Si può dire che un cinquantennio di febbrile speculazione gnostica e di intransigente idealismo marcionita aveva fatalmente in qualche modo corroso ed ottuso quello che era stato il fervore originario della incandescente speranza cristiana. Il messaggio neotestamentario aveva avuto alle sue prime sorgenti il vero centro nella speranza del Regno. La rapidità del proselitismo apostolico e l'entusiasmo delle prime generazioni cristiane avevano avuto la loro ragione e il loro alimento nel calore destato dalla prospettiva dell'imminente palingenesi. Lo sforzo di tradurre in concetti cosmogonici e in teorie antropologiche la semplicità rudimentale del messaggio originario aveva ormai, a mezzo il secondo secolo, fatto passare in seconda linea il patrimonio caratteristico del cristianesimo, che era per essenza un patrimonio messianico ed escatologico.
Era naturale pertanto che prima o poi si determinasse una reazione. Era naturale che di fronte alla alterazione sostanziale che l'economia dei vari elementi della religiosità cristiana andava subendo, si levasse una riaffermazione impetuosa degli elementi embrionali dell'esperienza evangelica, che sono gli elementi «fascinosi» della escatologia, della dottrina cioè concernente gli ultimi eventi della vita umana e del mondo.
Era altrettanto naturale che una reazione di questo genere, pur raggiungendo tutte le comunità della nuova diaspora cristiana, toccasse l'intensità maggiore in quei centri, nei quali la propaganda cristiana primitiva aveva raccolto maggiori successi e dove l'ansia suscitata dalla prospettiva del prossimo trionfo nel Regno aveva divampato piú vasta ed intensa. Questi centri erano rappresentati dalle Chiese anatoliche e in particolare dalle Chiese della Frigia.
Gli itinerari della piú antica propaganda cristiana nell'Asia Minore si irradiano da tre centri principali. Sono tutti e tre di origine apostolica: Efeso e le comunità della provincia asiatica propriamente detta; le Chiese della Galazia del sud; le Chiese della Bitinia e del Ponto. In ciascuna di queste tre zone di influenza sono a loro volta riconoscibili tendenze e orientamenti eterogenei. I residui epigrafici stanno a dimostrare lucidamente come, ad esempio, nella Frigia settentrionale, siano venute vicendevolmente a contatto due correnti piuttosto contrastanti di pensiero e di disciplina religiosa. Vi sono epitaffi nei quali la professione cristiana appare dissimulata e prudentemente cautelata. Si può constatare che il grafico di questi epitaffi rivela un itinerario che sembra muovere, come da una primitiva ispirazione, da Efeso e da Laodicea. Laodicea rappresentava in Anatolia un nodo stradale importante. Vi convergevano le vie di Attaleia e di Perge, di Sardi e di Filadelfia, di Dorileo e di tutta la Frigia settentrionale. Sappiamo che era un intenso centro bancario e manifatturiero e che vi fioriva una rinomata scuola di medicina.
Gli epitaffi, invece, nei quali la professione cristiana risuona aperta e baldanzosa, sembrano riportarsi all'azione cristiana proselitistica dei centri della Bitinia o piuttosto a quella di altri centri pure essi asiatici, come Sardi e Filadelfia. È naturale pensare – e tutto l'andamento dell'organizzazione cristiana anatolica fra il tramonto del primo secolo e la metà del secondo accredita l'ipotesi – che i due indirizzi abbiano cercato di farsi concorrenza a vicenda sui medesimi sentieri di diffusione o su itinerari contigui, quali la valle del Meandro e la strada proveniente da Filadelfia.
Sta di fatto che un vivo contrasto di visuali e una netta divergenza di valutazioni etico-sociali noi possiamo molto presto rilevarli nei ricordi delle Chiese asiatiche. Già all'epoca di Domiziano l'autore dell'Apocalissi canonica aveva interpellato, in termini profondamente diversi gli uni dagli altri, la comunità di Laodicea e quella di Filadelfia. Alla comunità di Laodicea l'apocalittista, tutto pieno del sogno del millennio, aveva indirizzato un rabbuffo duro e tagliente: «Conosco bene le tue opere. So molto bene che tu non sei né freddo né caldo (il Veggente si rivolge direttamente all'Angelo della Chiesa). Magari tu fossi freddo o caldo! Invece, perché sei tiepido, vale a dire né caldo né freddo, comincerò a vomitarti fuori della mia bocca. Ecco. Tu ti vai vantando: – sono ricco, mi sono impinguato di ricchezze, non ho piú bisogno di nulla. – E non sai che sei un disgraziato, un miserabile, un pezzente, cieco e muto. Ti consiglio piuttosto una cosa: ti consiglio di acquistare da me oro, passato al crogiuolo, affinché tu ti arricchisca sul serio. Ti consiglio di acquistare indumenti candidi, per avvolgerti e nascondere le vergogne della tua nudità. Ti consiglio di acquistare collirio, con cui ungere i tuoi occhi affinché tu vegga. Non dimenticare che io bistratto e malmeno coloro che amo».
Alla Chiesa, invece, di Filadelfia lo scrittore dell'Apocalissi aveva diretto un messaggio pieno di tenerezza e ricco di prospettive lusinghiere: «Poiché mantenesti fede alla parola della mia costanza io ti premunirò dall'ora della prova, che sta per scoccare su tutta l'umana convivenza, per sottoporre a prova gli abitanti della terra. Vengo subito: tieni ben saldo quel che tu hai, affinché nessuno ti sottragga la tua corona. Farò del vincitore una colonna del tempio del mio Dio ed egli non ne uscirà piú. Inciderò su di lui il nome del mio Dio ed il nome della città del mio Dio, la nuova Gerusalemme, quella che discende dal cielo del mio Dio». Cosí il Veggente. Il contesto dell'Apocalissi è in questo punto (III, 10-12) tale da mostrare che nella valutazione dello scrittore la Cristianità di Filadelfia, per altezza di carattere e fervore cristiano, è seconda soltanto a Smirne. Pepuza, dove secondo i montanisti sarebbe dovuta discendere dal cielo la nuova Gerusalemme, non era lontana da Filadelfia, ad oriente.
Quando, fra il 110 e il 118, Ignazio di Antiochia, diretto verso il martirio a Roma, scriveva la sua lettera ai cristiani di Filadelfia, di cui aveva visitato la comunità, adoperava incisi, accenni, argomenti e raccomandazioni, che debbono essere qui ricordati. Perché tutto in quella lettera fa pensare, per quanto vagamente, ad una situazione di cose a cui il montanismo di qualche generazione piú tardi può legittimamente ricollegarsi, quale automatico sviluppo logico di cause preesistenti.
Ignazio fa, cosí, ricorso alla similitudine della cetra, che suggerirà a Montano uno dei suoi oracoli piú espressivi. Ignazio colloca la predicazione del Cristo al cuore stesso della professione evangelica, senza cui, egli diceva, i credenti rassomigliano «a quelle colonne ed a quelle pietre sepolcrali, su cui si incide unicamente il nome dei trapassati» senza alcuna specificazione delle loro qualità e delle loro convinzioni. Precisamente come avrebbero fatto piú tardi gli incisori degli epitaffi cristiani della valle del Meandro, palesemente preoccupati di dissimulare la fede dei sepolti sotto le formule delle tradizionali consuetudini funerarie.
Ignazio fa appello allo Spirito per accreditare e convalidare i suoi insistenti ammonimenti alla disciplina docile sotto l'autorità vescovile. Addita nel Vangelo, come sarà fatto piú tardi dagli avversari del montanismo per porre a tacere la nuova ispirazione profetica, il completamento definitivo della profezia e la perfezione assoluta della vita eterna.
Quell'anonimo scrittore antimontanista, che Eusebio di Cesarea ha utilizzato nel quinto libro della sua Storia Ecclesiastica, passando in rassegna i profeti dell'età neo-testamentaria e post-apostolica, e ponendone in contrasto le manifestazioni corrette con quelle disordinate dell'ispirazione catafrigia o montanistica, non manca di annoverare una Ammiade di Filadelfia, insieme alle figlie di Filippo di cui si parla negli Atti, e un tal Quadrato.
Infine, la lettera in cui la Chiesa di Smirne narra per disteso alla Chiesa di Filomelio in Frigia il martirio del venerando vescovo Policarpo, indugiandosi sull'episodio di Quinto, il frigio, che alla vista delle belve defeziona dopo avere ostentato le sue pose provocatorie, vuole probabilmente infliggere una lezione a quegli esaltati, e tali sono i montanisti, che spingevano a provocare le autorità romane senza legittima ragione. Ma in pari tempo la medesima lettera, accennando a Germanico e agli altri dieci filadelfiesi che soffrono nobilmente il martirio con Policarpo, potrebbe anche offrirci un ulteriore suffragio a favore della esistenza di una piú rigida pratica della intransigenza cristiana in quel di Filadelfia.
Del resto, quanto profonda dovesse essere nel territorio frigio anche prima e indipendentemente dal montanismo, la disparità degli atteggiamenti sociali e delle prospettive apocalittiche che contrassegnava a mezzo il secondo secolo la professione cristiana, risulta ben chiaro dal fatto che al medesimo ambiente appartengono cosí la predicazione millenaristica di Papia, come il misticismo ultraspirituale di Abercio.
Papia, lo abbiamo visto, commentando presunte parole del Signore, si compiaceva di diluire la descrizione della affascinante copia di beni che avrebbe accompagnato l'avvento del Regno messianico, inaugurato dalla apparizione del Cristo trionfante.
Abercio invece si compiace di professare in termini pieni di mistero la realizzazione presente della beatitudine cristiana, nella solidale partecipazione di tutti i gruppi credenti al medesimo insegnamento rivelato ed alla medesima cattolicità carismatica.
Egli dice nell'epitaffio preparato per la sua tomba: «Sono discepolo di un pastore santo che tiene le sue greggi al pascolo sui monti e sui piani, i cui grandi occhi guardano per tutto. Lui mi insegnò le parole fedeli della vita, lui mi mandò a Roma perché contemplassi la sovranità e conoscessi una regina dagli indumenti e dai calzari d'oro. Ivi fui in mezzo ad un popolo recante un sigillo luminoso. Dovunque ebbi confratelli. Dovunque la fede mi bandí nutrimento, un pesce di fonte, grandissimo, purissimo, pescato da una vergine immacolata».
Ma quando Abercio, piú che settantenne, si faceva preparare per la tomba questo epitaffio, cosí ricco di circonlocuzioni, quasi a ovattare e a dissimulare la propria fede cristiana, il sogno gaudioso di Papia era ormai invecchiato di piú che cinquanta anni, e la lunga sicurezza cristiana aveva ottuso nella massa credente l'entusiasmo dell'ispirazione profetica e della rivoluzionaria aspettativa del Regno.
Questo entusiasmo doveva ripullulare gagliardo nel movimento «catafrigio» o montanista. Abercio stesso era stato il destinatario di quello scritto polemico antimontanista, dal quale Eusebio ha copiosamente spigolato per suo conto.
Nei primi lustri della seconda metà del secondo secolo la predicazione profetica di Montano divampa rapidamente sui confini della Frigia e della Misia. La tradizione ecclesiastica, usa a gratificare i rappresentanti delle correnti sconfessate dalla maggioranza ortodossa con gli epiteti piú equivoci e con l'assegnazione delle provenienze piú compromettenti, definisce Montano un convertito di fresca data, un ex-sacerdote di Apollo o di Cibele. Una designazione di questo genere deve essere stata favorita o suggerita dal fatto che il connotato specifico della professione cristiana di Montano era costituito dalla sua esperienza irresistibile della ispirazione carismatica. Montano era ardentemente convinto che lo Spirito, il Paracleto preannunciatore, fosse ormai disceso definitivamente nel cuore esaltato dei suoi adepti, preparando misteriosamente le vie alla consumazione finale. Montano pertanto parlava in continuo stato di estasi, come un esaltato di Apollo o un ministro orgiastico della Magna Mater.
Egli pronunciava oracoli. Li possiamo raccogliere attraverso la polemica ecclesiastica, da Clemente Alessandrino a Epifania. Tali oracoli non contengono affatto una dottrina teologica esotica. Costituivano piuttosto una rete di minacce e di promesse, miranti a scuotere l'infingarda e rattrappita coscienza cristiana.
Il principio fondamentale del messaggio di Montano era basato sulla persuasione profonda che la religiosità in genere e la religiosità cristiana in particolare dovessero vivere unicamente e permanentemente di rivelazioni profetiche e di entusiasmo carismatico.
«Ecco – proclamava Montano – l'uomo è come una lira ed io – il profeta in istato di estasi parla in nome dello Spirito – travolto su di esso come un plettro. L'uomo dorme ed io veglio. Ecco, il Signore getta fuori dal petto i cuori degli uomini e conferisce ad essi un cuore nuovo». Tutto compreso di questa inabitazione dello Spirito nel cuore trasfigurato degli iniziati, Montano non scorgeva alcuna soluzione di continuità tra i carismi del Vecchio Testamento, i carismi del Nuovo e i carismi della società cristiana del suo tempo. Quel medesimo Dio Padre che aveva ispirato i profeti di Israele e che aveva sorretto e illuminato la predicazione del Cristo, presiedeva ora alle rivelazioni del Consolatore che il Vangelo aveva annunciato e promesso. Questo Consolatore effondeva e distribuiva ora con piú generosa ricchezza i suoi carismi, perché il trionfo del Regno si avvicinava. Nel giorno di quel trionfo, annunciava Montano, i giusti ed i pii, gli umili credenti cioè nella parusia vittoriosa del Signore, avrebbero brillato piú, degli astri del cielo.
Marcione, intento a spogliare l'esperienza cristiana da ogni elemento utilitario ed eudemonistico, aveva cercato di strappare recisamente il messaggio evangelico dalla tradizione del messianismo giudaico e quindi da tutta l'economia religiosa del Vecchio Testamento. Al polo opposto, sospinto dalle stesse esigenze della sua aspettativa apocalittica, il frigio Montano stringeva la rivelazione del Figlio e del Paracleto e la saldava ai presagi del profetismo e del Dio biblico.
Le comunità montanistiche dovevano vivere in una febbrile atmosfera di sogno, aspettando la discesa imminente della nuova Gerusalemme. Spezzavano ogni vincolo familiare, scioglievano ogni legame di rapporti sociali. Le donne vi occupavano, si può pensare, una posizione di una certa tal quale preminenza. Due di esse appaiono ben presto al fianco di Montano come veicoli prodigiosi di illuminazioni carismatiche. I loro nomi sono: Prisca e Massimilla. Anche esse come il loro maestro lanciavano oracoli mercè i quali lo spirito teneva desto l'entusiasmo dei proseliti e ispirava la pazienza nella persecuzione dura e nel dispregio circostante. Gli aforismi delle due profetesse, non diversamente da quelli di Montano, volevano essere, in forma oracolare, una celebrazione di quelle aspettative sociali e di quelle preoccupazioni morali in cui era consistito soprattutto il messaggio cristiano nell'ora della sua prima esplosione ed espansione nel mondo.
Che il montanismo sprofondasse le sue radici nel patrimonio piú vivo del cristianesimo primitivo è dimostrato dalla stessa rapidità sorprendente della sua divulgazione. Fin dal 177 i confessori di Lione, in massima parte oriundi dall'Anatolia, levavano già dal fondo della loro prigione la voce in difesa dei carismi profetici della loro terra d'origine quasi ad indicare, nella permanenza dell'ispirazione divina e nella sicurezza della palingenesi prossima, la sanzione ed il controllo della loro confessione di fede. Fu in loro nome che Ireneo si recò a Roma a visitare il vescovo Eleutero per informarlo di persona intorno alle traversie recenti delle comunità cristiane nelle Gallie e per dare contezza dei sentimenti che prevalevano nelle loro file a proposito delle discussioni vivaci e acri che la predicazione montanistica aveva suscitato in Anatolia.
Roma del resto doveva conoscere ben presto anch'essa direttamente e molto da vicino la propaganda dei credenti entusiasti dell'azione carismatica e profetica del Paracleto. Se si potesse con sicurezza ritenere per dimostrata una correlazione tra il montanismo e la pratica della celebrazione pasquale nel dí stesso in cui la celebravano gli ebrei, come parecchi indizi lascerebbero supporre, noi saremmo già autorizzati a riconoscere un corifeo della reviviscenza apocalittica a Roma in quel Blasto, che secondo la testimonianza di Eusebio si sarebbe costituito a Roma capo di un gruppo scismatico all'epoca del vescovo Vittore. Ma noi dobbiamo piuttosto in questo caso prestar credito alla testimonianza esplicita di Eusebio il quale designa come capo dei catafrigi o montanisti romani Proclo, contro cui avrebbe polemizzato Caio. Questo Caio, pur di sottrarre al montanismo i titoli della sua ispirazione profetica, non aveva esitato a negare la paternità Apostolica dell'Apocalissi e del quarto Vangelo. In cambio Caio preferiva riportarsi alle tradizioni degli Apostoli Pietro e Paolo di cui, egli ci dice, Roma conservava i trofei.
Appare cosí rapidamente disseminato ed efficiente l'insegnamento profetico montanista.
Le comunità cristiane che la propaganda del primo secolo cadente aveva vittoriosamente disseminate lungo tutte le sponde del bacino del Mediterraneo, appaiono pertanto nella prima metà del secondo secolo travagliate da un duplice processo di elaborazione, che assume a volte l'aspetto di una profonda e minacciosa crisi. Da una parte noi cogliamo il bisogno di inserire e di inquadrare la sostanza della rivelazione neo-testamentaria nel flusso e nella traiettoria di sviluppo della cultura classica. Un programma di questo genere assume varie forme concrete, piú o meno pronunciate e piú o meno radicali. Noi passiamo dal tentativo gnostico di circoscrivere il fatto della salvezza nel Cristo, in un vastissimo processo di reintegrazione cosmica, che si riannoda alla prima caduta iniziale di Sofia nel mondo pleromatico; al tentativo armonistico degli apologisti, che si riduce unicamente alla ricerca di linee di comunicazione tra la sostanza del messaggio cristiano e le forme classiche della speculazione ellenistico-romana.
Un programma sincretistico di questo genere si identifica con uno sforzo concettuale per portare a maturità e alla integrale esplicazione i presupposti conoscitivi e metafisici che si potrebbe dire siano contenuti in embrione e sublimati dalla esperienza mistica in ogni predicazione religiosa.
Ma ogni sforzo tendente all'elaborazione concettuale di un messaggio specificamente religioso, va automaticamente a detrimento del contenuto mistico ed extradialettico del medesimo messaggio.
La religiosità storica si potrebbe dire che appunto vive del contrasto immanente fra gli elementi «numinosi» e gli elementi concettuali. Quando gli elementi concettuali tendono a manomettere la validità di quelli «numinosi», la reazione degli elementi «numinosi» è immancabile. Il montanismo fu precisamente, nelle comunità dell'Asia e nelle loro propaggini nel mondo occidentale, la rivincita del messianesimo evangelico di fronte all'insidia delle incipienti speculazioni teologali.
E, come sempre nella storia della religiosità collettiva, il cammino ulteriore dell'esperienza cristiana fu segnato da una risultante, in cui vennero in qualche modo a confluire le esigenze del misticismo profetico e quelle della cultura razionale. È proprio nel massimo fervore delle polemiche ecclesiastiche, fra il tramonto del secondo secolo e gli inizi del terzo, che si delineano all'orizzonte della vita ecclesiastica le prime sintesi scolastiche e le prime sistemazioni teologiche.
Le une e le altre sono strettamente associate alle polemiche cosiddette antiereticali. L'ortodossia ufficiale nasce attraverso questi primi saggi di sistemazione teologica come correttivo e in pari tempo come assimilazione di quelle tendenze marginali estreme, che costituiscono altrettanti servizi di avanscoperta, compiuti dai pensatori piú ardimentosi, sui margini della società ecclesiastica, verso i domini confinanti della cultura profana e delle esperienze religiose parallele.
Il vescovo Ireneo di Lione, che già abbiamo ricordato a proposito dell'intervento delle Chiese galliche in favore della nuova predicazione carismatica in Anatolia, scrive la sua grande opera Contro la falsa gnosi precisamente per tutelare la conservazione e la trasmissione del messaggio apocalittico in una società dove la speculazione gnostica tende a trapiantarlo sul terreno della pura speculazione cosmogonica e metafisica.
La grande opera, in cinque libri, non è stata tutta dettata di séguito. I primi tre libri appaiono dettati durante la seconda metà del pontificato di Papa Eleutero, sotto l'impero di Commodo. Gli ultimi due invece appaiono redatti sotto il pontificato di Vittore, al tramonto del secolo.
Suggerita da esigenze di ministero religioso e di polemica confessionale locale, l'opera si inizia con una confutazione in regola dei principali sistemi gnostici. Uno ve n'ha che richiama e sollecita in particolare lo zelo combattivo, leggermente amaro e malevolo, del vescovo lionese: è il sistema del Valentiniano Marco, che ha raccolto, tra i ricchi ceti di Lione e del contado, comunità alle quali egli offre una liturgia complessa e mistagogica, che racchiude già i lineamenti di quella che sarà, sapientemente addomesticata, la liturgia sacramentale della Chiesa ufficiale. Dopo di che Ireneo affronta i problemi che hanno piú vivamente ispirato la speculazione gnostica: i problemi cosmogonici. Imbevuto di idee bibliche che predominano nettamente in lui sopra qualsiasi altra attitudine mitico-platonica, Ireneo ripudia energicamente quella concezione gnostica della formazione del mondo, che in fondo era ancora dell'emanazionismo platonico, con una leggera patina cristiana. La conoscenza della Bibbia è il forte di Ireneo. Egli si dilunga nell'accumulare le prove bibliche della creazione del mondo dal nulla per opera del medesimo Dio che ha guidato le sorti spirituali d'Israele ed ha preparato il meriggio della rivelazione cristiana. Un libro intiero della grande opera è precisamente consacrato da Ireneo alla dimostrazione dell'unità sostanziale dei due Testamenti, e ad epilogo della sua opera, quasi a mostrare le preoccupazioni che stanno alla radice stessa della sua esperienza e della sua fede, Ireneo, sulla scorta dell'insegnamento dei maestri asiatici, ribadisce la fede nel prossimo avvento del Regno millenario, nella risurrezione finale della carne e nella reintegrazione di tutte le cose.
L'intento polemico predomina in maniera appariscente nella grande opera irenaica. Questi primi maestri della teologia cristiana, tutti assillati dal proposito di rintuzzare le armi di una propaganda insidiosa, che tende piu o meno consapevolmente a portare l'esperienza cristiana fuori dal sentiero dei carismi tradizionali, per trasferirla su quello della pura speculazione teologale, non hanno né la voglia, né la possibilità di redigere manuali sistematici di formule teologiche. È vero che Ireneo, oltre alla sua grande confutazione della falsa gnosi, ha dettato una Esposizione della predicazione apostolica, che può apparire essenzialmente un manuale catechetico. In realtà anche qui le preoccupazioni edificative prevalgono su ogni intento espositivo. Le idee teologiche di Ireneo appaiono ancora in quello stato embrionale di formazione, in cui è tutta la scienza cristiana del secondo secolo.
La dottrina trinitaria è ancora vaga e indistinta: non sono ancora chiaramente definiti i rapporti tra il Padre e le altre persone della Trinità. Meglio sistemate appaiono le concezioni antropologiche e soteriologiche. In armonia con tutta la tradizione antecedente, Ireneo ammette che l'uomo sia uscito perfetto dalle mani del Creatore e perfetto non già come puro Spirito, ma quale è ora, composto armonico di anima e di corpo. Né il corpo per se stesso costituisce tutto l'uomo, né l'anima per se stessa è l'uomo. Adamo fu tratto dalla terra e la terra era ancora vergine. Sviluppando un parallelismo che già era balenato alla fantasia di San Paolo, come argomento comprovante la consumazione del tempo e della vita nell'opera reintegratrice e messianica di Cristo, Ireneo stabilisce un rapporto fra l'Adamo uscito dalla terra vergine, non ancora cioè irrorata dalla pioggia o lacerata dall'aratro umano e il Cristo emerso da una creatura femminile, non ancora fecondata da uomo. Il peccato di Adamo, secondo il racconto biblico che Ireneo contrappone alle speculazioni mitografiche degli gnostici sulla caduta di Sofia nel mondo pleromatico del Padre sconosciuto, ha rotto l'equilibrio armonico posto da Dio creando l'uomo e ha portato in esso lo scompiglio e il disordine. La bontà originaria della natura umana ha pertanto subìto un offuscamento grave, se non irreparabile.
La speculazione fantasiosa degli gnostici immaginava, sotto l'azione di inconsapevoli reminiscenze platonico-orientali, che tutto il mondo delle creature pleromatiche innalzasse a un certo punto la sua tacita invocazione al Padre, per il riscatto di Sofia, caduta miseramente nel fango della materia. Ireneo parla piuttosto dell'invocazione che l'uomo innalza dal fondo della sua miseria al Padre, perché lo redima dall'abbiezione del suo corrompimento, e Dio lo esaudisce inviando, in mezzo all'umanità, in forma di uomo, il suo Figlio unigenito.
È il grande mistero della redenzione, centro di tutta la fede cristiana. Nella enucleazione di questo mistero Ireneo è veramente maestro. Si può dire che la soteriologia patristica, come soluzione del problema del male e del riscatto delle anime dal servaggio in cui Satana le ha prese dopo la colpa adamitica, comincia con lui.
Per Ireneo la redenzione è precisamente innanzi tutto il riscatto dalla colpa di Adamo. Il Cristo crocifisso è il prezzo che in forma graficamente esatta Dio deve aver pagato a Satana per la manomissione dell'umanità, fatta schiava. La redenzione è cosí un ponte gettato tra la divinità e l'umanità, colmante l'abisso che è stato spalancato dalla disobbedienza del primo genitore. Valicando questo ponte, noi riacquistiamo l'incorruttibilità perduta e diveniamo capaci dell'adozione di Dio.
La salvezza pertanto non è per Ireneo, come per la gnosi, un puro processo di chiarificazione intellettuale, che dischiude alle nostre menti, finora obnubilate, la visione dei misteri del mondo trascendente: è veramente, secondo la concezione biblico-profetico-paolina, una trasumanazione ed una nostra inserzione di convertiti in un mondo completamente superiore di realtà trascendenti e di comunicazioni della grazia.
Questo non vuol dire che anche Ireneo non parli di illuminazione dell'umanità, in virtú dell'opera salutifera del Cristo. Ma questa illuminazione consiste tutta in una infusione nel cuore degli uomini della consapevolezza della loro origine divina e del loro destino superiore verso quel Regno finale di giustizia e di pace, che il Creatore ha concepito ed apprestato per loro.
Naturalmente in una visione soteriologica cosí concreta e cosí nettamente avvertita della duplice complessità del mistero cosmico finito e insieme infinito, non manca l'affermazione della duplice figura del Cristo uomo e Dio, sofferente per noi per riconciliarci al Padre.
Di fronte al platonismo mistico della gnosi, che circoscriveva la beatitudine umana nel possesso di cognizioni astratte e disdegnava la materia sensibile come il repellente sarcofago dello spirito, Ireneo tesse, con parole ardenti, la apologia della natura umana, qual è, composta di materia sensibile e di realtà spirituale. A questa natura integra, trasfigurata dal battesimo, è riservato un Regno che non mancherà di gioie sensibili. Ireneo, l'abbiamo visto, è testimone energico del millenarismo ormai già declinante.
«Sono ben vani», egli dice, «coloro che disprezzano la creazione cosmica e negano alla carne la capacità di divenire incorruttibile. Se la carne nostra non può salvarsi, vuol dire che neppure il Signore compí la nostra redenzione col suo sangue, né il calice eucaristico è una comunione di questo: perché il sangue scaturisce dalle vene e circola nel corpo materiale». È proprio la realtà del corpo del Signore che è pegno e caparra della nostra risurrezione. Paolino e giovanneo nel medesimo tempo, Ireneo osserva che «allo stesso modo in cui il grano di frumento oscuramente corrotto sotto la zolla risorge moltiplicato per la virtú dello spirito divino che tutto alimenta, anche i nostri corpi risorgeranno dopo la loro dissoluzione». Ireneo ammonisce pertanto a non condannare in blocco le capacità originarie e primordiali della materia, ricordando come le parole consolanti dell'Apostolo per eccellenza – «Non siete nella carne ma nello Spirito» – fossero rivolte agli uomini in carne ed ossa e possedessero perciò un significato riposto e offrono quindi la loro autorevole sanzione alla fiducia che tutti dobbiamo nutrire nelle nostre capacità di raggiungere e percorrere, cosí quali siamo, le vie della perfetta giustizia. Ispirandosi all'antropologia paolina, Ireneo discopre nell'uomo completo tre elementi: la carne, l'anima, lo spirito. Il primo, l'elemento bisognoso di individuazione. Lo spirito, elemento individuante ed elevante. L'anima, mezzo di unione e di comunicazione fra i due.
Chi mantenga integra la fiamma dello spirito avrà innanzi a sé dischiuse le porte del Regno di Dio, l'avvento del quale vedrà il supremo sforzo compiuto da Satana, per mezzo dell'Anticristo, per mantenere il dominio sull'uomo.
L'estremo dominio tirannico di Satana durerà, secondo la profezia di Daniele, tre anni e mezzo, dopo di che si svolgerà il giudizio sull'umanità e sarà inaugurato il Regno della beatitudine millenaria. Riecheggiando tutti i motivi dell'apocalittismo eudemonistico, Ireneo ne fa una pittura idilliaca. È probabilmente l'ultimo eroico sognatore della speranza millenaria. Il millenarismo gli sopravviverà ancora in Oriente con Metodio, in Occidente con Commodiano, con Lattanzio, con Vittorino. Ma ormai, e Ireneo stesso ce lo dimostra, la speranza millenaria non può piú fare appello soltanto, come aveva fatto in Papia, a presunte parole del Signore: ha accettato di scendere, per combattere ad armi uguali, sul terreno della tendenza rivale, la gnosi, il terreno cioè della speculazione metafisica. Come già nel quarto secolo avanti Cristo la mistica asiatica e l'illuminismo greco si erano trovati a conflitto nella filosofia di Platone, ora il profetismo biblico e l'illuminismo ellenistico si trovano a conflitto sul terreno dell'esperienza cristiana. È il millenario conflitto spirituale della civiltà mediterranea e le sorti ne oscillano ancora tra le due posizioni antitetiche. Ma quel che preme di rilevare, non solamente come constatazione storica, ma come monito normativo, è il fatto che la teologia sorge ed è in certo modo diretta dalla preoccupazione di quelle realtà trascendenti, il cui acquisto e il cui possesso sono piú che conclusioni dialettiche, elargizioni della grazia.
Noi lo vediamo molto bene in quegli che nel mondo occidentale possiamo porre di fianco a Ireneo, come fra i grandi precursori delle sistemazioni teologiche ortodosse: Tertulliano. Anch'egli è millenarista. Anch'egli sente che la rinascita profetica, rappresentata dal montanismo, ha una sua funzione provvidenziale nello sviluppo della società cristiana. E anch'egli, come Ireneo, avverte la necessità di seguire sul loro terreno della speculazione teologale gli avversari della nuova profezia e a sua volta per difendere la profezia crea anch'egli una teologia prammatistica.
L'opera classica in argomento di Tertulliano è l'Anversa Praxean. Ora, questo trattato teologico è tale solo nella misura in cui è una apologia escatologica. Patrocina la concezione prammatistica (Ippolito romano parlerà di una «economia» della vita Divina) del Divino, perché deve e vuole patrocinare la vitalità inesausta del ministero profetico e la giustizia invulnerabile della speranza millenaristica.
Ormai, quando Tertulliano scrive l'Adversus Praxean, egli è in rotta aperta e insanabile con la massa ufficiale della comunità. Egli ne designa i membri con un nomignolo che è una reminiscenza paolina, trasformata in designazione dispregiativa. Sono degli psichici, incapaci di cogliere e di avvertire una qualsiasi delle realtà spirituali. La campagna che l'apologista conduceva ormai da un trentennio per premunire i suoi compagni di fede dall'infiacchimento morale e da quella che ne è molto spesso la complice inconsapevole, la raffinatezza cioè concettuale, si era rivelata scarsa di risultati. Quando piú c'era bisogno di tendere religiosamente l'orecchio ai messaggi dello Spirito, la comunità cristiana si irrigidiva nelle definizioni della sua teologia astratta e negli accomodamenti del suo lassismo pratico. E proprio quella comunità romana che il destino e la storia chiamavano ad assidersi arbitra fra le correnti in contrasto, quella comunità romana sulla quale i cristiani dell'Africa romanizzata avrebbero potuto e dovuto direttamente e indirettamente esercitare piú sensibile azione, si faceva complice e istigatrice di rinuncie e di contaminazioni.
Come di consueto, Tertulliano affronta l'argomento con la piú vivace efficacia stilistica. La sua aspra rampogna contro Prassea e i suoi complici romani va ad investire tutto un orientamento della comunità cristiana, pencolante verso un rinnegamento di quel che doveva essere il dato centrale del messaggio cristiano: l'annuncio profetico del Regno di Dio. «In molteplici modi il Demonio assolve la sua consegna di insidiatore incorreggibile della verità. È anche capace a volte di atteggiarsi a difensore della verità, nel momento stesso in cui si accinge a scalzarla. Eccolo qua, ad esempio. Rivendica l'unicità di Dio creatore onnipotente del mondo, per fare anche dell'unità di Dio una eresia. Che cosa dice egli adesso? Dice che il Padre stesso e non altri è disceso in una vergine, ne è nato, ha patito. Dice in altre parole che il Padre è una cosa sola con Gesù Cristo. Si è dimenticato, il maligno serpente, che quando si presentò a Gesù Cristo dopo che Gesù ebbe ricevuto il battesimo da Giovanni, per tentarlo, lo affrontò in qualità di Figlio di Dio, ritenendolo tale in base alle Scritture, dalle quali allora esso non si peritò di ricavare gli elementi acconci alla sua opera di tentatore. Ma può darsi che l'astuto imputi piuttosto di mendacio i Vangeli ribattendo: – Se la vedano a loro modo Matteo e Luca. Io so benissimo che per mio conto mi presentai a Dio in persona, e impegnai il mio duello proprio con l'Onnipotente. Per questo mi appressai e per questo formulai la mia captivante tentazione. Se si fosse trattato del Figlio di Dio non mi sarei neppur degnato di muovermi. – Ma la ritorsione di Satana è vana. Oh, noi sappiamo molto bene che il demonio è funzionalmente menzognero dalle origini, e che è abituato a subornare gli uomini. L'ultima sua vittima è Prassea. Costui è il primo che abbia trasportato dall'Asia su suolo romano questo genere di corrompimento dottrinale. Si tratta di un individuo irrequieto, e gonfiato dal vanto abusivo del martirio. Diciamo abusivo, perché si tratta di un martirio ridottosi al breve e semplice fastidio del carcere, mentre, qualora pure costui avesse dato il suo corpo alle fiamme, a nulla gli avrebbe giovato, non possedendo l'amore di Dio, di quel Dio di cui ha impugnato i carismi. Costui dunque costrinse, insinuando calunnie sul conto dei profeti e accampando la presunta autorità di vescovi a lui anteriori, il vescovo di Roma, che già aveva riconosciuto le profezie di Montano, di Prisca e di Massimilla, garantendo cosí la pace alle Chiese dell'Asia e della Frigia, a revocare le già divulgate lettere di pace, e a recedere dalla accettazione dei carismi. Son dunque due le opere diaboliche che Prassea perpetrò a Roma: vale a dire espulse la profezia e introdusse l'eresia, cacciò il Paracleto e crocifisse il Padre. Anche quaggiú in Africa i zizania di Prassea avevano posto radici, seminati come erano stati di soppiatto in mezzo al buon grano mentre molti e molti se la dormivano della grossa nella loro buona fede. Quei zizania hanno sparso il loro germe per tutto. Non importa. Essi saranno ancora una volta sradicati, se il Signore vorrà, in questo frattempo. Se non ci si riuscirà subito, pazienza. Nel giorno fissato, tutta la vegetazione parassitaria sarà raccolta in un fascio e con tutta l'erbaccia degli scandali sarà divorata da un fuoco inestinguibile».
Questo semplice proemio tertullianeo è di una significazione inoppugnabile per chi voglia cogliere sul vivo il collegamento fra movimenti profetici e formulazioni teologiche. Tertulliano ci dà la prova palmare dell'abbinamento fra l'errore trinitario, che annullava la distinzione delle persone a favore della visione unitaria modalistica e patripassiana di Dio, e la propaganda anticarismatica. All'abbinamento che Tertulliano giudica ereticale fra il modalismo di Prassea e la propaganda anticarismatica, l'apologista contrappone la teologia economica e la rivendicazione profetica. Solo tenendo presente questo abbinamento, comune, per quanto su orientamenti antitetici, alle due parti in conflitto, si comprende il valore della polemica e se ne valuta la portata nello sviluppo dottrinale ecclesiastico del terzo secolo incipiente.
E allora si verifica in seno alla comunità cristiana quella situazione paradossale che noi vedremo rinascere molto di frequente nello sviluppo del cristianesimo storico.
Tertulliano, patrocinatore della costante permanenza del carisma profetico nella Chiesa, è allontanato dalla comunità ortodossa ed è rinnegato e posto all'ostracismo dalle autorità che si son venute costituendo in grembo ad essa. Ma d'altro canto la teologia che il formidabile apologista verrà elaborando a rincalzo delle sue convinzioni spiritualistico-carismatiche, sarà adottata dalla comunità nel suo complesso, e diventerà la teologia normativa della Chiesa. La Chiesa cessa di essere Chiesa se non vive essenzialmente di carismi. Ma i carismi sono, si direbbe, funzionalmente incompatibili con la disciplina gerarchica e allora l'ortodossia, per salvarsi dalla corrosione dell'entusiasmo profetico e per premunirsi dal sovvertimento che esso porta per definizione, fa propria la teologia escogitata dai carismatici, e se ne fa baluardo contro di loro, svuotandola del suo contenuto sovvertitore.
Al suo preambolo polemico Tertulliano fa seguire la sua professione di fede. «Noi abbiamo creduto sempre e crediamo ora piú che mai, dal momento cioè in cui abbiamo ricevuto piú copiose istruzioni dal Paracleto, che è per definizione il trasmettitore di tutta la verità, in un solo Dio. Noi però abbiamo creduto in un solo Dio, in un regime tale, da noi detto economia, per cui l'unico Dio ha un Figlio, che è la sua parola, da lui procedente, per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza il quale nulla si sarebbe potuto fare. Noi crediamo questo Figlio mandato dal Padre in una vergine, nato da essa, uomo insieme e Dio, figlio dell'uomo e figlio di Dio, denominato Gesù Cristo. Crediamo che egli ha patito, che è morto, ed è stato sepolto a norma delle Scritture. Che è stato fatto risorgere dal Padre ed è stato riassunto in Cielo. Là siede alla destra del Padre, destinato a tornare per giudicare i vivi ed i morti. E di là, dal grembo del Padre, crediamo che, secondo la promessa, si sia spiccato lo Spirito Santo, conforto e santificazione nella fede per quanti credono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. La tarda posteriorità di tutti gli eretici, la stessa novità di Prassea che è di ieri, stanno a dimostrare come questa sia la norma di fede emanante dagli inizi del Vangelo, prima che sorgessero le piú antiche eresie, prima che Prassea iniziasse testè la sua propaganda. E noi sappiamo già molto bene in linea pregiudiziale che la verità è nella priorità e che la menzogna e la contraffazione sono invece nella posteriorità. Noi non vogliamo dire con ciò che non si debba discutere a vantaggio e a presidio di molti, affinché non si dia l'impressione di condannare senza esame, specialmente se l'errore che si ha dinanzi pretende di possedere intiera la verità, come questo errore di Prassea che professa un unico Dio, in modo da affermare l'identità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, quasi che Dio non sia unico nel mentre è tutto. Che cioè da uno è tutto, in virtú dell'unità di sostanza. Purché però si salvi il mistero dell'economia che disciplina l'unità nella trinità reggendo i tre, Padre, Figlio e Spirito – tre non per condizione, bensí per graduatoria, non nella sostanza, ma nella forma; non nella potestà, ma nell'apparenza – che sono di una sola sostanza, di una condizione, di una potestà. Poiché uno è Dio da cui discendono questi gradi, queste forme, queste apparenze e sono individuate con i nomi di Padre, di Figlio e di Spirito Santo».
Siamo ancora lontani da quella precisione di termini che sarà raggiunta nella formulazione del dogma trinitario al tramonto del IV secolo quando, attraverso le elucubrazioni teologiche dei Padri cappadoci, si riuscirà a introdurre una distinzione appropriata fra due termini, ipostasi e usia, che esponevano ancora per la loro possibile confusione i difensori dell'omoousios niceno, come Marcello di Ancira, alla taccia di modalismo sabelliano. Ma ad ogni modo noi vediamo già delinearsi nella polemica antiprasseana di Tertulliano una formulazione del dogma trinitario, alimentata dalla fede montanistica dell'apologista, alla quale alcuni termini giuridici se non antropologici e metafisici dànno una certa precisione di concetti. Tertulliano non dimentica di essere un avvocato e il vocabolo persona che il giure gli ha insegnato ad adoperare per additare la figura dei personaggi contendenti in una controversia giuridica, gli si offre spontaneo per designare la mansione successiva delle tre manifestazioni di Dio nella storia: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo: il Padre creatore dell'universo, il Figlio salvatore, lo Spirito Santo consolatore e trionfatore nel veniente Regno.
La professione di fede del polemista africano tradisce dunque a ben chiare note le preoccupazioni soggiacenti che ne hanno, si direbbe quasi per una ispirazione subcosciente, suggerita la trascrizione ideologica. Caposaldo della dottrina trinitaria di Tertulliano è il postulato che l'amministrazione, vale a dire la molteplicità delle mansioni nello spiegamento progressivo del divino nel mondo, non vulnera in alcuna maniera la nozione monarchica di Dio. Dogma inconcusso pertanto l'unità di Dio. Ma questa unità di Dio non si esaurisce e non si appaga nella concezione puntuale di una essenza infinita, remota da ogni rapporto e da ogni interferenza sensibile col mondo dell'esperienza umana. È una unità che si rifrange invece in molteplici ipostasi, in corrispondenza ai variabili cicli nel processo storico dell'umanità. D'altro canto, millenarista convinto, Tertulliano ha dinanzi ai suoi occhi una amministrazione divina ben definita e esaurientemente ripartita. Il piano dell'azione divina è tutto conchiuso nella raffigurazione trinitaria. E la trinità non è una negazione dell'unità. Nata da essa e in essa, ne rappresenta piuttosto una schematizzazione sulla base delle funzioni. Tertulliano trova che come il servizio delle milizie angeliche nulla detrae alla monarchia divina, cosí questa monarchia divina rimane inalterata, pure attraverso il suo rifrangersi nel Figlio e nello Spirito. Nel Padre è l'unità della sostanza, l'uniformità del volere, la riserva della potestà. Ma le manifestazioni del Divino nella storia, dalla creazione alla consumazione, hanno bisogno di tre figure, a ciascuna delle quali corrisponde un momento tipico della evoluzione spirituale della vita associata, in vista del provvidenziale reggimento del mondo e della storia: da Dio Padre pullula il Figlio, come dalla radice erompe il tronco, dalla polla la corrente, dal nucleo solare il raggio. E a propria volta dal Padre mediante il Figlio pullula lo Spirito, come il frutto matura sul ramo, il rivo si propaga dalla corrente, il calore e la luce si acuiscono sugli orli del raggio solare. Cosí, senza darlo apertamente a divedere, quasi anzi dissimulando le piú assillanti preoccupazioni della sua speranza sotto la parvenza delle sue ardite speculazioni teologiche, Tertulliano introduce nella concezione del divino la sua filosofia religiosa della storia e la sua aspettativa millenaristica. La teologia trinitaria nasceva dalla esperienza e dall'aspettativa apocalittiche. Fenomeno strano: ci volle un eretico montanista per dare alla Chiesa latina la formula del suo dogma trinitario!
Nella Chiesa d'Oriente, piú profondamente dissodata e travagliata dalla crisi gnostica, i primi saggi di speculazione teologale assumevano frattanto un diverso colorito ed una piú complessa fisionomia.
Lo si capisce. Di questa Chiesa d'Oriente, Alessandria è, ad un secolo e mezzo di distanza dalla battaglia d'Azio, la metropoli pulsante ed evoluta. La cultura giudeo-ellenistica, la pietà platonico-ebraica, vi hanno trovato una sede rigogliosa. Noi non sappiamo di preciso quando il cristianesimo vi sia giunto, sebbene indizi recenti piuttosto problematici quali l'editto di Claudio agli Alessandrini abbiano fatto supporre un arrivo cristiano straordinariamente sollecito. I rinvenimenti papiracei, ad ogni modo, portano la documentazione di una penetrazione cristiana in Egitto che può risalire benissimo al declinare del primo secolo. In questo ambiente di cultura raffinata, dove lo stesso ebraismo – e Filone ce ne è un testimone cospicuo – aveva straordinariamente attenuato il suo carattere profetico-messianico, per dar luogo alla piú vasta e profonda assimilazione culturale possibile, mercè l'interpretazione platonica della cosmogonia biblica, il cristianesimo non poteva insistere sui suoi caratteri apocalittici, come avrebbe fatto il cristianesimo frigio e di rimbalzo il cristianesimo lionese e africano, ma avrebbe cercato anch'esso, sulla scorta della filosofia filoniana, di gravitare verso una raffigurazione metafisica-cosmica del messaggio evangelico.
Sta di fatto che il cristianesimo alessandrino ci si presenta per la prima volta attraverso la propaganda gnostica a Roma. Sono infatti alessandrini i primi grandi maestri della gnosi che vengono a fare propaganda a Roma del loro sincretismo ammodernato.
E ad Alessandria stessa la prima apparizione della Cristianità alla luce della storia è l'apparizione della scuola catechetica, con a capo Panteno e dopo di lui Clemente.
Panteno è una figura semi-leggendaria, intorno al cui insegnamento e alla cui produzione è impossibile dire qualcosa che non sia ipotesi arrischiata e avventurosa. Con Clemente alessandrino, invece, noi ci troviamo dinanzi un maestro operoso, l'insegnamento del quale è stato veramente decisivo nello sviluppo del pensiero ecclesiastico al tramonto del II secolo. Doveva essere giunto ad Alessandria verso il 180. La sua formazione intellettuale era tutta di natura filosofica e puramente ellenica. La filosofia illuministica era allora in auge. Dopo una momentanea bufera persecutrice all'epoca di Domiziano la filosofia aveva ornato la corte di Traiano e aveva ispirato la politica degli Antonini. Con Marco Aurelio era addirittura salita sul trono imperiale e per tutto l'Impero era stato un rifiorire di studi e un dilagare dei piú vari movimenti culturali.
Sbarcando ad Alessandria, Clemente vi trovava già un didascaleion bene organizzato, sotto la guida di Panteno. Non sappiamo in quale momento Clemente passasse al cristianesimo e quali fossero i motivi cogenti della sua conversione. Tutto induce a pensare che nel colto ambiente cristiano alessandrino egli, come l'apologista Giustino, possa aver veduto nella professione cristiana lo sbocco logico, automatico si direbbe, del vario peregrinare nel mondo oscillante e vago delle scuole filosofiche. E una volta entrato nell'àmbito della società cristiana e assunta la direzione della scuola catechetica, Clemente pone mano ad un programma grandioso, che è quello di educare la cultura ellenistico-platonica al riconoscimento della bontà e verità assolute della professione cristiana.
Ci è stata conservata una grande parte dei suoi scritti. Tra questi occupa il primo posto una grande opera apologetica, divisa in tre parti. La prima di queste è una Esortazione ai greci, sul tipo delle correnti esortazioni filosofiche. La seconda ha per titolo: Il pedagogo. La terza col titolo, caro alle scuole di retorica, Tappeti, è una vastissima scorribanda in tutto lo sterminato campo della filosofia ellenica, per ricavarne dati e spunti in favore dell'insegnamento evangelico. Il piano generale dell'opera è dato in un passo fondamentale del Pedagogo: «Tre elementi si fondono nell'uomo: i costumi, le azioni e gli affetti. Di essi al Protreptico (esortatore) spettano i costumi, perché il Protreptico conduce alla pietà. Tutte le azioni invece cadono sotto la vigile tutela della parola che dà i precetti, mentre le passioni sono guarite dalla parola che convince. Di modo che la guida celeste, il Logos, si chiama protreptico quando esorta gli uomini alla salvezza. Ma quando compie l'opera di precettore e di medico, esortando all'ubbidienza colui che ha convertito, con la promessa della guarigione dalle passioni, è giusto che sia da noi chiamato col nome di pedagogo. Ma il pedagogo si occupa dell'azione e non della scienza, perché suo scopo è quello di rendere l'anima migliore e non già quello di istruire. Come dunque coloro il cui corpo è malato hanno bisogno del medico, cosí noi che abbiamo l'anima debole, abbiamo innanzi tutto bisogno di fare ricorso al pedagogo, affinché ci guarisca dalle nostre passioni. Solo allora possiamo rivolgerci al Maestro affinché apra l'anima nostra, divenuta pura, alla rivelazione. Per cui il Logos, il quale è veramente amico degli uomini, segue questo metodo eccellente: converte prima, educa poi, infine istruisce».
Il programma generale pertanto di Clemente era quello di esporre in una trilogia la provvidenziale azione spiegata dal Logos in grembo all'umanità.
La prima parte della trilogia, il Protreptico, corrisponde abbastanza adeguatamente allo scopo prefissosi. Essa segue a un dipresso lo schema comune alle precedenti apologie. Ma tutte le supera e per la rigida organicità della esposizione e per la eccellenza dei pregi letterari. Valendosi della propria personale conoscenza del mondo greco in tutte le sue multiformi manifestazioni, dai culti misterici alle speculazioni delle scuole filosofiche, Clemente può fare uno sfoggio di erudizione neppur tentato dai precedenti apologisti per assicurare la superiorità della rivelazione cristiana..
Il Pedagogo, secondo il piano esposto, avrebbe dovuto costituire un trattato di morale. Ma di fatto, bene spesso Clemente, molto piú che indugiarsi sui principî fondamentali e originali della morale cristiana, scende a discutere modesti particolari di vita pratica, quali ad esempio l'ammobigliamento della casa o la tecnica del vestire, come avrebbe potuto fare un qualsiasi maestro stoico o platonico fornito di sensibilità e di buon gusto. Anche gli Stromati sembrano rispondere in maniera piuttosto inadeguata al piano che Clemente si era prefisso e che aveva schematicamente formulato. L'opera voluminosa, in non meno di sette libri, sovraccarica di citazioni e di riferimenti a filosofi greci delle opere dei quali si è perduta completamente la traccia, invece di esporre in forma didascalica e sistematica le dottrine cristiane, discute in modo disordinato e attraverso digressioni prolisse i rapporti tra la gnosi e la fede e tenta di disegnare il profilo ideale del perfetto cristiano.
Noi conserviamo anche altre opere di Clemente: una serie di estratti da Teodoto, una raccolta di egloghe profetiche, un trattatello su quale sia il ricco che si salva (scritto che la dice molto lunga sul rango sociale a cui dovevano appartenere i cristiani del didascaleion alessandrino) e una serie di frammenti esegetici intitolata Schizzi, che doveva commentare i piú difficili passi del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Per quanto discontinua e potremmo dire quasi frammentaria e occasionale, puro riflesso di una lunga e appassionata attività scolastica, questa produzione di Clemente ci dà la possibilità di avvertire l'orientamento della Cristianità alessandrina e di misurare l'importanza della scuola catechetica alessandrina nello sviluppo della sistematica teologale della Chiesa. C'è un ideale che sostiene Clemente dal principio alla fine della sua intensa attività. Ed è quello di mettere la filosofia e la cultura profane al servizio del messaggio evangelico, nella speranza di poter dare a questo messaggio una solida base razionale e un suggestivo rivestimento concettuale. È il caso però di domandarsi pregiudizialmente che cosa mai intendesse Clemente per filosofia. Non si può dire davvero che egli avesse un sistema di predilezione da offrire come modello e come norma. Per lui la filosofia è piuttosto l'insieme delle dottrine che insegnano la giustizia e la pietà, dottrine che occorre desumere ecletticamente da quanto di meglio ha saputo dare la tradizione delle scuole filosofiche. Tra queste Clemente assegna una posizione di preminenza a quelle di Pitagora e di Platone, soprattutto per la parte rilevante attribuita ai problemi teologici e a quelli morali.
Ma un maestro cristiano quale Clemente era tratto necessariamente a formulare un quesito di questo genere: se la filosofia riveste quella importanza che Clemente, sotto la pressione della sua cultura, è indotto ad attribuirle, quale sarà mai il rapporto preciso tra rivelazione e filosofia, tra scienza e fede? Non si potrebbe dire che a questo quesito Clemente abbia dato una risposta uniforme e invariabile. Mentre nel Protreptico sembra accusare la filosofia greca quale compartecipe e correa delle empietà e delle dissolutezze del mondo pagano, conglobato sotto una condanna a cui sfuggono solo pochissimi filosofi, negli Stromati, invece, che si rivelano come l'opera della maturità di Clemente, la simpatia per la filosofia ha assunto già un carattere molto piú spiccato, tanto che una volta Clemente non esita ad affermare che, come la Legge ha manodotto gli ebrei verso la rivelazione, cosí la filosofia è stata il pedagogo che ha guidato provvidenzialmente i greci al Cristo.
Questo carattere pressoché sacrale della filosofia antica è attribuito da Clemente ora ad una causa, ora ad un'altra. Talora egli suppone che i filosofi greci abbiano attinto le loro migliori dottrine dai libri e dagli insegnamenti del Vecchio Testamento. Tal altra invece, riprendendo le idee di Giustino, egli non esclude che una particolare illuminazione divina abbia potuto sfolgorare nello spirito di alcuni filosofi antichi, discoprendo ad essi le piu eccelse verità.
Non è da credere però che nel pensiero di Clemente la filosofia abbia esaurito il suo còmpito, preparando la strada alla rivelazione cristiana, quasi che alla comparsa di questa essa abbia integralmente esaurito il suo còmpito e le sue possibilità. La filosofia riveste per Clemente tuttora una funzione insurrogabile, quella cioè di offrire con i suoi schemi ideali, col suo metodo raziocinativo, con le meglio selezionate delle sue dottrine, l'ossatura per dir cosí al pensiero cristiano messosi ormai chiaramente alla ricerca di una grande sistemazione metafisica. Non era bisogna che potesse andare esente da resistenze e avversioni. Lo gnosticismo aveva già compiuto il tentativo e ne era uscito male. Il modo migliore di evitare le opposizioni nel grembo della comunità era, come sempre suole accadere, quello di combattere lo gnosticismo appropriandosene l'anima e le aspirazioni. Clemente, piú o meno avendone coscienza, è quegli che ha acclimato definitivamente nel mondo dell'ortodossia ecclesiastica l'istanza concettuale ripudiandone le forme estreme patrocinate rischiosamente dallo gnosticismo.
Si può perfettamente individuare in lui il rinnovarsi del tentativo già compiuto da Filone di armonizzare e di abbinare la speculazione platonica e la rivelazione biblica. Quel che naturalmente è nuovo in Clemente è lo sforzo di collocare la rivelazione evangelica sul medesimo piano di sviluppo delle dottrine bibliche e della speculazione platonizzante.
Al polo opposto di Tertulliano che, tutto imbevuto di stoicismo, non riusciva a raffigurarsi il Divino spogliato completamente di qualità sensibili e di struttura corporea, Clemente iperplatonicamente vede il trascendente in una cosí assoluta assenza di qualità sensibili che la sua definizione della divinità può apparire affine a quella che sarà la tipica definizione neo-platonica: Dio negazione dell'ente in quanto l'ente è sinonimo di circoscritto e di spaziale. Questo non vuol dire che Clemente abbondi in quella raffigurazione della impassibilità Divina in cui è probabilmente il tratto differenziale della speculazione teologica ellenistica in comparazione con la concezione evangelica e cristiana.
Nella seconda persona della Trinità, Clemente, date le sue predilezioni filosofiche, vede molto piú il Logos e il Maestro, che non il Cristo Redentore. Ma questo Logos ha una preponderanza sovrana nella teologia di Clemente. È secondo lui il Logos che conduce gli uomini a Dio. È il Logos che li educa alla virtú, è il Logos che li istruisce nella scienza divina. In uno squarcio pieno di poesia all'inizio del Protreptico Clemente immagina che il Logos, con il suo dolce canto, attiri soavemente l'umanità verso la salvezza. L'attributo che Clemente conferisce con maggior frequenza al Logos è quello di «amico degli uomini».
Ma quali sono i rapporti che Clemente scorge tra la essenza increata del Padre e il Logos? Il Logos è secondo lui una entità nettamente distinta da quella del Padre, sebbene nata dal Padre in eterno, anteriore ad ogni creazione, ugualmente Dio come il Padre.
Fozio, che disponeva di una conoscenza delle opere di Clemente superiore alla nostra, rimprovera a Clemente tre errori, dal punto di vista dell'ortodossia posteriore ecclesiastica: la natura creata nel Figlio, l'eternità della materia, e il docetismo, vale a dire l'opinione che la natura corporea e sensibile del Cristo fosse puramente apparente e che, come l'anima del Cristo era completamente esente da ogni passione, cosí il suo appariscente involucro corporeo fosse completamente immune da tutte quelle che sono le esigenze della carne.
Ci troviamo cosí di fronte a quello che nella Cristianità antica appare ed è definito come l'errore docetico. L'errore cioè il quale ritiene che Cristo non avesse assunto una vera genuina e palpabile natura corporea, ma che la sua comparsa nel mondo fosse solamente una comparsa fantasmatica. Clemente riporta una volta, senza impugnarlo, l'aneddoto che Giovanni, toccando il corpo di Cristo, potesse far penetrare la propria mano nell'interno di esso, senza incontrare alcuna resistenza, quasi si fosse trattato di una sostanza impalpabile e imponderabile. È un errore questo che viene rimproverato contemporaneamente alla speculazione gnostica ed alla teologia marcionitica.
Ma poiché non è da pensare che da qualunque parte la si riguardasse l'azione compiuta dal Cristo sulla terra apparisse ai cristiani di qualsiasi tendenza nel periodo delle prime sistemazioni teologali come una pura e semplice allucinazione, noi siamo naturalmente e legittimamente indotti a pensare che il cosiddetto docetismo deve avere avuto una significazione ed una portata ben diverse da quelle che gli si vogliono comunemente assegnare.
E poiché noi vediamo che, al polo opposto, la teologia trinitaria di un Ireneo, di un Tertulliano, di un Ippolito romano, e la loro cristologia sono nettamente e palesemente subordinate alle loro visuali escatologiche, cosí troviamo che è logico e aderente alla realtà pensare che anche l'assegnazione al Cristo di una carne apparente deve essere stata il risultato di una speciale e ultraspiritualistica visione del Regno annunciato dall'Evangelo.
Là dove nella raffigurazione di questo Regno si portano le idee elleniche della radicale e incolmabile incompatibilità di spirito e di materia; là dove la carne è considerata come la prigione ed il sarcofago dell'anima; là dove la salvezza è concepita unicamente come fatto di arricchimento e di ascensioni concettuali, si capisce come anche il Regno di Dio non possa essere considerato che come il trionfo di una gnosi ascendente, fino si potrebbe dire ad una partecipazione immanente dell'essenza divina, che è pensiero di pensiero e conoscenza di conoscenza.
Di questa visione della salvezza il Cristo banditore e annunciatore della salvezza stessa non può essere stato che una pura e disincarnata apparizione spirituale, la cui comparsa e la cui trasmigrazione nel mondo debbono essersi sottratte a quelle che sono le piú repellenti e degradanti funzionalità della carne.
Questa ci sembra l'unica interpretazione possibile di quella tendenza cosiddetta docetica, che noi riscontriamo anche in scrittori la cui ortodossia è in rapporto stretto con il carattere mitigato e addolcito del loro gnosticismo.
Clemente prima, Origene poi sono i due grandi rappresentanti di questa tendenza, che se non sarà integralmente accettata dalla corrente ortodossa, che se, anzi, provocherà al principio e poi resistenze violente, finirà però coll'influire sulle correnti medie e trionfanti della comunità cristiana, molto piú di quanto l'ortodossia stessa non voglia confessare.
È nella sfera della morale religiosa che il divario fra la concezione ellenico-concettuale e quella biblico-profetica del cristianesimo porta le sue piú aperte conseguenze.
L'etica di Clemente alessandrino è tutta dominata da un placido e roseo ottimismo. Ripetute volte egli dichiara che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini e che gli uomini per salvarsi non debbono fare altro che rispondere fiduciosamente al suo appello. Dio apre a tutti gli uomini la via della salvezza e l'uomo, come è detto con poetica frase nel Protreptico, non è nelle sue capacità spirituali che un perfetto inno sciolto al Padre.
Di pari passo con la concezione della salvezza universale attraverso l'acquisto delle cognizioni trascendenti, Clemente prende dallo gnosticismo la divisione tra i cristiani comuni e quelli chiamati alla perfezione attraverso l'esercizio consumato delle loro virtú percettive e intuitive.
Anche per Clemente il tipo ideale del fedele è il cristiano gnostico. Per lui, mentre il cristiano comune aderisce alla sua religione solo in virtú di una fede grezza e irriflessa, il cristiano perfetto ha l'impareggiabile dono della gnosi. Egli vagheggia l'ideale di divenire simile a Dio. Due saranno le virtú fondamentali che lo condurranno alla mèta: l'impassibilità – e qui Clemente è perfettamente sul solco dello stoicismo – e l'amore evangelico: l'agape. Che cosa Clemente intenda esattamente per impassibilità (apatheia) è spiegato in un lungo passo del libro sesto degli Stromati, dove la formazione stoica di Clemente riaffiora in pieno. Lo gnostico di Clemente deve avere infatti estirpato in sé ogni movimento sentimentale e affettivo, sia buono, sia malvagio. Se egli non può superare, per una inviolabile legge di natura, le necessità della sua sostanza corporea, deve quanto meno ridurre al minimo, anzi annullare in radice, ogni desiderio della sua natura, anche spirituale. Non solo deve fuggire le passioni definite malvagie dalla comune estimazione degli uomini, ma deve anche eliminare quelle tendenze passionali, che gli uomini sogliano reputare virtú. A questo novero vanno assegnate le cosiddette virtú del coraggio, l'emozione che dà la gioia, perfino il desiderio conturbante del bene. In una parola, il perfetto gnostico deve, per essere veramente impassibile, aver vinto ogni desiderio. Quando si leggono nella grande opera di Clemente brani come questo, ispirati ad un ideale etico cosí duramente propinquo all'ideale stoico, diciamo meglio, buddistico, si rimane poi sorpresi nel constatare che nella stessa grande opera Stromati e nelle altre opere minori di Clemente, come seconda virtú dello gnostico è designata, accanto alla impassibilità, l'agape, la carità cristiana.
Si potrebbe qui cogliere una contraddizione. Clemente riconosce apertamente che l'agape è l'insigne virtú cristiana che ha suggerito a Paolo ed a Giovanni le pagine piú brillanti della letteratura neotestamentaria. Come porre in accordo il calore fervido e operoso dell'amore con l'arida e inalterabile impassibilità dell'ideale stoico? Non è probabilmente l'unica contraddizione che noi possiamo cogliere nelle opere apologetiche di Clemente alessandrino, e non soltanto in lui. Ogni apologia speculativa del cristianesimo è condannata fatalmente ad incorrere nelle contraddizioni inevitabili arrecate dal proposito intrinsecamente contrastante di tradurre in speculazioni razionali e in discipline etiche codificabili quel che era stato per essenza l'entusiasmo fiammante della primitiva esperienza cristiana.
Le contraddizioni che potevano ancora apparire mal dissimulate nelle opere di Clemente sotto la valanga della sua erudizione classica, dovettero apparire alla piena luce del sole nell'apologetica del suo grande continuatore: Origene.
Quando Clemente, sotto l'infierire della persecuzione indetta da Settimio Severo, riparava, nel 203, in Palestina, la direzione del didascaleion alessandrino era dal vescovo di Demetrio affidata ad un giovane figlio di martire, di ingegno e di attitudini veramente straordinari: Origene. Da allora fino agli estremi anni della sua vita Origene è il maestro prodigioso che incanta con la sua parola e trascina colla forza del suo pensiero. Gregorio il taumaturgo, che ebbe una volta occasione di ascoltarlo durante una breve tappa a Cesarea, dove Origene si era rifugiato in un'ora poco lieta della sua difficile carriera, ci attesta che la parola calda ed infiammata del Maestro destò nel suo spirito una cosí profonda impressione da sentirsi trascinato, per ascoltarlo, ad abbandonare qualsiasi altro interesse familiare o culturale. La produzione di Origene esegetica e teologica è immensa. Si può chiedere una delineazione sommaria del suo sistema alla sua grande opera: I Principî, giuntaci, purtroppo, non nella sua integrità originaria, ma in una versione, che si capisce corretta e attenuata, di Rufino. Ma quanto ne possiamo sagacemente intendere può farci valutare lo sforzo veramente gigantesco che Origene ha compiuto per travasare nell'àmbito dell'esperienza cristiana quanto poteva apparire come il frutto migliore della secolare tradizione speculativa platonico-ellenistica.
Dei quattro libri costituenti quella che possiamo considerare come la sintesi del pensiero origeniano, I Principî, il primo libro è consacrato alla natura della Trinità, agli attributi del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, alla natura degli esseri spirituali e materiali, degli angeli, degli uomini e degli astri. Il secondo libro è dedicato al problema cosmologico, alla ricerca cioè delle cause che hanno spinto Dio alla creazione ed alla definizione dei rapporti tra Dio e il mondo, sia nell' ordine della produzione causale, come in quello dell'azione redentrice, nel suo momento iniziale della incarnazione, come nel suo epilogo della universale ricapitolazione nel bene. Il terzo libro è tutto consacrato alla dimostrazione della capacità umana di attuare la legge divina, vincendo la seduzione tentatrice del mondo, del demonio e della carne. Il quarto libro è una magistrale trattazione dei metodi interpretativi della parola di Dio nella Bibbia.
Si può dire senza esagerazione che le elevazioni teologiche di Origene rappresentano l'espressione piú alta a cui potesse mai giungere l'istinto del divino, celebrato da Platone e dai neo-platonici. Come questi ultimi, Origene, al di sopra e al di fuori del mondo materiale, al di sopra e al di fuori di ogni essere creato, pone l'Essere supremo, sfuggente ad ogni comprensione e ad ogni valutazione della mente umana, depressa e obnubilata dal peso mortifero della carne. Assolutamente sgombro di elementi sensibili, l'Essere supremo sfugge inesorabilmente ad ogni raffigurazione e ad ogni comparazione. Debbono quindi ritenersi inesatte le immaginazioni che compaiono nella Bibbia per dare comunque il sentore di Dio. Tali immaginazioni debbono essere trasferite dalla sfera sensibile in quella soprasensibile, dalla visione corporea in quella intellettuale. L'Iddio che è la monade assoluta, l'Uno per eccellenza, ha avuto bisogno di un organo adeguato per stabilire un contatto col molteplice. E questo organo è il Logos, il quale, comprendendo in sé tutti i tipi, tutte le forme archetipe delle cose generate, non è piú semplice ed incomposito come il Padre, ma rappresenta il primo gradino nella transizione fra l'Uno e il molteplice. A lui è stata affidata la forgiatura immediata e diretta del mondo, di cui però naturalmente il Padre rimane il primo e originario creatore. Questo Figlio è suscettibile di parecchi appellativi. I piú appropriati fra questi saranno quelli di Logos e di Sofia, che meglio ne additano le funzioni specifiche. Perché il qualificativo di Logos designa in maniera perfetta la partecipazione del Figlio all'opera della creazione e la sua presenza nei rapporti dell'uno col molteplice, mentre il qualificativo di Sapienza gli appartiene indipendentemente dall'esistenza delle creature ed investe senz'altro il rapporto ineffabile dell'Uno con la possibile disseminazione dei molti fuori di Lui.
Commentando il versetto del prologo giovanneo: in principio era il Verbo, Origene, dopo avere dimostrato, in base a numerosi passi della Scrittura, l'identità assoluta fra la sapienza e il primo principio, conclude che il Verbo era nel Principio e quindi nella Sapienza, essendo egli stesso Sapienza e Principio. Ma in quale istante questa sapienza pullulò ineffabilmente e misteriosamente dalle viscere generanti del Padre? Vi fu mai un tempo nel quale la sapienza potesse non esistere? La speculazione di Origene trascende nettamente il tempo e la durata. Se il Padre è luce e se il Figlio è il raggio di un lume eterno, si può mai concepire un tempo in cui il raggio non emani dal centro luminoso? Commentando un altro passo di Giovanni, Origene scrive: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato – cosí parla il Padre, l'oggi del quale permane in eterno, perché Dio non conosce né alba né tramonto, ma conosce solo una continuità ininterrotta, che comprende integra la sua vita non prodotta ed eterna. Questo, l'oggi perenne in cui si consuma la generazione del Figlio che non ha inizio, come non ha inizio il giorno in cui tale generazione è stata celebrata». Questo non vuoi dire che il Figlio sia una forza spersonalizzata e indistinta. No. È una sua ipostasi. Vale a dire è un essere personale sostanzialmente esistente. Presso ad esso lo Spirito Santo, che pur procedendo dal Padre non è Figlio, non è il monogenito. Ingenerato ma prodotto, primo principio di ogni cosa in virtú del Verbo, lo Spirito viene a costituire la prima espressione del Padre attraverso il Verbo ed assume di fronte a quest'ultimo la medesima posizione di dipendenza che ha il Figlio di fronte al Padre. Diverse nella loro sfera d'azione, queste forme della divinità non assumono nella speculazione origeniana una scambievole posizione che possa dirsi aderente in anticipo a quelle che saranno le definizioni del Concilio niceno. La dottrina trinitaria di Origene apparirà ambigua alla teologia ortodossa posteriore. Questo non vuoi dire che Origene non debba essere esattamente considerato come un precursore insigne di quella sistemazione del problema di Dio e dei suoi rapporti col mondo che affaticherà cosí lungamente la riflessione delle scuole ecclesiastiche all'indomani della conversione di Costantino.
Dalla tradizione gnostica Origene eredita la sua convinzione profonda del mistero irriducibilmente inviolabile in cui è chiusa l'essenza profonda della virtú divina operante nell'universo fisico e morale. Ma d'altro canto questo mistero della divina rivelazione nel cosmo e nello spirito umano ha spiragli di luce che Origene cerca di cogliere con l'intuito della sua riflessione e con i dati della tradizione scritturale. Questa rivelazione biblica non è che la espressione di quella bontà che ha portato il Padre inconoscibile a manifestarsi sempre in forme diverse e via via piú perfette fino all'avvento del Cristo. I libri sacri, che rappresentano il lento cammino della rivelazione, non debbono essere considerati come cosa umana, ma divina «in quanto sono stati scritti e ci sono stati trasmessi sotto il soffio dello Spirito, attraverso la mediazione di Gesù Cristo, in virtú della volontà del Padre». Sebbene in un certo senso il còmpito della ispirazione possa riportarsi indifferentemente al Padre, al Figlio od allo Spirito Santo, pure consistendo esso soprattutto in un'opera di grazia e santificazione, rientra piú propriamente nella sfera dell'attività dello Spirito. L'azione che lo Spirito spiega sull'anima di chi scrive o di chi parla è cosí considerevole, che questa anima perde ogni rilievo personale, per divenire valido strumento di Dio. Considerata come opera divina, la Scrittura è perfetta e pienamente ricca degli attributi della verità, dell'utilità, dell'integrità.
Origene insiste con peculiare efficacia sull'unità dell'ispirazione biblica, dai libri di Mosè agli ultimi scritti del Nuovo Testamento, dichiarando che «solamente colui il quale non sa riconoscere l'armonia dei libri santi può credere talvolta di cogliere una dissonanza tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, tra la legge e i profeti, tra l'un Vangelo e l'altro, tra Paolo e i suoi compagni di apostolato. Ma chi sia esperto nelle leggi di questa musica divina, sapiente nei suoni, sapiente nelle opere, saprà ben riecheggiare questa mirabile sinfonia, toccando, a norma delle varie occasioni, ora le corde della legge, ora quelle del Vangelo, ora quelle dei profeti, ora quelle degli Apostoli, per trarne l'armonia unissona. Perché in realtà tutta la Scrittura è un divino strumento, cosí regolato alla perfezione da dare, con suoni diversi, un unico concento meraviglioso».
Naturalmente Origene non manca di stabilire una gerarchia tra l'economia del Vecchio e l'economia del Nuovo Testamento. Il giorno in cui il Figlio di Dio si fece mezzo della nostra conoscenza del Padre, costituendosi per noi scala, destinata a introdurci nella parte piú recondita e piú sacra del tempio, vale a dire nel Santo dei Santi, l'utilità della vecchia economia si è sensibilmente assottigliata. Cosí il valore del modello in creta cessa, quando la fusione nel bronzo sia compiuta. Perché nulla si perda dei frutti di questa immensa epopea svoltasi sotto l'impulso dello Spirito, non bisogna vagliarla tutta con gli stessi criteri. Bisogna piuttosto utilizzarla in modo da trarre, da ciascuna parte, conveniente motivo di edificazione e di ammaestramento. Ripetendo a suo modo le distinzioni che lo gnostico Tolomeo aveva formulato nella sua lettera a Flora, Origene osserva che se si dovranno prendere alla lettera i precetti etici del Vecchio Testamento che posseggono un valore eterno, quali il Decalogo, altre pratiche giudaiche, che hanno perduto il loro valore contingente, dovranno essere considerate come simbolo e tipo di superiori realtà spirituali. Dovrà essere interpretato allegoricamente non solo tutto quello che sembra in contrasto con la dignità spiritualissima di Dio, bensí anche ogni racconto storico, il quale non può dal punto di vista religioso che avere valore di simbolo e di figura.
Ricollegandosi cosí alla tradizione allegoristica filoniana, Origene giustifica il largo uso che egli fa del metodo ermeneutico, che al di là dei fatti storici e dei racconti biblici episodici scorge una realtà spirituale soggiacente, che è l'unica la quale possegga un valore perenne di norma e di edificazione spirituale. Origene ritrova l'uso di tale metodo nel comportamento stesso del Salvatore il quale, parlando sotto forma di parabola, insegna ad accogliere come puri simboli parabolici quelle esplosioni della collera di Dio e quelle alterazioni del suo volto, di cui è disseminata la narrazione del Vecchio Testamento.
Mille reminiscenze mistico-platoniche e copiosi elementi della tradizione gnostica affiorano cosí nella esegesi e nell'insegnamento di Origene. Se egli trae profitto dalla sua sagace conoscenza delle Scritture, per impugnare le concezioni troppo rudemente dualistiche della gnosi, non si sottrae al fascino della tradizione gnostica, quando entra nel terreno della cosmologia, della soteriologia e della escatologia. I presupposti della gnosi pesano sul pensiero origeniano specialmente per tutto ciò che concerne l'origine del mondo, considerato come una decadenza; per tutto ciò che concerne il problema della salvezza, la quale, in Origene come nella gnosi, si realizza mercè la venuta al mondo di un essere divino, intento a fornire all'anima caduta l'illuminazione progressiva della sua via verso il riscatto. E c'è anche del vecchio ottimismo platonico-gnostico nella credenza origeniana di un finale riscatto, che ricondurrà a Dio tutto ciò che da Dio è partito.
Ma anche da un altro punto di vista Origene dipende in pari tempo dalla cosmogonia gnostica come dalla angelologia del tardo giudaismo: nel modo di considerare la costituzione del mondo intermedio tra Dio e la natura sensibile.
Per salvaguardare gli attributi che non possono non essere assegnati al Padre, la saggezza cioè, la bontà, l'immutabilità, è necessario, secondo Origene, collocare vicino a Lui, oltre i limiti dello spazio e del tempo, spiriti sui quali si sia potuto esercitare il suo dominio di Essere onnipotente e la sua opera provvidente di Essere infinitamente buono. Non si può infatti pensare che un Essere assolutamente perfetto sia giunto in un qualsiasi istante a possedere qualcosa che prima non aveva e abbia potuto soltanto allora toccare il vertice della onnipotenza. Sono dunque sempre esistiti presso il Padre esseri soggetti al suo potere supremo. E allora si comprende di primo acchito come la creazione, nel significato normale della parola, cioè come posizione in esistenza di esseri che prima non esistevano, rappresenti nel pensiero origeniano non un inizio, ma una fase intermedia della storia umana. Sulle orme di Filone, Origene viene cosí a conciliare la visione ellenica dell'esistenza eterna di realtà spirituali poste misteriosamente in essere da tutta l'eternità dall'Essere supremo, e la concezione biblica della creazione. Esistevano dunque ab aeterno intelligenze tutte uguali, tutte buone, viventi in uno stato di beatitudine, presso la fonte prima dell'esistenza. Dotate quali erano di libero arbitrio, della capacità cioè di costituirsi in realtà di lustro e di decoro o in realtà di ignominia, non seppero concordemente volgersi al bene. Alcune progredirono nella perfezione, calcando le orme supreme di
Dio, altre caddero miserevolmente, pesantemente tratte dalla loro infingarda negligenza. Il mondo sensibile, con tutte le sue difformità ed imperfezioni, con tutto il caotico disordine che vi regna, ebbe origine da questo progressivo, parziale allontanamento dal divino, conseguenza di un atto di libera elezione. Tutta questa massa corporea che riveste il mondo, piú o meno densa secondo l'entità primordiale della colpa iniziale, è essa stessa il risultato della caduta progressiva delle realtà spirituali dal fuoco originario della impalpabile essenza divina. Alcune di queste anime colpevoli divennero invisibili ministri di Dio. Altre divennero astri splendenti e luminosi, altre divennero uomini, altre infine decaddero alla condizione di demoni, dal corpo deforme e repellente, anche se invisibile. Date le convinzioni astrologiche del tempo, non ci deve stupire affatto l'ipotesi avanzata da Origene che anche gli astri siano animati. Origene si basa sulla testimonianza biblica, che mette in stretto rapporto scambievole il mondo degli angioli e quello degli astri, designandoli entrambi col nome di armata celeste. E c'è in lui un'evidente reminiscenza del pessimistico pensiero di Giobbe, che neppure gli astri sono mondi e puri al cospetto di Dio.
Queste intelligenze, ciascuna delle quali nel primo stadio dell'elezione era una perfetta capacità conoscitiva, col venir meno al collegamento con la sorgente primordiale della luce e del calore, con l'affievolirsi progressivo dell'amore divino, divennero anime che portarono con sé nel loro fatale e lagrimevole distacco dall'essenza divina, elementi estranei, capaci di ottundere e paralizzare i germi residuali della primordiale esistenza.
A ristabilire la turbata armonia, a redimere le creature, che originate dall'unità all'unità devono tornare, è necessario l'intervento di un essere divino, di un mediatore trascendente, sottopostosi alla consegna di vivere in mezzo agli uomini, rivestendo carne umana. Lo stesso Figlio di Dio viene cosí sulla terra allo scopo di assolvere il duplice mandato di redentore e di rivelatore del Padre.
Veramente, l'unione di un essere divino con un involucro corporeo doveva ripugnare irriducibilmente alla mentalità platonizzante di Origene. Egli scarta senz'altro quindi la possibilità di una unione immediata E pone la soluzione dell'arduo problema nella storia della preesistenza. Immagina cioè, mediatrice tra la divinità e il corpo, un'anima simile in tutto a quella degli altri esseri, ma meritevole di questo specialissimo onere per avere costantemente aderito al bene, sí da farne la sua seconda natura, simile al ferro che gettato nel fuoco si trasforma in una massa incandescente, o ad un vaso, che, ricolmo di unguento profumato, non può accogliere sostanza contraria.
Comparso sulla terra, Cristo lancia il suo appello salutare a tutti gli uomini, che hanno indistintamente la possibilità di rispondere alla chiamata, di cooperare anzi all'opera della salvezza. Se alcune anime usano delle cause esterne fortuite per cagionare la propria perdizione, non ne sarà per questo offuscata l'inesauribile bontà di Dio, ma semplicemente fatta responsabile la miserabile negligenza umana.
«Come la pioggia cade benefica su tutti i terreni, ma non in tutti spiega una pari capacità fecondatrice, ed alcuni producono frutti buoni, altri triboli e spine, cosí Dio rovescia senza distinzioni la sua fecondante grazia sugli uomini. Se i frutti non sono tutti ugualmente buoni, sarebbe stolto attribuirne la colpa al seme. Se ne attribuisca piuttosto la colpa all'agricoltore che ha trascurato di arare e curare la terra con sufficiente diligenza. Non terra da terra, ma coltivazione da coltivazione differiscono».
Pur non esistendo tra gli uomini diversità sostanziali – e in questo Origene attenua una delle posizioni fondamentali dello gnosticismo – sussistono però tra loro differenze cospicue nella foggia con cui rispondono al programma della salvezza. Lo stesso Cristo non ha adottato gli stessi rimedi per tutti. Ha trattato i peccatori e i comuni fedeli in una maniera diversa da quella con la quale ha trattato i puri e i mondi di cuore, capaci di realizzare la gnosi e di assurgere alla conoscenza del Padre.
Il numero limitato di coloro che realizzano secondo Origene lo stato della gnosi si spiega col fatto che la conquista di questo stato richiede un affinato esercizio di virtú. Solo possono assurgere alla condizione di gnostici coloro i quali se ne rendono degni mercè ininterrotti progressi nella vita spirituale.
Origene ammette che per la categoria dei perfetti la salvezza si realizzi mediante la pura e nuda e diretta conoscenza della verità. Per tutti gli altri hanno efficacia la passione e la morte del Cristo, in cui i pervenuti alla perfezione scoprono soltanto il simbolo ineffabile di piú profondi e arcani ammaestramenti spirituali. Ribattendo Celso, Origene afferma esplicitamente che «gli avvenimenti della vita di Gesù non vanno interpretati tenendosi meccanicamente aderenti al significato letterale delle parole, quasi che nelle parole e solo nelle parole sia racchiusa tutta la verità. Chi si accosta con piú adeguata intelligenza alla Scrittura scopre in ogni parola un significato recondito ed un valore riposto». L'esoterismo cristiano era cosí instaurato da Origene.
Il quale però reputa necessario aggiungere immediatamente che la distinzione tra i diversi modi di conseguire la salvezza non vulnera e infirma affatto il concetto basilare della giustizia di Dio. La quale consente a tutte le anime di partecipare, sol che vogliano, ai frutti salutari della redenzione, dando inoltre a ciascuna la possibilità di conseguire la salvezza in una serie di periodi successivi e di passare da uno stato all'altro, innalzandosi verso la virtú o precipitando verso il male.
Illimitatamente fiducioso nella capacità del libero arbitrio, Origene non esita ad affermare che si può passare dalla condizione di angeli a quella di uomini e perfino a quella di demoni e viceversa. Non esita a soggiungere che le potenze demoniache possono rivestire gli involucri corporei eterei e luminosi delle virtú celesti, aggiungendo che il nostro mondo empirico non è che un anello in una immensa catena, iniziata prima del mondo e destinata a prolungarsi nei secoli che si perdono all'infinito, in una serie indistinta di corsi ciclici.
Si potrebbe pensare che Origene finisca cosí con l'immaginare una serie illimitata di prove e di esperimenti che si susseguono con alterna vicenda. Ma l'ottimismo platonico prende alla fine il sopravvento sullo scrittore, il quale ammette alla fine che, qualunque sia la dose di male perpetrato dalla creatura, questa può giungere, sia pur con fatica, di gradino in gradino, al possesso inviolabile del sommo bene. Ma come e in quale veste?
Siamo alla visione finale della reintegrazione. Se l'involucro corporeo è il risultato opprimente di una decadenza provocata dalla colpa, si dovrà forse pensare che questo residuo di una decadenza possa partecipare alla beatitudine finale? Origene è stato nell'antichità cristiana quegli che ha fatto giustizia del miraggio millenarista. Le condizioni materialistiche di coloro che attaccati al significato letterale della Scrittura attendono l'attuarsi del Regno nel soddisfacimento di tutte le nostre capacità sensibili, eccitano lo scherno di Origene. Egli lascia ai fedeli piú semplici, rudi e grossolani, l'illusione dei miraggi millenaristici e della risurrezione della carne. Egli si indugia con visibile compiacimento nel rilevare le obbiezioni che possono sollevarsi contro la credenza nella risurrezione corporea individuale. «Come gli alimenti entrano a far parte del nostro corpo e si trasformano in sostanze simili, cosí i nostri corpi si trasformano è passano a far parte di altri corpi, negli uccelli che si cibano di carne e nelle fiere. E quelli alla lor volta mangiati da uomini o da altri animali sono assimilati e diventano corpi di uomini e di altre fiere. Ripetendosi ciò innumerevoli volte, il medesimo corpo viene spesso a far parte di parecchi uomini. A chi dunque apparterrà questo corpo nella resurrezione?».
Origene parla frequentemente nelle sue opere di una finale distruzione della materia e ama parlare di un corpo puramente spirituale – era il vecchio termine di San Paolo – di cui saremo rivestiti nella beata vita futura.
Con una espressione di questo genere Origene allude alla totale trasfigurazione che subirà il nostro corpo al momento della reintegrazione finale e che importerà il completo annullamento di ogni qualità materiale. Una tale trasformazione sarà una spiritualizzazione completa che non lascerà alcun posto alla carne. Origene probabilmente le darebbe volentieri il titolo di incorporeità se egli non preferisse riserbare questo vocabolo alla impareggiabile ed insuperabile perfezione del Padre, del Figlio e dello Spirito.
Tutte le creature, nel finale ritorno del dominio di Dio tra le sue creature, perverranno al conseguimento di questo corpo glorioso, di cui è impossibile dare una raffigurazione adeguata. Vi perverranno anche le creature che hanno maggiormente peccato, come i demoni, perché quell'avvento di Dio costituirà il trionfo incondizionato del bene e il coronamento di quell'inestinguibile desiderio del Dio supremo che tutti gli esseri si son portati come un senso nostalgico dalla primitiva sede di beatitudine. La vecchia escatologia spirituale di Platone ha cosí in Origene un suo interprete fedele ed appassionato. Risalendo verso la sede beata del Padre, l' anima compierà un intimo processo di purificazione, lasciando le sue residuali imperfezioni e riacquistando quelle energie primigenie, infiacchite e sacrificate, che la renderanno di nuovo capace di accogliere in sé il Divino. E allora finalmente si realizzerà la promessa secondo cui Dio dovrà essere tutto in tutti. Allora ogni essere mondato dal vizio, risanato dalla malvagità, farà di Dio il fine del suo sentimento, della sua intelligenza, del suo pensiero e nel possesso di Dio troverà la sua finale quiete.
Riassumendo in sé tutto il travaglio e tutto lo sforzo della tradizione gnostica e della scuola alessandrina, Origene formula e trasmette alla Chiesa una raffigurazione del mistero trinitario che doveva avere una profonda ripercussione su tutta la posteriore speculazione teologico-ecclesiastica. Origene in pari tempo propone una visione delle origini delle cose che voleva essere il diritto di cittadinanza concesso, nell'àmbito del pensiero cristiano, alle forme piú alte della cosmogonia platonica. Proclamava senza ambagi la responsabilità che ha l'uomo nella scelta della sua condizione e del suo destino. Nel suo spiritualismo a oltranza delineava una dottrina cristologica che non avrebbe mancato di sortire conseguenze rischiose nelle polemiche del IV e del V secolo. Infine proclamava una ottimistica visione della ricostituzione finale in Dio, in aperto contrasto con la escatologia dei primissimi secoli cristiani. Maestro di larghissimo respiro e di infaticabile operosità, Origene segna una tappa saliente nella formazione del pensiero cristiano.