XX GIUSTINIANO E LA RINNOVATA UNITÀ IMPERIALE

L'unità creata da Roma imperiale era stata ed era una mirabile unità mediterranea. E il mare, quel mare che Roma aveva chiamato suo, era veramente un meraviglioso mezzo di comunicazione di idee, di esperienze religiose, di prodotti naturali, di opere d'arte. Le provincie del Nord, Belgio, Britannia, Germania, Rezia, Norico, Pannonia, rappresentavano soltanto i baluardi avanzati contro la premente barbarie. La vita, la vera vita imperiale, era tutta pulsante e vigorosa intorno alle rive dell'immenso lago, cui l'ascendente prestigio di Roma aveva conferito una indissolubile saldezza di rapporti e di intercomunicazioni. Sicché si può constatare in maniera inconfondibile che la rarefazione della civiltà è in ragione diretta del progressivo allontanarsi dalle sponde mediterranee. L'ultima grande città del Nord è Lione, e Treviri deve la propria floridezza al grado di capitale temporanea. Tutte le altre città importanti, Cartagine, Alessandria, Napoli, Antiochia, sono città marittime o al mare propinque.

Il trasporto della capitale a Bisanzio, effettuato da Costantino, non annulla questo carattere squisitamente mediterraneo della romanità e dell'Impero. Al contrario, si potrebbe dire che tale carattere mediterraneo appare piu che mai essenziale dopo il IV secolo, perché anche Costantinopoli è prima di tutto una città marittima.

Essa si contrappone a Roma, la quale diviene sempre piú una città consumatrice di fronte alla rivale del Bosforo, che esplica sempre piú il suo carattere di vasto magazzino, di deposito, di operosissimo centro manifatturiero, di potente e fortunata base navale.

L'egemonia di Costantinopoli si fa tanto piú spiccata, quanto piú densa si fa l'attività dell'Oriente. La Siria rappresenta il punto di arrivo delle strade che pongono l'Impero in comunicazione con l'India e con la Cina. Attraverso il Mar Nero Bisanzio comunica con i Paesi del Nord. L'Occidente raccoglie il rifluire di tutti i prodotti di lusso, provenienti dalle piú remote propaggini imperiali.

Asia, Africa ed Europa, sono ugualmente livellate nella grande unificazione romano-mediterranea. Le lacerazioni inferte all'Impero occidentale nel V secolo dalle scorribande e dalle infiltrazioni barbariche non ruppero la fondamentale unità mediterranea. In realtà, quel che con le invasioni barbariche la Romània perdette è, in proporzione, poca cosa: una zona di frontiera al Nord e la Gran Bretagna, dove gli Anglosassoni si sono sostituiti ai Bretoni piú o meno romanizzati, dei quali una parte emigra in Bretagna. In sostanza, laRomània sparisce soltanto nelle estreme conquiste di Roma, vale a dire lungo la linea avanzata dello spalto che proteggeva a nord il Mediterraneo: nelle due Germani e, in una parte del Belgio, nella Rezia, nel Norico, nella Pannonia.

La costituzione infine dei regni barbarici può smembrare le provincie occidentali dell'Impero, ma non riesce a svellere o a soffocare l'idea stessa imperiale, appoggiata e sostenuta dalla non interrotta ritmicità regolare delle unitarie comunicazioni mediterranee. Il Basileus che regna a Costantinopoli continua ad estendere la sua autorità teorica a tutto l'insieme. Se non governa piú, regna ancora. Verso di lui, da tutte le plaghe romane dell'Occidente, si volgono gli occhi ansiosi ed aspettanti.

Si può dire che la Chiesa in particolare sente di non potere fare a meno di lui. Per la Cristianità organizzata del V secolo, l'Impero ha oramai assunto definitivamente l'aspetto di una costruzione provvidenziale, di cui non si può fare a meno. Il capo della Chiesa a Roma e tutta la città di Roma riconoscono nell'imperatore romano di Bisanzio il sovrano legittimo della ecclesia.

Eccezion fatta per i Vandali, tutti i re barbari considerano il sovrano bizantino come il loro signore, coniano le monete con la sua effigie, sollecitano e ottengono da lui titoli e favori. Sottomettono a Costantinopoli le loro controversie o cercano di ordire colà i loro intrighi.

Dal canto suo l'imperatore bizantino non aveva rinunciato ad alcuno dei suoi diritti. Sicché si poteva prevedere facilmente che alla prima occasione egli avrebbe vigorosamente cercato di riprenderli in pieno e di tradurli in effettivo dominio.

L'uomo destinato a ristabilire anche territorialmente quell'unità morale ed economica che non aveva mai cessato di reggere tutte le regioni rivierasche del Mediterraneo, fu Giustiniano.

In fondo, la perdita di quasi tutte le coste mediterranee non aveva tolto a Bisanzio la capacità di tentare la grande impresa della ricostituzione imperiale. Bisanzio disponeva di una flotta che le dava la padronanza del mare. Inoltre era fiancheggiata dalla Chiesa, con la quale Teodorico era venuto in rotta. Le vecchie grandi famiglie italiane non sognavano che l'occasione per mettere a disposizione del ricomparso imperatore di Roma il sussidio ed il prestigio delle loro grandi casate e delle loro tradizioni. In Africa, Bisanzio poteva contare sul ripreso potere dei profughi dell'aristocrazia vandalica, che avevano cercato alla corte costantinopolitana un rifugio contro le manomissioni dei re.

A completare l'opera, a rendere piú sicura la felice conclusione della grandiosa impresa militare, Giustiniano pensò bene di venire a patti con l'Impero persiano e di assicurarsi le frontiere orientali.

Fin da giovanetto Giustiniano deve aver sentito l'immensa grandiosità e la indistruttibile vitalità dell'idea imperiale romana.

Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano, venuto dai campi dell'alta Macedonia, ebbe in suo zio, l'imperatore Giustino, il naturale mecenate. Nell'aprile del 527 era associato all'Impero da lui, e il 1° agosto gli succedeva. Aveva 45 anni. Doveva regnarne trentotto.

Procopio, le cui opere rappresentano la piú cospicua fonte per la storia di questo movimentato periodo, lo esalta come uno dei piú grandi sovrani di tutta la storia nel De Aedificiis, mentre lo deprime in maniera invereconda nella Historia arcana.

Lo storico deve saper discernere negli sfoghi del libellista quel che è espressione di momentaneo malanimo da quel che è riconoscimento delle inevitabili pecche in un governo diuturno, con difficoltà praticato in un mondo politico e religioso straordinariamente aggrovigliato, per attuare un programma di immensa vastità.

Salendo sul trono, Giustiniano si costituiva interprete e rappresentante di due grandi idee: l'idea imperiale e l'idea cristiana. Considerandosi fieramente come l'erede e il successore dei Cesari romani, ritenne suo sacrosanto dovere di costituire l'Impero nei suoi confini integrali del primo e del secondo secolo. L'imperatore cristiano ritenne di non poter permettere ai germani ariani di opprimere le popolazioni ortodosse. L'imperatore di Costantinopoli, in quanto erede legittimo degli augusti di Roma, rivestiva inappellabilmente genuini diritti storici sulla Europa occidentale, occupata temporaneamente dai barbari. I re germanici erano puri e semplici vassalli dell'imperatore bizantino, che aveva loro delegato il potere in Occidente. Il re franco Clodoveo era stato innalzato alla dignità di console dall'imperatore Anastasio. Il medesimo Anastasio aveva ufficialmente confermato i poteri del re ostrogoto Teodorico. Nel momento di decidere la guerra contro i Goti, Giustiniano, sempre secondo la testimonianza di Procopio, scriveva: «I Goti che si sono impadroniti mercè la violenza della nostra Italia, hanno rifiutato di restituircela».

Il sovrano di Costantinopoli si sentiva a buon diritto il sovrano naturale di tutti i territori compresi nei vecchi limiti dell'Impero romano, e, d'altro canto, quale imperatore cristiano egli si sentiva investito della missione di propagare la vera fede in mezzo agli infedeli, fossero essi eretici o pagani. La teoria cesaro-papista, formulata da Eusebio di Cesarea all'epoca di Costantino, manteneva ancora intatta la sua forza per gli uomini rappresentativi a Bisanzio nel VI secolo. Essa si trova alla base delle convinzioni di Giustiniano, persuaso come egli è del suo dovere di restaurare nella sua totalità l'Impero romano unico, che secondo le espressioni di una Novella, toccava altre volte le sponde dei due oceani e che i Romani avevano perduto per pura negligenza. Da questa stessa vecchia teoria deriva l'altra intima persuasione di Giustiniano, di essere tenuto a introdurre nell'Impero ricostituito una sola fede cristiana. Qui bisogna ricercare tutta la ideologia di Giustiniano che lo spinse a vagheggiare e a ricercare la sottomissione di tutto il mondo allora conosciuto.

Data la superstite idealità della Romània Mediterranea, non è da pensare che questi grandiosi propositi fossero esclusivamente convinzioni personali dell'imperatore bizantino. Le popolazioni delle provincie occupate dai barbari non pensavano diversamente e si può dire che gli stessi sovrani barbarici prestavano omaggio alle aspirazioni ambiziose di Giustiniano. Si profondevano infatti in attestazioni di rispetto e di ossequio verso il sovrano e tutti avrebbero volentieri ripetuto la formula di quel principe visigoto: «L'imperatore è un Dio sulla terra e chiunque osi levar la mano su di lui deve pagare il suo crimine col sangue».

Per quanto però la situazione in Africa e in Italia fosse favorevole all'imperatore, le guerre ingaggiate da Giustiniano contro Vandali e Ostrogoti dovevano essere estremamente ardue e lunghe.

La spedizione contro i Vandali implicava grosse difficoltà strategiche e logistiche. Era necessario trasportare per mare in Africa un esercito destinato a combattere contro un popolo provvisto di una flotta poderosa, il quale aveva tentato con successo, a mezzo il secolo quinto, un colpo di mano su Roma. Di piú, il trasferimento di un forte nucleo di truppe dell'armata imperiale in Occidente doveva portare di conseguenza gravi ripercussioni in Oriente, dove la Persia, il piú pericoloso nemico dell'Impero, aveva, con questo, ininterrotti conflitti di frontiera.

Si capisce come la guerra contro i Vandali non durasse meno di quindici anni, con qualche interruzione, dal 533 al 548. Belisario sottomise innanzi tutto, in breve lasso di tempo, attraverso una serie di brillantissime vittorie, il territorio vandalico intiero. Giustiniano trionfante si abbandonava a proclamare: «Dio nella sua misericordia non solamente ci ha abbandonato l'Africa e tutte le sue provincie, ma ci ha reso anche le insegne imperiali, catturate dai Vandali al momento della loro occupazione di Roma». Ritenendo la guerra finita, l'imperatore richiamava Belisario a Costantinopoli con la maggior parte dell'esercito. Ed ecco che allora scoppiò una terribile insurrezione. I Mauri, tribu berbera indigena, si sollevarono furiosamente, e le truppe bizantine di occupazione rimaste in Africa dovettero condurre contro di loro una campagna durissima. Il successore di Belisario in Africa, Salomone, fu completamente battuto e lasciò la vita nella campagna. La lotta continuò spossante fino al 548, nel quale anno l'autorità imperiale fu definitivamente restaurata nell'Africa settentrionale.

Piú dura ancora fu la campagna contro gli Ostrogoti, che si mantenne viva anch'essa, con qualche interruzione, dal 535 al 554. Questa guerra, durante i primi tredici anni, fu condotta innanzi di pari passo con la guerra contro i Vandali. Giustiniano cominciò con l'immischiarsi negli affari interni degli Ostrogoti, poi ingaggiò senz'altro un'azione militare. Un esercito cominciò la conquista della Dalmazia che in quel momento faceva parte del Regno ostrogoto. Un altro esercito, trasportato per mare sotto la condotta di Belisario, occupava la Sicilia senza grande difficoltà e, passato in Italia, conquistava Napoli e Roma. Poco tempo dopo, nel 540, la capitale degli Ostrogoti, Ravenna, apriva le sue porte a Belisario. Quest'ultimo ripartiva allora per Costantinopoli, conducendo con sé il re ostrogoto fatto prigioniero. Giustiniano poteva aggiungere ai suoi titoli di africano e di vandalico quello di gotico. L'Italia sembrava definitivamente guadagnata da Bisanzio.

Ma allora apparve fra i Goti un capo energico e valoroso, il re Totila, ultimo difensore della indipendenza degli Ostrogoti. Egli ristabilí rapidamente la situazione dei Goti in Italia, per cui Belisario fu richiamato dalla Persia e di nuovo rimandato in Italia, per riprendere il comando supremo della campagna. Ma la resistenza gotica fu disperata. Roma passò e ripassò parecchie volte tra le mani dei Romani e degli Ostrogoti, sottoposta ad una distruzione quasi completa. Narsete, successo a Belisario, riuscí, attraverso una serie di operazioni militari che rivelavano nel vecchio condottiero una consumata sagacia strategica, a debellare le ultime resistenze barbariche, riportando in Umbria nel 552 un successo definitivo.

Dopo una guerra rovinosa di un ventennio l'Italia, la Dalmazia e la Sicilia si trovarono di nuovo conglobate politicamente nell'Impero. La Pragmatica Sanctio, pubblicata da Giustiniano in quegli stessi anni, restituiva alla grande aristocrazia terriera dell'Italia e alla Chiesa vasti possessi che erano stati manomessi dagli Ostrogoti con tutti i relativi privilegi Inoltre adottava una serie di misure destinate ad alleviare i carichi della popolazione rovinata. Dopo le guerre ostrogotiche, l'industria e il commercio cessarono per un certo periodo di tempo di svolgersi con ritmo intenso e le ripercussioni della guerra si fecero lungamente sentire.

Ma, comunque, queste iniziative militari dell'imperatore, a cui fece séguito la campagna contro i Visigoti della penisola iberica, ridiedero all'Impero la sua organica unità mediterranea. La Dalmazia e l'Italia, la parte orientale dell'Africa del Nord, il Sud-Est della Spagna, la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, le Isole Baleari, rientrarono vittoriosamente sotto l'insegna imperiale romana e il Mediterraneo fu di nuovo un lago romano.

Le frontiere dell'Impero corsero cosí dalle Colonne di Ercole all'Eufrate.

In realtà, nonostante i successi considerevoli raggiunti, i risultati ottenuti da Giustiniano non realizzarono in pieno i suoi piani iniziali. L'Impero romano d'Occidente non fu tutto completamente riconquistato. La metà occidentale dell'Africa del Nord, la maggior parte della penisola iberica, la zona settentrionale del regno ostrogoto a nord delle Alpi, rimasero fuori dei limiti del territorio riconquistato dagli eserciti di Giustiniano. Si aggiunga che la Gallia si sottrasse ancora alla autorità bizantina, e che in vaste zone dei territori riconquistati il potere imperiale non toccò l'ugualmente radicata solidità. I brillanti successi delle guerre offensive giustinianee racchiudevano germi di future gravi complicazioni, cosí dal punto di vista politico come da quello economico. Ad ogni modo il mondo romano uscí trasfigurato e riorganizzato in unità dalle imprese militari del grande sovrano bizantino, il quale poté esplicare efficacemente nella Romània mediterranea ricostituita la sua eccezionale attività legislativa e religiosa.

Questa attività legislativa e religiosa ha lasciato tracce durevolissime cosí nel mondo della religiosità latinomediterranea come in quello delle forme legislative di tutta la nostra storia posteriore.

L'opera compiuta da Giustiniano è stata cosí vasta e cosí multiforme che la sua figura ha il diritto di prendere un posto di eccezionale rilievo nella storia della spiritualità mediterranea e della civiltà cristiana al declinare del mondo antico.

Fosse egli stato un semplice conquistatore, il suo nome non meriterebbe di essere piú conosciuto che quello di altri sovrani guerrieri di Bisanzio, quali un Niceforo Foca e un Basilio secondo. Se invece il nome di Giustiniano è rimasto cosí profondamente e vastamente popolare; se il Medioevo intiero ha conservato in un alone di luce il ricordo del grande imperatore, fino all'esaltazione fattane da Dante nel Paradiso; la ragione va cercata in qualcos'altro che non siano le vittoriose campagne militari dei suoi generali Belisario e Narsete.

È la sua grandiosa opera legislativa, la sua risolutiva azione religiosa, che gli hanno meritato cosí larga e persistente eco nei secoli.

Fu per suo ordine, sotto la sua vigile azione, col suo concorso, che fu redatto e costruito, frammento a frammento, quel colossale monumento di compilazioni giuridiche e di ordinanze pubbliche che i moderni hanno chiamato Corpus juris civilis e le cui quattro parti, Istituzioni, Digesto, Codice giustinianeo, Novelle, furono per tutto il Medioevo, e rimangono tuttora, la base genuina ed incrollabile del diritto romano.

Il Corpus juris civilis è l'estremo e definitivo prodotto della scienza giuridica romana, il supremo sforzo di concentrazione del giure di Roma, lottante contro la lenta disgregazione che si è andata determinando nel grande organismo imperiale dal terzo secolo in poi.

Noi possiamo dire anche di piú, noi possiamo dire cioè, che in questo Corpus sono fissati i principi essenziali di quella struttura giuridica, che ha continuato a reggere, e sostanzialmente regge tuttora, l'apparato empirico ed esteriore degli aggregati sociali europei moderni. È in sostanza lo studio di questo Corpus, oscuramente perseguito durante i primi secoli dell'alto Medioevo e ripreso nell'Xl secolo con ampiezza e risonanze straordinarie, che ha effettivamente conservato alle nazioni imbarbarite dell'Occidente, l'idea giuridica dello Stato.

Dato il rispetto profondo, quasi si direbbe superstizioso, da Giustiniano professato per le tradizioni civili e spirituali della antichità romana, che egli chiamava la «infallibile antichità» (inculpabilis antiquitas); data la sua coscienza profonda di essere il rappresentante legittimo e l'erede costituito di questa mirabile tradizione, si comprende come dovesse essere sua viva e assillante preoccupazione raccoglierne e codificarne per l'eternità la sostanza oracolare.

Quel che aveva costituito la grandezza di Roma non era soltanto la gloria delle armi: era anche la scienza del giure. Agli occhi di Giustiniano, un imperatore romano, degno del suo nome, era un personaggio dal duplice volto: non era solamente l'eroe vittorioso delle guerre intraprese per la tutela del sacrosanto dominio di Roma, ma doveva essere anche quegli che era in grado di colpire, attraverso le vie legali, l'ingiustizia e la calunnia, costituito cosí in pari tempo trionfatore dei nemici vinti e difensore scrupoloso del diritto. Sulle traccie dei suoi grandi predecessori, Giustiniano doveva pertanto a se stesso di essere contemporaneamente un sovrano guerriero e un sovrano legislatore.

Attendere ad una grande iniziativa giuridica era anch'esso un modo di rivendicare e di ripristinare trionfalmente il retaggio dell'antica Roma.

In questo del resto non era del tutto originale. Già prima di lui il grande imperatore dalmata Diocleziano e Teodosio secondo avevano fatto compilare codici analoghi.

Dove Giustiniano fece opera molto piú personale fu nel Digesto. In questa opera Giustiniano volle riunire in un solo corpo di dottrina l'opinione dei giureconsulti piú eminenti di Roma antica, non solamente coll'intento pratico di fornire ai giuristi, in una forma comoda e maneggevole, i testi necessari della giurisprudenza, bensí anche col proposito di tramandare ai posteri i preziosi materiali, accumulati attraverso secoli dalla sapienza romana. L'imperatore si lusingava cosí di imprimere un nuovo impulso alla scienza giuridica.

Il còmpito era veramente formidabile. Si trattava, niente meno, di passare al vaglio non meno di duemila opere, che annoveravano circa tre milioni di linee. Giustiniano stesso nel momento di por mano all'impresa sembra aver provato un senso di sgomento. Sono sue parole: «Nessuno avrebbe osato sperare, e neppure vagheggiare una tale opera. Si trattava di cosa difficile fra tutte, pressoché impossibile. Ma, avendo innalzato le mani al cielo, e invocato aiuto da Dio, noi ci siamo accinti all'impresa, fiduciosi in quell'Eterno, che con la Sua onnipotenza è capace di superare le situazioni piú disperate».

Il 15 dicembre 530 era nominata una commissione di sedici membri. Essa comprendeva 11 avvocati e 4 professori di diritto. La presiedeva Triboniano. Sotto la sua alta direzione, la commissione stessa si suddivise in tre sezioni. La prima si diè a passare in rassegna le opere relative allojus civile, in particolare cioè gli ampi commentari con cui Pomponio, Ulpiano e Paolo avevano impinguato il trattato di diritto civile dovuto a Sabino. La seconda si diè allo spoglio degli scritti che si riferivano allo jus honorarium, in particolare i lavori che Ulpiano, Paolo e Gaio avevano compilato sull'editto perpetuo di Adriano. Infine la terza si diè a sottoporre a rassegna i testi che non potevano essere annoverati nelle due precedenti categorie, e in particolare le questioni e le risposte di Papiniano, di Paolo, di Scevola. Si formarono cosí tre serie di estratti, la serie sabiniana, la serie edittale, la serie papiniana. I materiali cosí raccolti furono quindi esaminati collettivamente, classificati, armonizzati gli uni con gli altri e distribuiti in sette parti e in cinquanta libri. Una quarantina di giureconsulti avevano fornito gli estratti necessari, da Quinto Muzio Scevola, il piú antico, fino a Ermogene e ad Arcadia Carisio, che vivevano nel IV secolo. Sopra ogni altro era stato messo a contributo Ulpiano, che ha fornito da solo la terza parte del Digesto. Viene in sott'ordine Paolo che ne ha dato la sesta parte. Cosí furono condensati in 150 mila linee gli elementi sostanziali della scienza giuridica antica, e si edificò, secondo la stessa espressione di Giustiniano, quasi il tempio santo della giustizia romana.

Erano stati calcolati in anticipo 10 anni come tempo necessario per portare a compimento l'opera colossale, e invece in tre anni essa fu terminata. Il Digesto era promulgato il 16 dicembre 533.

Per la redazione del Codice come per quella del Digesto, Giustiniano aveva lasciato ai suoi commissari una completa libertà nella scelta degli estratti. Una cosa aveva raccomandato in particolare: che si evitassero scrupolosamente le ripetizioni e le contraddizioni. La consegna non fu rispettata alla lettera. Non c'era d'aspettarsi che lo fosse. Troppo ardua e impraticabile essa era in un'opera di tal mole. Pur cosí com'è, il monumento giuridico innalzato da Giustiniano e dai suoi collaboratori, rimane un'opera capitale nello sviluppo della civiltà mediterranea.

Grazie a Giustiniano e ai suoi collaboratori noi abbiamo conservato le fonti del diritto romano, incomplete senza dubbio, ma ad ogni modo di una tale ampiezza, che non ha riscontro in alcun altro ramo della scienza della antichità. Si può criticare il metodo che ha presieduto alla composizione del Digesto, il carattere insufficientemente pratico di un'opera che fece rivivere, conservandole, troppe regole e troppi istituti da lungo tempo caduti in oblio. Resta incontestabile che, mercè il carattere scientifico che Giustiniano ha voluto imprimere alla sua compilazione, l'imperatore bizantino ha fatto opera originale e preziosa. E trasmettendo ai posteri cosí ricchi materiali ha reso un servizio eminente alla scienza giuridica e alla storia.

Quanto Roma dominasse sovrana nella mente del grande imperatore e della sua corte, lo dimostra il fatto che la lingua adoperata, la latina, è conservata come la lingua giuridica per eccellenza. Per Giustiniano, erede degli imperatori romani, il latino rimane sempre la lingua ufficiale, diciamo meglio, la lingua nazionale della monarchia. In realtà il greco poteva essere piú diffuso e piú intelligibile. Ma il successore dei Cesari si acconciava ad adoperarlo soltanto in virtú di un atto di condiscendenza. Fin nella pratica dell'amministrazione corrente si restava fedeli al latino. In una provincia come la Siria, dove la maggioranza della popolazione parlava siriaco e dove soltanto le classi elevate comunicavano in greco, si continuava nel VI secolo ancora a redigere in latino il protocollo degli atti ufficiali.

Ma qualcos'altro trapela come idea fondamentale nella legislazione giustinianea. Ed è l'idea stessa di Stato, costituito mercè una sapiente gerarchia di funzionari che obbedisce ad un capo assoluto, il quale governa senza controllo e la cui autorità promana da un diritto divino. Mai, probabilmente, la teoria del dispotismo orientale era stata formulata e mai piú lo sarebbe stata in termini piú espliciti e piú completi di quelli che sono adoperati nella legislazione dell'imperatore Giustiniano.

Ma questa rinascita di tutte le piú insigni tradizioni romane impersonate nel sovrano del Bosforo, è accompagnata da una nuova consapevolezza della ricostituita Romània.

Nonostante i difetti formali, nonostante la prolissità e l'enfasi dello stile, a dispetto della mancanza frequentemente palese di logica e di precisione, in realtà il fondo sostanziale della legislazione giustinianea rivela una cospicua larghezza di vedute e di propositi. Questa legislazione è stata innovatrice. Nonostante il profondo rispetto per l'antichità, Giustiniano sente la caducità di molte vecchie formule giuridiche e romane per abbandonarsi a un senso di humanitas e ai dettami di una naturalis ratio, in cui non è difficile scoprire l'influsso sottile e penetrante della nuova temperie cristiana.

Perché in realtà, a poco piú di due secoli dalla conversione di Costantino, l'Impero ha subìto fatalmente una trasformazione profonda. Le preoccupazioni religiose sono ora in prima linea. La conversione costantiniana, l'adozione del cristianesimo a religione di Stato, che avevano determinato nel IV secolo, come abbiamo visto, ripercussioni cosí vaste e reazioni cosí potenti, avevano finito di incidere, in due secoli, nella piú profonda struttura della costituzione imperiale. E se a Roma il trasferimento della capitale a Bisanzio aveva sollevato il formidabile problema della penetrazione cristiana in tutte le forme della vita civile e l'innalzarsi progressivo della sede vescovile a dignità e a mansioni politiche, in Oriente la presenza del Basileus cristiano portava automaticamente la politica ad ingerirsi sempre piú direttamente e sempre piú efficientemente nel dominio dei valori religiosi, con quelle immense conseguenze che furono le grandi lotte teologali e, alla fine, le persecuzioni contro l'intransigenza corrosiva dell'organizzazione monastica.

Abbiamo veduto come, tra le prime ripercussioni del passaggio ufficiale di Costantino al cristianesimo, si fosse avuto un indiscusso elevarsi delle questioni ecclesiastico-teologiche sul piano del pubblico interessamento. La violenta polemica ariana fu precisamente il potenziamento, sotto la pressione di coefficienti politici, di una controversia di natura strettamente teologale, che, lasciata a se stessa, in un ambiente non sovraeccitato da profondi capovolgimenti civili, si sarebbe placidamente esaurita nelle aule scolastiche e nelle clausure curiali. Furono le esigenze stesse dello Stato divenuto cristiano, a fare di una controversia teologica una lacerante divisione politico-morale. Al fondo delle discussioni provocate dalle opinioni del prete alessandrino Aria c'era questo semplice problema: il cristianesimo, divenuto religione di Stato, non doveva essere nettamente equiparato ad una di quelle forme filosofico-culturali che non avevano mai dato fastidio reale e imbarazzo imminente al carattere assolutista dello Stato pagano? O non piuttosto il cristianesimo doveva nella sfera delle sue credenze e delle sue trascrizioni dottrinali mantenere e valorizzare tutta quell'atmosfera di mistero, e quindi di irriducibilità alle espressioni consuete della cultura, che l'aveva fatto automaticamente elemento di opposizione all'assolutismo dello Stato pagano?

Dopo le momentanee esitazioni di Nicea, l'Impero legalmente cristianizzato si era orientato verso le formule ariane come meglio malleabili e adattabili ai propositi e ai bisogni dello Stato, che in sostanza non aveva cessato di pencolare verso l'assolutismo, nonostante la nuova e superficiale etichetta cristiana.

La resistenza formidabile dell'Occidente aveva frustrato il piano arianeggiante del primo grande successore di Costantino, Costanzo. Ceduto il terreno alla forma ortodossa, per quanto riguardava la seconda Persona della Trinità, la Persona del Figlio, la lotta aveva ripreso intorno alla terza Persona, la Persona dello Spirito Santo. Anche qui la vittoria era stata riportata dalla ortodossia, con definizioni del sinodo costantinopolitano del 381.

Ma la polemica era riarsa nella prima metà del quinto secolo intorno alla questione del rapporto fra il divino e l'umano nella figura del Cristo.

Ora la controversia, che impegnava sempre il contenuto misterioso e trascendente del messaggio cristiano o la sua possibile equiparabilità alle normali speculazioni dell'intelletto ragionevole intorno all'essenza del divino, si polarizzò fra Costantinopoli ed Alessandria, fra Nestorio e Cirillo. Discepolo di Teodoro di Mopsuestia ad Antiochia, innalzato al patriarcato bizantino nel 428, Nestorio è apparso recentemente sotto nuova luce attraverso la pubblicazione di quello pseudonimo libro di Eraclide di Damasco nel quale il proscritto patriarca costantinopolitano segnò nell'esilio le formule finali della sua fede e della sua speranza. Appare ben chiaro da queste estreme confessioni del condannato di Efeso nel 431 che la preoccupazione dominante del teologo antiocheno era quella di salvare nella figura del Cristo la integrale sussistenza della natura umana, non assorbita e non soffocata dalla presenza della natura trascendente divina. Era comunque anche questa una preoccupazione di indole razionale e culturale, anziché mistica e religiosa. I monaci che la combattevano calcavano invece la mano sull'elemento divino non preoccupandosi affatto se questo insistere di preferenza sulla dignità del Cristo non facesse correre rischi irreparabili alla incolumità dell'elemento umano del Cristo. senza la cui perfetta sussistenza si distruggeva in radice la compartecipazione del Salvatore agli attributi, alle qualità, alla essenza stessa della natura umana da redimere.

Nella sua sorda resistenza al predominio costantino­politano, Alessandria, la vecchia sede patriarcale di Atanasio anche se ora poco degnamente rappresentata dal violento, turbolento e grossolano Cirillo, tendeva naturalmente ad adottare quegli orientamenti teologici in cui fosse meglio salvaguardata e rispecchiata l'autonoma spiritualità della credenza e della prassi ecclesiastica. Tanto vero che quando a Calcedonia si celebrò una riconciliazione di Oriente e di Occidente nel 451, le formule di fede trionfanti furono quelle che rappresentavano un instabile equilibrio di contemperante conciliazione fra le esigenze razionali del nestorianesimo e le ultraspiritualistiche concezioni del monofisismo, della dottrina,cioè, dell'unica natura divina del Cristo soggiogante e trasfigurante in se stessa la natura umana.

A quasi un secolo di distanza, con un programma ancor piú concreto e tassativo di rifusione unitaria del mondo mediterraneo, Giustiniano non poteva sottrarsi al còmpito di «eliminare, secondo le sue stesse testuali dichiarazioni, qualsiasi scandalo e qualsiasi ragione di turbamento dall'ambito della santissima Chiesa».

Strettamente aderente alla ortodossia di cui già sotto il regno di Giustino egli era stato il campione e il restauratore, Giustiniano avversava irriducibilmente gli eretici di cui egli ha detto una volta, in una formula del suo Codice, che «il loro stesso contatto è una contaminazione e di cui la traccia e il nome dovrebbero scomparire dalla superficie della terra».

Desideroso di combattere senza tregua «i maledetti», ritenendo, come è scritto nella prima pagina del suo editto del 551, «che nulla potrebbe piú piacere a Dio che l'unire tutti i cristiani in una stessa e pura fede, cancellando ogni dissenso dal grembo della santa Chiesa», Giustiniano introdusse nei numeri del suo programma il ristabilimento della concordia religiosa e la protezione della sacrosanta ortodossia.

«Uno Stato, una legge, una Chiesa», questa la schematica formula in cui potevano magnificamente riassumersi le sue idee di governo. Durante tutto il periodo del suo regno, Giustiniano fu di fatto il difensore ufficiale della Chiesa. La volle proteggere cosí di fronte a lei stessa come da tutti gli attacchi dei suoi avversari. Ma di questa Chiesa rifusa mercè le proprie cure, egli, Giustiniano, volle essere il padrone e il capo supremo. In ogni circostanza pretese di dettarle la sua disciplina, imporle il suo dogma, ridurla alla propria onnipotente ed onnipresente volontà.

Fin dalla prima pagina del Codice giustinianeo si avverte a segni non dubbi la preoccupazione religiosa che dominava lo spirito dell'imperatore. In capo a questo monumento giuridico, là dove i nostri codici moderni sogliono collocare una esposizione di principî, noi troviamo un titolo «sulla Santissima Trinità e la fede cattolica».

Non si potrebbe richiedere e non ci si potrebbe aspettare argomento piú palese della ispirazione a cui soggiace l'imperatore, che è quella, audacissima, di fare della fede cristiana, cosí funzionalmente refrattaria ad ogni e qualsiasi asservimento politico, la tessera anagrafica della devota e leale sudditanza allo Stato.

Il simbolo di Nicea figura agli inizî del Codice a due o tre riprese, accompagnato immancabilmente dagli anatemi che i quattro grandi concili di Nicea, di Costantinopoli, di Efeso, di Calcedonia, avevano stilato contro la eresia. Conformemente a un presupposto di tal genere, Giustiniano tende a determinare con una cura minuziosa e meticolosa tutto ciò che riguarda la organizzazione gerarchica della Chiesa. «Il buon ordine ecclesiastico», secondo la sua esplicita dichiarazione, rappresenta il sostegno infallibile della struttura imperiale. Egli fece pertanto del suo meglio e si prodigò senza risparmio per definire e sanzionare tutto ciò che poteva garantire e alimentare questo ordine assoluto.

Non era bisogna di facile lena. Data la molteplice difformità delle correnti religiose che agitavano il mondo orientale, la situazione religiosa dell'Impero a mezzo il secolo sesto offriva una singolare e caotica complicazione. Il paganesimo non era stato ancora completamente distrutto. Gli ebrei erano numerosi su tutto il territorio imperiale. I samaritani continuavano a costituire in Palestina un aggregato compatto di dissidenti. Le popolazioni barbariche in Occidente erano per la piú gran parte aderenti all'arianesimo. L'Africa contava turbolente superstiti comunità donatistiche. In Oriente si trovavano ancora montanisti nella Frigia, nestoriani nell'Armenia, manichei in Asia Minore, monofisiti in Egitto.

Impegnato in un programma temerario di ricostituzione unitaria imperiale, obbligato pertanto ad usare i piú scrupolosi e deferenti riguardi a quella credenza ortodossa che un secolo prima aveva trionfato a Calcedonia, Giustiniano, dissentendo in questo perfino dalla sua compagna Teodora, nettamente simpatizzante per i monofisiti, non poteva fare a meno di ricorrere ad una politica intollerante di persecuzione, che non avrebbe indietreggiato dinanzi a qualsiasi misura pur di mettere a servizio dell'ideale unitario le forze repressive dello Stato.

Parecchi rescritti emanati fra il 527 e il 528 inaugurano rudemente questa tattica repressiva. «È giusto. Sentenzia l'imperatore, spogliare dei beni terreni coloro che non adorano piú il vero Dio». La legge pertanto esclude gli eretici da tutte le funzioni pubbliche, civili e militari, e nel medesimo tempo da tutte le dignità municipali. La legge va piú in là: esclude gli eretici da tutte le professioni liberali, interdicendo cosí la professione legale, come quella dell'insegnamento. Si comprende che la legge proscriva in pari tempo ogni manifestazione culturale dell'eresia. È fatto divieto agli eretici di riunirsi, di raggrupparsi sotto capi propri, di amministrare il battesimo o l'ordinazione sacra. Le chiese ariane come le sinagoghe sono chiuse dall'imperatore o se ne ordina la trasformazione in templi ortodossi.

Ma la stessa complicazione della situazione religiosa, la stessa molteplicità delle correnti teologali, ciascuna delle quali si può dire fosse strettamente collegata a determinati gruppi etnici dell'Impero e a peculiari interessi, imponevano alla politica rigidamente unitaria e repressiva del forte imperatore, temperamenti suggeriti dalle circostanze del momento o dell'ambiente. Se la sua opera disciplinatrice può spiegarsi senza difficoltà e senza restrizioni contro manichei e contro ebrei, quando si tratta di nestoriani o di monofisiti, la politica giustinianea tradisce, e non avrebbe potuto essere diversamente, esitazioni e resipiscenze. Senza dubbio, fin dagli inizi del suo governo l'imperatore Giustiniano aveva nelle sue professioni di fede formalmente anatematizzato il patriarca Nestorio e il patriarca Eutiche, il corifeo del monofisismo. Ma le condanne contro questi ultimi non si fecero veramente esplicite e tassative che negli anni inoltrati dell'amministrazione giustinianea.

Fra tutte le questioni religiose quella concernente la unione delle nature in Cristo appariva, per ragioni di principio come di tattica di governo, la piú impacciante e la piú delicata.

I sentimenti religiosi dell'imperatore, la restaurazione ortodossa compiuta da Giustino, l'unione ristabilita con Roma e l'importanza che questa unione aveva nel programma tendente ad assicurare il dominio bizantino in Africa e in Italia, tutto inclinava prepotentemente Giustiniano a reprimere senza mercè i dissidenti.

Tra questi la posizione dei monofisiti era la piú intricata. I monofisiti costituivano in Oriente un partito numeroso e potente. Proscriverli, avrebbe significato alienare dalla fedeltà all'Impero provincie di prima importanza nella globale vita imperiale. Il finissimo fiuto politico del sovrano avvertiva lucidamente i pericoli che ne sarebbero sorti per la saldezza stessa della costituzione monarchica.

Il dilemma era chiaro e rischioso: o ristabilire l'unità in Oriente sacrificando l'unione con Roma o conservare l'accordo con l'Occidente, stimolando l'opposizione dell'Oriente monofisitico.

Giustiniano esitava. La sua compagna Teodora era profondamente guadagnata alla tendenza che Calcedonia aveva condannato. Grande ammiratrice del patriarca Severo da lei apertamente protetto, Teodora non aveva mai cessato di spiegare presso Giustiniano la propria azione in favore dei monofisiti.

Per tutta la vita Giustiniano cercò di conciliare i termini contrastanti del dilemma, trovando un terreno di conciliazione sul quale, senza sacrificare l'ortodossia, fosse possibile interpretare le sentenze calcedonesi in modo da placare la sempre fervida opposizione monofisitica.

Agli inizî del suo regno, Giustiniano stese la mano in gesto amichevole verso i condannati di Calcedonia. Ma trovò delle resistenze piú forti della sua volontà ed egli si ritrasse indirizzando nel 533 una serie di rescritti al patriarca di Costantinopoli e alla popolazione di tutte le grandi città dell'Impero, miranti a convalidare e a ribadire al cospetto di quelle che egli chiamava le «follie» di Nestorio e di Eutiche i principî della vera fede cristiana.

Nel medesimo tempo Giustiniano veniva prodigandosi sempre piú in testimonianze di devozione alla fede romana, mezzo diplomatico non trascurabile nel piano di riconquista dell'Occidente mediterraneo.

Ma un riavvicinamento con Roma non poteva non offendere le suscettibilità religiose dell'Oriente sempre pronto a ricordare al cospetto dell'Occidente cristiano la sua qualità di terra madre originaria del messaggio cristiano.

Questa pregiudiziale rivalità trovava facilmente il suo sfogo e i suoi rivestimenti dottrinali sul terreno teologico. Quando nel febbraio del 536 Papa Agapito giunse a Costantinopoli come inviato speciale del re dei Goti Teodato, fu messo sull'avviso dal patriarca antiocheno Efrem di non entrare in rapporti ecclesiastici con il patriarca Antimo sospetto di eresia nella sua sede costantinopolitana. Agapito andò molto piú in là dei consigli del presule antiocheno e depose Antimo dalla sua dignità patriarcale. Era una magnifica manifestazione di preminenza gerarchica e di superiorità carismatica. Giustiniano, dopo un breve istante di resistenza, si inchinò alla decisione del vescovo di Roma e lasciò che Agapito stesso consacrasse come successore di Antimo il prete Menna.

Si rinnovava in qualche modo la situazione che si era verificata nel IV secolo all'indomani del passaggio di Costantino alla religione cristiana proclamata e trattata quale religione di Stato e al trasferimento della capitale imperiale da Roma a Bisanzio. Soltanto che la situazione era adesso rovesciata.

Allora Roma, defraudata del suo primato politico, aveva cominciato a rifarsi un primato spirituale e religiosamente giurisdizionale, patrocinando quella dottrina della consustanzialità del Figlio al Padre che, bandita dalla sede alessandrina sotto il patrocinio del patriarca Atanasio, era l'unica che garantisse in sostanza e inequivocabilmente il carattere assolutamente trascendente e misterioso della fede ortodossa.

Costretta ad optare tra Bisanzio e Roma, Alessandria, guidata dal senso politico, economico e amministrativo quale si era venuto sviluppando in tre secoli e mezzo di intima colleganza con Roma, quella colleganza che aveva avuto nella battaglia di Azio la sua data di origine, aveva assunto uno schieramento deciso e risoluto in favore della metropoli del Tevere.

Come ardua era stata la consegna di Costantino e dei suoi figli di fare entrare la regina del Nilo nel circolo e nello spazio vitale della nuova capitale orientale dell'Impero!

Adagio adagio si può dire che Alessandria si era poi abituata a considerarsi in stretta dipendenza dalla metropoli del Bosforo, ma questo era stato solo a patto di sentirsi in qualche modo arbitra e signora dei destini materiali e spirituali dell'Oriente imperiale.

Ora che Roma, vittoriosa già spiritualmente a Calcedonia e ricomparsa sempre piú in prima linea nello spiegamento della politica imperiale, giunta anzi con Giustiniano ad essere in qualche modo il vero centro spirituale e culturale dell'Impero, ora che l'unità politica della Romània era stata saldamente e vittoriosamente ricostituita, Alessandria tentava di riprendere una sua autonomia ed individualità con formule di fede che né Roma né Bisanzio accettavano per proprie.

La vecchia mistica platonico-origeniana che era stata sostanzialmente il piú caratteristico retaggio alessandrino riaffermava tenacemente i suoi diritti nell'ambito della teologia ecclesiastica.

La grave inframmettenza dell'episcopato romano nella scelta e nella consacrazione del presule religioso della capitale bizantina, non poteva non avere un lungo strascico di recriminazioni e di rancori.

Agapito, che aveva consacrato, al posto di Antimo, Menna, non sopravvisse a lungo al suo trionfo. I monofisiti sollevarono rapidamente il capo alla sua morte nell'aprile del 536.

Ma a corte il prestigio romano continuava invulnerato. Per parecchi anni il rappresentante della sede apostolica, Pelagio, rimase il sempre ascoltato consigliere dell'imperatore. Pelagio era individuo energico, intraprendente, inflessibile in tempi normali, ma d'altro canto capace di non andare a dar di cozzo inutilmente contro la necessità. Il suo ascendente si faceva imperiosamente sentire cosí sull'imperatore come su Teodora. Giustiniano lo consultava in ogni emergenza che coinvolgesse gli interessi religiosi.

E la Roma che tanto doveva alla sede alessandrina nel successo e nella garanzia della fede ortodossa durante il quarto secolo, fu ora implacabile contro Alessandria e la sua predominante fede monofisitica ora che la unità imperiale ricostituita, per opera di Giustiniano, faceva della vecchia metropoli del Tevere di nuovo la signora della rinata Romània.

Essendo morto pure nel 536 il patriarca alessandrino Timoteo, era stato nominato a succedergli un tal Teodosio, forte del patrocinio della corte, o meglio, del partito di corte che faceva capo a Teodora. A quattro anni di distanza gli intrighi di Pelagio fecero in modo che gli fosse sostituito il monaco Paolo di Tabenna consacrato da Menna a Costantinopoli. Era un fiero antimonofisita. A lui furono conferiti tutti i poteri per ristabilire il dominio della fede ortodossa. I funzionari civili avrebbero dovuto prestargli cieca obbedienza. L'episcopato egiziano lo si doveva deporre in massa qualora non si fosse acconciato a sottoscrivere in pieno le formule di Calcedonia, che avevano oramai valore di simbolo e di tessera della ricostituita armonia tra Roma e Bisanzio.

Ma il monaco Paolo, cosí repentinamente innalzato al seggio patriarcale di Alessandria, non mostrò di corrispondere alla fiducia della corte e Giustiniano dovette sbarazzarsene a due anni appena di distanza dalla sua elevazione. Pelagio fu anche questa volta il confidente imperiale. Fu lui che presiedette il sinodo di Gaza, convocato per deporre il monaco patriarca che non aveva occupato che due anni l'effimera dignità patriarcale. Mai l'azione di Roma si era fatta sentire piú fortemente in Oriente.

Ma Roma doveva pagare sinistramente questa ripresa vigorosa di autorità e di poteri spirituali in Oriente. Se il trasporto della capitale a Bisanzio per opera di Costantino le aveva dato la possibilità di spiegare, senza subire troppo vicine e preponderanti pressioni, il vasto alone del suo magistero e delle sue capacità spirituali, che non riescono mai a stabilire il taglio netto con le avvolgenti finalità e preoccupazioni della politica, ora che Bisanzio, già assuefatta da due secoli di ufficialità cristiana a tutte le sottigliezze e a tutti i ripieghi della speculazione teologica, riconquistava l'Occidente e vi faceva sentire piú da presso il peso della sua amministrazione, Roma non poteva non avvertire aggravato e reso tanto piú difficile il còmpito del suo ministero religioso.

Giustiniano d'altro canto non era sovrano da lasciare scalfire e circoscrivere la vastità illimitata dei suoi poteri e da tollerare menomazioni e autonomie che il suo spirito riteneva indeprecabilmente contrastanti col concetto stesso della imperiale potestà romana.

Si deve pure tener presente che la mentalità religiosa dell'Occidente non era quella dell'Oriente. Se la condanna del monofisismo a Calcedonia nel 451 aveva rappresentato la consacrazione ufficiale della riconciliazione fra Roma e Bisanzio, in pratica la spiritualità cristiana dell'Occidente aveva avuto in quella condanna del monofisismo un palese successo, in quanto la condanna dell'unica natura del Cristo rappresentava posizioni di equilibrio precario e provvisorio fra il bisogno di concretezza umana nel dogma cristologico, cosí potentemente e imperiosamente avvertito dallo spirito occidentale, e la figurazione del Cristo Dio, uomo si direbbe quasi soltanto in apparenza, che si attagliava e si armonizzava molto meglio alle esigenze mistiche dell'anima orientale, bisognosa ancor piú che l'anima occidentale di trovare nella spiritualizzazione a oltranza del Cristo la risposta adeguata al suo bisogno di evasione dalle strettoie di una politica assolutista per definizione.

La Costantinopoli di Giustiniano sentí molto bene che se l'unità riconquistata doveva essere affiancata e corroborata da una conciliazione religiosa ecumenica, questa non poteva venire che da una sede vescovile romana occupata da persona maneggevole e condiscendente.

Sembrò che il personaggio adatto alla bisogna fosse sottomano: Vigilio.

Era un diacono romano da qualche anno delegato della curia a Costantinopoli. Anima ambiziosa, spoglia di scrupoli, capace di tutte le debolezze e di tutti i compromessi, Vigilio aveva rapidamente guadagnato la protezione cordiale di Teodora. Era il candidato nato alla sede vescovile di Roma, per una corte come quella bizantina decisa a ripristinare in pieno l'autorità dell'Impero anche sull'Occidente. C'è da pensare che Vigilio fosse andato molto innanzi nell'impegno contratto a corte di cancellare il concilio di Calcedonia, ostacolo ormai palese ed insormontabile ad una pacificazione religiosa tra Oriente ed Occidente.

Egli partí pertanto da Bisanzio per Roma con alcune lettere imperiali dirette a Belisario e a sua moglie Antonina. Doveva essere senz'altro installato sul seggio vescovile.

Ma la bisogna non fu agevole. All'indomani della morte di Agapito gli era stato dato a Roma senza indugi un successore, Silverio. Come spodestare questi per intronizzare la creatura di Costantinopoli? Belisario doveva riuscire nell'intento. Dopo tentativi pacifici di indurre Silverio a concedere quello che Vigilio aveva promesso di fare come condizione preliminare alla sua elevazione pontificia, fu necessario deporre bruscamente Silverio che si rifiutò a qualsiasi patteggiamento e mandarlo in esilio. Questo accadeva il 29 marzo del 537.

Ma Vigilio, surrogato a Silverio, dovette immediatamente avvertire l'ostilità irriducibile dell'ambiente ecclesiastico romano a qualsiasi indecoroso patteggiamento con Bisanzio e si riconobbe nella impossibilità di mantenere le promesse consegnate alla corte di Giustiniano prima della sua partenza da Costantinopoli. Il colpo di mano tentato sulla Sede romana era riuscito soltanto in apparenza. La resistenza ortodossa si manteneva fiera e invulnerabile.

Non per questo si può dire che i monofisiti in Oriente dessero partita vinta. In questa energetica ripresa della romanità imperiale, Roma non se la sentiva di cedere a Bisanzio perché intuiva vagamente che ogni tentativo di riconciliazione a prezzo di sconfessioni conciliari non era altro, per Roma, che una indecorosa ed irreparabile abdicazione.

Purtroppo la diplomazia romana a Bisanzio non era all'altezza degli intrighi e delle astuzie della corte. A Vigilio era succeduto Pelagio, il quale, nelle sue peregrinazioni diocesane intraprese col proposito di sedare i vecchi dissidi religiosi e di rappattumare le comunità in disaccordo, andò incautamente a toccare un argomento dei piú delicati e dei piú scabrosi: l'ortodossia di quel vecchio teologo alessandrino Origene, la cui comparsa e la cui attività nel terzo secolo avevano costituito l'espressione piú alta delle preoccupazioni teologali del cristianesimo oramai maturo alla funzione di disciplinatore sovrano della spiritualità mediterranea.

Reduce a Costantinopoli dalla sua missione di controllo e di ispezione, Pelagio riferí delle sue esperienze e delle sue controversie origeniane a Giustiniano e al patriarca.

Felice di avere l'occasione di ingerirsi nella condotta teoretica del magistero ecclesiastico, egli, in un editto diretto al patriarca Menna, lanciò solennemente l'anatema contro i punti fondamentali della dottrina origeniana. Poi di sua iniziativa convocò un sinodo che condannò senz'altro lo sfortunato maestro alessandrino. Era il gennaio del 543.

Mossa incauta e gesto esiziale. Innanzi tutto, quello che era stato un atteggiamento generico e largamente discusso di Costantino e di Costanzo, l'atteggiamento cioè di un potere politico che si immischiava senza riguardi e senza esitazioni nelle cose interne della comunità religiosa uscita dal Vangelo, assumeva portata ufficiale e incontrovertibile.

In secondo luogo, colpire Origene era un colpire l'espressione piú alta dell'abbinamento perfetto che fosse stato possibile immaginare fra le migliori tradizioni dell'ellenismo e le autoctone aspirazioni del messaggio cristiano.

Senza dubbio Origene aveva segnato un'ora di trapasso nello sviluppo della Cristianità precostantiniana. Aveva significato l'abbandono radicale della escatologia realistica e millenaristica che aveva retto l'entusiasmo delle prime generazioni cristiane, per una interpretazione indubitabilmente platonica e ultraspiritualistica delle aspettative e della teodicea inerenti alla esperienza cristiana. Ma in fondo le esigenze a cui Origene aveva dato soddisfazione non erano esigenze che si potessero deprecare o ignorare. La spiritualizzazione delle vecchie credenze cristiane era un bisogno inerente al fatto stesso della propaganda cristiana nel mondo della cultura mediterraneae della elaborazione concettuale dei dati rive- lati cristiani.

I monofisiti a buon conto, nei quali veramente lo spiritualismo a oltranza di Origene riviveva inalterato e conseguente, si affannarono a cercare la loro rivincita. E la trovarono genialissima. Tra i testi approvati dal concilio di Calcedonia figuravano gli scritti di tre maestri ecclesiastici, notoriamente maculati di eresia nestoriana e quindi tutti e tre cordialmente invisi al partito monofisita.

Fare condannare questi tre scrittori che il Concilio di Calcedonia aveva preso sotto la sua tutela non era una magnifica rivincita contro l'imperatore legiferante in cose ecclesiastiche, contro il legato papale partito alla caccia del monofisismo superstite, contro Roma sotto la cui egida Calcedonia aveva emanato le sue solenni decisioni?

Giustiniano si lasciò prendere all'insidia. Il suo vecchio sogno di unione, piú che mai necessario cosí alla Chiesa come allo Stato, gli apparve prossimo alla sospirata realizzazione. Tornato a Roma, Pelagio non era piú al suo fianco per manodurlo e vigilarlo sul sentiero della tradizione ortodossa e al suo posto Teodora poteva piú che mai svolgere incontrollati la sua autorità e il suo capriccio.

Nel 543 era emanato da lui il primo editto che pronunciava l'anatema contro i cosiddetti tre capitoli, vale a dire contro i tre scrittori ecclesiastici sospetti di nestorianesimo, cui Calcedonia aveva dato un'aureola di insospettabile ortodossia.

Ma Giustiniano si era con la sua condanna impelagato in un terreno che doveva offrirgli amarissime e cocenti delusioni. I patriarchi orientali cedettero supinamente agli ordini e alle minaccie imperiali, timorosi della destituzione.

Ma come ottenere l'adesione del vescovo romano e con la sua quella dell'episcopato occidentale?

Calcedonia costituiva e simboleggiava una data prediletta nell'orientamento religioso della cristianità occidentale. Lasciare il Papa nella sua sede equivaleva a rinunciare in anticipo a qualsiasi sua condiscendenza e a qualsiasi diplomatico accomodamento.

Bisognava trasportare il Papa a Costantinopoli. E lo si fece senza alcuno scrupolo e senza alcun riguardo. Nel novembre del 545 un manipolo di scherani bizantini si impadroniva della persona del Papa nella chiesa di Santa Cecilia in Trastevere e immediatamente lo faceva imbarcare per l'Oriente sotto scorta sicura.

Povero Vigilio! Come deve avere trepidato all'idea di ritrovarsi nell'atmosfera insidiosa di quella corte bizantina alla quale egli aveva fatto balenare speranze di complicità a cui poi non si era potuto prestare!

Il viaggio lentissimo, con una lunga fermata di mesi a Siracusa, deve avergli dato tutto l'agio di ponderare la difficile sua situazione e l'onere sacro di tutta la sua responsabilità di fronte all'Occidente cristiano.

Da ogni parte di questo, dalla Sardegna come dall'Africa, dalla Gallia come dall'Illirico, gli giungevano sollecitazioni di Chiese che lo supplicavano di difendere a spada tratta il carattere ortodosso della dottrina calcedonese, cosí subdolamente bistrattata a Bisanzio.

Giunto a Costantinopoli, agli inizi del 547, rifiutò qualsiasi concessione alla volontà dell'imperatore.

Ma la sua capacità di resistenza non fu di lunga durata. I propositi energici maturati durante il viaggio vennero gradatamente sfaldandosi e alla fine, cedendo all'assedio del Basileus, alla volontà di Teodora, alle affabilità dei teologi cortigiani, ammise la possibilità di anatematizzare i tre capitoli. Fece anche di piú. Alla presenza di Giustiniano, dei suoi ministri e di qualche vescovo si impegnò formalmente a condannare i tre capitoli e come garanzia della propria promessa consegnò nelle mani dell'imperatore e dell'imperatrice due dichiarazioni da lui stesso sottoscritte.

Ebbe a pentirsi piú tardi della sua deplorevole condiscendenza. Addusse a propria scusante il desiderio di evitare ogni scandalo, di placare la eccitazione degli spiriti, di portare rimedio ad una situazione gravissima.

Forse lo solleticò il fatto che si chiedesse a lui, vescovo di Roma, una ratifica ad una decisione imperiale che senza di quella appariva invalida ed esautorata.

Fu ad ogni modo una di quelle debolezze storiche che segnò l'inizio di una serie lacrimevole di dedizioni compiacenti dell'autorità religiosa all'autorità politica.

Alla vigilia della Pasqua dell'anno 548 Vigilio pubblicava un judicatum che, pur facendo una formale riserva sull'autorità dei canoni del 451, condannava però formalmente le persone e gli scritti di Teodoro, di Iba e di Teodoreto.

L'impressione del gesto in Occidente fu enorme. I vescovi africani riuniti in sinodo plenario nel 550, un secolo preciso dopo il Concilio di Calcedonia, espulsero Vigilio dalla comunione cattolica. Alla protesta africana seguirono le proteste dell'Illirico e della Dalmazia.

Fu per tutto un dilagare di libelli polemici nei quali la figura dell'imperatore teologo, il corpo dei suoi vescovi cortigiani, la persona stessa del disgraziato vescovo romano, vittima delle intimidazioni e dei tranelli, erano malmenati senza eufemismi e senza pietà.

Vigilio credette di porre un argine alla dilagante insurrezione occidentale chiedendo a gran voce all'imperatore di convocare un Concilio universale.

Giustiniano non se ne dette per inteso. Preferí con un nuovo editto del 551 ribadire la condanna dei tre capitoli che aveva suscitato cosí impetuoso putiferio in Occidente.

Alla seconda condanna fece seguire sul posto una repressione violenta contro quelle curie e quelle comunità occidentali che avevano opposto resistenza alla sentenza di Vigilio.

Vigilio stesso, venuto a resipiscenza, non mancò di assumere di fronte all'imperatore un atteggiamento fiero, ponendo come condizione di una serena continuità di rapporti la convocazione conciliare.

Giustiniano, oramai infatuato del suo assolutismo imperiale, anziché accondiscendere alle raccomandazioni papali, volle perpetrare sulla persona stessa del Pontefice un gesto di violenta manomissione.

Arrestato brutalmente nella chiesa di San Pietro in Ormisda, trascinato via a forza fra lo scandalo raccapricciato della folla, Vigilio poté asserragliarsi per un po' di tempo nel palazzo Placidiano donde, trepidante della propria incolumità, fuggiva in una notte del tardo dicembre del 551 per cercare ospizio sicuro in quella stessa chiesa di Sant'Eufemia a Calcedonia dove un secolo prima Marciano aveva solennizzato la riconciliazione dell'Oriente con l'Occidente sotto il nimbo lucente di Papa Leone.

Di là Vigilio lanciava al mondo occidentale, il 9 febbraio 552, un documento clamoroso in cui erano denunciate le violenze persecutrici di cui era vittima.

Questa volta Giustiniano dovette venire a piú miti consigli. Cercò di riguadagnare con le buone la perduta fiducia del vescovo romano. Gli promise anche di convocare il Concilio che Vigilio non si era mai stancato di chiedere. Ma avrebbe voluto che questo Concilio si tenesse a Bisanzio, prevedendo che colà ben poca parte dell'episcopato occidentale si sarebbe potuta trovare e che quindi l'episcopato orientale avrebbe potuto decidere a suo libito.

Il Concilio si apriva infatti a Santa Sofia a Costantinopoli il 5 maggio 553, alla presenza di un episcopato orientale servilmente ligio alla corte, in mezzo al quale si perdevano pochi sparuti prelati africani.

Vigilio si rifiutò di partecipare ad un sinodo addomesticato di questo genere. Anzi, il 4 maggio del 553 si pronunciava personalmente con un Constitutum.

Fu questo un documento sapientemente e lambiccatamente dosato. Esso abbandonava la dottrina di Teodoro di Mopsuestia, inferendo un colpo alla venerabilità delle decisioni calcedonesi. Si rifiutava di anatematizzare la persona di Teodoro. Per Iba e per Teodoreto si rifiutava di emettere qualsiasi apprezzamento, perché anche Calcedonia si era astenuta dal farlo.

Giustiniano naturalmente non si poté dichiarare soddisfatto di una simile sentenza, mentre i suoi vescovi stavano deliberando.

Questi vescovi infatti sottoscrissero la condanna imperiale dei tre capitoli e, per compiacere fino all'ultimo i desiderata di Giustiniano, cancellarono il nome di Vigilio dai dittici ecclesiastici.

Al che seguirono repressioni dure e implacate.

Questa volta Vigilio, sperduto e disanimato, cedette allo spavento e con un secondo Constitutum del febbraio 554 aderí alla condanna dei tre capitoli e confermò le decisioni del Concilio costantinopolitano.

Un anno piú tardi egli moriva in esilio. Al suo posto era innalzato Pelagio. Ma questi non poté occupare la sua sede se non a prezzo di una nuova condanna dei malaugurati tre capitoli.

L'Occidente si sentí pienamente colpito nel suo piú alto dignitario ecclesiastico e gemette amaramente sulla debolezza dei presuli romani. Per decenni l'Occidente fu pervaso dall'agitazione destata da questa arbitraria intromissione imperiale in materia ecclesiastica, rivendicando, per bocca di Facondo di Ermiana, un principio che per secoli avrebbe retto l'economia religiosa del mondo mediterraneo: «Solo Cristo è re e prete. L'imperatore è solo re. Egli deve mettere in esecuzione i canoni della Chiesa. Non può né fissarli né trasgredirli».

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