«Roma non perit, si Romani non pereant».
(Serm. 81).
Il 24 agosto del 410 i goti di Alarico entravano dalla Salaria nell’Urbe e si abbandonavano a quel barbaro saccheggio che è rimasto tristemente famoso nelle memorie di Roma. Il tragico evento destò un senso di raccapriccio e di sbigottimento dovunque. Nel suo ritiro di Betlem, il vecchio Girolamo, il cui cuore sanguinava ancora per la morte recente di Paola, risentì più amaramente il contraccolpo dell’immane sciagura, perchè la nuova gliene giunse insieme a quella della morte di Marcella, abbattuta dagli affronti subiti insieme alla figliuola: «Ed ecco, improvvisamente, apprendo la scomparsa di Pammachio e di Marcella, la cattura della romana città, l’addormentarsi eterno di molti fratelli e sorelle. Caddi nel più costernato stupore. Giorno e notte mi ha assediato il pensiero degli amici lontani. Ora che è stata violentemente spenta la più fulgida luce dell’universo; ora che è stato troncato il capo stesso dell’Impero; ora che con la caduta di una città, tutto il mondo civile è precipitato nella rovina, tacqui e mi prostrai nella polvere. Mi sovvenne l’adagio: nel lutto, la musica è una inopportuna cicalata».
Numerose famiglie nobili non attesero che l’uragano scoppiasse, per prendere il largo. E poichè molte fra esse possedevano vasti tenimenti terrieri nell’Africa proconsolare, fu sulle sponde meridionali del Mediterraneo che ripararono in gran copia a spandere le loro recriminazioni di profughi esasperati. I pagani erano ancora in notevole quantità, e poichè i rovesci più terrificanti si erano abbattuti sulla vecchia capitale dell’Impero proprio mentre gli imperatori facevano più aperta pompa della loro fede ortodossa, essi non mancarono di riprendere i vecchi motivi già invocati da Simmaco, sulla impossibilità di scindere la grandezza di Roma dal culto pagano e sulla necessità di tornare ai riti tradizionali se si voleva salvare l’Impero dalla definitiva rovina. Agostino dovette ben presto sentirsi ristucco di questo vano piagnucolio di signori disturbati nelle loro consuetudini, che vedevano fosco per tutto e affibbiavano al cristianesimo la responsabilità di sciagure, delle quali era tutt’altro che agevole indagare la scaturigine. In verità il momento era propizio per un’opera che ricercasse, alla luce del Vangelo, i coefficienti che regolano il normale sviluppo dei popoli e i valori assoluti, in base ai quali va apprezzata la loro vita. Il rivolgimento spirituale iniziato da un secolo con l’editto costantiniano aveva ormai raggiunto l’apice della sua maturità e il disastro politico in cui era piombato il grande organismo statale di Roma imponeva a un cristiano di genio l’obbligo di delineare i principi di una nuova filosofia sociale, che insegnasse a valutare senza scoraggiamento gli eventi e a trarre gli auspici per l’avvenire. Fra il 412 e il 426 Agostino scrisse così i suoi ventidue libri del De Civitate Dei.
Io non debbo qui esaminarli ad uno ad uno; riprodurne in iscorcio le argomentazioni contro i pagani maledicenti a Cristo per i disastri piombati sull’Impero o la copiosa erudizione mitologica, attinta dalle opere di Varrone. Io debbo limitarmi a coglierne l’anima vivificatrice, a farne sprizzare lo spirito profondo, che ha retto, come un cemento tenace, l’organizzazione sociale del Medio Evo cristiano.
Si direbbe che non sia, cotesto, compito agevole. Il De Civitate Dei non solo è uno di quei libri di cui moltissimi parlano pur senza averne mai letto una riga, ma è una di quelle opere che non tradiscono il loro contenuto sostanziale ad una prima lettura e su cui accade di costruire le proprie teorie predilette, con piena offesa ai reali propositi che Agostino ha perseguito nella sua immortale composizione.
Ecco, ad esempio. Per una strana coincidenza, che non manca di un recondito significato, proprio mentre un popolo, nelle cui vene scorre più abbondante sangue gotico, ha scatenato una guerra che è il risultato di una secolare esaltazione della forza bruta e del predominio politico, in irriducibile contrasto con la scala dei valori instaurata dal cristianesimo, un suo filosofo, di solito mite ed equilibrato, Ernesto Troeltsch, ha preso in esame il De Civitate Dei di Sant’Agostino, per calcolarne l’efficacia storica e la posizione nello sviluppo del mondo cristiano. E poichè vi ha trovato una filosofia dei valori che, mentre è la più saggia applicazione dello spirito evangelico alle contingenze della vita collettiva, rappresenta, appunto per questo, la più recisa negazione di quel cesarismo rinascente che è alla base di ogni violento imperialismo, è stato inconsapevolmente indotto a dichiarare che l’opera più notevole di Sant’Agostino è priva di ogni rapporto effettuale con le nozioni e le istituzioni prevalenti nel Medio Evo; che è, puramente e semplicemente, la sintesi dell’etica cristiana primitiva, digiuna di ogni preoccupazione politica ed estranea ad ogni organismo statale, che, a fil di logica, può condurre alle rinuncie dell’ascetismo, non può davvero apprestare il materiale ideologico per una salda compagine sociale. Con un metodo di raffronti tutto formalistico e meccanico, il Troeltsch dipinge sommariamente la situazione storico-politica del Medio Evo, e le nozioni di Chiesa, di Stato, e dei loro rapporti, che sono alle sue radici. E poichè non trova che Agostino abbia prognosticato la coronazione imperiale a Roma di un re barbaro, conclude senz’altro che dal De Civitate Dei il Medio Evo non ha ricavato la più lieve ispirazione.
Non è chi non veda l’artificiosa inconsistenza di simile argomentazione. Le istituzioni storiche sono, in genere, il risultato di un duplice ordine di coefficienti: coefficienti di ordine materiale gli uni, economici, fisici, etnici, che operano in virtù di circostanze esteriori; coefficienti di ordine morale gli altri, che operano per intima virtù e per infallibile capacità di modellare e piegare gli spiriti al riconoscimento di determinati principi. E sono queste le idee poste in circolazione dalle intelligenze più elette, e costituenti la norma della vita umana nella storia. È stolta pretesa voler ritrovare nel De Civitate Dei istituzioni politiche che dovevano scaturire da fattori materiali, entrati all’alba del V secolo, a pena in azione. Ma è ben lecito, doveroso anzi, riconoscere che in quella altissima manifestazione dell’apologetica cristiana vibra lo spirito che ne rese possibile la lenta maturazione, e circola una concezione dei rapporti fra vita etica e vita politica, in cui forse può adagiarsi tuttora l’esperienza etica del ciclo storico cui apparteniamo.
Per intendere ciò non dobbiamo naturalmente contentarci dell’accezione volgare, secondo la quale Sant’Agostino avrebbe fatto della Chiesa la città di Dio, e del mondo, con tutte le sue istituzioni, la città del demonio. Chi si arresta a simile grossolano concetto, mostra di non avere nè pure sfiorato la profonda intuizione mistica che regge l’impalcatura della grande opera agostiniana, e si rivela insanabilmente inadatto a valutarne il significato, di fronte all’etica sociale del paganesimo.
Fra la Chiesa e la società di Dio non v’è alcuna identità di confini cronologici o spaziali. Moltissimi appartennero alla società di Dio, prima che la Chiesa esistesse; come moltissimi vi appartengono, pur non avendo ricevuto l’iniziazione cristiana. E d’altra parte vi sono molti che marciano materialmente nelle file della società ecclesiastica, pure figurando, spiritualmente, nella società della perversione e del demonio. La tessera di riconoscimento va dunque cercata altrove. Dice Sant’Agostino in un passo, per me fondamentale, del De Civitate Dei: «Due amori edificarono le due città: l’amore di sè, l’egoismo cioè che accieca gli uomini fino al disprezzo di Dio, costruì la città terrena; l’amore di Dio e dell’ideale, spinto fino al sacrificio di sé, innalzò la città celeste. Quella trae gloria da sè; questa pone il suo vanto esclusivamente nel Signore. Quella va accattando gloria terrena; questa riposa in Dio, testimoniato nella coscienza. Quella, ebbra nel suo fasto, leva superba il capo; questa mormora umilmente a Dio: tu mia lode e mio trionfo. I cittadini della città terrena; sono pervasi da una stolta cupidigia di predominio, che li induce a soggiogare altrui; i cittadini della città celeste si offrono l’uno all’altro in servizio, con spirito di soave carità, e rispettano docilmente i doveri della disciplina sociale» (XIV. 28). Le due città non sono distinte quaggiù da contrassegni esteriori: sono mescolate insieme fin dall’esordio del genere umano, e mescolate corrono verso la fine dei tempi. Il titolo di appartenenza all’una o all’altra città ciascuno lo porta in cuore, con il sentimento da cui è ispirato nella sua prassi quotidiana. Interroget ergo se quisque quid amet, et inveniet unde sit civis (En. in Ps. LXIV). Le due società sono rispettivamente la società degli idealisti ed altruisti e quella degli egoisti.
Con questa distinzione mistica del genere umano qualcosa di veramente nuovo entrava nel patrimonio delle idee sociali. Nell’organizzazione politica dell’impero pagano non esistevano valori più alti dei valori civici, e la singola coscienza, con il suo mondo di diritti e doveri, non rappresentava un assoluto, di cui qualcosa sfuggisse irriducibilmente alla presa dello Stato. Il cristianesimo, d’accordo in questo con le religioni orientali dei misteri, aveva rivendicato l’autonomia della coscienza singola, ponendola in diretto rapporto con Dio e la sua azione. Ma, si può dire, nessuno prima di Agostino aveva illuminato le ripercussioni sociali del postulato cristiano sulla inviolabile santità della coscienza umana. Trasportando ora la base delle valutazioni umane dal campo politico in quello etico; assegnando al divenire umano, non più la meta del successo terreno, ma l’affermazione sempre più alta del bene e la propagazione sempre più ampia dell’ideale divino; Agostino ha ricavato dallo spirito del Vangelo una filosofia della storia di cui può essere caduca la formulazione verbale, non già l’intima essenza.
La storia appare al vescovo ipponese come una lenta e faticosa successione di superamenti, attraverso i quali la Civitas Dei, l’idealismo cioè e la bontà, assurgono a manifestazioni constantemente più elevate. Il progresso ha la sua ragione d’essere nella simultanea presenza nel mondo di egoismo e di altruismo, che combattono quaggiù un incessante duello.
Illuminato da così fulgidi presupposti si comprende facilmente come Agostino non dovesse sentirsi sgomento di fronte all’immane catastrofe in cui sembrava piombata Roma, sotto la ferula di Alarico. Al momentaneo trionfo del male e della barbarie avrebbe tenuto dietro, immancabilmente, una più vigorosa ascensione di bene. E il popolo romano, di cui si poteva sgretolare la casa ma non intaccare la tempera, avrebbe ripreso più arditamente il suo glorioso cammino sul solco della civiltà, in virtù di quelle sue eccezionali doti che Dio aveva premiato con sì miracoloso spiegamento di potere. «Roma quid est, nisi Romani? Non enim de lapidibus et lignis agitur, de excelsis insulis et amplissimis moenibus. Hoc sic erat factum, ut esset aliquando ruiturum. Homo cum aedificaret, posuit lapidem super lapidem: et hoc cum destrueret, expulit lapidem a lapide. Homo illud fecit, homo illud destruxit. Iniuria fit Romae, quia dicitur cadit? Non Romae, sed forte artifici eius... Roma non perit, si Romani non pereant».
Allo sguardo dei suoi contemporanei, angosciati dinanzi allo straripare dei barbari, Agostino dischiudeva così nuovi, sereni orizzonti di filosofia sociale, rinfrancandone la fiducia e rinvigorendone la speranza. Nel medesimo tempo distinguendo un’anima e un corpo nella collettività degli uomini, egli tracciava realmente il disegno dell’edificio politico medioevale.
In verità il De Civitate Dei fu la carta fondamentale della Chiesa latina nella sua missione sociale.
La letteratura apologetica cristiana aveva già dietro a sè una brillante istoria. Gli scritti di Aristide, di Giustino, di Taziano, di Teofilo, di Atenagora, avevano nel secondo secolo tentato un magnifico programma di avvicinamento fra la disadorna ed elementare predicazione del Vangelo e i postulati più rispettabili delle principali scuole filosofiche del tempo. Le invettive di Tertulliano avevano rivendicato al cristianesimo il diritto di vivere di fronte alla legislazione romana.
Nel IV secolo l’apologia si era già fatta più ardita. Le Istituzioni di Lattanzio, l’Adversus Nationes di Arnobio, e, più ancora, il De errore profanarum religionum di Firmico Materno, alzano già l’accento della religione trionfante che non contende più all’avversario un piccolo angolo sul terreno della vita pubblica, ma lo investe con ardimento, e minaccia di ritorcere contro di lui le sue armi.
L’apologetica del De Civitate Dei è vero e definitivo attacco a fondo, è spiegamento di un vasto piano sociale riserbato alla pedagogia della Chiesa. Agostino è a cavallo fra il mondo delle vecchie categorie etiche e politiche, condannato a un irreparabile sfacelo, e il mondo dei nuovi valori cristiani. E i suoi libri di filosofia della storia sono la rivelazione piena e la dimostrazione perentoria delle capacità civili di un movimento religioso, che tante pavide anime di pagani in ritardo si ostinavano a dipingere, come un giorno aveva fatto Celso, nemico inconciliabile di ogni prosperità collettiva. Il messaggio del De Civitate Dei, posponendo le valutazioni materiali a quelle spirituali; collocando il fastigio della vita umana nella serena pace di Dio, foriera e pegno di una pace immortale; additando l’economia della vera civiltà nella pratica del bene e nella speranza irrequieta del meglio; stimolando allo sforzo costante per il conseguimento di più ampia giustizia, gettò i germi di quella cultura medioevale, mistica e idealistica, che in altri tempi una erudizione superficiale si è compiaciuta di bistrattare e di dileggiare, ma che molti inclinano oggi a considerare come una delle più alte affermazioni dello Spirito nel mondo.
Le alate contemplazioni mistiche suggerite ad Agostino dalla catastrofe romana del 410 ed espresse nel De Civitate Dei, valsero a confortare e rasserenare il suo animo, quando un flagello analogo, l’invasione dei Vandali, si abbattè nel 428 sulle coste fiorenti della sua Africa romanizzata? È il segreto che Agostino portò con sé nella tomba. Noi sappiamo soltanto che egli non piegò sotto il colpo della raffica micidiale – prima nella serie delle devastazioni onde fu afflitta poi per secoli l’Africa settentrionale – e, pastore consapevole di tutti i suoi doveri, restò saldo e fiero al suo posto, ad asciugar le lacrime e a curare le piaghe del suo gregge atterrito. La sua lettera ad Onorato (la 228ª) è l’esposizione eloquente del compito che il ministro cristiano deve assolvere, quando lo straniero calpesta il territorio della patria.
La sorte però volle risparmiare all’instancabile vecchiaia di Agostino lo spettacolo atroce della completa disfatta delle armi romane. Quando egli moriva, il 28 agosto del 330, le truppe di Genserico, è vero, assediavano già da tre mesi la sua Ippona. Agostino febbricitante ed estenuato deve aver visto da lungi le fiamme devastatrici della barbarica invasione. Ma nella sua anima non doveva esser venuta meno la fiducia nella finale riscossa del potere romano.
E forse solo il sentirsi mancare, mentre in cuore gli palpitava tale speranza, può avergli fatto deplorare la morte, che egli aveva altra volta definito, non tramonto dell’esistenza, ma volo ad un’esistenza più alta: non vitae occasus, mors, sed melioris vitae occasio.