IV LA FERMENTAZIONE GNOSTICA

Il cristianesimo, non sarà mai ripetuto abbastanza, non è una filosofia: è una consegna religiosa. Una storia pertanto del processo dialettico svoltosi in seno alla società cristiana nei primi secoli della sua organizzazione e della sua espansione non potrà prescindere dall'azione piú o meno avvertita di quei coefficienti extra-intellettuali, liturgici, disciplinari, sociali, ai quali il messaggio cristiano nella storia è in misura notevole debitore del suo successo.

Parallelamente, la formazione e il rivestimento apologetico del pensiero cristiano sono cosí saldamente innestati sulla predicazione religiosa del Cristo e sulle immediate sue ripercussioni carismatiche, nell'àmbito delle primitive comunità paoline, che la ricerca del suo contenuto essenziale e la ricostruzione del suo sviluppo non possono esimersi dal fissare pregiudizialmente i latenti elementi intellettuali e dogmatici dell'annuncio neotestamentario, su cui venne ad esercitarsi, nel secondo secolo, lo sforzo della speculazione razionale.

Nostro còmpito specifico pertanto è ora quello di tracciare la linea del procedimento dialettico in virtú del quale si effettuò la traduzione concettuale del messaggio cristiano; in virtú del quale un movimento, sostanzialmente mistico ed apocalittico, si trasformò adagio adagio in un raffinato sistema di speculazione filosofico-teologica, destinato a disciplinare per secoli il pensiero e le attitudini della società europea; in virtú del quale infine gli esili manipoli dei primi seguaci del Cristo e le esaltate comunità sorte su nel mondo greco-romano dalla propaganda entusiastica di Paolo, divennero nella storia la Chiesa universale, destinata ad alimentare col suo dogma e la sua apologia la vita spirituale della civiltà mediterranea, nel periodo culminante della sua storia.

Naturalmente, avviandosi alla propria trasformazione, da società provvisoria, aspettante, nella fiducia, nella gioia e nella grazia, il luminoso giorno del Signore, in società definitiva dei credenti nel Cristo, ossequienti ad un credo e ad un'autorità inappellabile, il cristianesimo ha chiamato in proprio soccorso gli elementi migliori della cultura profana, nel cui àmbito tendeva sempre piú decisamente a penetrare e ad acclimarsi. È oggi patrocinato da molti il criterio che la storia del pensiero cristiano, nell'età cosí detta dei Padri, non debba essere avulsa dal processo evolutivo della speculazione ellenistica, dalla quale scrittori come Clemente ed Origene hanno attinto cosí copiosamente, ed alla quale ad ogni modo sono cosí familiari quelle concezioni mistico-soteriologiche, che costituirono indubbiamente i piloni centrali della dogmatica cristiana.

Noi non crediamo opportuno acconciarci a simile criterio. La traduzione dell'annuncio della salvezza cristiana, della «buona notizia», in elaborato sistema filosofico-teologico si è operata in maniera cosí tipica e cosí nitidamente ravvisabile; il passaggio del cristianesimo da religione di messianismo e di escatologia a religione della dommatica e del rito offre un cosí caratteristico modello di quel che è, nella storia delle religioni, il solidificarsi e il cristallizzarsi repentino dei vasti entusiasmi mistici nelle formale paralizzanti del pensiero e della liturgia, che è straordinariamente istruttivo cogliere tale processo di trasformazione e di transizione, nei suoi confini circoscritti e nella sua cornice isolata. Naturalmente l'esplorazione di tale processo non potrà scientificamente essere condotta senza che ci si sforzi di valutare convenientemente l'apporto della speculazione extra-cristiana e le interferenze profonde della teologia e della mistica patristica con le concezioni similari della religiosità ellenistica, arrivata al piú alto livello della sua elaborazione. Ma nel segnalare coscienziosamente i punti di contatto fra le idee etico-religiose di un Clemente ad esempio e di un Porfirio noi non mancheremo di addurre le ragioni per cui lo storico riesce a cogliere nel primo le manifestazioni teoriche di un movimento che è nella sua parabola ascendente, nel secondo le attitudini che tradiscono la povertà di risonanza di un tradizione in dissoluzione.

Non sarà qui solamente, sul terreno cioè della valutazione critica dei rapporti fra cultura ellenistica e pensiero cristiano, che la nostra esposizione sembrerà dilungarsi, e si dilungherà di fatto, dalla maniera oggi preferita di affrontare il problema dello sviluppo concettuale cristiano nell'età dei Padri. In parecchie zone della nostra esposizione noi proporremo idee e concezioni, in aperto dissenso da quelle che pur possono apparire oggi meglio accreditate. Nella maniera ad esempio di enucleare il contenuto essenziale del movimento gnostico, come in quella di collocare la grande sintesi etico-teologica agostiniana, nel ciclo di sviluppo della esperienza cristiana, e, in genere, della speculazione mediterranea; noi assumeremo posizioni che potranno sembrare in anticipo o in ritardo sul movimento generale dell'odierna critica storico-religiosa. Possiamo dichiarare che nessuna delle nostre asserzioni è il risultato di una intuizione arbitraria, anziché di una spassionata e coscienziosa disamina delle fonti.

Dal punto di vista strettamente storico-scientifico, la designazione di una particolare epoca del costante e inarrestabile processo di elaborazione del pensiero cristiano, con un qualificativo che vuoi essere anche intrinsecamente valutativo, non può che avere un significato convenzionale. All'occhio dello storico la necessità di armonizzare le esigenze e le attitudini etico-religiose, che sono alla radice della esperienza cristiana, al mondo della cultura circostante e quindi di creare un'apologia razionale adatta agli aspetti mutevoli dei cicli culturali, è una necessità che accompagna ineluttabilmente lo sviluppo della società cristiana nel tempo. D'altro canto credere che nell'esplicazione concreta di simile bisogno immanente, solo i pensatori e gli scrittori muniti di un sigillo e di un riconoscimento ufficiale abbiano esercitato una efficacia normativa, significa portare sul terreno della critica le preoccupazioni delle confessioni, e disconoscere i caratteri sincretistici del grande movimento che ha trasformato il messaggio apocalittico cristiano in un'organica visione teoretica del mondo.

Il primo stadio nel progressivo saturarsi del messaggio cristiano di elementi intellettuali e metafisici è segnato dall'apparizione dei due movimenti paralleli, lo gnostico e l'apologetico. Qualunque sia la provenienza degli elementi teologici entrati a far parte della dogmatica gnostica, sta di fatto che lo gnosticismo appare, storicamente, nella sua essenza e nel suo programma, come il tentativo grandioso di tradurre l'annuncio della salvezza cristiana in termini di metafisica, e di diluire l'entusiasmo rivoluzionario suscitato dalla speranza della parusia, nella visione astratta di un lentissimo processo di reintegrazione, attraverso il quale si compie l'elezione degli elementi spirituali dispersi nel mondo, in vista di un loro completo riassorbimento nel Pleroma. Anche gli apologisti tentano la giustificazione razionale della fede cristiana con elementi mutuati dalla cultura profana del tempo, ma la loro speculazione non riesce mai ad un affogamento della originalità evangelica nell'oceano delle speculazioni cosmogoniche extra-cristiane, e gli intenti pratici delle loro perorazioni, dirette costantemente alla difesa delle comunità cristiane dalle cause etico-politiche da cui sono colpite, conferiscono al loro insegnamento caratteri peculiari, che lo differenziano sostanzialmente dalle costruzioni ideologiche della gnosi. Comunque, gnosticismo ed apologia soddisfano analogamente, nel periodo di tempo che va dal terzo decennio al tramonto del secondo secolo, al bisogno diffuso di rivestire l'esperienza della salvezza cristiana con le forme di un sistema razionale. L'esigenza dialettica onde essi traggono alimento, appare ormai cosí connaturata al movimento di espansione della società rampollata dal Vangelo, che quando all'alba del terzo secolo, Clemente in Egitto, Tertulliano nell'Africa proconsolare, si accingono, con piú o meno confessato proposito, ai primi saggi di sistemazione teologica, l'attitudine da cui prendono le mosse non è razionalmente diversa da quella onde erano partiti, un cinquantennio prima, i maestri che avevano affrontato a Roma i rischi di un ardito tentativo di precursori.

Come l'ortodossia ecclesiastica si sia lentamente e progressivamente costituita quale via mediana fra posizioni antitetiche, decisamente in contrasto fra loro, è mostrato, si direbbe, anche dal fatto materiale che la copiosissima letteratura gnostica ha subìto la medesima falcidia e il medesimo naufragio della letteratura che si svolge al polo opposto degli orientamenti cristiani, la letteratura millenaristica. Anche in fatto di letteratura gnostica noi dobbiamo andare a cercarne i frammenti superstiti in grandissima parte nella letteratura ecclesiastico-ortodossa e nelle confutazioni che ne sono state fatte dai maestri della prima teologia ufficiale.

Naturalmente lo gnosticismo non è nato di colpo nelle scuole dei maestri, prevalentemente alessandrini, venuti a cercare a Roma fortuna a mezzo il secondo secolo. La gnosi risponde piuttosto all'esigenza immanente dello spirito di legare l'esperienza religiosa alla soluzione dei problemi concernenti l'origine dell'universo e la presenza del male. Si potrebbe dire che tutto l'edificio della speculazione gnostica poggia su questa esigenza. E naturalmente culmina nella concezione di una gnosi redentrice, di una forma superiore di conoscenza, capace di portare l'uomo al possesso individuale del Divino, dandogli il mezzo infallibile per superare il gravame del peccato e della malvagità, che pesa sul mondo e sugli uomini.

Questo il motivo centrale della speculazione gnostica. Esso affiora, in diversi aspetti, da tutte le teorie dei maestri gnostici, conciliandone e risolvendone in una unità fondamentale le apparenti divergenze.

Le prime apparizioni della tendenza gnostica non dobbiamo andare a ricercarle al di là dei sistemi che hanno costituito la gnosi tecnicamente intesa.

Un certo orientamento gnostico noi possiamo sostanzialmente ritrovarlo nello stesso nostro quarto Vangelo canonico. In realtà l'autore del nostro quarto Vangelo sta fra due mondi, il giudaico e il greco. Vale a dire, alla confluenza delle due piú insigni tradizioni spirituali e intellettuali della nostra civiltà mediterranea. In lui si incontrano e si fondono in una sintesi, che si direbbe era stata l'aspirazione dei secoli, Platone e Isaia. Chiamare l'autore del quarto Vangelo un mistico è senza dubbio corretto. La sua visione del Cristo verbo di Dio incarnato, se sembra riassumere il travaglio secolare della spiritualità mediterranea cercante la logica morale e metafisica dell'universo, rappresenta in pari tempo una trasformazione ideale del messaggio apocalittico cristiano, in perfetta armonia con le esigenze speculative della cultura ellenistica. D'altro canto non bisogna mai dimenticare che, in fondo, nella tradizione ebraica il profeta è l'equivalente di ciò che altrove noi chiamiamo il mistico. L'esperienza religiosa del profeta non è, s'intende, perfettamente identica a quella del mistico. Ma le due esperienze sono strettamente associate e la loro sintesi non è che all'apparenza un paradosso. Sarebbe un fraintendere cosí la psicologia come il messaggio dell'autore del quarto Vangelo dimenticare che egli è indubbiamente innanzi tutto un ebreo. Come Paolo egli trasporta il mondo delle esperienze semitiche sul terreno della spiritualità ellenistica. Filone l'aveva in qualche modo prevenuto. Egli, tutto riscaldato dalla coscienza della originalità del messaggio di Cristo, specialmente in confronto con quello del Battista, porta a compimento la sintesi di profetismo e di speculazione stoico-platonica a cui si direbbe che da un millennio tendesse la tradizione spirituale del mondo mediterraneo. Non è possibile staccare l'esperienza di cui il quarto Vangelo ci offre la testimonianza da quella reviviscenza profetica che costituisce il tratto saliente della Chiesa primitiva. La gnosi pertanto del nostro quarto Vangelo è una gnosi ancora allo stato incandescente e potenziale, di cui troveremo soltanto nella generazione successiva dei maestri alessandrini la solidificazione teoretica e la trascrizione concettuale.

Nell'epistolario canonico di San Paolo noi troviamo già testi che tradiscono le preoccupazioni delle comunità credenti di fronte all'infiltrarsi di una falsa filosofia, che uniformandosi agli elementi del mondo anziché a Gesù Cristo, tenta di offuscare la purezza della fede nei cuori cristiani. È cosí che parla la lettera ai Colossesi (II).

Nelle cosí dette lettere pastorali, che portano pure, con evidente abuso, il nome di Paolo, l'eresia non è piú anonima e generica. Comincia ad organizzarsi e possiede già dei maestri: Imeneo, Filete, Alessandro.

Negli altri documenti pseudo-apostolici, quali la lettera di Giuda, la seconda lettera di Pietro, le lettere e l'Apocalissi canonica, una licenza intellettuale appare accompagnarsi ad una licenza di costumi che provoca lo sdegno e la minaccia degli scrittori. Siamo però tuttora in ambiente giudaico-cristiano e siamo ancora lontani da tutto quel lusso di speculazioni cosmogoniche, che rappresenteranno l'esercizio dialettico caratteristico dei grandi maestri della gnosi.

Piú tardi la letteratura patristica cercherà di collegare la genesi della gnosi, ormai giudicata ereticale, a personaggi che le prime memorie apostoliche avevano designato vagamente come entrati in rapporti di rivalità con i primi missionari evangelici. Ma si tratterà di tutto un lavorìo leggendario suggerito e alimentato da motivi polemici. Non bisogna lasciarsene trarre in inganno.

Eppure, per lunghissimi secoli lo gnosticismo è stato considerato dalla tradizione cristiana quel che l'aveva dipinto, attingendo dagli eresiologi anteriori, Teodoreto di Ciro, a mezzo il secolo V, nel suo Compendio delle favole ereticali, vale a dire una mostruosa aberrazione, suscitata dal demonio per insidiare la vita e la purità della Chiesa. Il ritrovamento, nel 1851, del testo pressoché completo dei Philosophumena di Ippolito, dava lo spunto ad una indagine veramente critica e rigorosa intorno al materiale di studio per la conoscenza dello gnosticismo. Un secolo circa di ricerche ha mostrato piú che mai la necessità di stabilire un divario netto e incolmabile fra la testimonianza offertaci dai frammenti gnostici genuini conservati fino a noi e le fonti antignostiche. Una oggettiva ricognizione dello gnosticismo non può essere affidata che alla valutazione diretta delle fonti gnostiche, distribuite nel loro ordine cronologico, dai grandi maestri della gnosi quali Basilide, Isidoro, Carpocrate, Epifane, Valentino, Eracleone, Tolomeo, Marco, Teodoto, Bardesane, fino alle fonti gnostiche tarde, conservateci in versioni copte, quali la Pistis Sophia e i Libri di Jeu.

Pieno sempre dell'idea che la storia della Chiesa è il campo della lotta incessante tra il Logos e il Demonio, Eusebio osserva nel quarto libro della Storia ecclesiastica (Capo VII) che: «risplendendo ormai dovunque come altrettanti astri le comunità cristiane, il nemico irriconciliabile della verità e della salvezza degli uomini pensò di affliggerle, oltre che con le persecuzioni esteriori, anche con i dissensi interni. Suscitò cosí un serpente a due teste e a due lingue, due discepoli di Menandro, Saturnino antiocheno e Basilide alessandrino, che costituirono, l'uno in Siria, l'altro in Egitto, due perniciose scuole di eretici». E soggiunge che molti difesero allora la verità, tra cui va segnalato Agrippa Castore, il quale pose in luce meridiana le aberrazioni di Basilide, che, simile a Pitagora, prescriveva fra l'altro ai suoi seguaci un silenzio quinquennale.

Quando, dopo le vittorie di Costantino su Massenzio e di Licinio su Massimino, che a lui apparivano come il trionfo definitivo del cristianesimo sul paganesimo, Eusebio istituiva nella sua grande opera la biblioteca apologetica della Cristianità dei primi tre secoli, lo gnosticismo, definitivamente oltrepassato da altre controversie e da nuove preoccupazioni teologiche, aveva già perduto nella memoria letteraria del cristianesimo colto i suoi precisi e autentici connotati. Non è quindi il caso, per ricostruirne la genesi e lo sviluppo, di affidarsi alla testimonianza dei polemisti di chiesa. Il volto dello gnosticismo bisogna ricercarlo nelle enunciazioni sporadiche dei suoi piú insigni rappresentanti.

È Clemente alessandrino sopra tutti, il dottissimo successore di Panteno nella direzione della scuola cristiana di Alessandria, che ci ha conservato questi frammenti, nella sua grande opera enciclopedica I tappeti.

Il primo autorevole maestro della gnosi sembra essere stato Basilide. Secondo la testimonianza di Origene, egli avrebbe scritto un Vangelo, probabilmente un centone ricavato dai nostri Vangeli canonici e 24 libri esegetici su di essi. I frammenti conservatici da Clemente ci consentono di cogliere il profilo del suo insegnamento. «I seguaci di Basilide», riferisce Clemente, «definiscono la fede come l'adesione dell'anima ad una di quelle realtà che non colpiscono le facoltà sensibili perché non sono presenti». «Basilide», è sempre Clemente che riferisce, «concepí l'elezione come straniera al mondo, perché di natura super-cosmica». «I seguaci di Basilide ritengono naturale la fede, in quanto la collocano nell'atto stesso della elezione, capace di concepire le realtà conoscibili in virtú di una intuizione mentale indipendentemente da ogni dimostrazione». «Dicono inoltre i seguaci di Basilide che la elezione e la fede sono connesse secondo ciascun intervallo (le infiltrazioni astrologiche nelle concezioni religiose gnostiche sono evidenti) e che d'altra parte la fede cosmica di tutta la natura è sorta per conseguenza della Divina elezione ed a ciascuno è conferito il dono della fede in proporzione della sua speranza».

Ma probabilmente l'eco piú viva e significativa dell'insegnamento Basilidiano noi la cogliamo nei cosiddetti Atti della disputa fra Archelao e Mani conservatici in una versione latina della fine del IV secolo e scritti probabilmente in greco da Egemonia, nella prima metà del medesimo secolo. «Ci fu tra i Persiani un tal predicatore di nome Basilide, piú antico di Mani, vissuto non molto tempo piú tardi dei nostri Apostoli, il quale, essendo inesauribile in risorse ed avendo constatato che a quel tempo tutte le possibili ipotesi eran state escogitate, volle proclamare il medesimo dualismo caro a Sciziano (presunto maestro di Mani). Ma non essendo in grado di dire cosa che fosse originale, si sforzò di cambiare la terminologia corrente. I suoi libri pertanto rigurgitano di oscurità inafferrabili. Esiste un XIII libro dei suoi Trattati, di cui ecco l'inizio: – «In procinto di stendere il XIII libro dei nostri Trattati, la parola salutare soccorre offrendoci un opportuno e profittevole spunto. Mediante la parabola del ricco e del povero essa addita le scaturigini della natura priva di radice e di collocazione spaziale che sopravviene sulle cose». – E poco dopo Basilide torna sull'argomento esclamando: – «Usciamo dunque da simile stolta e curiosa incostanza. Indaghiamo piuttosto quel che anche i barbari specularono intorno al bene ed al male e a quali conclusioni pervennero sull'argomento. Alcuni di loro sostennero che due sono i principî della realtà e all'uno e all'altro riportarono rispettivamente il bene ed il male, asserendo che essi non avevano principio, non avevano generazione, che, in altri termini, all'inizio delle cose esisterono la luce e le tenebre, aventi in sé la ragione immanente della propria esistenza. Queste due realtà, dotate di propria sussistenza, trascorrevano ciascuna la propria vita, la vita prescelta ed appropriata. A ciascuno infatti è caro quel che è proprio e nulla a se medesimo appare come male. Ma dopo che l'una e l'altra realtà pervennero alla conoscenza reciproca e le tenebre ebbero intravisto la luce, queste tenebre, sotto lo stimolo della concupiscenza del meglio, cominciarono ad inseguirle e ad ardere dalla brama di accoppiarsi con esse, e di parteciparne. Tale inquietudine colpí solamente le tenebre. La luce invece, incapace di ricavare alcunché dalle tenebre, non fu mossa da alcuna vaghezza di essere, ma solamente subí la libidine della contemplazione. E riguardò nelle tenebre, come attraverso uno specchio. Sicché pervenne alle tenebre unicamente una indicazione, e precisamente il colore della luce, mentre la luce per proprio conto non fece che guardare e ritrarsi, senza assorbire alcun elemento dalle tenebre. Le tenebre dal canto loro ricavarono dalla luce una vista fugace, l'indicazione e il colore della materia in cui erano apparse antitetiche ad essa. E poiché, inferiori per natura, le tenebre avevano ricavato dalla natura superiore non già una vera luce ma solamente un'apparenza ed una indicazione della luce, cosí pure solamente una apparenza ed una indicazione del bene riuscirono ad attrarre mercè una indebita appropriazione. Per questo non esiste la compiuta bontà in questo mondo e il bene che vi si ritrova è in una quantità miserevolmente esigua, perché scarso fu pure il contingente di bontà che inizialmente fu incorporato. E pur tuttavia, mediante questo sottile elemento di luce, diciamo meglio, in virtú di questa tal quale apparenza di luce, le creature furono in grado di generare una somiglianza, aspirante a quel connubio che avevano realizzato con la luce».

Pur facendo la debita tara alla testimonianza di Egemonia, tutto preoccupato di stabilire una tavola genealogica che congiunga il manicheismo che egli combatte allo gnosticismo del secondo secolo ormai già ufficialmente bollato per ereticale dalla tradizione ecclesiastica, non si può non prestar fede alla citazione che egli fa dello scritto basilidiano e non si può non riconoscere che nella sua impostazione ideale lo gnosticismo originario ci si rivela chiaramente come un tentativo speculativo di trasportare il dualismo morale di cui vive la predicazione evangelica, sul terreno della cosmogonia.

È il medesimo tentativo che noi cogliamo nei frammenti dell'altro grande maestro della gnosi cristiana: Valentino. Anch'egli alessandrino, venuto a Roma ad aprir scuola e a cercar proseliti. Probabilmente nell'insegnamento valentiniano i problemi antropologici e soteriologici hanno un posto piú in rilievo che non nell'insegnamento di Basilide. Il mondo è per lui simile ad un quadro in cui un pittore maldestro, il demiurgo, ha cercato di ritrarre, parodiandole, le fattezze superbe dell'eone vivente. Ma poiché secondo il precetto aristotelico occorre apporre i nomi delle persone ritratte sui quadri dei pittori, occorreva che il nome dell'eone vivente fosse inciso sul mondo, perché questo ricevesse lustro dalla maestà di colui di cui recava la sbiadita e contraffatta fisionomia. E come, secondo il racconto della Genesi, un principio femminile (la ruach ebraica) agli albori della creazione viene ad instaurare l'ordine nel caos indistinto della materia universa, testè uscita dal nulla, cosí lo spirito differenziatore, che è un principio femminile, introduce nel mondo umano la stirpe degli eletti, affinché siano vinte l'ignoranza e la morte, deposte nel mondo dal demiurgo inadatto e impotente. Solo in virtú di questa coniugazione spirituale, solo in virtú di questa iniezione di principî trascendenti nell'àmbito della vita cosmica e umana, l'uomo sarà reso capace di ascendere nel Pleroma della beatitudine infinita.

L'uomo e il mondo pertanto, nell'insegnamento valentiniano, sono il teatro di un contrasto permanente fra elementi demiurgici ed elementi pleromatici, la cui risoluzione deve essere il risultato di un mistero di salvezza.

Un frammento di lettera di Valentino conservatoci da Clemente diceva, con evidente riferimento a Matteo XIX, l: «Un solo è buono, la cui presenza è la manifestazione attraverso il Figlio e in virtú del quale soltanto può il cuore divenire puro, avendo in antecedenza espulso ogni spirito malvagio. Poiché i molti spiriti che dimorano naturalmente nel cuore non gli consentono di essere puro, compiendo ciascuno di essi le proprie gesta e tutti attossicandolo nei piú vari modi, con le piú sconvenienti cupidigie. Pare a me veramente che il cuore umano sia esposto a subire la sorte di un albergo. Questo è sforacchiato, devastato, imbrattato di lordure, qualora vi facciano dissoluta dimora uomini che non ne hanno alcuna cura, col pretesto che si tratta di proprietà altrui. Allo stesso modo il cuore. Finché non sia oggetto di cura, è immondo e miserevole albergo di innumerevoli demoni. Ma non appena vi abbia spinto lo sguardo l'unico Buono, il Padre, il cuore è già santificato e brilla nella luce. Veramente beato chi possiede un tal cuore, poiché egli vedrà Dio». E lo sguardo del Padre si insinua nel cuore dell'uomo per mondarne le pareti insudiciate dalla presenza dei demoni, attraverso il figlio, il Cristo, mediante il quale il credente, lo gnostico perfetto, è costituito veramente consustanziale (per la prima volta nella terminologia del cristianesimo noi incontriamo il vocabolo omoousios che diverrà nel IV secolo il termine ufficiale per indicare il rapporto del Verbo col Padre) col mondo pleromatico. Si capisce come nella piena ed effervescente consapevolezza di questo rapporto carismatico, Valentino potesse cantare, in quelle cosí dette Odi di Salomone, che noi non esitiamo ad attribuirgli: «Come la mano scorre sull'arpa e le corde parlano, cosí parla attraverso le mie membra lo Spirito del Signore. Ed io parlo sotto l'impulso del suo amore. Poiché esso sopprime ogni elemento estraneo ed ogni sostanza inferiore. Cosí fu fin dal principio e cosí sarà fino alla morte. Poiché nessuno può atteggiarsi ad avversario dello Spirito, e niente può essere levato contro di lui. Il Signore ha moltiplicato la conoscenza di sé. La lode del suo nome affidò a me. I nostri spiriti lodano tutti il suo santo Spirito. Poiché, ecco: scaturí una corrente di acqua viva e divenne un fiume ampio e impetuoso. Esso affluí e sopraffece ogni cosa, portò acqua al tempio e i ripari dei figli degli uomini non furono sufficienti a trattenerlo. Tutti i sitibondi della terra poterono bere. La sete universale fu cosí appagata, poiché dall'Altissimo la bevanda salutare era stata elargita. Benedetti i ministri di questa bevanda, ai quali è affidata l'acqua dell'Altissimo. Essi hanno refrigerato le labbra aride. Hanno rianimato l'istinto vitale affievolito. Le anime vicine a spegnersi hanno ricondotto alla piena vita. Le anime paralizzate hanno rinvigorito. Tutti si sono riconosciuti nel Signore e sono stati salvati nell'acqua dell'eterna vita... Il Signore mi ama; io non avrei saputo amare il Signore se Egli stesso non mi avesse amato. Chi può intendere l'amore, se non chi ama? Io amo il diletto. Dov'è il suo riposo io sono. Io sono confuso con lui (omoousios) poiché l'amante ha raggiunto l'oggetto del suo amore. Io amo il Figlio, ed io stesso diventerò figlio. Colui che aderisce all'immortale vivente, immortale diviene. Colui che trae gioia dalla vita, sarà vivente. Una incisione è stata operata nel mio cuore e il suo fiore è apparso. Vale a dire: la grazia di Dio vi è spuntata e ha suscitato frutti. L'Altissimo mi ha ferito col suo Santo spirito; ha posto a nudo i miei reni dinanzi ai suoi occhi. Mi ha ricolmato di amore. La sua incisione è divenuta la mia salvezza ed io ho corso cosí lungo i sentieri della pace e della verità. Io ho ricevuto la sua gnosi e mi sono drizzato sulla roccia della verità».

L'elemento portentoso del messaggio cristiano, la coscienza cioè della salvezza operata attraverso l'inserzione nel corpo mistico del Cristo e della sua verità, tende cosí nella gnosi a identificarsi con quell'elemento fascinans che per le correnti millenaristiche si accentrava nell'aspettativa del Regno imminente.

E quella sorprendente e paradossale posizione di equilibrio instabile, che il messaggio cristiano aveva realizzato nell'animo dei fedeli, facendo dell'attesa del Regno l'equivalente attuale del Regno stesso, si solidificava nella gnosi in una certezza gaudiosa della salvezza mercè la fede nella transumanazione, conseguita grazie all'unione consustanziale col Cristo, eone del mondo pleromatico.

Il terzo grande maestro che possiamo mettere a fianco di Basilide e di Valentino, è Eracleone. Capostipite della tradizione esegetica cristiana sul Vangelo giovanneo, Eracleone ha offerto largo materiale al commento giovanneo di Origene. Il quale non meno di quarantotto volte lo cita, quasi sempre per approvarlo. Il divario tra il Padre ineffabile e il demiurgo è in Eracleone attenuato.

Il Verbo – e in questo la speculazione di Eracleone si mantiene fedele alla cosmogonia del IV Vangelo – assolve la funzione di mediatore fra l'uno e l'altro. Ma d'altro canto il dualismo sembra riaffiorare in Eracleone nella sua concezione del diavolo. Commentando il passo di Giovanni IV, 21, Origene ci dà, con il suo riferimento a Eracleone, una indicazione preziosa del pensiero del maestro gnostico: «Non fa un'osservazione assurda Eracleone quando dice che con l'immagine del mondo è raffigurato il diavolo oppure il suo mondo, dal momento che il diavolo non è che una parte di tutta la materia crassa, e il suo mondo è la vetta della universale malvagità, vale a dire uno squallido ospizio di belve... La natura del diavolo non sgorga dalla verità, ma da ciò che è agli antipodi della verità, l'errore cioè e l'ignoranza. Per cui né poté risiedere nella verità, né poté avere la verità in sé, saturo come era della menzogna, che rampolla dalla sua natura sostanzialmente incapace di pronunziare giammai parola di verità. Non solo esso è menzognero, ma lo è anche il padre suo, vale a dire la sua natura sorta dall'inganno e dall'errore». Allorquando ricordiamo che il principio del male e delle tenebre nella tradizione zarathustriana è indicato con lo stesso nome che designa la falsità e la menzogna, la Druj, noi non possiamo fare a meno di pensare che il vecchio atteggiamento dualista della tradizione iranica riaffiora nel pensiero gnostico, piú o meno attenuato ed adattato sotto la pressione delle concezioni elleniche e della mistica alessandrina. La visione cosmica di Eracleone si rispecchia nella sua antropologia. Al padre della verità, natura immacolata ed invisibile, fanno riscontro individui spirituali, che sono una cosa sola con il Logos. Il dominio umano del demiurgo è costituito invece dagli psichici. Gli ilici invece sono i figli del diavolo, per i quali non v'è possibilità di riscatto.

Poiché la materia universa appare alla gnosi come la schematizzazione ipostatizzata delle passioni e delle sconfitte di esseri divini decaduti, gli individui umani che partecipano soltanto della materia e lasciano nella materia imputridire l'infusione dello spirito, non possono aspirare all'immortalità, ma, alla morte, si perderanno e si dissiperanno nella materia cosmica. L'immortalità è pertanto una conquista, precisamente come è una conquista, nella visione millenaristica, la partecipazione gloriosa e gaudiosa al veniente Regno di Dio.

Un altro maestro gnostico di cui conviene ricordare l'opera integralmente conservatasi fino a noi è Tolomeo. Anche egli è scolaro di Valentino, ed è vissuto anch'egli a Roma a mezzo il secondo secolo, maestro e proselitista. Interpellato da una matrona cristiana di Roma intorno al valore della legge mosaica e di riflesso quindi intorno ai rapporti fra giudaismo e cristianesimo (un problema cotesto che doveva straordinariamente tener desta l'attenzione degli alti ceti romani all'indomani stesso della campagna antisemitica di Adriano), Tolomeo risponde in termini pacati e sereni, distinguendo nella legislazione del Pentateuco la parte che emana da Dio, quella che va attribuita direttamente a Mosè, e quella invece che va riportata unicamente agli anziani del popolo. Nella parte stessa della legge che emana da Dio, Tolomeo distingue tre parti o sezioni: una parte cioè completamente monda, immune da ogni infiltrazione di male, che merita di essere chiamata propriamente legge, e che il Salvatore non venne a dissolvere, bensí venne a compiere e a realizzare. V'è poi una parte mescolata ad elementi inferiori di imperfezione morale, che il Salvatore abrogò, come indegna della sua natura trascendente. Vi è infine una parte tipica e simbolica, emanata semplicemente per offrire un'immagine preventiva di future realtà spirituali superiori. Quest'ultima parte fu dal Salvatore trasferita dalla sfera del mondo sensibile e fenomenico nella sfera del mondo invisibile ed eterno. La prima parte è rappresentata dal Decalogo. La seconda è rappresentata da un insieme di leggi imperfette e transitorie, come quella del taglione. La terza è costituita dalle prescrizioni legali dei sacrifici, della circoncisione, del digiuno, della Pasqua, degli azimi. Tutta quest'ultima zona è trasfigurata nella precettistica spirituale del Cristo, che vuole la circoncisione del cuore e non della carne, l'astinenza dalle opere malvage e non dagli alimenti vietati, il digiuno simbolico e non quello materiale.

Pure spigolando cosí nel vastissimo campo della produzione letteraria gnostica; pur prescegliendo nel vasto novero dei maestri della gnosi un manipolo che sembra meglio rappresentarla; pur prescindendo da tutta quella farragine di tardive e pesanti elucubrazioni gnostiche che fecero delle comunità del tempo della Pistis Sophia altrettante conventicole di esaltati; noi abbiamo qui degli elementi sufficienti per una delineazione sommaria del contenuto centrale della speculazione gnostica. Questo gnosticismo, attraverso cui il messaggio cristiano iniziale si viene trasformando in una visione integrale e composita del mondo, delle sue origini, delle sue vicende, delle sue trasfigurazioni nel pensiero e nella esperienza dell'uomo, del destino della vita e del raggiungimento della salvezza attraverso il mistero della iniziazione e della grazia, ha già i suoi postulati e le sue tesi ben definiti e organicamente sistemati.

Per la speculazione gnostica Dio, che il Nuovo Testamento designa unicamente Padre, anzi come l'unico e onnipresente Padre, è una pura astrazione, che abita le invisibili ed ineffabili altezze del mondo soprannaturale. Satornilo lo chiama inconoscibile e la scuola valentiniana lo designa come l'Eterno perfetto, preesistente ad ogni realtà formata.

La formazione dell'universo si attua, nella concezione gnostica, in virtú di un processo di emanazione progressiva. Emanate dal Dio sconosciuto sono tutte le realtà che colmano l'abisso tra l'infinito e il finito, tra il mondo inaccessibile della pura spiritualità pleromatica e il mondo della materia sensibile. Queste emanazioni intermedie, che hanno a volte l'aspetto di pure categorie dialettiche, si distribuiscono in coppie (abisso e silenzio, intelletto e verità, parole e vita, uomo e chiesa), che formano la cittadinanza del mondo pleromatico. Una lacerazione misteriosa dell'armonia che avrebbe dovuto sussistere fra le celestiali essenze porta alla formazione del mondo e dell'uomo. Il mito di Sofia, l'eone caduto, il mito immaginato come fondamentale dalla scuola valentiniana, esprime in forma poetica il tentativo della speculazione gnostica per la soluzione del problema del male. Sofia decade dalle altezze inaccessibili del Pleroma e scende di cielo in cielo dominata da passioni che si concretano ipostaticamente negli elementi dell'universo sensibile. Nel mondo cosí rampollato dalla passione concretantesi di Sofia, c'è però una scintilla vivente che è un elemento divino destinato a propagarsi ed a trionfare attraverso la progenie dei predestinati alla salvezza ed alla gloria. Un latente pessimismo tendenzialmente dualistico pervade la speculazione gnostica. Il Cristo in questa speculazione è una virtú incorporea, che prende forme umane solamente per poter spiegare la sua potenza fra gli uomini e non soffre il ludibrio della passione, perché simile ludibrio non è compatibile con la sua pleromatica impalpabile inattingibile natura.

Questo spiritualismo ad oltranza, che caratterizza il movimento gnostico, lo fa radicalmente e irriducibilmente difforme da quella visione realistica del regno di Dio, motivo centrale del messaggio cristiano, che noi abbiamo incontrato nelle correnti millenaristiche. Da una parte una interpretazione realistica e sociale della rivoluzione cristiana, dall'altra una interpretazione individualistica e iniziatica. Tra queste due interpretazioni estreme il cristianesimo antico deve aver conosciuto una quantità di posizioni mediane, che hanno di fatto rappresentato quella media intellettuale e morale che il successo farà riconoscere per ortodossa.

A voler caratterizzare esattamente la posizione dello gnosticismo, non soltanto di fronte al fascio delle primitive esperienze cristiane, bensí anche di fronte allo sviluppo della cultura ellenistica nel medesimo torno di tempo, è di eccezionale interesse ed aiuto la polemica che si svolge a Roma nella seconda metà del terzo secolo fra neo-platonici e gnostici. La ricordiamo qui, perché serve meglio di ogni piú tardo apprezzamento a definire e individuare il contenuto specifico della gnosi.

Nato a Licopoli agli albori del III secolo, educato ad Alessandria alla scuola di Ammonio Sacca insieme con Origene, Plotino era giunto a Roma per aprirvi scuola ai tempi dell'Imperatore filocristiano Filippo l'Arabo, tra il 244 e il 248. Gli scolari si affollarono ben presto numerosi intorno a questo suggestivo interprete della tradizione pagana, che si sforzava di spiritualizzare e di trasformare in un panteismo mistico il paganesimo. Un giorno, secondo la testimonianza del suo grande biografo Porfirio, fece irruzione nella scuola di Plotino un manipolo di gnostici, che cominciarono a formulare le loro difficoltà e a prospettare le loro soluzioni. Plotino volle conoscer meglio la loro lussureggiante letteratura e affidò ai migliori dei suoi scolari il còmpito di confutare i principali scritti della scuola rivale. Poi egli stesso dedicò un trattato speciale alla confutazione delle loro principali idee. Possediamo per fortuna questa confutazione. Costituisce il libro IX della seconda Enneade ed offre un singolarissimo interesse, perché ci dà l'eco viva della polemica che l'espressione piú alta della vecchia speculazione ellenico-romana credeva di poter ingaggiare contro quelle che sembravano le conclusioni piú originali del cristianesimo gnostico. Plotino comincia col riassumere in poche parole la sua dottrina del Divino. Dio è per lui l'uno e il bene, assoluto e ineffabile. Dio è sempre presupposto dalle nostre idee universali. Sicché, quando noi diciamo uno e bene, noi non facciamo altro che tendere i nostri sforzi per rappresentarci in qualche maniera, con mezzi inadeguatissimi, l'unica realtà divina, immobile ed eterna in se stessa, che si rifrange in due ipostasi divine: il nous, la mente, e la psiché, l'anima. È ridicolo introdurre nel divino una situazione di potenza e di atto, di immobilità e di movimento. Né è possibile distinguere nel divino il conoscente e il conosciuto, il soggetto pensante e l'oggetto pensato. Nel pensiero divino e umano, che sono in fondo la medesima imperitura realtà, il dualismo della conoscenza è superato e risolto nell'ineffabile mistero della scambievole completa interferenza. Questa misteriosa realtà divina autocosciente ed essenzialmente buona, riversa perennemente e inesauribilmente da sé l'esistenza particolare. L'universo in tutte le sue multiformi concrete espressioni non è altro che la estrinsecazione sempre nuova e sempre eterna del divino nel tempo. Stolto dunque ricercare l'origine del mondo. Il mondo non fu fatto in un istante determinato, ma era fatto dall'eternità e fin nell'eternità sarà fatto. Né mai si dissolverà e sarà preda della corruzione, poiché si dissolve e si corrompe solamente ciò che ha elementi piú semplici in cui decomporsi. Ponendosi da un alto punto di vista filosofico, Plotino circoscrive ed individua nettamente il caposaldo fondamentale della speculazione religiosa gnostica. Il mondo è per la gnosi cristiana il risultato di una iniziale caduta nel mondo del Pleroma divino. Esso quindi è funzionalmente saturo e traboccante di male. Solo la salvezza operata da un essere ugualmente proveniente dal Pleroma può arrestare il cammino della progressiva decadenza del mondo e riportare alla sua fonte primigenia l'anima dolorante del cosmo.

Ora, per dimostrare la vanità di una tal fede nella salvezza soprannaturale, Plotino deve dimostrare che il mondo non tradisce alcuna orma di malvagità sostanziale e primigenia. Deve dimostrare piuttosto che tutto nel mondo tradisce la traccia prodigiosa e inalterabile del bene. Deve dimostrare che la provvidente assistenza del Buono investe e pervade l'intiero universo; che tutto intorno a noi è ugualmente animato; che l'uomo non è superiore per costituzione spirituale ad un astro qualsiasi della sfera celeste, e che quindi, in conclusione, l'uomo, pur trovandosi a disagio nel corpo, non deve in alcun modo bistrattare chi ha fatto il corpo. Poiché i disagi materiali non posseggono alcun valore agli occhi dell'uomo probo, il quale sa benissimo tollerarli, nell'attesa ansiosa del suo felice riassorbimento nell'anima universale.

Come tutte le culture spirituali delle società in decadenza, l'idealismo plotinico rappresenta un conato magnifico e audace per superare la sensazione religiosa del dolore e del male nel mondo e nella vita. La filosofia, che tende automaticamente al monismo idealistico, cerca con Plotino, come cercherà poi tante volte nel corso drammatico della tradizione cristiana, di superare il dualismo che è insito in ogni primigenia esperienza religiosa, mercè la negazione del male sostanziale. Plotino invita a cercare la genesi delle differenze fra le anime nelle passioni o nella natura. Riportandosi alla corrente platonica, Plotino induce al rispetto degli uomini ispirati dal divino e all'accettazione dei loro insegnamenti. I quali possono riassumersi nelle dottrine della immortalità dell'anima, del mondo conoscibile, del primo unico Dio. Riprendendo la precettistica platonica, Plotino ricorda il dovere che l'anima ha di sfuggire al contatto del corpo, proclamando che il distacco da questo non è altro che il transito dal ciclo penoso delle generazioni, alla immobile serenità della sostanza.

E di fronte alla possibilità che gli gnostici oppongano un'argomentazione ad hominem e dicano che soltanto nel loro sistema e nella loro professione è possibile sfuggire al commercio del corpo, Plotino ribatte: «Noi siamo come due individui dimoranti nella medesima bella casa. Ma l'uno sta dicendo male della struttura e dell'architetto che l'ha costruita pur restando a dimorarvi. L'altro non mormora. Al contrario, riconosce che l'artista ha edificato in maniera meravigliosa. Questo non gli impedisce però, mentre dimora nella casa in cui è ospitato, di attendere ansiosamente il momento di ripartirsene e di essere colà dove non vi sia piú bisogno di domicilio. Il primo apparirà forse piú saggio e piú incline alla partenza, solo perché è giunto a dire che la casa è stata costruita maldestramente con pietre inanimate e legname vile e che essa è ben lontana dalla vera casa? In verità, costui non sa quanta differenza corra fra il tollerare e il non tollerare le realtà necessarie. Il nostro dovere è di restare, corporei quali siamo, in queste case fabbricate per noi dalla buona anima sorella, ricca di cosí inesauribile virtú di fabbricare senza sforzo. O come mai costoro, questi gnostici, osano chiamare fratelli i piú stolti fra gli uomini e ricusano di attribuire simile appellativo al sole e a quanto è nel cielo, e con bocca blasfema escludono dal loro consorzio perfino l'anima del mondo? In realtà, se non possiamo congiungere in una medesima essenza ed origine col cielo i malvagi, possiamo ben ricongiungere ad esso quanti non siano corpi, ma anime chiuse in corpi, legati a quella specie di dimora nell'involucro sensibile, che meglio ricorda da vicino la dimora dell'anima del tutto nel grande organismo dell'universo».

Con questa contrapposizione tra il senso umanitario cristiano-gnostico e l'individualismo mistico del panteismo neoplatonico si chiude il trattato di Plotino contro la gnosi. Non c'è da desiderare una delineazione piú netta e piú tipica del contrasto tra le forme raffinate della speculazione ellenistica e la forza umanitaria del messaggio cristiano. Pur nel suo tentativo di tradurre in termini ed in categorie di sistemazione teoretica cosmogonica il messaggio salutare della rivelazione cristiana, lo gnosticismo conserva, della buona novella, il profondo senso mistico della solidarietà nel dolore e nel riscatto. È quindi tendenzialmente dualista e contro questo dualismo il monismo plotinico insorge. Se parallelamente al formarsi del pensiero gnostico teniamo di mira il movimento proselitistico del millenarismo cristiano, anch'esso tutto pervaso di senso dualistico della vita e di aspettativa di una palingenesi cosmico-sociale, noi comprendiamo perfettamente come, nel decorso della civiltà romano-mediterranea, il cristianesimo costituisse una forza di ascensione e di progresso, destinata infallibilmente a scardinare la vecchia struttura sociale del mondo romano per trapiantarla su altre basi e su altri sostegni.

La prepotente novità dell'esperienza cristiana non poteva fare a meno di creare una nuova arte ed una nuova poesia: l'arte delle catacombe e la poesia della romanzesca letteratura gnostica.

In verità non si può dare valutazione piú genuina e adeguata della infinita portata morale della rivoluzione cristiano-gnostica che quella offerta dalla originale bellezza della poesia gnostica. In uno dei romanzi gnostici piu complessi, il romanzo che racconta i viaggi di San Giovanni Apostolo ed Evangelista, noi troviamo un inno attribuito al Cristo che è senza dubbio dal punto di vista artistico uno dei documenti piú eccelsi dell'antica letteratura cristiana. Esso canta il mistero dell'anima liberata e redenta, che vibra all'unissono con l'Universo, nella consapevolezza gioiosa dell'universale riscatto operato dal Cristo. Narra l'Apostolo, secondo l'immaginazione del poeta gnostico: «Piú volte camminando con il Cristo io ebbi vaghezza di osservare se la sua orma era disegnata sulla terra. Mai la scorsi. E un'altra cosa vi riferirò, o fratelli, ad incoraggiamento della vostra fede in Lui. Prima che egli fosse catturato dai Giudei, egli avendoci tutti raccolti parlò cosí: – Prima che io sia consegnato, sciogliamo inni al Padre e andiamo cosí incontro al destino. – Avendoci pertanto ordinato di disporci in giro l'uno tenendo strette le mani degli altri, postosi egli stesso nel mezzo, iniziò il canto dicendo: – Gloria a te, o Padre, gloria a te, o Verbo, gloria a te, o Spirito. Voglio essere salvato e voglio salvare; voglio essere sciolto e voglio sciogliere; voglio essere triturato e voglio triturare; voglio mangiare ed essere mangiato; voglio ascoltare e voglio essere ascoltato! Voglio essere compreso tutto comprendendo; voglio essere lavato e voglio lavare, la grazia danza. Voglio suonare. Danzate tutti. Voglio fuggire e voglio restare; voglio adorare ed essere adorato; voglio essere unito e voglio unire; non ho casa e case posseggo; non ho tempio e templi posseggo; lampada sono per te che mi contempli, specchio sono per te che mi intendi, porta sono per te che picchi, strada sono per te, viandante. Scopri te stesso in me che parlo e, veduto quel che faccio, sigilla nel piú impenetrabile silenzio i miei misteri. O tu che danzi, intendi bene il mio operato. Tua è questa passione dell'umanità che io debbo affrontare. Tu non avresti in alcun modo potuto comprendere quel che tu soffri, se io non fossi stato inviato a te come parola del Padre. Mi hai come un letto, adagiati su di me. Chi sono io? Lo saprai quando me ne sarò andato. Quel che ora appaio, non sono. Quel che realmente sono, lo vedrai quando verrai. Se tu avessi conosciuto il soffrire, avresti avuto la capacità di non soffrire. Conosci dunque il soffrire; sarai in grado di non soffrire. Voglio vibrare ad un ritmo con tutte le anime sante. Riconosci in me la parola eterna della sapienza. – Dopo avere cosí danzato con me, il Signore uscí e noi come trasognati ci disperdemmo per tutte le vie. Neppure io che l'avevo visto, rimasi presente alla sua passione. E quando egli fu appeso sul legno della croce, tenebre impenetrabili avvolsero tutta la terra. Ma il Signore disse: – Giovanni, per la moltitudine che è in basso a Gerusalemme io sono crocifisso. Ma a te parlo perché tu apprenda quel che un discepolo degno deve imparare dal suo maestro e un uomo deve apprendere da Dio».

Il millenarismo sognava l'avvento prodigioso del comunismo sulla terra; lo gnosticismo vedeva nell'annuncio cristiano la realizzazione di una salvezza cosmica, reintegrante il turbamento introdotto nell'universo dalla caduta di un eone nel Pleroma. Sembra a prima vista che le due posizioni fossero antitetiche e irreconciliabili. Da una parte la visione sociale e umanitaria della salvezza cristiana: la concezione profetica e apocalittica della tradizione giudaica. Dall'altra parte la visione di una perfezione spirituale e individuale, conseguita mercè il raggiungimento di una luce intellettuale comunicata dalla parola immanente di Dio: visione ellenistico-speculativa, in cui veniva in qualche modo a confluire, trasfigurato, il miglior viatico della filosofia greca. Le due correnti antitetiche si sarebbero perpetuate nello sviluppo della tradizione e della società cristiana, costituendo il fermento drammatico permanente del fatto cristiano, fino all'esaurimento della sua capacità normativa.

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