Il programma dei modernisti.

Frattanto un manipolo di modernisti italiani lavorava febbrilmente per preparare nel più breve tempo possibile una replica all'enciclica «Pascendi». Essa infatti fu pubblicata verso il 29 ottobre, provocando un'impressione profonda nel pubblico, italiano e straniero, che si era appassionato al grave dibattito. Sebbene il cardinal Vicario, per ordine espresso di S. S. si affrettasse a proibirne la lettura, ed il suo decreto fosse riprodotto da quasi tutti i vescovi italiani, il volume fu esaurito in quindici giorni, e se ne iniziò subito la traduzione francese ed inglese. Il contenuto del volume è troppo noto perchè noi ci dilunghiamo nel riferirne dei lunghi brani: tanto più che la Società editrice ne sta preparando una seconda edizione riveduta ed ampliata.

Gli autori anonimi del documento che, secondo il giudizio dell'Ehrhard costituisce uno degli avvenimenti religiosi più importanti della storia moderna, non escluso il giansenismo, esponevano da prima le ragioni che rendevano necessaria una risposta al rude attacco dell'Enciclica. Essi così cominciavano:

Un documento così grave, sia nel contenuto che nella forma, come l'Enciclica che abbiamo riprodotto nelle pagine seguenti; un tentativo così studiato di presentare al pubblico le dottrine modernistiche sotto una luce falsa ed antipatica; una denuncia così autorevole di noi modernisti come di insidiatori pericolosi della pietà cristiana e di fomentatori inconsapevoli dell'ateismo, c'impone il dovere di fronte alla coscienza nostra, alla coscienza collettiva dei fedeli, all'attenzione ansiosa del pubblico di esporre senza sottintesi il nostro pensiero. Noi non possiamo rimanere impassibili sotto le violenti accuse che l'autorità suprema della Chiesa, pur conoscendo in noi dei sudditi fedeli, risoluti a restarle aderenti fino all'ultimo alito della loro esistenza, pronuncia sul nostro capo. La nostra replica quindi non ha nulla di arrogante: è elementare principio di giustizia che l'accusato si difenda. E non possiamo credere che questo diritto sia tolto a noi, in un momento gravissimo per i destini del cristianesimo cattolico. Tanto più che se l'Enciclica ha con una crudezza inusitata scagliato su noi una condanna perentoria, ha voluto anche, con un procedimento di cui le siamo grati, riassumere a suo modo le nostre dottrine e far precedere la sua sentenza da una troppo facile loro confutazione. Per ciò stesso noi siamo indotti a ritenere che la sentenza tanto valga quanto è esatta la sintesi del nostro pensiero contenuta nell'Enciclica, e quanto valide sono le ragioni che in nome della tradizione questa accampa contro di noi. Abbiamo dunque non solo il diritto ma il dovere di intervenire, di raccogliere la sfida polemica che l'Enciclica sembra farci, e di discutere le dottrine che ci sono rimproverate. Figli devoti della Chiesa; obbedienti all'autorità in cui vediamo prolungarsi il Ministero pastorale degli apostoli; consapevoli dell'armonia che deve reggere in ogni società religiosa i rapporti fra il potere e la coscienza individuale; compartecipi alla intensa vita spirituale che circola in tutte le membra della società cattolica, corpo mistico del Cristo, noi ci presentiamo senza spavalderia, ma col profondo sentimento dei diritti che spettano alla nostra personalità religiosa, dinanzi al giudizio della società cui apparteniamo, per replicare all'accusa da cui siamo stati investiti. Non mendichiamo scuse; tanto meno crediamo di dover mendicare un perdono: esponiamo semplicemente il nostro pensiero invocando su di esso il giudizio dei nostri fratelli e anche attendendo il giudizio della storia. In quest'ora così pregna di rivolgimenti morali, mentre il mondo intellettuale, ancora lontano dal Cristo e dalla sua Chiesa, muove per vie diverse verso un rinnovamento indeciso della sua psicologia, noi ci proponiamo nettamente il problema: la Chiesa cattolica, il grande organismo in cui si è venuto attuando lo spirito religioso del Vangelo, è una forza di conquista o un semplice istinto di conservazione; nasconde essa ancora nelle pieghe della sua mirabile organizzazione capacità possenti di proselitismo la vitalità sua è insidiata dai germi di una decomposizione imminente; la sua missione è ormai ridotta alla vigilanza sospettosa sulla fede semplice e rozza dei suoi scarsi seguaci superstiti o si volge verso la rinnovata conquista di quella efficacia sociale che lunghi anni di inerte isolamento. le hanno fatto smarrire? Nelle nostre anime noi abbiamo da lungo tempo risposto al decisivo quesito. Chinati con cura amorevole a osservare le aspirazioni della coscienza contemporanea; vibranti all'unisono con essa dell'entusiasmo caldo per i nuovi ideali della fratellanza universale; noi abbiamo creduto di cogliere nei suoi movimenti i sintomi di una magnifica rinascenza religiosa; la mite parola messianica è tornata sulle nostre labbra: «Guardate i campi come son biondeggianti di messe; innalzate le vostre fronti, la vostra redenzione è vicina». Al nostro secolo abbiamo cercato, parlando il suo linguaggio e pensando il suo pensiero, di avvicinare, perchè al contatto risaltasse la profonda vicendevole affinità, gl'insegnamenti del cattolicismo. Non possiamo credere che la Chiesa a lungo ritenga il nostro programma come deleterio. Possiamo aver errato nei tentativi parziali di avvicinamento, e nulla bramiamo più che la correzione paterna: ma non si getti su tutta la nostra operosità, grave di sacrifici e di abnegazione, una condanna recisa e perentoria.
Se la Chiesa non ha smarrito la coscienza dei suoi destini cattolici; se oscilla ancora nel fondo della sua anima l'eco della parola profetica: «e sarà un solo ovile e un solo pastore», essa deve uscire dal recinto del solitario santuario, a cui non giunge più il fervore della vita collettiva, pulsante nelle officine e nelle università; deve ricercare il contatto degli uomini, riaprirsi la via verso le loro coscienze, rimuovere la diffidenza che la lontananza e gli errori hanno accumulato contro di Lei. Si tratta di risuscitare la religiosità deformata; di ricercare negli strati più profondi della vita interiore le scintille dissimulate, non spente, del vecchio spirito cristiano; innestare sulle idealità che alimentano l'operosità del mondo contemporaneo, e che sono sostanzialmente religiose, il senso dell'altruismo e la volontà del sacrificio che solo il Vangelo sa infondere; di raccogliere infine gli sparsi frammenti della famiglia cristiana in una più alta estrinsecazione di quella speranza religiosa, in che è tutto l'insegnamento di Gesù. Ma la Chiesa e la società non possono incontrarsi sulla base della mentalità prevalente al concilio di Trento, e non possono intendersi mediante il linguaggio medioevale. Quante albe son passate dai giorni di Innocenzo III e quanti avvenimenti han maturato dai giorni di Paolo III! E la filosofia e il pensiero religioso, che si evolvono col progresso generale dello spirito pubblico, sono oggi ben diversamente atteggiati da quel che i monaci delle università medioevali o gli apologisti della Contro-riforma potessero prevedere. Quale meraviglia quindi che i vecchi formulari dogmatici suonino incomprensibili ai nostri contemporanei e le tradizionali pretese teocratiche urtino oggi i più elementari sensi di responsabilità personale? La coscienza umana collettiva come la coscienza individuale non attraversa nella sua storia due istanti che perfettamente si equivalgano: come ogni impressione ed ogni episodio esteriore si fissa sul diaframma del nostro spirito, e arricchendolo lo trasforma, così lo spirito sociale è lentamente trasformato dal corso degli avvenimenti: l'esistenza è movimento. È quindi intuitivo che all'anima moderna, così dissimile dall'anima medioevale, sia impossibile imporre l'esperienza religiosa nelle forme che essa ha avuto e ha espresso. La chiesa non può e non deve pretendere che la Somma risponda alle esigenze del pensiero religioso nel secolo XX, come la teologia informe dei tempi carolingici non bastò alle ricerche universitarie del XIII, e le teorie della letteratura paolina furono rivissute e trasformate dai padri platonizzanti del III e del IV. Nè d'altra parte essa deve temere che la veneranda tradizione religiosa, di cui ha la gelosa custodia, sia incapace oggi all'adattamento vitale. Quel che è stato possibile nel passato, è possibile oggi e lo sarà sempre nell'avvenire. La religiosità cristiana, che è un puro spirito di aspettazione nel trionfo di un divino regno di giustizia, è suscettibile di ogni rivestimento teorico che parta da presupposti idealistici. Tali presupposti sono oggi alla base dei nuovi atteggiamenti della filosofia: la Chiesa può dunque, con sicura coscienza, accogliere questa nel suo seno e vivificarla con le alte aspirazioni che il Vangelo alimenta. E quest'opera di sintesi che tante nobili intelligenze hanno volenterosamente iniziato, l'autorità non deve a priori condannarla.
L'Enciclica ci rimprovera di superbia e di ostinazione. Noi vorremmo ricavare dalle nostre anime gli accenti più accesi del nostro senso cristiano, per dire a Pio X: «Padre Santo, con lo spirito aperto dinanzi a Voi, come conviene a figli devoti, noi vi possiamo assicurare che ogni superba preoccupazione di gloria è estranea al nostro lavoro. Attraversammo lunghe ore d'angoscia, quando, uscendo dai nostri seminari o dalle nostre scuole cattoliche, piene le menti di insegnamenti scolastici, e acquistando adagio adagio dimestichezza con la cultura dei nostri giorni, sentimmo vacillare la saldezza dei postulati teorici che ci avevano additato come base indispensabile della fede cattolica. Nella preghiera e nello studio noi chiedemmo luce dall'alto. Questa luce si è fatta nell'anima nostra. Le pretese basi della fede ci apparvero insanabilmente caduche: ma la fede stessa, tutto il ricco patrimonio dell'esperienza religiosa cattolica, noi lo sentimmo palpitare più vivo in noi, e noi vedemmo lucidamente la sua conciliabilità con le migliori esigenze dell'anima contemporanea. E ci accingemmo a diffondere intorno a noi questa nuova esperienza del cattolicismo; noi intravedemmo le possibilità di successo che essa possiede. Non ci respingete, Padre Santo: i nostri tentativi possono essere fallaci; il nostro programma è vitale, ed è per la Chiesa l'unica via di successo».
Questo noi diciamo all'autorità che incarna in sè l'esigenza del magistero nella Chiesa. Saremo perciò giudicati ribelli? Può darsi.
Per una serie di circostanze, che non è qui il caso di analizzare, i cattolici hanno perduto ogni elementare senso di responsabilità e di dignità personale.
Gli atti dell'autorità suprema, invece di trovare in essi l'ossequio di una sudditanza ragionevole e quindi giudicatrice, trovano la dedizione incosciente degli irresponsabili. Ciò si ripercuote con effetti sinistri sull'esercizio stesso del potere, che smarrisce la visione dei propri limiti e della vera propria funzione, trasformandosi in un assolutismo incompatibile col sano governo religioso voluto da Cristo, «in cui noi da schiavi siamo divenuti liberi».
Quindi, comunque sia per essere giudicato nel primo momento il nostro atto, noi crediamo di compiere un grande bene alla Chiesa rompendo questa triste catena di abusi e di rinunzie, e discutendo con umiltà ma energia le nostre posizioni, condannate perchè poco conosciute dall'autorità che ci governa.

Il primo capitolo del Programma dimostrava inoppugnabilmente che l'Enciclica travisava nella maniera più grossolana l'essenza del movimento modernista, facendone una tendenza filosofica, agnostica ed ateistica, da cui scaturivano delle applicazioni critiche alla storia della rivelazione giudaica e cristiana; che al contrario la critica aveva originato la profonda crisi psicologica e intellettuale, per rimediare alla quale i modernisti avevano fatto ricorso ad alcuni originali postulati filosofici oggi molto accreditati.

È stato senza dubbio un ripiego molto comodo presentare al pubblico il nostro movimento imperniato su alcuni principi astratti – vedremo poi quanto deformati – la cui forma volutamente paradossale li fa apparire incompatibili con le posizioni teologiche fondamentali del cattolicismo. Ma sarebbe ingenuo da parte nostra lasciar passare senza protesta un simile equivoco. Noi dobbiamo invece rivendicare innanzi tutto la base critica e il presupposto di fatto di tutto il nostro pensiero; noi dobbiamo far vedere che se il modernismo non è un semplice e ambiguo nome, è un metodo, o meglio è il metodo critico, applicato come di dovere alle forme religiose dell'umanità in genere, e al cattolicismo in ispecie. Che se questa applicazione leale conduce a una revisione completa delle basi positive su cui s'innalza l'interpretazione scolastica del cattolicismo; e quindi fa scaturire il desiderio di una nuova apologia della fede religiosa, ciò non è dovuto a uno sporadico capriccio della nostra ragione, superba sprezzatrice della scolastica, di cui invece conosciamo molto bene i principi e apprezziamo la funzione storica, bensì a una esigenza evidente del sentimento religioso che cerca incessantemente in nuove forme di pensiero di conservare la sua efficacia fra gli uomini. Era inevitabile che la scolastica medioevale, la fusione cioè del pensiero aristotelico con l'insegnamento cattolico quale si era formato nel periodo di tempo che va fino al secolo XIII sorta in un tempo in cui mancava del tutto il senso storico e non si aveva il più lontano sentore di quel che fosse stata l'evoluzione del fatto cristiano, si dissolvesse, quando ai suoi presupposti di una rivelazione meccanica, irrigiditasi nel momento stesso in cui era stata compiuta, fosse venuta a mancare la base delle testimonianze bibliche e patristiche, raccolte senza alcun discernimento critico. Si aggiunga a ciò la revisione a cui il realismo logico aristotelico è stato sottoposto nella tradizione filosofica più recente, e si intenderà agevolmente la crisi profonda in cui era destinata a cadere la dottrina scolastica del cattolicismo. Il modernismo è nato e cresciuto come tendenza a risolvere la crisi dolorosa: e passerà sotto quel nome, fino al giorno in cui, dopo aver sollevato e diffuso con gli sforzi della sua tenace abnegazione la nuova interpretazione del cattolicismo, si riconfonderà, fino ad essere una cosa sola, con questo.

Dopo questo preambolo gli anonimi autori esponevano in una maniera succinta, ma molto chiara e molto precisa, i risultati ormai indiscutibili a cui è giunta la critica del Vecchio e del Nuovo Testamento, e la critica applicata alla storia del cristianesimo.

Quindi entravano nella discussione diretta delle imputazioni filosofiche che l'Enciclica aveva rivolto al modernismo. Negavano innanzi tutto che il modernismo fosse agnostico. Essi affermavano al contrario che l'apologetica modernista rappresenta il tentativo di uscire dall'agnosticismo, come dottrina della conoscenza, superandolo; come già l'agnosticismo aveva rappresentato il tentativo di superare il positivismo materialistico. E continuavano:

Noi distinguiamo innanzi tutto diversi ordini di conoscenza: la conoscenza fenomenica, la conoscenza scientifica, la conoscenza filosofica, la conoscenza religiosa. La conoscenza fenomenica abbraccia gli oggetti sensibili nella loro individualità; la conoscenza scientifica applica ai gruppi dei fenomeni percepiti il calcolo, esprimendone le leggi costanti di svolgimento: la conoscenza filosofica è l'interpretazione dell'universo secondo alcune categorie connaturali allo spirito umano e rispecchianti le esigenze profonde e inalterabili della azione; infine la conoscenza religiosa è l'esperienza attuale del divino operante in noi e nel tutto. Naturalmente cadono a questo modo le vecchie definizioni che la scolastica aveva ereditato da alcune tradizioni classiche della scienza concepita come «cognitio rei per causas» e della filosofia concepita come «conoscenza delle cose divine ed umane nelle loro ultime cause». Ma noi non ne siamo responsabili, perchè già la filosofia delle scienze ha dimostrato per suo conto quanto di convenzionale ci sia in ogni scienza, e l'analisi psicologica a sua volta ha rivelato gli elementi soggettivi e personali che contribuiscono alla formazione della conoscenza astratta. Sicchè oggi non è più possibile parlare di una facoltà conoscitiva che si eserciti fuori di ogni influsso di coscienza e raggiunga una certezza e una verità che sia «adaequatio rei et intellectus». La speculazione ci appare oggi come un'azione nel più generico senso della parola, e obbediente all'azione. L'atto del conoscere cioè è il risultato di un laborioso sforzo dello spirito che cerca di possedere meglio il reale e di più utilmente servirsene, attraverso gli schemi mentali che esso riesce a foggiarsene.
Una tale concezione è al più alto grado liberatrice. Considerando la facoltà conoscitiva in funzione di tutta la vita interiore dell'uomo; non dimenticando mai la correlazione saldissima che corre fra il conoscere astratto e l'operare; abbattendo le barriere fittizie che la psicologia scolastica poneva fra il pensare e il volere, noi ampliamo enormemente i confini del conoscibile, e segnaliamo nell'uomo la possibilità di raggiungere, sia pure mediante forme di conoscenza finora poco apprezzate, le realtà superiori, il cui possesso intimo accresce i valori della vita e l'arricchisce di nuove potenzialità. Come la scienza ci aiuta nell'uso del reale, mediante la fusione dell'esperienza con le leggi del calcolo; come la metafisica corrisponde al bisogno dell'azione di lasciarsi guidare da una determinata concezione dell'universo; le esigenze della nostra vita morale, l'esperienza del divino che si compie nelle profondità più oscure della nostra coscienza conducono ad un senso speciale delle realtà soprasensibili, dal quale è dominata tutta la nostra esistenza etica. A noi non importa più di giungere a Dio attraverso le dimostrazioni della metafisica medioevale o sulla testimonianza del miracolo e delle profezie: fatti questi ultimi che urtano anziché meravigliare la coscienza contemporanea, e che sfuggono al controllo dell'esperienza. Noi segnaliamo altre capacità di conoscere il divino, noi troviamo in noi quel «senso illativo» di cui parlava Newman, col quale ci è dato afferrare, nel suo ineffabile mistero, la presenza di energie superiori con le quali siamo in diretto contatto. Paragonato a queste nostre opinioni gnoseologiche, l'agnosticismo appare com'è un sistema freddo e razionalistico. Noi accettiamo la critica della ragione pura che Kant e Spencer hanno fatto: ma lungi dal ricorrere alla testimonianza aprioristica della ragione pratica o dal concludere all'affermazione di un inconoscibile, noi segnaliamo nello spirito umano altre vie per raggiungere il vero, ugualmente forti che la ragione ragionante. È vero che i nostri postulati s'ispirano a principii immanentistici, perchè tutti partono dal presupposto che il soggetto non sia passivo nelle sue operazioni conoscitive e religiose, ma tragga dal proprio essere spirituale sia la testimonianza di una realtà superiore di cui intuisce la presenza, sia la sua formulazione astratta. Ma il principio dell'immanenza vitale non è quel principio deleterio che l'Enciclica sembra credere.

Quindi si diffondevano nella dimostrazione di questa tesi e nel farne risaltare la perfetta conciliabilità con la migliore tradizione cattolica.

Un altro capitolo del loro volume era consacrato ad alcune questioni particolari, male impostate o accennate dall'enciclica: cioè il valore comparativo delle religioni, i rapporti tra la scienza e la fede, e quelli tra lo Stato e la Chiesa. A proposito di quest'ultimo problema, gli autori del programma facevano delle dichiarazioni nettamente democratiche.

Alla fine essi commentavano aspramente la persecuzione antimodernistica decretata dall'enciclica, e concludevano dignitosamente:

Noi crediamo di avere pieno diritto di cittadinanza nella Chiesa: crediamo anzi di esserne i più devoti e i più volenterosi figli. Non conserviamo noi e non cerchiamo di risuscitare le più pure tradizioni del cristianesimo? Il cristianesimo, infatti, è stato nella sua origine e nelle sue età più rigogliose un potente stimolo e una profonda speranza, dai quali gli spiriti sono stati sollevati a una più nobile concezione della vita, a una più intensa e disinteressata operosità per il bene collettivo. Una forza di progresso nel mondo noi vogliamo che torni ad essere. Perciò bramiamo che mentre la civiltà contemporanea satura di spirito critico e avida di progresso democratico muove verso una esperienza superiore della religiosità cristiana, la croce del Cristo non sia invocata contro la luce diffusiva del vero, e non sia mescolata alle aspre competizioni della vita politica, contro l'ascensione fatale degli umili. Al nostro sguardo sorride l'ideale di una Chiesa tornata ad essere moderatrice delle anime nel loro duro pellegrinaggio verso la meta lontana verso cui le sospinge lo spirito di Dio, che è spirito di fratellanza e di pace. E i nostri sforzi sono diretti a introdurre nelle anime questa nuova coscienza dei destini imperituri del cattolicismo del mondo. La condanna momentanea di tali sforzi non ci sgomenta. Qualora anche la chiesa ufficiale, poco intendendo la giustezza dei nostri propositi, ci respingesse in maniera più brusca e più violenta di quel che non sia stato fatto finora, noi saremmo ancora tranquillissimi di coscienza, memori di alcune parole luminose di S. Agostino, che qui riportiamo quasi a conclusione della nostra difesa:
«Spesso la divina provvidenza permette che anche degli individui esemplari siano espulsi dalla comunità cristiana, a causa dei turbolenti maneggi di uomini eccessivamente carnali. E allora essi, tollerando con esemplare pazienza per la pace della chiesa, l'oltraggio ingiurioso senza alcun tentativo di scisma di eresia, possono insegnare agli uomini con quanto leale tenerezza e quanto sincero attaccamento si debba servire a Dio. Il loro proposito sarà di far ritorno, sedate le dissensioni, nel grembo della collettività: o qualora ciò non fosse possibile perdurando le ragioni del dissidio, di ricordare in bene coloro stessi per le oscure trame dei quali vennero a mancare, e di difendere e soccorrere con la loro valida testimonianza fino alla morte, senza spirito settario, quella fede che essi sanno essere annunciata nella Chiesa cattolica. Questi individui il Padre, che vede in occulto, in occulto corona». (De ver. Rel. VI).

Abbiamo detto che il “Programma” fu prontamente condannato dal card. Vicario, e i suoi autori furono scomunicati. Molto facilmente si sperava di riuscire con questo mezzo a scoprirne gli autori: ma per quanto diligenti inchieste si facessero, per quanti spionaggi si organizzassero, il tentativo andò fallito. Il Quadrotta, in una interessante lettera al Nourry, pubblicata come prefazione alla traduzione francese del programma, ha narrato gli sforzi fatti dalla Curia per raggiungere i colpevoli, e il loro esito sfortunato. Nessun prete italiano si sentì colpito dalla scomunica, e cessò di celebrare la messa. Erano stati dunque dei laici gli autori del "Programma"?Pochi lo credono.

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