenderanno insieme il vitto in un luogo comune, e non potranno dormire stesi sui letti. Dopo aver disposto sedie a sdraio ed avervi disteso delle coperte, vi dormiranno seduti. Portino tuniche di lino con la cintura ai fianchi e ciascuno una pelle di capra lavorata. Quando parteciperanno alla riunione il sabato e il giorno del Signore si toglieranno le cinture, lasceranno la pelle caprina, e andranno con la sola cocolla. Le cocolle siano senza pelo, come quelle dei bambini. Su di esse sia disegnata una croce rossa. – L’angelo prescrisse inoltre che i monaci fossero ripartiti in ventiquattro gruppi e ad ogni gruppo impose una lettera dell’alfabeto greco. Cosicchè, quando ci si voleva interessare ad un gruppo, si domandava: come va il gruppo alfa, o come si comporta il gruppo zeta? o pure: il mio saluto al ro. Ai più semplici e trasparenti dei monaci, soggiunse, ascriverai la iota: ai più difficili ed intrattabili lo xi». Così l’angelo, in corrispondenza con le qualità del carattere, dell’attività, del modo di vivere di ciascuna schiera, prescrisse una lettera dell’alfabeto, di cui solamente gli iniziati potevano comprendere il significato riposto. L’angelo ordinò inoltre: «mangiando, coprano il capo con la cocolla, onde il fratello non vegga il fratello masticare. Non sarà permesso parlare durante i pasti, nè volgere in giro l’occhio al di là del proprio piatto e della propria tavola». Infine l’angelo ordinò dodici preghiere per la durata del giorno: dodici per la durata della notte: tre all’ora nona. Avendo osservato Pacomio all’angelo che le preghiere eran poche, quegli disse: – ho prescritto così perchè anche i piccoli possano uniformarsi alla regola e d’altra parte non si rattristino i perfetti, per i quali non v’è bisogno di legislazione. Questi stiano per tutta la vita nelle loro celle, nella contemplazione di Dio. Io ho enunciato queste istruzioni a vantaggio di coloro che non posseggono una intelligenza sviluppata, affinchè, uniformandosi alla regola, possano stare sicuri.

Può darsi che in queste ultime parole sia come una reminiscenza delle consuetudini primitive, fatte di larghezza, di autonomia e di longanimità, immuni da prescrizioni tassative sui cibi e sui digiuni, senza quell’obbligo dei voti, quale lo troviamo qualche decennio più tardi in un terribile discepolo di Pacomio, Scenuti.

Mentre nell’alto Egitto fioriva rigogliosamente l’organizzazione pacomiana, nel basso Egitto perdurava il movimento ascetico iniziato da Antonio. Evagrio Pontico e i due Macari sono al tramonto del secolo i più insigni rappresentanti dell’anacoretismo. Palladio tesse la biografia avventurosa del primo. Nato ad Ibore nel Ponto, Evagrio aveva ricevuto l’ordinazione da Basilio di Cesarea, presso il quale aveva assolto mansioni di lettore. Alla morte di Basilio, si era unito a Gregorio di Nazianzo. Aveva partecipato al concilio di Costantinopoli, spiegando un’eloquenza invincibile contro gli eretici. Ma nella capitale era stato preso da una passione violentissima per una delle più nobili dame dell’aristocrazia, coniugata. Questa ricambiava il suo amore. Mentre in preda al dubbio e alla tentazione Evagrio si dibatte in una lotta angosciosissima, ha un sogno ammonitore. Gli sembra di essere catturato, di venir legato, di essere sottoposto a un lungo interrogatorio, su denunzia e per istigazione del marito tradito. Ad un tratto, in sembiante di amico, gli appare un angelo che gli promette la salvezza, a patto che egli parta immediatamente. Evagrio chiede un giorno solo di tolleranza. Destatosi, tien fede all’avvertimento celeste, e si avvia verso la Palestina. A Betlem è accolto da Melania e da Rufino. La vecchia passione riarde improvvisamente in lui. Evagrio sta per cedere, per tornarsene, quando un male gravissimo lo colpisce e lo immobilizza per sei mesi. Melania lo assiste, lo conforta, lo esorta ad abbracciare la vita solitaria. Evagrio guarisce. E questa volta la rompe definitivamente con il mondo. Va in Egitto, si ritira nel vallone di Nitria. Trascorre nel deserto undici anni, guadagnandosi la vita facendo il calligrafo, scrivendo codici in onciale. Palladio, tremante di ammirazione, ci descrive la sua vita di anacoreta: «recitava cento preghiere al giorno; scriveva tutto l’anno chiedendo per mercede solamente il necessario al proprio mantenimento. Scriveva magnificamente in caratteri onciali. Dopo aver praticato per quindici anni l’ascesi nella consegna più rigida, fu fatto degno di ricevere il carisma della gnosi, quello della sapienza e quello del discernimento degli spiriti. Egli scrisse tre libri sacri destinati ai monaci, sul modo di rintuzzare le tentazioni del demonio. Il demone della concupiscenza lo tormentava con particolare violenza. Egli stesso lo racconta. Per resistergli, egli passava la notte, d’inverno, in fondo ad un pozzo, finchè il corpo non gli si irrigidisse. Evagrio, per vincersi, si propose di non rientrare più sotto il suo tetto per quaranta giorni, sì che le sue carni si coprirono di squame, come la pelle di animali irrazionali».

L’eredità intellettuale di Evagrio non si è conservata integra e sicura. L’enumerazione dei suoi scritti registrata da Palladio corrisponde a quella di Gennadio. Ma Socrate ricorda altre opere: «da lui sono state scritte opere notevoli: delle quali una intitolata: Della virtù attiva, una seconda intitolata: A colui che meritò di conseguire la gnosi. (Evagrio istituisce una nettissima distinzione tra il monachós e lo gnòsticós: il primo è colui che mediante l’ascesi perviene alla vittoria della carne; il secondo è colui che mercè l’intuizione interiore perviene molto più rapidamente al medesimo risultato).

Poi la raccolta delle repliche al demonio, ricavata da testimonianze bibliche, ripartita in otto parti, (gli otto vizi presi singolarmente a partito sono: gola, lussuria, vanagloria, avarizia, superbia, accidia, ira, tristezza: abbiamo qui la dottrina incipiente dei sette vizi capitali, di cui Evagrio è il primo teorico). Quindi seicento problemi gnostici; due raccolte di sentenze in forma di stichi: una per i cenobiti, l’altra per le vergini. Quanto siano mirabili queste opere, tutti quelli che le leggono possono constatarlo».

Con Evagrio si compie l’evoluzione ciclica dell’ascetismo nel quarto secolo. Fino a Pacomio si può dire che avesse prevalso una concezione serena ed ottimistica della vita. Con il mistico del Ponto noi entriamo decisamente nell’atmosfera delle concezioni pessimistiche, che noi potremmo definire, pensando ai piloni dottrinali di cui si alimenta, manicheo-origenistica. Evagrio fa propria la distinzione che Eusebio aveva introdotto fra le due categorie di cristiani, i praticoí e i thèòrèticoí, e la trasferisce nel mondo della organizzazione monastica. Il monachós è inferiore allo gnòsticós: il primo acquista la perfezione mediante la socievolezza con i fratelli, il secondo mercè una immediata intuizione interiore. Evagrio distingue poi una triplice forma di rinuncia. Perchè questa si può realizzare mediante l’abbandono degli affari del mondo; o mediante l’allontanamento da ogni forma di male; infine – e questo è l’apice della perfezione – mercè l’eliminazione di ogni sentore di ignoranza spirituale. La perfezione è dunque per Evagrio una sublimazione delle più sottili facoltà intellettuali. Evagrio insiste diffusamente sulla gnòsis, come capace di trasformare le nostre attitudini e di assicurare la perfezione allo spirito, come l’apátheia l’assicura alla psichè. La mistica evagriana nutre scarso interesse per la vita associata: siamo con essa alle scaturigini di quel misticismo cristiano individualista, che avrà in seguito tradizioni così insigni.

Noi reputiamo altamente probabile che ad Evagrio debba rivendicarsi quel breve ma notevolissimo scritto De Virginitate che, compreso nella tradizione manoscritta di Atanasio, ha veduto la propria autenticità revocata in dubbio da Erasmo e dai Maurini. La vergine a cui lo scrittore del trattatello si rivolge conduce apparentemente vita comune. L’ideale che le viene prospettato è quello della completa rinuncia, in vista del «celestiale connubio». Chi vuol conseguire la salvezza si farà rozzo in questo mondo, per essere considerato saggio presso Dio. Gli uomini reputano saggi coloro che sanno dare e ricevere, comprare e vendere, arricchirsi e prestar danaro ad usura e fare di un obolo due. Dio invece chiama costoro stolti, pazzi e peccatori». E l’esortazione continua: «infallibile medicina di salvezza, l’umiltà. Satana non è precipitato dal cielo in seguito a colpe di fornicazione, di adulterio o di furto. Fu la superbia che lo precipitò nel più profondo recesso dell’abisso... Occorre poi amare intensamente il digiuno, poichè esso costituisce un valido sussidio: anche la preghiera e l’elemosina strappano l’uomo alla morte. Cristo chiede un cuore puro e un corpo incontaminato... Non colui però che si astiene solamente dai cibi agisce rettamente: ma colui che si tiene lontano da ogni azione malvagia. Se parole malvagie e colleriche usciranno dalla bocca digiunante, nulla gioverà». L’esortazione spiega ancora: «tu non accetterai mai la lode degli uomini. Se qualcuno ti dice: – sei beata, – tu risponderai: – quando io sia uscita da questo corpo, avendo raggiunto la perfezione, allora sarò chiamata beata: prima non credo di esserlo. Tutti noi siamo come il soffio del vento... Ritienti l’ultima fra tutti, per poter precedere i molti nel Regno dei cieli e per essere innalzata presso Dio. Il nemico ti tenterà, spingendoti a praticare un’ascesi esagerata, per rendere debole e inutile il tuo corpo. Il tuo digiuno invece sia moderato. Digiuna tutto l’anno indipendentemente da ogni imposizione e da ogni costrizione, assorta in inni e preghiere nell’ora nona. Consuma pure il tuo pane con erbe condite d’olio: è puro tutto ciò che non è vivente».

Conclude l’esortatore (c. 10): «beata l’anima che legge e ascolta e mette in pratica i precetti contenuti in questo libro. Io assicuro che chi li ascolta e li traduce in atto avrà il proprio nome registrato nel libro della vita e si troverà a far parte della terza schiera di angeli. Se pregherai o intonerai salmi o leggerai, fallo in privato. Nessuno ti ascolti, al di fuori di te, o al di fuori di due o tre sorelle, se le avrai, di spirito simile al tuo. Allontana da te ciò che è femmineo, e rivestiti di coraggio e di virilità, perchè nel Regno dei cieli non v’è più nè uomo nè donna, ma tutte coloro che saranno piaciute al Signore entreranno nella categoria degli uomini. Abbandona tutto quel che è giovanile, per essere simile alla vedova. Non profanerai il tuo corpo con nessun elemento materiale, ma laverai solo il tuo viso, le tue mani, i tuoi piedi. Quando ti laverai il viso, non ti laverai con le due mani nè ti stropiccerai gli occhi, nè ti aspergerai di erbe profumate. Perchè ciò fanno le donne del mondo. Tu ti laverai con acqua pura... Il sole che nasce troverà il libro aperto fra le tue mani. Alla terza ora farai la tua preghiera, poichè in quest’ora fu preparato il segno della croce. All’ora sesta accompagnerai la preghiera con salmi e con lacrime, poichè nella medesima ora il Figlio di Dio fu appeso alla croce. All’ora nona nuovamente, con inni e singulti, confesserai le tue colpe, poichè nella medesima, ora il Signore, appeso sulla croce, rese lo spirito».

Il lógos si chiude con un alato inno alla castità (c. 24): «compito duro è l’ascesi e ardua la continenza. Ma nulla è più dolce del celeste sposo. Qui soffriamo per poco. Là riceveremo in guiderdone la vita eterna. È bello fuggire la folla e vivere in solitudine. Grande virtù è la continenza. Grande gloria la purezza. Grande la lode della verginità. O verginità, ricchezza incalcolabile; o verginità, corona che non sfiorisce; o verginità, tempio di Dio e domicilio dello Spirito Santo, gemma preziosa, gioia dei profeti, gloria degli apostoli!»

La pratica eucaristica attestata dallo scritto è singolare. Si consiglia alle vergini (c. 12): «dopo la preghiera dell’ora nona mangia il tuo pane, avendo reso grazie a Dio sulla mensa, così: – sia lodato Iddio che mi ha nutrito fin dalla mia gioventù; colui che ha dato il nutrimento al mio corpo, colmò di gioia e di letizia il mio cuore, affinchè, avendo sempre noi quel che è necessario, possiamo crescere in ogni opera buona nel Cristo Gesù nostro Signore, nel quale a Te gloria, onore, forza, con lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli, amen... (c. 13). E quando tu sederai a mensa e spezzerai il tuo pane, dopo aver tracciato il segno della croce tre volte, così rendendo grazie: – noi ti rendiamo grazie per la tua santa risurrezione: poichè tu l’hai rivelata a noi per mezzo del Figlio tuo. E come questo pane era disseminato fuori, questo pane che sta ora in questa tavola, e raccolto divenne uno, così si raccolga la chiesa dai confini della terra, per il Regno, perchè tua è la potenza e la gloria nei secoli dei secoli, amen –».

Il pane che la vergine spezza è il pane eucaristico? Lo fa pensare la formola suggerita per la celebrazione, che è la formola stessa della Didachè. Noi abbiamo qui attestato l’uso di celebrare l’Eucarestia anche in privato, uso accreditato già nel terzo secolo da san Cipriano e confermato da accenni della Historia Monachorum. (c. 8).

Ma quest’uso delle sinassi private era nel quarto secolo cadente un residuo anacronistico di un’età oltrepassata. C’è di più: era una sopravvivenza ormai condannata dallo ulteriore sviluppo della disciplina ecclesiastica. Questo dà la possibilità di ribattere un’obbiezione che si potrebbe muovere alla tesi della paternità evagriana del de virginitate. Questa tesi è in verità raccomandata a parallelismi veramente persuasivi. Nella sua esplorazione dei rapporti e delle affinità spirituali fra il trattatello pseudo-atanasiano e il mondo ideale degli asceti egiziani, il von der Goltz non aveva mancato di segnalarli. Ma lo stato della pubblicazione degli scritti evagriani nel momento in cui egli compiva la sua indagine non consentiva di esaurire le possibilità dei confronti. E il von der Goltz si limitava ad affermare che le coincidenze del lógos con le sententiae evagriane ai monaci e alle vergini potevano attribuirsi alle interferenze di una tradizione orale, tramandata fedelmente attraverso i circoli dell’organizzazione ascetica egiziana del quarto secolo. In realtà, le scambievoli affinità del lógos sòterías con le sententiae evagriane si rivelano, sui testi originali, troppo profonde e troppo prolisse perchè sia lecito pensare ad una trasmissione e ad una incorporazione spontanea di motivi comuni di una tradizione orale. La tesi della dipendenza letteraria ci sembra si imponga. E poichè non è lecito supporre la derivazione del lógos sòterís dallo scritto evagriano, è lecito pertanto arguire che i due scritti possano attribuirsi al medesimo autore che, dopo aver cercato nella solitudine dell’eremitismo egiziano il riposo alla sua anima tormentata, si costituì maestro di perfezione e introdusse nella concezione e nella prassi della vita cristiana i motivi fondamentali dell’ascesi origeniana.

Naturalmente il lógos pseudo-atanasiano dovette essere stato composto da Evagrio in un momento in cui le sue dottrine ascetiche non avevano ancora toccato il grado di raffinamento gnostico cui mostrano di essere pervenute nel monachós e nella gnòsticós e tradivano più schiettamente i loro addentellati con l’ascesi anatolica, con la quale Evagrio deve essere venuto primieramente in contatto. Qui anzi la ragione per cui sarebbe scomparso nella paraínesis ogni accenno a quelle sunáxeis che compaiono nel de virginitate. Il sinodo di Gangra condannava, col suo canone sesto, simili pratiche liturgiche. Ora si potrebbe pensare appunto che il lógos pseudo-atanasiano si ricongiunga alle correnti eustaziane attraverso il diacono nato nell’Elenoponto, il quale era venuto formando la propria educazione religiosa nel periodo stesso di tempo in cui Eustazio di Sebaste diffondeva dalla piccola Armenia il fascino della sua propaganda ascetico-mistica, nutrita di spirito antiecclesiastico e di aspirazioni sociali innovatrici. In un primo momento della sua vocazione ascetica Evagrio può aver inculcato (lógos sòterías) le consuetudini liturgiche care agli eustaziani, che invece in un ulteriore momento, giunto alla piena maturità della sua esperienza ascetica, elimina senz’altro dai suoi ammonimenti alle vergini.

Ormai l’ascetismo cristiano era spinto verso le manifestazioni più rigide e più eccentriche.

La Historia Lausiaca si diffonde (c. 18) nel raccontare le asprezze raccapriccianti di Macario l’alessandrino. Costui si propose una volta di rimanere per cinque giorni continui con la mente esclusivamente concentrata in Dio. Chiuse pertanto la cella e dalla seconda ora del giorno si tenne ritto in piedi, comandando al proprio spirito «di non scendere giammai, nè pure per un istante, dal cielo, dove sono gli angeli, gli arcangeli, le potenze dell’universo e il Dio stesso di tutte le cose. Avendo trascorso così due notti e due giorni, suscitò tale ira nel demonio», che questo pensò bene di dar fuoco a tutto quello che era nella cella. Colto da paura, Macario, al terzo giorno, rinuncia a continuare, e allora si ripiega nella contemplazione del mondo, per non inorgoglire della prova superata. L’importanza di questo e dei racconti simili di cui si intesse la Historia Lausiaca non è certamente nei particolari, in sè, tutti, senza dubbio, più o meno fantastici e più o meno leggendari, bensì nell’atteggiamento spirituale e nell’ideale che sono alla loro base e che tradiscono la mentalità ormai radicata nelle correnti dell’ascetismo cristiano.

Ormai l’ascetismo organizzato non era più fenomeno tipicamente egiziano. Aveva sciamato fuori della sua terra d’origine e, rispondendo a condizioni sociali ormai comuni a tutto l’Impero, dovunque trovava modo di attecchire e di prosperare. La leggenda gerominiana fa di Malco e di Ilarione i fondatori del monachismo siro-palestinese. Non c’è da fare molto a fidanza con queste sue biografie monastiche, che sono dei magnifici saggi di letteratura romanzesca agiografica. Più attendibile la testimonianza di Sozomeno, che ci descrive il ramingare dei boscoí, monaci girovaghi, che empiono di precarietà e di disordine le campagne palestinesi.

In Anatolia, l’ascetismo trovava il suo predicatore, religiosamente ambiguo, in Eustazio di Sebaste, e il suo disciplinatore di genio in Basilio di Cesarea. Nato in Cappadocia, Basilio aveva studiato in Atene, dove aveva avuto amico inseparabile Gregorio di Nazianzo e compagno di studio Giuliano l’Apostata. Scrittore fecondissimo, Basilio ha lasciato, fra gli altri, un fascio di dodici scritti relativi al monachismo. Si iniziano con un prólogos, nel quale l’autore riprende il motivo caro all’apologetica entusiastica di Tertulliano: il cittadino del mondo è milite del mondo e schiavo del suo sovrano, mentre il cristiano deve essere esclusivamente il milite di Cristo, che recide ogni rapporto con la famiglia, con la società, con lo Stato. Il secondo scritto è un Sermone ascetico ed esortazione alla rinuncia e al perfezionamento spirituale, nel quale è celebrato il principio fondamentale dell’ascesi, la dottrina cioè della rinuncia, come mezzo infallibile per il raggiungimento della perfezione. Il terzo scritto: L’ascesi, o come il monaco deve educarsi, espone le particolari cure che il monaco deve consacrare alla propria anima. Questo trattato raggiunse una considerevole diffusione in Occidente, attraverso versioni latine che anche san Benedetto conobbe e utilizzò nella stilizzazione della propria Regola. Seguono due sermoni intorno alla fede e intorno al giudizio di Dio. Quindi regole morali (óroi) desunte dal Nuovo Testamento. Vanno poi comunemente compresi i Discorsi ascetici cui seguono, al nono posto, cinquantacinque regole più ampie (Regulae fusius disputatae) e, al decimo, trecento tredici regole brevi, sotto forma di domande e di risposte, suggerite da problemi pratici. Chiudono la serie i due trattati: Pene e Costituzioni ascetiche.

Le regole di san Basilio, il cui testo attuale non potrebbe asserirsi sia stato immune da rimaneggiamenti e da aggiunte, hanno rappresentato un codice completo di vita monastica. Costantemente ispirate a precetti evangelici, sono avvivate da uno spirito di longanime mitezza. Sopprimono ogni pena corporale: fanno leva sulla disciplina del lavoro e sul dovere dell’obbedienza al capo riconosciuto della comunità. Insistono energicamente sull’obbligo della ospitalità, facendo appello a due ragioni: se la vita monastica è già simpatica all’ospite, questi l’abbraccia; se invece la riguarda con prevenzioni, queste cadranno disarmate. Un vecchio frammento basiliano, conservato in una versione latina, tratteggia eloquentemente lo spirito dell’istituzione: «stai bene attento, o monaco, a non peccare, onde tu non provochi ad ira quel Dio che dimora con te e non lo allontani dall’anima tua. Il monaco deve menare una vita povera, trasandato nel corpo, estraneo ad ogni ricercatezza, sommesso nella voce, parco nelle parole, fra i saggi sempre ascoltatore, fra gli uguali sempre ridondante di carità; fra i minori di sè sempre ricco di consigli, lontano dagli individui malvagi, carnali, curiosi, intento a comprendere più che a parlare. Tardo al riso. Sensibile al pudore. Obbediente, laborioso. Intento a meditare il destino, lieto nella speranza, ininterrottamente nella preghiera. Sempre tributante grazia a Dio, forte nelle prove, umile con tutti, rifuggente da ogni ostentazione di vanagloria». Ma quelle concezioni pessimistiche manichee, che avevano latentemente esercitato la loro azione nella costituzione del monachismo egiziano, si facevano sentire anche in Anatolia attraverso la propaganda di quell’Eustazio di Sebaste, che era stato grande amico di Basilio e che il sinodo di Gangra colpiva duramente.

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