Il problema dei rapporti fra cristianesimo ed ascetismo è un problema che può dirsi al centro della cultura spirituale moderna. La Riforma protestante si affermò soprattutto come movimento antiascetico. Con la sua dottrina capitale della giustificazione per fede l'esperienza della Riforma venne a togliere qualsiasi valore meritorio all'azione buona dell'uomo e quindi in particolare a tutte le pratiche ascetiche. E perché si riteneva che la caratteristica precipua della Cristianità medioevale fosse stato l'enorme sviluppo della ascesi organizzata, la Riforma come l'Umanesimo furono decisamente e violentemente antimedioevali. Nessuno però si pose, come oggi si pone, alla luce delle piú larghe indagini di storia comparata delle religioni e in particolare alla luce della piú vasta conoscenza delle correnti ascetiche nell'ellenismo, il quesito specifico della affinità esistente fra l'ascetismo cristiano e l'ascetismo extra-cristiano, né il quesito della appartenenza o meno del tipo di ascetismo realizzatosi e fiorito rigogliosamente nella Cristianità medioevale all'essenza originale e primitiva della predicazione cristiana.
Il piú grande interprete poetico del nostro risorgimento nazionale e della nostra nuova cultura, Giosuè Carducci, ci ha dato una delle prove piú appariscenti e piú significative dell'equivoco e della contraddizione in cui la mancanza di una impostazione precisa e consapevole di questi problemi veniva fatalmente a far cadere qualsiasi spirito si fosse accinto ad indagare la genesi della nostra spiritualità nazionale e in pari tempo a valutare la tradizione cristiana nei suoi rapporti e nei suoi confronti con la rinascita moderna di uno spirito nazionale italiano.
Fa cosí una certa impressione osservare che mentre nei suoi canti Giosuè Carducci si è abbandonato piú di una volta a denigrazioni e a bistrattamenti della funzione storica del cristianesimo, additandolo come una sterile e piagnucolosa predicazione di rinuncia e di isolamento, che avrebbe umiliato e debilitato le possibilità spirituali della nostra tradizione e del nostro popolo, nelle sue lezioni accademiche e nelle sue mirabili ricerche erudite non ha potuto fare a meno di riconoscere che il cristianesimo era stato un meraviglioso e fecondissimo fermento e un decisivo propulsore delle nostre creazioni artistiche e letterarie.
Fin dal 22 novembre 1860, inaugurando egli a Bologna il suo corso universitario con una prolusione che non doveva essere soltanto il programma di un'annata accademica ma che fu di fatto la traccia ideale di quella che sarebbe stata la gloriosa carriera dell'insegnante in 43 anni di ininterrotto magistero universitario, Giosuè Carducci, delineando gli elementi entrati come ingredienti operosi nella formazione e nello sviluppo della nostra letteratura nazionale, diceva testualmente cosí: «Nelle due età storiche dell'Italia cristiana, che corrono, l'una da Odoacre e Teodorico alla ruina del Regno longobardico, l'altra dalla restaurazione dell'Impero fino a Gregorio VII, chi studi la letteratura italiana deve seguire la traccia di due elementi dal contrasto dei quali sul medesimo terreno e dalla vittoria dell'uno sull'altro risultò e la nostra civiltà per gran parte e la forma piú splendida di essa che è la letteratura: dell'elemento germanico, io dico, e del latino ritemprato dal cristianesimo; tendente il primo all'individualismo, all'associazione il secondo; l'uno che ordinatosi nella feudalità si espanse nelle crociate della cavalleria, fiorendo vigoroso tra noi da Carlomagno al Barbarossa, l'altro che, fattosi largo con l'industria e il commercio, ebbe a fine la libertà dei Comuni e si manifestò poi splendidamente da Gregorio VII a Bonifacio VIII».
Il cristianesimo dunque per il Carducci interprete e commentatore dei grandi monumenti della letteratura italiana, non è la croce servile e sterile imposta dal «galileo di rosse chiome» sulle spalle di un popolo dolorante, ramingo, depauperato, delle «Fonti del Clitumno».
E in quella medesima prolusione il Carducci dice anche di piú. E dice che il potere nato terzo fra Pontefici ed imperatori al risveglio dell'elemento latino in Italia precedente i Monarchi «si fuse cristianamente nei Comuni, asserví a sé il Consolato, restauratore ad un tempo della civiltà antica e della nuova inauguratore».
E spiegando ancor meglio questa appropriazione italica dello spirito cristiano, generatrice di cosí stupenda e prodigiosa fioritura civile ed artistica, il Carducci diceva: «Il popolo d'Italia, piú simiglievole in ciò ai greci che non ai romani, questi mezzi di riavvicinamento (il Carducci parla di riavvicinamenti osco-doriesi) gli ebbe in se stesso; come quello che si aveva connaturato pur riadattandolo estrinsecamente a sé il cristianesimo».
Toccando di volo l'influsso capitale del francescanesimo sulla genesi prima della nostra letteratura popolare il Carducci stesso diceva: «Se ci riporteremo col pensiero sulle piazze di Assisi e di Fano, dove le armi dei cittadini uccidentisi restano al canto amoroso di San Francesco e di Frate Pacifico, avremo nei popoli repubblicani dell'Emilia e della Marca le piú lontane e certe origini della letteratura nazionale e indigena».
C'è stata dunque nel cristianesimo delle origini e del Medioevo una vera capacità stimolatrice e generatrice di vita che negli strati piú profondi della collettività nazionale italiana si è deposta per fruttificare vastamente e originalmente a suo tempo. Dove dunque quella equiparazione frettolosamente instaurata fra cristianesimo e rinuncia, fra cristianesimo e mortificazione ascetica?
La verità è che per tutta la nostra cultura del Risorgimento è stato impossibile fare distinzione fra il cristianesimo genuino e le contraffazioni della Controriforma; è stato impossibile vedere altro cristianesimo che non fosse quello della cristallizzazione farisaica, teologale, inaridita del gesuitismo. E Carducci, pure avvertendo col suo desto, leale e finissimo fiuto storico che il cristianesimo era stato il coefficiente capitale e l'elemento principe, fondamentale di tutto quello che noi in passato abbiamo creato di grande nelle arti e nella vita dello spirito, è stato poi incapace di fare una saldatura coerente fra la valutazione storica del cristianesimo e la valutazione personale di un'eredità cristiana pronta e capace ininterrottamente di risorgere dalle sue ceneri e dalla sua prostrazione.
Solo a rapidi bagliori il senso nostalgico del cristianesimo storico riappare nella ispirazione del poeta. Piú di frequente la prepotente passione politica ne annebbia la ispirazione religiosa.
Oggi Giosuè Carducci saprebbe fare molto meglio la distinzione tra il contenuto originale del cristianesimo, assolutamente difforme dalla concezione dell'ascesi che è un prodotto genuino della filosofia ellenistica, e le forme degenerate dell'ascesi cristiana, copia pedissequa dell'ascetismo extra-cristiano.
La grande ascesi cristiana del Medioevo è un'ascesi basata su una visione agonistica del mondo, piú o meno direttamente e palesemente legata ad una profonda intuitiva sensazione dualistica delle forze che operano nell'universo e nell'uomo, sentito sempre come un microcosmo riassumente e riassorbente in sé le forze drammaticamente in contesa nel macrocosmo. È questo orientamento dualistico che dà alla grande ascesi monastica del Medioevo la sua virtú creatrice. È questo senso dualistico umano, storico, cosmico che aveva fatto del cristianesimo un movimento superascetico anziché ascetico, capace di trasformare il mondo in virtú di una posizione spirituale preliminare che lo rinnegava e ne prescindeva.
«Siate perfetti, al modo del Padre vostro che è nei cieli». Il precetto di Gesù era stato preciso e solenne. La vita morale degli uomini non poteva e non doveva avere che un solo modello ed una sola norma: e precisamente la bontà longanime ed universale del Padre, che diffonde sugli uomini, generosamente e indiscriminatamente, i tesori della sua assistenza e del suo perdono, come riversa in ugual misura su tutti la sua pioggia restauratrice. Esulava pertanto dalle prospettive del Cristo la concezione di una duplice forma di esistenza, l'una riservata ai perfetti e ai privilegiati, l'altra concessa alla massa dei credenti. Divorata dalla visione di una vita collettiva tutta pervasa dal sentimento della carità e da quello della mitezza; dominata dalla aspettativa insonne del veniente Regno della giustizia e della pace, la predicazione neo-testamentaria appunta la sua aspirazione verso il formarsi di una comunità religiosa che sia tutta improntata al programma della piú alta vita nella grazia, che non abbassi giammai l'altezza dei suoi ideali, per quanto vasto possa divenire il girone delle sue conquiste.
Propagandosi rapidamente in mezzo ad una società ostile e refrattaria il messaggio della salvezza nel Cristo e della sicura appartenenza al Regno che viene mediante la inserzione nell'organismo mistico della sua sopravvivenza e dei suoi carismi, la Chiesa non ha avuto bisogno di adottare i postulati e la pedagogia delle organizzazioni ascetiche, che erano largamente diffuse nel mondo ellenistico, per mantenere alla sua iniziale altezza il livello della morale collettiva e la intensità del solidale fervore religioso. La letteratura cristiana primitiva ignora perfino la parola ascesi, che è ginnastica quotidiana per l'addestramento al dominio dello spirito sulla materia. La persecuzione si potrebbe dire che ha rappresentato per il cristianesimo nascente la forma ideale e super-individuale del tirocinio ascetico.
Quando nel IV secolo il cristianesimo diviene religione di Stato, contemporaneamente comincia a conoscere le forme dell'ascetismo associato. Ma anche allora, erede e continuatore dell'originalissimo spirito che è alle radici del messaggio cristiano, conquista del mondo attraverso ed in virtú della rinuncia ad esso, l'ascetismo cristiano tradisce una sua peculiare dialettica di sviluppo e di azione nel mondo, che lo accompagnerà per tutto il Medioevo.
È una certa incomprensione di questa dialettica originalissima della conquista cristiana super-ascetica prima, ascetica dopo, che ha viziato in qualche modo le ricerche recenti e i termini di comparazione che possono trovarsi nell'ascetismo extra-cristiano per spiegare la genesi e l'evolversi delle organizzazioni cenobitiche cristiane come di forme anacoretiche della pietà nel cristianesimo. Per comprendere invece come, per riconoscimento stesso di un Carducci, il cristianesimo pur nell'età delle sue massime espansioni ascetiche è stato capace di cosí vaste e potenti ripercussioni creative nel mondo dell'arte e della letteratura, non bisognerà mai dimenticare che l'ascetismo organizzato cristiano ha connotati inconfondibili.
Questi caratteri inconfondibili gli derivano dalla stessa natura dell'impulso iniziale da cui ha preso le mosse, vale a dire dalla predicazione neo-testamentaria, la quale, anziché ascetica è, può dirsi, super-ascetica. Ascesi è ginnastica interiore cotidianamente praticata per la supremazia degli elementi spirituali sugli elementi materiali dell'essere umano, ed è dottrina e pedagogia germinate sul terreno della filosofia ellenica ed ellenistica e nel mondo delle religioni iniziatiche. Il valore centrale e il precetto basilare della predicazione cristiana non sono quelli della ascesi ellenistica. Essi trovano la loro immediata e felice espressione nel concetto e nel precetto della «conversione», che è evasione ininterrotta dall'insidia sottile del mondo empirico, dominio per definizione e per antonomasia di Satana. Nulla di piú difforme dalla precettistica di Gesù, della ascesi neo-platonica o neopitagorica.
Appunto per questo, quando il cristianesimo vittorioso con Costantino assunse forme di ascesi organizzata, questa non poté non manifestarsi avvivata da uno spirito che non era quello delle organizzazioni ascetiche precristiane ed extra-cristiane.
«Come potrò raffigurare la mia generazione? Mi par simile a quei ragazzi che, sulle piazze, fanno al gioco lamentoso e al gioco lieto, e si dicono a vicenda: ecco, vi suonammo il flauto e non danzaste, ci lamentammo, e non vi batteste il petto. Infatti, si presentò Giovanni; non mangiava e non beveva. Hanno detto: costui è indemoniato. È venuto il Figliuolo dell'Uomo: mangia e beve come gli altri. E vanno dicendo: ecco un mangione ed un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Non fa nulla: la sapienza sa trarre il giusto da tutti i suoi figli».(Mt. XI, 16-19).
La parabola, pronunciata indubbiamente in un momento avanzato dell'opera missionaria di Gesù, quando la sorda e ostile resistenza al suo messaggio si delineava irriducibile, mentre scolpisce la differenza profonda che separava la predicazione e la pratica del Battista dal tenore quotidiano di vita di Gesù e del suo primo nucleo di discepoli, fissa la caratteristica specifica dell'etica neotestamentaria, dei suoi presupposti e dei suoi canoni. Il messaggio del Cristo non implica una precettistica ascetica, vale a dire il codice di un paziente tirocinio morale, che addestri l'individuo al dominio costante delle sue forze inferiori, in vista di una superiore impassibilità, refrattaria ad ogni contaminante attacco della sensibilità e della passione. Appunto perché messaggio religioso, anziché precetto di scuola o programma di setta, l'annuncio di Gesù getta le sue radici e trae le sue energie dall'entusiasmo acceso dalla visuale del Regno imminente. L'insegnamento suo indica una visione della vita, della sua economia, delle sue leggi, dei suoi logici destini, da cui scaturisce fatalmente il programma necessario della piú larga e radicale rinuncia, senza però che questa sia in alcun modo vincolata ad una precettistica e ad un esercizio paziente, come invece vuole, per definizione, ogni pratica concreta dell'ascesi, cosí nelle religioni extracristiane come nella filosofia ellenistica.
Nella esperienza evangelica, avvivata dalla certezza assoluta del prossimo conseguimento del Regno e imperniata sul valore centrale della conversione, la perfetta e sdegnosa rinuncia alle finalità concrete del successo umano e del benessere materiale, rappresenta la conseguenza spontanea ed irresistibile di un intimo orientamento spirituale, che non chiede la sua giustificazione teorica e la sua disciplina quotidiana ad una antropologia semplicisticamente dualistica e ad una pedagogia stilizzata. Pur mescolandosi a tutte le espressioni dell'esistenza quotidiana, il credente nel Regno ha la sua spiritualità costantemente indirizzata verso le mete trascendenti della sua speranza e del suo ideale.
Per questo la morale del Vangelo è una morale superascetica, è la morale della sublimità e del paradosso. E per questo, quando questa morale, dopo il successo politico del cristianesimo, si trasformerà e si concreterà in organizzazioni ascetiche, queste non potranno mai essere equiparate alle forme dell'ascetismo organizzato universalmente esistenti in forme di religiosità e di speculazione extra-cristiana.
Le ricerche comparate intorno alle forme dell'ascesi nelle varie religioni, quali si sono svolte in quest'ultimo secolo, sono partite da un errore d'impostazione del problema credendo di ravvisare affinità sostanziali e parallelismi di sviluppo laddove erano soltanto similarità esteriori. Senza dubbio le forme organizzate dell'ascesi platonica e pitagorica hanno influito sulla determinazione di alcuni indirizzi ascetici nel cristianesimo mediterraneo dei primi secoli. Ma appunto perché l'ascetismo cristiano aveva costantemente alle spalle, come pungolo ed esemplare, l'ideale della rinuncia diciamo cosí extra-ascetica del primitivo messaggio evangelico, quest'ascetismo cristiano, nel momento della sua piena e definitiva organizzazione, ha rivelato caratteri, potenzialità e ideali che ne hanno fatto uno strumento di progresso civile, anziché una forma puramente parassitaria e marginale della ecumenica comunità cristiana.
Senza dubbio forme di misticismo e di ascesi organizzati noi le troviamo nel mondo classico e nelle grandi tradizioni religiose del Vicino Oriente. L'Egitto antico soprattutto è stato la terra classica del misticismo cosí individuale come associato. I templi delle divinità egiziane sono stati palestre nelle quali gli spiriti si sono addestrati pazientemente all'esercizio della mortificazione e al conseguimento della contemplazione beatificata. I «sapienti dell'Egitto» ritenevano che la sola forma di adorazione appropriata alla sacra maestà divina fosse quel culto interno dello spirito che si esplica nel silenzio e si celebra nell'occulto. Un senso profondo dell'intima familiarità col mondo delle realtà soprannaturali accompagna l'esplicazione della vita religiosa nella valle del Nilo. Giamblico, trattando dei misteri egiziani, descrive con minuta precisione i caratteri differenziali che distinguono le epifanie degli dèi da quelle degli angeli, dei demoni, degli arconti, delle anime. La misteriosofia egiziana ha impregnato di sé nelle sue forme piú raffinate la speculazione neo-platonica. Plotino allude molto spesso alle consuetudini liturgiche proprie dei santuari della sua patria. Egli colma di vituperi coloro che nelle solennità religiose si dànno alla gozzoviglia e che non avendo praticato la astinenza necessaria sono incapaci di partecipare ai misteri. E poiché nelle cerimonie rituali il Dio non discopre ad essi il suo volto, essi lasciano di credere alla sua esistenza. «Duro è invece il sentiero del possesso divino. Per giungervi, occorre, secondo Plotino, che l'uomo si affranchi da ogni sensazione, si spogli di ogni desiderio, si liberi da ogni passione, pronto a rimanere solo a solo con l'Uno». La Monade infatti non può rivelarsi e comunicarsi ad una Diade, quale sarebbe la ragione, espressa attraverso la parola: ama bensí l'adorazione silenziosa. Nel segreto di questo culto ineffabile si raggiunge in qualche modo un'anticipazione della immortalità beata. Il mista che ha gustato nella epoptea il piacere del possesso divino, ha avuto l'arra di quella che sarà la felicità eterna nel Regno dei morti, quando egli vivrà in una interminabile contemplazione della divinità, che l'aveva già antecedentemente ammesso, attraverso la gnosi, alla sua dimestichezza privilegiata.
Queste erano le forme alte e raffinate del misticismo egiziano. C'erano poi forme di ascesi popolare organizzata all'ombra dei santuari famosi quali quello di Serapide a Menfi. Secondo testimonianze di scrittori come lo storico Cheremone riprodotto da Porfirio, nei templi egiziani i sacerdoti vivevano in una disciplinata clausura attendendo alla contemplazione religiosa, all'addestramento astrologico, allo studio dell'aritmetica e della geografia, allo spiegamento della liturgia e del canto sacro. La loro condotta era rigida ed austera, il loro comportamento esteriore improntato alla piú schiva serietà. Parchi nel cibo, si astenevano dalle bevande alcooliche e da alimenti ricercati. Il loro giaciglio era duro e le loro veglie prolungate.
Il giudaismo dell'epoca ellenistica conobbe anch'esso, cosí in Palestina come nella diaspora, forme costituite di esperienza ascetica, alle quali pure è stato fatto appello come a modelli precostituiti del cenobitismo cristiano. Il piú abbondante testimone della loro esistenza e delle loro pratiche, è, naturalmente, quell'interprete sottile e raffinato della tradizione storica del giudaismo, il quale, posto cronologicamente a mezza strada fra l'economia religiosa del Vecchio Testamento e il messaggio insurrezionale del Nuovo, ha finito con l'elaborare di quello interpretazioni allegoriche cosí elevate da offrire inconsapevolmente alla propagazione del secondo motivi fecondissimi: abbiamo nominato Filone Alessandrino. Gli antichi scrittori cristiani ne hanno circondato la memoria di un alone di ammirazione devota e quasi si direbbe fraterna. San Girolamo nel De viris illustribus lo colloca all'undecimo posto fra i personaggi insigni che egli menziona, facendo cosí a lui come a Seneca l'onore di inserirlo, sebbene non cristiano, tra le figure degne di essere ritenute illustri dalla grande comunità cristiana.
Prima di Girolamo, Eusebio di Cesarea dal canto suo lo aveva menzionato nel secondo libro della sua Storia ecclesiastica, dicendolo versatissimo anche nella cultura extra-biblica e particolarmente esperto nelle dottrine di Platone e di Pitagora. Il vescovo palestinese intercala ai suoi ragguagli intorno a Filone particolari di palese natura leggendaria. Cosí egli racconta con molta serietà che Filone sarebbe stato a Roma proprio nel momento in cui anche l'Apostolo Pietro era colà e che anzi avrebbe avuto con questi rapporti amichevoli. A buon conto Eusebio ha avuto la felice idea di darci un catalogo, sebbene non completo e non sempre sicuro, degli scritti filoniani.
Premuto dal desiderio di mostrare ai rappresentanti della cultura profana quale meraviglioso retaggio di idealità morali conservasse nel proprio seno la tradizione sacrale di Israele, Filone non tralascia di segnalare una sola di quelle manifestazioni etiche che potevano ridondare a gloria della sua razza e della sua fede. Filone è cosí indotto dal suo stesso desiderio apologetico a introdurci nella conoscenza piú circostanziata dei movimenti ascetici che agitavano la società giudaica dei suoi tempi: essenismo e terapeutismo.
L'organizzazione specialmente dei terapeuti che Filone descrive ampiamente nel suo scritto Intorno alla vita contemplativa è quella che tradisce piú appariscenti somiglianze con le piú tarde società monacali cristiane. La rassomiglianza anzi è cosí palmare che fin dai suoi tempi Eusebio vi ha preso abbaglio e si è dato ad immaginare che Filone parli precisamente di monaci cristiani.
In realtà si tratta di comunità ascetiche giudaico-alessandrine. Filone ne fa una celebrazione mistico-filosofica.
«La classe dei terapeuti, egli dice, già addestrata alla contemplazione di Dio, non si allontanerà dalle meditazioni dell'essere e cercherà di superare il sole sensibile mai tralasciando questo eccelso esercizio che conduce alla felicità perfetta. Essi non sono giunti alla loro vocazione religiosa sotto lo stimolo di una consuetudine, di un'esteriore esortazione o di una estranea chiamata. Ma rapiti dall'amore celeste, come in preda ad un furore bacchico, vivono in un entusiasmo che non si placa se non quando abbiano raggiunto la visione dell'essere cui aspirano. Quasi reputando chiuso il ciclo della loro vita mortale, tutti dominati dalla brama della vita immortale e beata, lasciano quel che posseggono ai figli, alle mogli, ai parenti scegliendoli liberamente. Quei che non hanno parenti cedono le sostanze a compagni ed amici. Perché è ben ragionevole che coloro i quali posseggono una ricchezza eterna abbandonino la ricchezza precaria a quelli che hanno ancora la intelligenza aderente alle cose del mondo. I greci lodano Anassagora e Democrito perché, presi dall'amore della filosofia, abbandonarono i loro poderi alle bestie vaganti. Non si può revocare in dubbio che costoro si mostrarono superiori ai beni terreni. Ma di quanto superiori non dovranno essere giudicati coloro che non vollero mandare in assoluta malora gli averi, ma sovvennero alla povertà dei parenti e degli amici, e loro procurarono un insperato benessere?».
Con questa premessa apologetica Filone ci introduce nella descrizione della quotidiana vita dei terapeuti: «Quando essi abbiano rinunciato ai loro beni, fuggono senza piú rivolgersi indietro abbandonando coraggiosamente i fratelli, i figli, le mogli, i genitori, la parentela, le amicizie, la patria che li vide nascere e li allevò. Poiché la tradizione è una catena durissima e lo spezzarla è fatica asperrima», Quest'ultimo aforisma esprime un principio morale che troviamo ripetuto e celebrato in tutta la spiritualità ellenistica. Giamblico ad esempio ammonisce: «Quando tu abbandoni la tua casa, non ti volgere mai indietro, perché hai le Erinni alle calcagna». E Clemente Alessandrino, anche lui raccogliendo il monito lo riproduce nell'atto di farne una consegna cristiana: «Fuggiamo la tradizione perché è un vincolo che tiene rigidamente stretto l'uomo e costituisce per lui un tranello rischioso e uno scandalo avvincente».
I terapeuti che hanno rinunziato a i loro beni non vanno ramingando di città in città come servi malvagi o disgraziati che implorano la vendita da coloro che li hanno acquistati, ottenendo cosí soltanto di cambiare padrone e mai conseguendo la libertà. In fondo anche qui come in molte reminiscenze piú tarde del monachismo cristiano l'asilo ascetico sarà il mezzo per evadere dalle dure e infinite servitú del mondo. «Ogni città, osserva Filone, anche la meglio governata, offre il piú miserando spettacolo di sommosse, di rovine, di disordini, di modo che colui il quale sia stato preso una volta dall'amore della sapienza, non può rimanervi».
Con mossa retorica e iperbolica perfettamente comprensibile dato l'orientamento spirituale di Filone, troviamo nel trattato dello scrittore alessandrino smisuratamente amplificata la diffusione della vita terapeutica: «Si trovano, egli dice, gruppi di questo tipo in molte parti dell'universo, poiché era conveniente che partecipassero a questa foggia di esistenza barbari e greci. Ma sopra ogni altro luogo fioriscono in Egitto e precisamente nelle vicinanze di Alessandria».
E precisamente dei terapeuti alessandrini, di quelli cioè che egli doveva conoscere meglio di persona, Filone descrive la residenza e le occupazioni. «Le piccole case dove essi vivono hanno ciascuna un minuscolo sacello, nel quale i solitari compiono i religiosi misteri. È cosí vivo in essi il sentimento del divino che anche nel sogno hanno la visione della bellezza e della potenza di Dio. Due volte al giorno essi sono soliti pregare: all'alba e alla sera. Al sorgere del sole per chiedere una felice giornata, per impetrare che il loro intelletto sia illuminato dall'alto; al tramonto, affinché l'anima del tutto sgombra dal tumulto delle esperienze sensibili si raccolga nel proprio riposto sinedrio, nel segreto della impenetrabile coscienza, e segua le orme della verità. L'intervallo dalla mattina alla sera è per essi una ininterrotta ascesi. Attingendo dalle Sacre Scritture, esplorano la legislazione dei padri, seguendo i metodi della ermeneutica allegoristica».
Cosí, nella dissertazione apologetica di Filone, il vocabolo aschesis guadagna una connotazione nuova e una sfumatura originale. Per Musonio, e in genere per tutta la scuola stoica, esso indicava l'addestramento oculato e paziente, mediante il quale l'uomo si dispone al laborioso tirocinio della lotta interiore, al dominio faticoso delle proprie passioni, al raggiungimento della serena e impassibile vita spirituale. Nell'opera di Filone implica anche la lettura di testi sacri e la indagine delle proprie tradizioni religiose.
Lo scrittore alessandrino conchiude cosí in termini di grande entusiasmo la sua celebrazione: «Ebbri dunque di questa santa ebbrezza, non col capo appesantito e ubriaco, ma piú vigili e desti di quando si recarono al banchetto, con gli occhi e tutto il corpo volti al sole nascente, alzano le mani al cielo, e, quando lo abbiano scorto spuntare, implorano una serena giornata, la verità e la riflessione. Dopo la preghiera solenne, ciascuno torna al proprio semneìon e riprende la consueta foggia di esistenza. Tutto ciò è stato esposto a proposito dei terapeuti, i quali trascorrono la loro esistenza nella contemplazione della natura e vivono in questa, con le sole potenze dell'anima, cittadini del cielo e del mondo, che posseggono l'intimo contatto col Padre a causa della loro pratica virtuosa, la quale ha procacciato ad essi tale amicizia e ha assicurato una vecchiaia amante del vivere probo ed onesto, superiore ad ogni fortuna, unica capace di condurre all'apice della beatitudine».
Se noi sfrondiamo la pittura filoniana degli ornamenti pittorici che la sua preoccupazione apologetica gli ha suggerito; se riduciamo alle ragionevoli proporzioni storiche la sua testimonianza, liberandola dalle amplificazioni sgorgate dall'intento proselitistico; noi abbiamo ancora tanto per pensare legittimamente che in pieno secolo neo-testamentario, alle porte di Alessandria, una comunità giudaico-sincretistica attuava quel programma della rinuncia al mondo e dell'isolamento nella contemplazione, che tre secoli piú tardi, avvivato da una particolare fede soteriologica, costituirà una espressione alta della esperienza cristiana.
Attraverso quale sotterraneo ed impercettibile processo di osmosi e di trasmigrazione le idealità ascetiche che avevano retto queste comunità giudaizzanti dell'Egitto filoniano riesciranno poi ad impiantarsi nel mondo cristiano? Attraverso quali vie la programmatica ascetica del tardo stoicismo di Epitteto e dei neoplatonici giunse ad installarsi nella precettistica morale delle associazioni cenobitiche cristiane del IV secolo? E d'altro canto quali sono i tratti differenziali che fanno del cenobitismo cristiano e della grande tradizione ascetica organizzata ecclesiastica fenomeni inconguagliabili all'ascetismo extracristiano?
Anche San Paolo aveva predicato una sublimazione dell'azione etica attraverso la trasposizione della carne nello spirito.
Ma per lui lo spirito è il Signore, e il Signore è la comunità stessa. Onde la sua morale si colora strettamente di ecclesiologia, e per lui l'economia della nuova vita associata è la norma suprema delle sue valutazioni in fatto di condotta.
San Paolo è tutto in uno sforzo costante e animoso per instaurare nelle anime dei suoi convertiti, in cui ha abbattuto senza misericordia l'altare della legge, la convinzione gioiosa che la legge è sinonimo di carne, e quindi di peccato e di morte, e che il credente, affrancato dalla tutela mortificante della legge, è anche, in pari tempo, uscito dalla sfera della carne, per essere tuffato nella atmosfera dello spirito, e quindi della impeccabilità e della giustizia. «Voi ormai non siete piú nella carne, bensí nello spirito: poiché lo spirito di Dio alberga in voi... Che se Cristo è in noi, oh, in verità, il corpo rimane morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita in vista della giustizia. E se lo spirito di colui che trasse Gesù di tra i morti, dimora in voi, quegli stesso che ha chiamato dai morti il Cristo Gesù vivificherà i vostri corpi mortali, mediante lo spirito suo che fino da questo momento è in voi». (Rom. VII, 9-11).
L'ascetismo cristiano organizzato in tutta la storia della Chiesa ricaverà pertanto il suo tratto caratteristico e inconfondibile dalla presenza costante di una forte finalistica preoccupazione ecclesiologica e da un certo fermento apocalittico.
Tanto vero questo che i due piú grandi rappresentanti dell'ascesi cristiana nell'età precostantiniana, Origene e Metodio, si trovano ai margini della società ecclesiastica precisamente per non avere trovato ancora il modo di armonizzare in una forma di delicatissimo equilibrio instabile le esigenze in contrasto dell'ascesi cristiana associata, l'una basata tutta su presupposti antropologici platonici, l'altra su sconfinanti visuali millenaristiche.
Da questo punto di vista il destino di Metodio di Olimpo agli inizi del IV secolo cristiano è straordinariamente significativo.
Egli alla vigilia della riforma costantiniana sembra riprodurre nei suoi scritti mistici i tratti entusiastici della primitiva aspettativa escatologica.
Scrittore di sottile e ornata eleganza, avvivato da un profondo e caldo sentimento religioso, circondato dall'aureola del martirio, Metodio non ricevette, ciononostante, dai suoi contemporanei e dai suoi immediati successori quel riconoscimento e quella considerazione che la sua attività letteraria e la sua fine gloriosa gli avrebbero dovuto meritare.
Il principale dialogo di Metodio, il Simposio o Della Castità, concepito e redatto sullo schema dei dialoghi platonici è un intenzionale panegirico della verginità. Metodio immagina che la vergine Gregaria (la «vigilante» che attende lo sposo secondo la parabola evangelica) trascriva gli elogi alternati dedicati alla castità, nel giardino della virtú, da dieci vergini. L'ultima di queste, Tecla, la protagonista di quegli Atti di Paolo che godettero nelle comunità cristiane del III secolo cosí vasta popolarità, scioglie alla castità un inno ritmato, il cui ritornello suona: «Io dedico a te, o sposo, la mia carne casta e impugnando la lampada lucifera vengo a te incontro».
Vi sono strofe in questo inno dalle quali traspare chiaramente che Metodio avvertiva come il suo insegnamento intorno alla perfezione cristiana rappresentasse, nel momento in cui egli scriveva, qualche cosa di inconsueto e di oltrepassato, e che per accreditare il proprio messaggio fosse necessario fare appello ad una rinnovata esplosione di entusiasmo e di fervore messianici:
«Dall'alto, o vergini, si ode un clamore risuscitante i morti, che invita a procedere, da ogni parte, incontro allo sposo, con le vesti candide, con le lampade accese, verso il nascente sole. Destatevi, prima che il Signore venga ad assidersi nella sua casa regale. Sdegnando i piaceri mortiferi, rinunciando ai delitti della vita lussuosa e all'amore, io bramo di riposare nell'ombra delle Tue braccia apportatrici di vita e di contemplare la Tua bellezza in eterno, o Beato.
«Abbandonando i talami terreni e le alcove delle nozze mortali, abbagliata dal Tuo mirifico splendore, o Signore, venni, in veste immacolata, per riposare con Te nei talami beati.
«Sono venuta sottraendomi alle mille insidie del dragone, affrontando e sopportando la fiamma del fuoco, gli assalti mortali delle bestie malefiche, Te aspettando dai cieli.
«Ho dimenticato la mia patria, protesa verso la Tua grazia, o Logos; ho dimenticato perfino le danze delle vergini mie coetanee, l'ira della madre, dei congiunti, poiché Tu sei tutto per noi, o Cristo.
«Tu sei il corifeo della vita. Salve, o luce senza tramonto. Accogli il grido: il coro delle vergini inneggia a Te».
L'inno al Cristo si protrae ancora per alcune strofe. Poi si indirizza alla chiesa, alla sposa. E il tono si fa ancora piú alto. Il cantore traspare piú intimamente consapevole della singolarità del suo messaggio:
«Noi ci rivolgiamo a Te, o beata sposa di Dio, e sciogliamo a Te un inno, noi Tue ancelle, a Te Vergine ingenerata, dal niveo collo, dalla chioma ornata di lapislazzuli, senza macchia, oggetto di infuocato desiderio.
«La corruzione si è dileguata. Il tormento di quei mali che strappavano le lacrime è scomparso. Soppressa è la morte. Finita è la stoltezza. La tristezza che liquefà i cuori, è anch'essa svanita. È giunta alfine a risplendere sugli uomini la gioia di Gesù Cristo.
«Il paradiso non è piú vuoto di mortali, perché di nuovo viene ad abitarlo secondo la divina costituzione l'uomo sottrattosi alle insidiose arti del dragone, divenuto incorruttibile, senza timore, beato.
«Il coro delle vergini di nuovo ora scioglie a Te un inno e lo lancia verso il cielo, o Regina tutta luce, a Te che stai sui candidi calici dei gigli e che tieni fra le mani fiamme risplendenti.
«O Tu, beatissimo, che abiti le immacolate sedi celesti, o Tu che non riconosci sopra di Te comando alcuno, o Tu che tutte le cose avvinci in perpetuo legame di forza, ricevi anche noi col Tuo figlio dentro le Tue sacre porte: noi siamo qui ad attendere, o Padre».
La diversità fra la concezione ascetica del vescovo anatolico e quelle di Clemente e di Origene in cui era rivissuta piú tipicamente l'ascesi neo-pitagorica e neo-platonica, appare ancor meglio in tutta la sua vasta entità nell'altro trattato dedicato da Metodio a La Risurrezione. Questo trattato è precisamente un'opera polemica contro l'ultra-spiritualismo degli origenisti.
In questo dialogo Metodio immagina che a Patara, nella casa di un medico Aglaofone, si discuta il problema se la carne sia effettivamente o no destinata a partecipare alle gioie della risurrezione e della immortalità. Due degli interlocutori, l'ospite Aglaofone e Proclo, sono d'accordo con Origene nel negare al corpo umano, quale è vissuto sulla terra, alcuna capacità di condividere con lo spirito la vita beata. Metodio sostiene al contrario che quel medesimo corpo umano, il quale è passato dal mondo al trionfo della incorruttibilità, parteciperà concretamente alla vita trasfigurata.
Con dinanzi agli occhi una prospettiva escatologica, che ricorda molto da presso quella delle prime generazioni cristiane, Metodio sostiene che l'universo sensibile non è cosí radicalmente corrotto da non poter entrare, quale elemento integrante, in quella universale palingenesi, attraverso cui la gloria del Cristo trionfante si rivelerà. Nel quadro di essa l'uomo, con la sua costituzione corporea, non è, secondo Metodio, l'espressione del male e del pervertimento, bensí è l'opera di un divino artefice, la quale non ha bisogno che di pochi ritocchi per godere senza limiti della benedizione e della letizia del Padre.
«Dio non poteva tollerare che l'uomo, l'essere piú bello della creazione, viziato dalle insidie invidiose del maligno, dovesse rimanere in simile condizione – perché Dio ama l'uomo – e che per la eternità fosse oggetto di spregio, portando con sé il suo abbominio. Per questo, attraverso la morte, ricondusse l'organismo umano ai suoi elementi essenziali, affinché, attraverso una nuova formazione, fossero distrutti e annullati tutti gli elementi malvagi».
Agli occhi di Metodio, pertanto, la morte non è, come nel pensiero di Origene, la distruzione di una oscura e malsana prigione corporea, nella quale l'anima è reclusa in espiazione di una peccaminosa volontà primitiva. È piuttosto il ponte di passaggio verso una provvidenziale reintegrazione dell'organismo umano, chiamato ad un trionfale destino. Qui Metodio è in contrasto aperto con la concezione platonizzante di Origene che egli attacca e combatte apertamente.
L'argomentazione polemica di Metodio è un'argomentazione ad hominem. Se, egli dice, come Origene sostiene, quanto è generato è intimamente corrotto perché sollecitato da bisogni e da appetiti, mentre è sano ed integro solamente ciò che non sperimenta né gli uni né gli altri e, di conseguenza, l'uomo, il quale è generato, non può essere immune da passioni e quindi non può essere immortale, ne segue che anche gli angeli e gli spiriti, generati gli uni e gli altri, sono nelle identiche condizioni e quindi periranno. Invece né gli angeli né le anime periscono, perché sono immortali e indistruttibili, come il loro Creatore ha voluto che fossero. Alla stessa stregua anche l'uomo è immortale.
Ma Metodio non si arresta all'aspetto negativo della sua dimostrazione. Assurgendo ad una vasta visione cosmica, in cui è veramente il tratto differenziale del suo insegnamento etico e religioso, genuino ponte di passaggio fra la mistica collettiva del cristianesimo primitivo e il fermento mistico sacramentale che il monachismo post-costantiniano erediterà, Metodio ricanta i motivi celebrati da San Paolo nel Capo VIII della sua Lettera ai Romani. Chiamando cosí la creatura universa a partecipare e a condividere l'aspirazione umana alla gioia e alle beatitudini, egli scioglie la professione della sua ardente fede millenaristica. «Non mi piace, egli scrive, quel che taluni vanno dicendo, che cioè tutto debba essere consumato fino alla radice, dimodoché nel Regno di Dio non vi dovrebbero essere piú né terra, né esseri, né cielo. Costoro immaginano che il mondo intiero, divorato dal fuoco, sarà incendiato in vista della sua purificazione e del suo rinnovamento, andando verso la rovina e verso la universale distruzione. Ma se fosse meglio per il mondo sensibile il non esistere, anziché esistere, per quale mai ragione Iddio creando il mondo avrebbe scelto il partito peggiore?
Iddio nulla fa insanamente. Operando la creazione Dio ha certamente voluto che essa rimanesse. Lo attesta San Paolo dicendo: – L'aspettativa della creazione si protende verso la rivelazione dei figli di Dio, poiché la creazione fu assoggettata alla vanità non per suo volere, ma per volere di colui che ve l'ha costretta nella speranza che la creazione sarà un giorno liberata dalla schiavitú della corruzione per partecipare alla libertà della gloria dei figli di Dio. – Dice l'Apostolo: – alla vanità fu assoggettata la creazione. – Ma soggiunge subito dopo: – per essere liberata da simile servitú. – Vuol dunque additare, col nome di creazione, questo mondo sensibile che ci circonda. Poiché non le cose che non si vedono servono la corruzione: bensí quelle che si vedono. Alla risurrezione pertanto la creazione rimarrà e sopravviverà, rinnovata e trasfigurata in una condizione piú radiosa, felice e tripudiante per la gioia dei figli di Dio, per i quali essa ora geme e soffre le doglie del parto, attendendo il nostro riscatto dalla corruzione del corpo. Ché quando noi risorgeremo, e quando avremo espunto da noi la mortalità della carne, secondo quel che è scritto: – scuoti da te la tristezza, o Gerusalemme, e sollevati – quando cioè noi ci saremo affrancati dal peccato, la creazione stessa tutta sarà divincolata dai legami della corruzione, non piú stretta nel servaggio della vanità, ma libera nel servaggio della giustizia.
I millenaristi cristiani del secondo secolo, tra cui Papia e Ireneo, erano emersi come le figure piú tipiche e piú autorevoli, avevano graficamente fissato le loro aspettative mistico-religiose nel quadro di una grandiosa palingenesi cosmica, che avrebbe assicurato agli eletti una beatitudine estesa a tutto il loro essere, rallegrato dal ringiovanimento e dalla fecondità esuberante della circostante natura fisica. Questa prospettiva lusingatrice aveva loro dato il coraggio necessario per sostenere la quotidiana lotta rischiosa col mondo pagano persecutore.
Ora, all'alba del IV secolo, dopo che all'ingenuo e fantastico realismo del cristianesimo primitivo aveva fatto seguito la faticosa elaborazione concettuale degli gnostici e della metafisica alessandrina, Metodio, figura mediatrice fra Cristianità precostantiniana e Cristianità post-costantiniana, riviveva a suo modo la gioiosa idealità del millennio. Di rimbalzo tutta la sua coscienza cristiana ne era approfondita, tratta dal suo stesso sogno apocalittico ad una piú vigile consapevolezza della irriducibilità dei valori cristiani ai valori e alle aspirazioni del mondo. Nella sua forte argomentazione Metodio segue alle calcagna la escatologia ultraspirituale di Origene per batterla e sovvertirla.
Egli non si dissimula le obbiezioni degli avversari. «Allora – scrive testualmente – sussurrano i nostri avversari: se l'universo non sarà distrutto, perché mai il Cristo annunciò che il cielo si sarebbe disciolto come fumo e la terra si sarebbe inaridita come stoppia?».
E Metodio risponde: «La Scrittura suole adoperare il vocabolo distruzione per indicare la trasformazione del presente schema cosmico in qualche cosa di migliore e di piú glorioso attraverso il dissolvimento delle forme attuali verso uno stato superiore».
Secondo Metodio, allorquando leggiamo nelle Scritture di una rovina dell'universo sensibile, noi dobbiamo pensare ad una provvidenziale palingenesi, attraverso la quale la creazione animata ed inanimata sarà innalzata ad una condizione di esistenza tale che, pur non cancellando i connotati specifici del mondo attuale, li esalterà e li innalzerà fino al piú alto livello. Metodio conclude trionfalmente la sua polemica contro Origene, proclamando solennemente che essendo tutte le cose essenzialmente buone, procedendo dalla mano creatrice di Dio, anche l'uomo, composto quale è di anima e di corpo, rappresenta per se stesso una natura buona, destinata a partecipare alla gioia della vita immortale con tutti gli elementi del suo essere composito, nessuno eccettuato.
Non ha bisogno pertanto di essere posta in rilievo l'importanza di Metodio nello sviluppo delle concezioni etiche e metafisiche cristiane all'alba del IV secolo.
La posizione di Metodio di Olimpo proprio alla vigilia del grande trapasso del cristianesimo da religione di minoranza a religione di Stato offre una riprova significativa delle profonde e inestinguibili interferenze che legano l'etica alla escatologia. Quanto piú la morale religiosa si fa rigida ed elevata, altrettanto piú si rivela legata ad una aspettativa intensa di una risoluzione provvidenziale, la quale imprimerà un orientamento nuovo agli eventi, imponendo fine alle ingiustizie che esistono per definizione in ogni organismo sociale. In mezzo allo sforzo che la società cristiana compie nel IV secolo per ridurre il messaggio evangelico a formule di una fede formalistica e conservatrice, suscettibile di adattamento alle circostanze politiche esteriori mercè ponderati compromessi con queste, l'attitudine di Metodio appare come l'ultima sopravvivenza di quella vocazione all' eroismo, che il cristianesimo primitivo aveva avuto familiare e il sogno chiliastico aveva alimentato e sostenuto.
Mentre al tramonto del IV secolo, in Epifanio e in Girolamo, la pratica ascetica e la dottrina della resurrezione della carne appaiono come la combinazione definitiva di una ascesi di provenienza extra-cristiana con una escatologia individualistica che è il surrogato del primitivo chiliasmo, nell'epoca di Diocleziano e di Massimino il vescovo di Olimpo, candidato al martirio, affida alla società cristiana l'ultimo proclama della perfetta rinuncia sotto l'unico stimolo di una fede entusiastica nella restaurazione dell'universo attraverso la gioia e in virtú della libertà dei figli di Dio.
La società cristiana però non poteva raccogliere in quel momento decisivo il proclama intransigente del vescovo anatolico.
Solo a pochi anni di distanza dalla morte di Metodio, poco dopo la vittoria di Licinio su Massimino, Eusebio di Cesarea introduceva e patrocinava fra i cristiani una dicotomia, la quale, per quanto destinata ad un successo clamoroso nella successiva evoluzione della società cattolica, rappresentava ad ogni modo l'abbandono radicale di quel programma di perfezione che, secondo la maggioranza degli scrittori cristiani precostantiniani, avrebbe dovuto rappresentare l'appannaggio indispensabile di ogni credente, chiamato ad essere téleios. Nella sua Dimostrazione evangelica Eusebio scrive: «Anche per la Chiesa del Cristo sono state fissate norme per due generi di vita. L'uno è al di là della natura e fuori della foggia normale della esistenza. Non consente il matrimonio: non tollera la procreazione dei figli: non fa lecito l'acquisto o il mantenimento della proprietà. Trasforma la normale e consueta condotta degli uomini dal principio alla fine e li fa servire solamente a Dio, sotto l'impulso di un celeste amore. Coloro i quali si convertono a questo genere di vita sembrano morti alla comune foggia di esistenza dei mortali e non fanno che trascinare il loro corpo sulla terra, dappoiché la loro anima è già trasferita misticamente in cielo. Come inquilini del cielo essi riguardano la quotidiana vita degli uomini, consacrati, per tutto il genere umano, al Dio che è al disopra di tutte le cose... non già mediante sacrifici di buoi e con sangue, né con libazioni e aromi, né con fumo né con fuoco divoratore... ma mercè sane dottrine, improntate a pietà vera, mercè la disposizione di un'anima pura, mercè opere e parole sature di bontà. In tal modo, propiziando la divinità, costoro assolvono un còmpito sacerdotale, a vantaggio loro e a vantaggio degli altri». Questa è la norma della perfetta vita cristiana. «Ma v'è, continua Eusebio, un'altra vita, nell'ambito delle ordinarie capacità umane, la quale non esige il ripudio dei diritti e dei doveri che sono inerenti alla vita politica e sociale del genere umano. Contrarre matrimonio, procreare, attendere agli affari, sottostare docilmente alle leggi dello Stato, e assolvere, in ogni sfera d'azione, i còmpiti del cittadino normale, ecco altrettante espressioni di vita perfettamente compatibili con la professione cristiana, purché siano accoppiate allo strenuo proposito di conservare la pietà e la devozione verso il Signore. Il cristiano accetta parimenti come del tutto commendevole questo secondo genere di vita, onde nessuna classe di uomini e nessun popolo possano ritenersi privati dell'eminente beneficio della manifestazione salutifera del Cristo».
Cosí Eusebio, il futuro consigliere e panegirista di Costantino, formulava quella distinzione fra precetti e consigli, sulla quale l'etica del cattolicesimo avrebbe posto la sua base. Eusebio rispecchiava cosí le pressanti esigenze della comunità cristiana.
Questa, sotto lo stimolo del suo stesso proposito di divenire religione di maggioranza, era costretta a mitigare la durezza del suo primitivo programma morale. Si comprende perfettamente come agli occhi dell'accomodante vescovo di Cesarea il misticismo esaltato di Metodio e il suo tentativo di ravvivare l'entusiasmo della rinuncia cristiana riattizzando in pari tempo il fervore dell'aspettativa millenaristica, dovessero apparire come la fatua illusione di un uomo irrimediabilmente fuori del suo tempo. Lo storico cortigiano che aveva definito il millenarista Papia di Gerapoli come un «corto di cervello» non avrebbe davvero potuto concepire simpatia per il suo continuatore del IV secolo.
La società cristiana posteriore a Costantino trovò necessario abbandonare Metodio all'oblio per adottare piuttosto la netta distinzione segnalata da Eusebio fra le due diverse vie in cui è possibile vivere a norma della rivelazione evangelica.
L'ascetismo organizzato del quarto secolo, codificato nelle Regole di Pacomio e piú tardi di Basilio di Cesarea sembrò straniarsi dal mondo per la realizzazione della perfetta rinuncia. Il manicheismo dal canto suo facilitò l'organizzazione ascetica mercè il suo dualismo angustamente antropologico. Fra i primi rappresentanti dello ascetismo organizzato in Egitto figura uno Jeraca, che al tempo di Giustiniano sarà anatematizzato nella riprovazione legale, appunto come manicheo.
Ma trasmigrando in Occidente l'ascetismo organizzato avrebbe portato con sé un residuo di fermentazione chiliastica, perché ogni volta che il cenobitismo troverà le vie delle sue ascensionali riforme sarà costantemente accompagnato dalla visuale di una universale palingenesi religiosa.
Non fu facile sottoporre le correnti ascetiche ad una salda disciplina unitaria. Scrivendo nel 382 alla sua giovane amica Eustochio un lettera che è uno dei piú insigni panegirici della vita continente nella letteratura cristiana, San Girolamo ricordava: «Poiché ho accennato ai monaci e so che tu ami di sentir parlare di cose sante, stammi un momento ad ascoltare. Vi sono tre generi di monaci in Egitto: i cenobiti, che vivono in comune; gli anacoreti, che vivono isolati nei luoghi deserti e traggono precisamente il loro nome dal fatto che si allontanarono dagli uomini; e i girovaghi, i soli o quanto meno i piú noti fra noi. Questi ultimi, a due, a tre, o poco piú, vivono insieme, a loro libito. Lavorano e del lavoro mettono in comune fra loro il ricavato. Dimorano di consueto nelle città e nei borghi, e quasi che la professione, non la vita, sia improntata a santità, credono di poter vendere a piú caro prezzo quel che essi producono. Tra costoro scoppiano di frequente i litigi, dappoiché vivendo del proprio, non tollerano soggezione ad alcuno. Si dan l'aria di contendere per il primato nel digiuno. Di fatto scambiano per vittoria quel che è fatto in segreto. Tutto è ostentazione in loro: le maniche rilasciate, i calzari slacciati, le vesti grossolane, i sospiri frequenti e compunti. Amano far visita alle ragazze e sogliono dir male del clero. In giorno di festa si satollano fino a recere. Lasciamo star costoro, ripugnanti come la peste, e veniamo a quei che costituiscono comunità numerose, ho detto i cenobiti. La prima comune consegna fra loro è quella di obbedire ai superiori e di fare qualunque cosa questi comandino. Sono divisi per decurie e centurie, in modo che su dieci individui ve ne sia uno il quale sorvegli e guidi gli altri nove. E di nuovo il centesimo abbia sotto di sé i nove decurioni. Vivono separati ciascuno nella propria cella. Di regola fino a nona nessuno visita l'altro se non il decurione, onde se alcuno ha dei pensieri dissipanti, si corrobori e consoli con la sua conversazione. Dopo nona si trovano tutti insieme e recitano i salmi. Terminate le preci, e tutti postisi a sedere, in mezzo a loro quegli che essi chiamano padre inizia la sua dissertazione. E mentre egli parla, il silenzio è cosí profondo che nessuno si attenta pure di guardare l'altro. La parola dell'oratore è pianto degli ascoltatori. Le lagrime scorrono silenziosamente: il dolore non erompe mai in singulti. E quando l'oratore comincia a parlare del Regno di Cristo, della beatitudine futura, della gloria veniente, tu potresti vedere tutti con le labbra sommessamente sospiranti, con gli occhi levati al cielo mormorare a vicenda: chi mi darà penne simili a quelle della colomba, perché possa levarmi a volo e trovarmi nel riposo? Dopo di che l'adunanza si scioglie e ciascuna decuria, con il proprio padre, va a mensa a cui servono essi stessi con un turno settimanale. Si mangia in silenzio, si vive là di pane, di legumi e di erbaggi, conditi di solo sale. Solo i vecchi bevono del vino. Essi dividono spesso il desco con gli adolescenti, affinché la stanca età dei primi sia sostenuta, la tenera resistenza dei secondi non si spezzi. Levate le mense e recitato un inno, tornano alle loro sedi. Ed ivi rimangono fino a notte, ciascuno intrattenendosi con i propri e dicendo: hai visto il tale di quanta grazia è ricco, come è valente nel silenzio, come è dignitoso nel comportamento? Se v'è un infermo fra loro, lo consolano; se scorgono uno fervente nell'amore di Dio lo esortano allo zelo del proselitismo. E poiché durante la notte oltre alle preci in comune ciascuno veglia nella propria cella, i decurioni perlustrano le celle di tutti e orecchiando sorvegliano scrupolosamente su quel che ciascuno fa. È prescritto il lavoro quotidiano. E il prodotto del lavoro, consegnato al decurione, è poi portato all'economo il quale ne dà mensilmente conto al superiore generale. Gli anacoreti son coloro che, uscendo dai cenobi con una provvista di pane e di sale, se ne vanno nel deserto, null'altro portando con sé. L'inventore di simile genere di vita, Paolo, in Egitto. Esempio magnifico, Antonio. Ma principe, per valore piú alto, Giovanni Battista».
Quando Girolamo scriveva questa lettera veramente egli non aveva mai ancora visitato l'Egitto. Egli aveva soltanto dimorato, da asceta, nel deserto di Calcide, Dio sa attraverso quali strane e poco edificanti esperienze. Ma la sua fantasia non aveva bisogno di sopraluoghi per immaginare la vita degli asceti egiziani. E quando si trattava di stilare una pagina ricca di particolari suggestivi e stimolanti la sua consumata abilità di retore poteva lanciarsi al piú libero dei voli. In questo caso egli poteva lasciarsi dominare dalle reminiscenze del De vita contemplativa di Filone e anche, in sott'ordine per lo meno nelle apparenze, ma forse in prima linea nella realtà, dal desiderio istintivo di dar credito a quel suo romanzo agiografico degno di prendere posto fra i migliori esemplari dell'aretalogia classica che è la vita di Paolo di Tebe, con la quale egli aveva dato inizio alla sua carriera di scrittore.
Anche Cassiano, meno di un cinquantennio piú tardi, riprende la triplice ripartizione degli asceti, non senza offrirci però una testimonianza preziosa sulle modificazioni che la terminologia e le consuetudini del monasticismo erano venute nel frattempo subendo. Egli, ad esempio, riprende l'uso oramai invalso di chiamare monasterium il luogo dove dimorano coloro che fanno vita comune, anziché quello in cui i solitari si raccolgono per leggere e per pregare. Cosí un termine divenuto familiare alla letteratura ascetica del IV secolo appare quello di monazontes con cui si designano i monaci che menano nel deserto vita solitaria. Vale la pena di ricordare a questo proposito come proprio il medesimo vocabolo avesse servito agli scrittori dei primi secoli per designare individui dati ad un genere di vita riprovevole, dal punto di vista della socievolezza cristiana.
Ad esempio lo scrittore della lettera di Barnaba aveva ammonito di non cercar mai di vivere isolati, quasi ci si fosse ritenuti oramai pienamente giustificati al cospetto di Dio.
Ed Erma nel suo Pastore aveva immaginato una montagna solitaria, invasa dai serpenti e da animali insidiosi disseminati lungo le sue coste di pietre. Tra queste pietre, quelle macchiate simboleggiavano i ministri delle comunità rei di avere mal amministrato il denaro comune. Quelle puntute e scabre rappresentavano coloro che avevano portato a naufragio la loro anima, astenendosi dal partecipare alla vita dei fratelli e menando vita solitaria. Ecco come, per una singolare inversione di valori spirituali, i monazontes del secondo secolo divengono i genuini rappresentanti del perfetto ideale cristiano nel quarto secolo.
Altre designazioni familiari alla letteratura dell'ascetismo organizzato nel IV secolo sono quelle di spirituali e di mondani. Ma mentre nella letteratura gnostica le categorie di persone che tali designazioni rispettivamente indicavano erano poste in una nettissima contrapposizione l'una all'altra, nella letteratura ascetica del IV e V secolo indicano semplicemente due forme di esistenza: la contemplativa e la pratica.
Evagrio Pontico sentenzia aforisticamente: «Le carni del Cristo sono le forme pratiche di vita. Il sangue è la contemplazione delle cose divine. Il petto del Signore è la conoscenza di Dio. Chi riposa su questo diviene saggio. L'individuo dedito alla contemplazione e quello dedito all'esistenza pratica si incontrarono per via e il Signore si trovò in mezzo a loro».
Del resto la terminologia ascetica nel IV e V secolo è ancora qualcosa di fluido, di variabile e di oscillante. C'è qui la prova palese della indeterminatezza e in pari tempo della vivacità delle correnti spirituali nell'ambito della società cristiana che quella terminologia doveva additare.
Concezione predominante appare ad ogni modo questa: che gli asceti siano degli esseri infinitamente superiori agli altri, tali ormai da gareggiare con le virtú e le proprietà specifiche delle schiere angeliche.
Simile pretesa doveva suscitare automaticamente una certa opposizione nella organizzazione episcopale e gli echi di tale dissidio trapelano infatti in documenti insigni della vita spirituale orientale nel IV secolo come nella storia monastica dedicata a Lauso.
Un'altra caratteristica, degna di piú attenta considerazione, della mentalità monastica, è la convinzione dell'umana capacità di vincere e di debellare il male e il programma di una vigorosa scambievole emulazione. Soggiacente per entro a tutta la letteratura ascetica del tempo circola una convinzione profonda della capacità volitiva dell'uomo, delle forze smisurate che la creatura ragionevole può spiegare nella disciplina del proprio organismo sensibile.
È soprattutto in Atanasio che traspare la esaltazione illimitata del libero arbitrio. Lo possiamo constatare cosí nella suaBiografia di Antonio come nella sua apologia. Il patriarca alessandrino scrive ad esempio: «La mitologia è un eterno inganno, ma la via della verità mira al vero Dio. Per battere questa via noi non abbiamo bisogno che di noi stessi. Per il fatto che Dio è sopra tutte le cose, non si deve pensare che la strada la quale porta a Lui, sia in Lui. Essa invece è in noi, perché il Regno di Dio è dentro di noi, e la possibilità di fare il bene è in noi stessi. All'inizio non esisteva il male, l'uomo lo suscitò dinanzi a sé conferendogli una esistenza reale. Ma il foggiatore del mondo, superiore ad ogni sostanza e ad ogni concezione umana, perfettamente buono e lucidamente risplendente, ricreò, attraverso Gesù, il genere umano e lo fece capace di contemplare Dio. Di modo che l'uomo può esultare ininterrottamente, attuando una forma di vita beata, sgombra di ostacoli. L'uomo cosí affrancato nulla ha piú in comune con le passioni ed è al di fuori dell'universo sensibile. Poiché la purezza e la santità dell'anima sono tali da renderla capace di scorgere e di affissarsi in Dio».
Il vecchio concetto stoico della impassibilità e della imperturbabilità, fatto già proprio da Origene, ricompariva nella letteratura ascetica atanasiana. La Vita di Antonio dettata da Atanasio nel 337, non è che un rivestimento leggendario di una tesi antropologica e morale ripresa dalla tradizione dell'ascetismo filosofico extra-cristiano.
L'Egitto dell'epoca costantiniana ci dà cosí nel medesimo tempo in Antonio il modello dell'anacoretismo individuale ed in Pacomio il primo rappresentante del cenobitismo cristiano.
Oltre ciò l'eroismo ascetico dell'Egitto del IV secolo ha avuto anche un suo poema. E questo poema è la cosiddetta Historia Lausiaca. Ne fu autore Palladio, nato nella Galazia verso il 364, ritiratosi ad Alessandria nel 383, vissuto vicino ad Evagrio Pontico intorno al 390, tornato poi in Anatolia dove scrisse il fantastico racconto della sua esperienza egiziana indirizzando l'opera a Lauso, l'uomo di corte di Teodosio secondo.
In questo Evagrio Pontico si era compiuta l'evoluzione ciclica dell'ascetismo orientale del IV secolo. Fino a Pacomio si può dire che avesse prevalso una concezione serena ed ottimistica della vita. Con il mistico del Ponto si entra decisamente nell'atmosfera delle concezioni pessimistiche che noi potremmo senz'altro riconoscere, tenendo conto dei piloni dottrinali su cui queste poggiano, come manichea.
Evagrio distingue una triplice forma di rinuncia. Una prima consiste nell'abbandonare gli affari del mondo. La seconda implica l'allontanamento da ogni forma di male. Infine il culmine della perfezione risiede nell'eliminare ogni sentore di ignoranza spirituale. La perfezione appare ad Evagrio come una sublimazione delle piú sottili facoltà intellettuali. Evagrio esalta e celebra la gnosi come capace di trasformare le nostre attitudini e di assicurare la perfezione allo spirito come la impassibilità assicura la perfezione alla psiche. La mistica evagriana nutre scarso interesse per la vita associata.
Ma quando Palladio ed Evagrio scrivevano, l'ascetismo organizzato non era già piú un fenomeno tipicamente egiziano. Aveva oramai sciamato fuori della sua terra di origine e, determinato da condizioni sociali comuni a tutto l'Impero, trovava modo di attecchire e di prosperare dovunque. La leggenda geronimiana fa di Malco e di Ilarione i fondatori del monachismo siro-palestinese. Non c'è da fare molto a fidanza con queste biografie monastiche che sono dei coloriti saggi di letteratura romanzesco-agiografica. Piú attendibile la testimonianza dello storico Sozomeno, il quale descrive il ramingare dei monachi girovaghi che empiono di precarietà e di disordine le campagne palestinesi.
In Anatolia l'ascetismo trovava il suo predicatore semi-manicheo in Eustazio di Sebaste e il suo disciplinatore di genio in Basilio di Cesarea.
Nato in Cappadocia, Basilio aveva studiato in Atene dove aveva avuto amico inseparabile Gregorio di Nazianzo e compagno di studio Giuliano l'Apostata. Scrittore fecondissimo, Basilio ha lasciato tra gli altri un fascio di dodici scritti relativi al monachismo. Essi si iniziano con un prologo nel quale l'autore riprende il motivo caro all'apologetica ecclesiastica di Tertulliano. Il cittadino del mondo è milite del secolo e schiavo del suo sovrano, mentre il cristiano deve essere esclusivamente il milite di Cristo che recide ogni rapporto con la famiglia, con la società, con lo Stato.
Il secondo scritto è un sermone ascetico o esortazione alla rinuncia e al perfezionamento spirituale, in cui è celebrato il principio fondamentale dell'ascesi, la dottrina cioè della rinuncia come mezzo infallibile per il raggiungimento della perfezione.
Il terzo scritto: L'ascesi o come il monaco deve educarsi espone le particolari cure che il monaco deve consacrare alla propria anima. Questo trattato raggiunse una considerevole diffusione anche in Occidente.
Seguono due sermoni intorno alla fede e intorno al giudizio di Dio. Quindi Regole morali desunte dal Nuovo Testamento. Vanno poi comunemente compresi i discorsi ascetici cui seguono al nono posto cinquantacinque Regole piú ampie e al decimo trecentotredici Regole brevi sotto forma di domande e di risposte suggerite da problemi pratici. Chiudono la serie i due trattati: Pene e costituzioni ascetiche.
San Basilio cosí affidava alle generazioni cristiane del suo tempo un corpo completo di disciplina monastica. Un vecchio frammento basiliano tratteggia eloquentemente lo spirito di tutta la disciplina ascetica del grande maestro anatolico: «Stai bene attento, o monaco, a non peccare, onde tu non provochi ad ira quel Dio che dimora con te e non lo allontani dall'anima tua. Il monaco deve menare una vita povera, trasandato nel corpo, estraneo ad ogni ricercatezza, sommesso nella voce, parco nelle parole, fra i saggi sempre ascoltatore, fra gli uguali sempre ridondante di carità, fra i minori di sé sempre ricco di consigli, lontano dagli individui malvagi, carnali, curiosi, intento a comprendere piú che a parlare. Sarà tardo al riso, sensibile al pudore, obbediente, laborioso. Sarà intento a meditare il suo destino, sarà lieto nella speranza, sarà ininterrottamente assiduo nella preghiera. Tributerà sempre grazie a Dio, mantenendosi forte nella prova, umile con tutti, rifuggendo religiosamente da ogni ostentazione di vanagloria».
La disciplina ascetica basiliana ebbe un successo strepitoso. Nella Chiesa orientale divenne il paradigma ufficiale della forma superiore della vita religiosa e i cenobi divennero il semenzaio dell'episcopato.
La sua azione si propagò anche nell'Occidente. Durante le grandi polemiche teologiche del IV e del V secolo noi possiamo immaginare che asceti migranti di Oriente pervennero in Italia, recando con sé il codice e la disciplina monacale. A parte i viaggiatori occidentali che erano andati a studiare in Egitto le forme raffinate ed austere dell'ascesi cristiana, indubbiamente propagatori dell'ascetismo basiliano si trasferirono in Italia depositandovi i germi di quella che fu la grande disciplina monastica occidentale.
Ma questa disciplina monastica doveva avere in Occidente un suo definitore sistematico chiamato ad anche piú grande successo. E questo disciplinatore prodigioso fu Benedetto di Norcia, nella prima metà del VI secolo.
È uno strano fatto che San Benedetto non sia menzionato in alcun documento contemporaneo giunto fino a noi.
Noi apprendiamo qualcosa di lui per la prima volta da San Gregorio Magno, il grande Pontefice della gente Anicia, i Dialoghi del quale sono l'opera di una personalità spiccatissima, di larga esperienza della vita e di saldo senso romano, che li ha dettati quando già era assurto alla dignità episcopale romana.
La biografia che egli ci dà del Patriarca del monachismo d'Occidente, tutta soffusa di elementi miracolosi, ci mostra come rapidamente la figura di Benedetto fosse stata avvolta in un alone di luce trascendente che è la prova piú chiara e piú inappellabile dell'enorme prestigio esercitato da questo legislatore di cenobi che allontanatosi da Roma, la città della sua formazione culturale, nei primi anni del VI secolo va a restaurare nelle gole dell'Aniene prima, a Montecassino poi, i nuclei del nuovo cenobitismo cristiano.
La Regola di San Benedetto, ha detto un grande storico dell'arte medioevale, il Viollet-le-Duc, è il piú grande ed insigne monumento di tutto il Medioevo. Se idealmente e teoreticamente il Medioevo cristiano è retto e disciplinato dalla filosofia della storia e dalla antropologia pessimistica di Sant'Agostino, dal punto di vista della disciplina religiosa e della ispirazione sacrale, il Medioevo ha i suoi piloni nei canoni della Regola benedettina.
Proprio nel medesimo torno di tempo in cui un imperatore bizantino di genio, Giustiniano, intraprendeva la grande e fortunosa campagna per la riconquista dell'Occidente e per la ricostituzione in unità del mondo mediterraneo e con il suo codice ristabiliva l'unitaria disciplina legale dell'Impero rinsaldato, Benedetto codificava la vita religiosa in una maniera altrettanto efficiente e duratura.
La Regola dettata da San Benedetto non lo è stata per un solo convento o per una sola regione. Essa rappresenta un codice la cui destinazione è universale, e che, collocato fra Dionigi il piccolo e il codice giustinianeo, rappresenta un riuscitissimo tentativo di legislazione universale di cui si colgono le ripercussioni e le ispirazioni non solamente in tutte le Regole monastiche del tempo, bensí anche nell'opera legislativa dell'imperatore di Bisanzio.
La caratteristica della Regola di San Benedetto, la sua capitale innovazione, il suo permanente contributo alla disciplina monastica è l'avere sostituito il comando al consiglio. Senza dubbio la vita monastica è un «consiglio», basato sui «consigli evangelici» o «consigli di perfezione», quali agli inizi del IV secolo erano stati scissi dalla precettistica evangelica e costituiti di fronte ad essa. Ma una volta questa vita monastica accettata, la professione diventa un obbligo ed una legge. In tal caso è ben desiderabile conoscere esattamente in che cosa consista l'obbligo e in quale ambito si eserciti la sua pressione: vale a dire, è ben desiderabile avere un codice chiaro e definitivo. Il mondo orientale col suo numero sterminato di monaci, si era contentato dell'idea generale dell'abbandono del mondo e della ricerca di Dio. E naturalmente questa idea rimane anche in Occidente alla genesi prima e al fondo della vocazione monastica. Ma San Benedetto insiste sulla «Regola», una forma cioè definita di vita che dev'essere intimamente e integralmente intesa dal novizio, assunta come un onere tassativo da lui al cospetto di Dio, e destinata ad essere scrupolosamente rispettata. Il novizio deve sapere molto bene che cosa egli si accinga a fare. Nulla piú di nuovo potrà offrirglisi dopo e l'abbate, pur con la sua sovrana e insindacabile autorità, non può, al testo della Regola, cambiare il piú esiguo iota.
La Regola e l'abbate che la applica e la amministra sono, secondo San Benedetto, ugualmente essenziali alla vita cenobitica. Essi costituiscono i tratti differenziali della nuova disciplina contrapposta al ramingare indisciplinato degli eremiti, dei sarabaiti e dei girovaghi. La definizione benedettina è data all'inizio stesso del primo capitolo della Regola: Primum genus coenobitarum, hoc est monasteriale, militans sub regula vel abbate.
Il vel vale in questo caso, come frequentissimamente nella Regola, et. Il modello della disciplina militare è qui presente. Si tratta di una definizione che trapiantata sul terreno religioso è nuova e segna un'epoca nuova.
Ma se tale definizione e piú genericamente la concezione di una Regola sovrana rappresentano una sorprendente novità, la stesura della Regola indispensabile alla teoria è ancor piú sorprendente. San Benedetto sa di comporre la Regola che è necessaria. La chiama santa, la chiama signora. Sarà adattabile a tutte le piú diverse provincie, a tutte le condizioni, a tutti i climi.
La consapevolezza di questa universale possibile efficienza della codificazione monastica che egli viene estendendo, suggerisce a San Benedetto parole di invito e di ammonimento di una solennità impressionante: «Chiunque tu sia dunque che ti affretti verso la patria celeste (quisquis ergo ad patriam caelestem festinas) accingiti ad eseguire con l'aiuto di Cristo alla perfezione questa modesta Regola dettata per principianti (hanc minimam inchoationis Regulam descriptam adiuvante Christo perfice). E tu potrai pervenire con la protezione di Dio a quelle grandi sommità della conoscenza e della virtú che abbiamo additato».
C'è in questo inciso la modesta superbia dei grandi. San Benedetto dichiara di non voler scrivere un altro libro per avviare chi si metta sotto la sua disciplina verso una piú alta perfezione. Ma nel medesimo tempo c'è nella sua dichiarazione un presupposto di autorità veramente sconfinato. Chiunque, egli dice, affretti il passo verso la realizzazione e il conseguimento della beatitudine celeste, non ha da far altro che accettare la Regola da lui proposta. C'è in essa quanto basta per raggiungere le piú alte vette.
Non trapela un senso di singolare maestà dalle parole solenni con le quali si inizia il prologo della Regola? Incipit prologus Regulae Monasteriorum. Obsculta, o fili, Verba Magistri, et inclina aurem cordis tui, et admonitionem Pii Patris libenter excipe et efficaciter comple, ut ad Eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras. Si è lungamente discusso il problema se con quelle parole Magister e Pius Pater la Regola si voglia riferire a San Benedetto o a Dio, se debbano cioè collegarsi con le altre ad Eum o a quelle mihi sermo. È da ritenersi piú probabile che si riferiscano a San Benedetto stesso, ma vien fatto di pensare che la stessa possibilità del dubbio mostra quanto nel suo testo primitivo la Regola rispecchiasse il senso di altissima autorità che San Benedetto aveva in cuore dettandola.
C'è veramente qualcosa di universale cosí dal punto di vista spaziale come dal punto di vista temporale in questa codificazione dell'ascetismo organizzato destinata a convogliare per secoli la piú alta spiritualità del mondo occidentale.
San Benedetto si rivela veramente presago di quella che sarebbe stata la sconfinata fruttificazione e l'illimitato proselitismo della sua Regola. Del resto la pronta e vastissima ripercussione della sua opera legislativa poté immediatamente essere constatata.
Noi ne cogliamo gli echi evidenti nel codice giustinianeo, il che ci induce a collocare la redazione della Regola per opera di San Benedetto nella decade fra il 520 e il 530.
Tutta pervasa da uno squisito senso giuridico e da una vasta conoscenza della letteratura patristica disciplinare, la Regola di San Benedetto tradisce la dipendenza da tutte le forme di disciplina associata preesistenti cosí nel mondo dell'ascetismo cristiano come in quello della legislazione civile.
Ma, d'altro canto, l'influsso delle prescrizioni benedettine si è fatto immediatamente sentire sulla legislazione giustinianea.
E la coincidenza ha un enorme significato storico. Nel momento in cui la vita dell'Occidente mediterraneo, sotto la pressione dei barbari calati dal Nord, sembra lacerarsi e frantumarsi in una dissoluzione politico-sociale determinata dal cozzo reciproco di gruppi etnici e di tradizioni e di consuetudini difficilmente amalgamabili, la Regola di San Benedetto costituisce uno sforzo imponente per instaurare nella vita associata elementi di scambievole coesione.
L'opera di Giustiniano, che è tratta d'istinto a ricostituire l'unità politica e morale del mondo mediterraneo scisso e sconvolto alle sue basi, viene automaticamente ad incontrarsi con la grande opera di ricostruzione unitaria compiuta da San Benedetto con la sua Regola e ne trae ispirazioni e suggerimenti.
Ci sono frammenti della legislazione giustinianea che rivelano palesemente la dipendenza della Regola benedettina. Tali ad esempio le costituzioni che concernono le elezioni abbaziali, i dormitori comuni, le gradazioni delle sanzioni punitive. Potrebbero essere, ciascuna presa per sé, coincidenze fortuite, spiegabilissime con la normalità del senso comune. Ma prese insieme tali coincidenze impongono piuttosto di pensare che la fonte delle provvidenze legislative giustinianee sia stata la Regola di San Benedetto. E allora la conclusione dello storico non può non essere questa.
Un singolarissimo movimento similare ha portato ad incontrarsi la legislazione benedettina, che il grande patriarca dei monaci compiva verso il 525, e quella dell'imperatore macedone che, attraverso piani bellici di una grandezza inconsueta e attraverso una sapienza legislativa destinata a segnare una data solennissima nello sviluppo della civiltà mediterranea, imponeva di nuovo, dopo la catastrofe del V secolo, una forma unitaria sotto il nome sacrosanto di Roma.