III LE COMUNITÀ SUB-APOSTOLICHE

Il canone degli scritti neo-testamentari non fu redatto in seno alla comunità cristiana prima della fine del II secolo. Sull'esempio della canonizzazione dei testi del Vecchio Testamento, che veniva operandosi pressoché nel medesimo torno di tempo, fu naturale che anche la Chiesa cristiana, mano mano che si veniva organizzando autonoma di fronte al mondo delle sinagoghe, sotto la cui ombra tutelatrice aveva realizzato i suoi progressi e la sua disseminazione, avviandosi verso una costituzione gerarchica unitaria, cercasse di registrare in un novero ufficiale i testi cui sarebbero stati raccomandati la sua dottrina e il suo insegnamento. I Vangeli entrati nel canone testamentario non furono i soli documenti nei quali l'esperienza cristiana del primo secolo cercò di fissare il racconto della vita e delle operazioni del Cristo. Le lettere paoline accolte nel canone non portarono tutte debitamente il nome dell'Apostolo, che non era stato della prima sequela del Maestro. Le narrazioni apostoliche e l'Apocalissi canonica non furono i soli documenti narrativi od escatologici nei quali la società del primo secolo morente e del secondo nascente cercò di raccogliere le memorie della predicazione apostolica e l'eco delle prime speranze messianiche. Ma una comparazione minuta fra i testi accolti nel nostro Canone e i testi extra-canonici ci permette di constatare e di affermare che un sagace criterio selettivo ha presieduto alla redazione del Canone e alla esclusione dei testi che la comunità non ha riconosciuto degni di esprimere l'esperienza ufficiale e uniforme della collettività credente. D'altro canto, se la prima stesura del Canone ha ospitato testi che non hanno poi superato l'ulteriore prova del consenso comunitario, anche in questa piú tarda esclusione si può cogliere il senso oculato e fine di tutto ciò che avrebbe potuto effettivamente servire alla edificazione progressiva della società spirituale del Cristo.

Esiste pertanto tutto un gruppo di scritti extra-canonici che ci permettono di penetrare nel fascio delle esperienze delle comunità credenti, fra lo scomparire progressivo della prima generazione apostolica e il sorgere delle grandi correnti dottrinarie del cristianesimo nel II secolo: lo gnosticismo e l'apologia filosofica.

Si tratta di una letteratura immune ancora da forti preoccupazioni dottrinali, di carattere prevalentemente etico ed esortativo, e con una particolare fisionomia di letteratura d'occasione.

Fiorita in uno spazio di tempo relativamente breve, questa letteratura, che dai tempi della prima raccolta fattane dal Cotelier, è conosciuta sotto il nome di letteratura dei padri apostolici, riflette molto trasparentemente i caratteri di quel periodo intenso e laborioso di transizione, nel quale, sparso il seme del messaggio evangelico, si cercò automaticamente di tradurne gli enunciati mistici in termini acconci alla costituzione salda della vita associata, sorta su dall'ispirazione del messaggio evangelico.

In questa letteratura l'interesse per i problemi mistico-etici prende decisamente il sopravvento su quelli dottrinali.

Nulla del resto in questo che non risponda alla dialettica consueta di sviluppo di una società religiosa in formazione. La materia incandescente della prima disseminazione spirituale tende spontaneamente a solidificarsi in un insieme di enunciati teoretici e di regole pratiche di disciplina esteriore. Si tratta di disciplinare una società religiosa sorta appena di su un annuncio messianico e che, pur imperniandosi su un radicale capovolgimento interiore, postula una sistemazione pratica. La quale è chiamata non soltanto a fissare in qualche modo le leggi atte alla sistemazione della vita interna, ma anche a chiarificare i rapporti possibili col mondo circostante, rappresentato da due forze difformemente ostili: il potere imperiale e il giudaismo.

Negli scritti subapostolici, per quanto eterogenei e diversi l'uno dall'altro, noi possiamo perfettamente cogliere la vita di una società religiosa che viene creandosi le sue leggi, il suo canone liturgico, la sua organizzazione gerarchica, la sua prima embrionale e virtuale trascrizione filosofica.

Gli autori di questa letteratura subapostolica sono Clemente romano, Ignazio d'Antiochia, Policarpo di Smirne, gli autori della Didaché e della cosiddetta lettera di Barnaba, Erma romano, Papia di Gerapoli, il redattore della lettera a Diogneto.

Come a prima fonte, tutti questi scrittori attingono all'insegnamento rivelato delle Sacre Scritture. La parola di Gesù si colloca automaticamente di fianco a quella del Vecchio Testamento, come manifestazione diretta e primordiale della volontà e della verità di Dio. Infine, di fianco al Vecchio Testamento e alla parola di Gesù, si colloca la predicazione orale o scritta degli Apostoli. Caratteristica la preoccupazione di questi scrittori di non fare mai appello alla propria autorità e di non pretendere mai di impartire un insegnamento che non sia poggiato sulla tradizione. Queste anonimità e impersonalità degli scritti finiscono con l'assegnare a tale letteratura subapostolica una importanza ed una portata tanto piú alte. Si tratta veramente di scritti che appaiono come espressione collettiva di uno stato d'animo diffuso, determinato dalla identica fede e dal medesimo entusiasmo.

Va collocata al primo posto nel novero di questi scritti «La Dottrina del Signore ( impartita) dagli Apostoli ai gentili» che, ritrovata nel 1883, ha gettato di colpo, sulla vita intima delle primitive comunità cristiane, una luce insperata e seducente.

Nella sua redazione attuale questo scritto consta di tre parti: una parte morale (Capi 1-6), una parte liturgica (Capi 7-10) e una parte disciplinare (Capi 11-15), con una conclusione escatologica. Questa la sua ripartizione programmatica. Considerando tale scritto soprattutto come regola pratica di condotta di comunità viventi lontano da grandi centri, possiamo scorgere in esso un nucleo centrale che tratta di argomenti liturgico-disciplinari cui la catechesi morale e la conclusione escatologica servono rispettivamente di prologo e di epilogo.

Attingendo piú o meno consapevolmente da vecchissime tradizioni morali che hanno raffigurato la vita morale dell'uomo come un viaggio e un itinerario, costretto continuamente a scegliere tra alternative divergenti, la Dottrina dei dodici apostoli distingue la via della vita da quella della morte. Per procedere nella prima, bisogna amare Dio e il prossimo come se stessi, benedire chi ci maledice, pregare per i nemici, digiunare per i persecutori, offrire l'altra guancia a chi ci schiaffeggia, far due miglia di strada con chi ci chiede di farne uno, dare la tunica a chi ci toglie il mantello, dare senza attendere restituzione, pure essendo cautelati nella elemosina. All'enumerazione delle pratiche che contraddistinguono la via della vita, il manuale fa seguire la enumerazione delle malvagità, di cui è disseminata la via della morte. La parte fondamentale dello scritto è quella che riguarda la celebrazione dei due riti principali intorno a cui si accentra e di cui si alimenta la vita mistica della comunità: il battesimo e la eucarestia. Naturalmente il battesimo è amministrato per immersione ed è sanzionato dalla invocazione trinitaria. Dopo il rito battesimale, la Didaché espone le regole che debbono disciplinare il rito eucaristico. La comunità ha vivissimo, come nell'epistolario paolino, il senso della significazione mistica della celebrazione agapico-sacramentale, come simbolo permanente della realizzazione del Cristo mistico, nella solidarietà dei fratelli consumanti il medesimo pasto.

Quello speciale sapore di vita cristiana primitiva che trapela da tutta la Didaché, emana, oltre che dalle consuetudini mistiche della celebrazione eucaristica, dalle condizioni stesse in cui appare costituito il regolare funzionamento nell'interno di ciascuna comunità e in cui appare concretarsi il legame che unisce i vari gruppi credenti tra loro. Quel ministero itinerante di cui sono esempio tipico i viaggi missionari di San Paolo e che dovette scomparire un ventennio circa dopo la morte dei dodici, appare qui ancora nella sua piena efficienza, disciplinato da regole atte ad evitare ogni inganno od abuso. E parallelamente al ministero itinerante che comprende apostoli, profeti e dottori, si vede sorgere e stabilirsi, con mansioni puramente amministrative, la gerarchia locale costituita di vescovi e di diaconi.

Dopo avere ferventemente raccomandato la concordia, il perdono delle offese, l'obbedienza in tutto e per tutto al messaggio evangelico, la Didaché si chiude con uno squarcio escatologico, che non si diversifica, per il suo contenuto come per la sua esposizione, dalle descrizioni che cosí San Paolo come i Sinottici, fanno della venuta del Signore. E con questa visione ultima dell'annuncio imminente del Regno si chiude bruscamente, ma non senza logica, la Didaché. Iniziato come una predicazione morale, prescritte tutte le norme acconcie al regolare funzionamento della vita mistica e disciplinare della comunità, lo squisito documento paleo-cristiano culmina nella delineazione del grande dramma escatologico. Questo scritto semplice e disadorno, che enumera senza pretese la serie dei precetti e degli insegnamenti donde trae alimento l'anima della primitiva comunità, racchiude veramente nella sua forma ancora spontanea e irriflessa tutta la spiritualità che dovette reggere l'entusiasmo dei primi gruppi di cristiani.

Si potrebbe dire che questo denso e rapido documento liturgico-messianico segni il punto di interferenza e di passaggio tra le due concezioni della vita cristiana, destinate permanentemente a scavalcarsi e a ritrovarsi nel tempo: la concezione carismatica e quella dogmatica.

Documento egualmente di transizione possiamo giudicare la cosiddetta Lettera di Barnaba. Si tratta di un piccolo trattato di esegesi allegorica, a volte paradossale e strano, dei testi sacri del Vecchio Testamento, mirante a dimostrare come l'antica Legge concessa da Dio al popolo d'Israele contenesse, in un linguaggio figurato, che gli ebrei non erano riusciti a scoprire attraverso la lettera, tutta l'economia del Nuovo Testamento, ad uso di quel popolo cristiano in cui Dio aveva deciso di trasferire l'alleanza. Squisitamente paolina, l'autore della lettera, dopo aver enunciato lo scopo del suo messaggio che è quello di insegnare ai suoi corrispondenti la gnosi vera del vecchio patto, dichiara recisamente abrogata la Legge e abrogate con essa tutte le pratiche fino allora intese dai Giudei in un senso che Dio non aveva mai voluto dar loro.

Nel simbolismo dello pseudo-Barnaba tutte le raffigurazioni e i fatti del Vecchio Testamento sono passati al vaglio di una raffinata esegesi allegoristica. I motivi escatologici, vivissimi nello scrittore, son quelli che offrono i criteri centrali per la interpretazione e l'applicazione della vecchia rivelazione di Dio. Cosí la festa giudaica del sabato acquista per lo scrittore della Lettera un significato escatologico, che annulla in radice ogni pratica legalistica tradizionale. Tutto carico di ottimismo antropologico e sociale, l'autore della lettera di Barnaba vede l'essenza della predicazione evangelica nella trasformazione della vita, in vista dell'imminente trionfo nel Regno. Una profonda preoccupazione morale avviva la sua precettistica. Il cristianesimo è innanzi tutto trasposizione delle vecchie promesse d'Israele alla società cristiana, la quale, nella pratica delle virtú sociali piú elette, si prepara alla partecipazione del Regno, che il Cristo inaugurerà per i suoi predestinati. In forma aforistica l'autore riassume il suo simbolo di fede in queste solenni e grandiose parole: «Tre sono i dogmi del Signore; la speranza della vita, principio e fine della nostra fede; la giustizia, principio e fine del giudizio; la carità, in quella letizia e freschezza di opere che costituiscono la testimonianza apodittica della vera giustizia». Tutto il documento è una squisita parafrasi di questo aforisma centrale. Tutto pieno del senso gaudioso della nuova vita morale inaugurata dal cristianesimo e incrollabilmente fiducioso nella prossima venuta del Regno, l'anonimo autore può chiudere il suo ammonimento con queste alate parole: «Salute, o figli dell'amore e della pace! Finché voi trascorriate la vostra vita in questo magnifico vassoio, che è il corpo datovi da Dio, non venite meno a nessuno dei precetti del Signore, ma tutti traduceteli in pratica, con fedeltà e abnegazione. Son degni della vostra docile e quotidiana obbedienza».

La Didaché, come la Lettera dello pseudo-Barnaba, sono documenti che ci recano a distanza di secoli l'eco dell'intima vita spirituale delle comunità cristiane dell'epoca di Nerva e di Traiano. La Lettera di Clemente di Roma alla comunità di Corinto ci dà l'espressione di quelli che erano i solidali vincoli di carità e di mutua assistenza tra le comunità cristiane, disseminate lungo i grandi itinerari dell'Impero, nella medesima epoca.

La comunità di Corinto doveva versare in una grave crisi. I fedeli erano insorti contro i loro presbiteri, e tenendo in non cale la irreprensibile correttezza della loro condotta, ne avevano destituiti alcuni dal loro ministero. Non era cosa completamente nuova e ignota nell'àmbito delle comunità credenti. Lo stesso autore della lettera romana, ricordando la prima lettera dell'Apostolo Paolo ai fedeli di Corinto, osserva come già precedentemente la medesima Chiesa era stata agitata e devastata da scissioni e da rivalità. Ma Clemente rileva dei tratti differenziali tra la situazione di cose rispecchiantesi nella prima lettera di Paolo ai suoi convertiti di Corinto e l'attuale stato di turbamento della Chiesa, in cui debbono essere i discendenti dei convertiti dall'Apostolo. Allora si era trattato di raggruppamenti e di partiti che facevano capo, e se ne vantavano, ad Apostoli autorizzati quali Paolo e Cefa, o a maestri da essi in certo modo convalidati, come Apollo. Ora invece si tratta di pochi facinorosi che han posto in subbuglio la comunità, provocando una ribellione vergognosa ed assurda contro se stessi. Poiché non è forse la comunità cristiana un sol corpo e secondo il grande insegnamento dell'Apostolo non costituiscono i fedeli, come altrettante membra, il corpo mistico del Signore? Roma, attraverso il capo della comunità, interviene. Si direbbe che la comunità romana piú d'ogni altra senta che il malessere di una comunità è il malessere dell'universale organismo cristiano. La Chiesa cristiana non può non essere ecumenica. La paralisi di una parte è la paralisi della carne del Cristo. Se il primato di Roma ha in questa lettera di Clemente la sua originaria epifania, diciamo subito che questa epifania costituisce il primato di Roma quale primato nel servizio, nell'assistenza e nella comprensione dei superiori interessi universali dell'organizzazione uscita dal Vangelo.

Su questa consapevolezza di un ministero primaziale su tutte le comunità professanti la fede del Cristo nel mondo mediterraneo, grandeggiano, nella memoria e nell'ammirata devozione dei fedeli, le figure dei grandi testimoni di Cristo, gli Apostoli, associati nella predicazione e nel martirio: San Pietro e San Paolo.

Come negli altri scritti subapostolici, anche in questa lettera, per tutto ciò che riguarda il ministero carismatico e l'assistenza morale e disciplinare in grembo alla comunità, troviamo la triplice categoria dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi. Non appare che i presbiteri fossero gerarchicamente distinti dai vescovi. Le due mansioni si direbbe che tendano a scambiarsi e ad equivalersi. Soltanto un quindicennio piú tardi, nell'epistolario ignaziano, i due termini assurgeranno ad un significato ben distinto, corrispondente ad altrettanti gradi di autorità.

Ancora una volta noi possiamo osservare che in questo, come negli altri scritti subapostolici, è difficile rilevare tratti cospicui per quanto può concernere il contenuto teologico dottrinale professato dalla comunità, di cui Clemente si fa interprete e portavoce. La densa vita carismatica del gruppo dei fedeli romani trova la sua espressione immediata nella fede trinitaria, in cui si rifrange la consapevolezza della dipendenza da Dio, attraverso il Cristo, salvatore, e lo Spirito della grazia, effuso nella comunità come primizia e garanzia della superiore gioia nel Regno veniente.

La distinzione tra il Cristo e lo Spirito non ha assunto ancora alcuna chiarificazione concettuale precisa. Come in San Paolo, lo Spirito non è che il Cristo nella sua ipostasi di dono permanente nella comunità, che attende il ritorno glorioso di Lui dal cielo. Quel che troneggia sovrano nella esperienza della comunità è l'ideale della risurrezione, che Clemente convalida nello spirito dei fratelli mercè l'esempio della risurrezione di Cristo, primizia della nostra. Si direbbe che, però, come già nella comunità di Corinto all'epoca di Paolo (testimone il memorando capitolo XV della prima lettera canonica dell'Apostolo ai Corinzi) dei dubbi corrano tra le file della comunità corinziaca a proposito di questa possibilità di una resurrezione della carne dalla morte, che aveva dovuto riuscire fin da principio cosí ostica alle abitudini mentali, e agli orientamenti spirituali del mondo ellenico. Clemente sente il bisogno di avvalorare la sua proclamazione della risurrezione, come già aveva fatto San Paolo, ricorrendo all'esempio della vita vegetativa, facendo appello allo spettacolo quotidiano dei fenomeni naturali e al mitico prodigio della fenice araba.

Nonostante le ampie digressioni e le sovrabbondanti esemplificazioni, la lettera di Clemente romano ai Corinziani costituisce senza dubbio uno dei piú rimarchevoli gioielli dell'antica letteratura cristiana. C'è in essa una simmetrica distribuzione di parti e un rigoroso procedimento logico. La prima parte della lettera, preceduta da un prologo che comprende, oltre i saluti della Chiesa, accenni ai dissensi che han dato lo spunto allo scritto e alla passata insigne virtú della comunità che ha avuto a fondatore San Paolo, traccia un vivente quadro di vita e delle virtú da praticare. Il concetto dell'unità dei fedeli in Cristo, corpo mistico che vive in permanenza nella comunità, serve come felice passaggio alla seconda parte della lettera, ove il motivo soggiacente agli insegnamenti della prima, la necessità cioè della concordia e della pace tra gli iniziati al Cristo, è affrontato direttamente e applicato ai casi della disordinata e indocile comunità corinziaca. Al termine della sua riprensione e della sua minaccia contro i fautori dello scisma che non vorranno sottomettersi, l'autore prorompe, non senza solennità, in una calda e alata preghiera, nella quale, associato ai fedeli, implora che il creatore del tutto conservi immacolato il numero degli eletti. Preso sempre piú dalla commozione del suo impeto religioso, lo scrittore scioglie gli inni della gloria al Signore, implorandone la protezione e la Grazia per tutti che nel pellegrinaggio della vita assolvono le mansioni da Dio affidate a ciascuno.

Non mancano nella lettera tratti di vera poesia mistica come quelli in cui l'autore descrive l'armonia dell'universo e l'eterno avvicendarsi della vita e della morte nei fenomeni naturali.

Di fronte agli altri scrittori subapostolici, Ignazio di Antiochia è quegli che offre caratteri piú personali e atteggiamento piú riconoscibilmente proprio. L'insegnamento degli Apostoli, la mistica del IV Vangelo, soprattutto la tradizione paolina, hanno subìto nel suo spirito una elaborazione potente e una fusione originale. Noi possediamo ben sette lettere. I tentativi di vulnerarne l'autenticità e di disperderne quindi la significativa testimonianza possono ritenersi irreparabilmente falliti. Solo un proposito deliberato di sconvolgere e annullare in radice la logica di sviluppo della Cristianità primitiva può aver suggerito di scoprire in questo tipico epistolario un tentativo tardo di accreditare successive elaborazioni del pensiero cristiano nel secondo secolo. Cosí come sono, queste lettere del vescovo antiocheno avviato al suo martirio, unitamente alla lettera del vescovo Policarpo di Smirne, che è indissolubilmente legata ad esse e per l'occasione che la suggerí e per il tempo in cui fu scritta, ci dànno la possibilità di rievocare, nelle sue linee centrali e fedeli, un periodo brevissimo che però è il piú intensamente vissuto della vita del vescovo e, attraverso la sua, della vita di tanta parte della Cristianità del Vicino Oriente. Forse unica vittima della persecuzione anticristiana sotto il regno di Traiano in Siria, Ignazio si avvia a Roma incatenato a dodici leopardi, vale a dire «i soldati di scorta che meglio son trattati, peggiori si mostrano». Durante il lungo tragitto attraverso le città asiatiche, già tutte pervase dalla nuova esperienza cristiana, Ignazio, come già Paolo nel periodo della sua cattività, conserva una certa libertà di movimento. Questa libertà gli permette di comunicare con i fedeli che muovono devoti e commossi ad incontrarlo. Della prima parte del viaggio che si svolse da Antiochia di Siria a Filadelfia, noi sappiamo soltanto, dall'epistolario, che il tragitto fu compiuto parte per mare e parte per terra. Filadelfia è precisamente la prima tappa dell'itinerario. Seconda tappa fu Smirne dove, accolto affettuosamente dal vescovo Policarpo, Ignazio poté ricevere le deputazioni inviate dalle Chiese di Efeso, di Magnesia e di Tralli. Donde le tre lettere a questa comunità scritte con parole di gratitudine e di esortazione. Da Smirne stessa il vescovo manda una lettera ai fedeli di Roma, quasi preannuncio del suo non lontano arrivo.

Da Smirne il prigioniero, ora in compagnia del diacono Burro, procede, probabilmente per via di mare, fino ad Alessandria Troade. Raggiunto ivi dal diacono Cilicio Filone e da un tal Reo Agatopo, che è forse un diacono antiocheno, scrive lettere alle Chiese lasciate sul suo cammino: Filadelfia e Smirne.

A questo punto si esauriscono i dati di viaggio forniti dall'insieme delle lettere ignaziane. La lettera di Policarpo alla Chiesa di Filippi ci dà notizie complementari. Da essa cosí sappiamo che il gruppo dei prigionieri e dei soldati romani era passato per Filippi e che quivi, come nelle città dell'Asia Minore, la comunità del luogo era stata prodiga di dimostrazioni affettuose al vescovo che si avviava serenamente al martirio. Da qui si perdono le tracce del prigioniero. Forse nel momento in cui Policarpo scriveva, il vescovo di Antiochia aveva già sofferto il martirio nella Roma imperiale. La storia. non ci ha conservato atti autentici di questo martirio. Ma il linguaggio adoperato da Ignazio nella lettera ai Romani è, nella storia della esperienza cristiana, qualcosa di piú alto di qualsiasi testimonianza documentata.

Questa lettera di Ignazio ai Romani, pur non presentando nulla di diverso per contenuto dottrinale o per forma stilistica dalle altre che il vescovo martire aveva disseminato lungo il suo penoso itinerario di prigioniero politico, merita benissimo di essere segnalata a parte fra le altre. Il motivo che l'ha dettata, gli accenti appassionati che vi si riscontrano, sgorganti dal cuore del vescovo antiocheno, ne fanno un documento prezioso, letteralmente unico nella letteratura cristiana di tutti i secoli. Ignazio non ha mai messo piede nella capitale dell'Impero. Vi giungerà unicamente per morire nella professione cristiana. Egli sembra temere che la comunità di Roma, nel cui grembo si direbbe non debbano mancare personalità di riguardo, possa intercedere in suo favore presso la Corte imperiale e implorare per lui una grazia che lo sottragga al martirio. E questo turba e sgomenta il fiero capo della comunità cristiana antiochena. Scrive pertanto, non già per impartire insegnamenti in materia di fede e di morale, ma si esprime unicamente quale prigioniero di Cristo, che chiede a fratelli di non volgere a suo danno la carità e di non impedirgli di raggiungere il trono di Dio, ché «è bello e seducente tramontare al mondo per risorgere lucenti nella gloria del Padre». Ignazio attende dal martirio di essere trasformato «da pura voce in parola di Dio», di essere innalzato alla dignità di vero discepolo di Gesù Cristo. Nell'ardore del suo desiderio della testimonianza cristiana, giunge a porre in guardia i suoi corrispondenti dalla stessa propria possibile debolezza. «Se quando io sarò tra voi vi supplicherò di intercedere per me, non mi date ascolto. Prestate orecchio piuttosto a quanto ora fermamente vi scrivo. Vi scrivo da vivo, ma già tutto anelante la morte. Il mio amore è stato infisso sulla Croce. In me non c'è fiamma che arda per cose materiali; una vena pullulante di acqua viva parla in me, conclamando: – Vieni verso il Padre! – Non mi compiaccio di godimenti terreni. Non ho cupidigia di alimentazione sensibile. Voglio il pane di Dio, che è la carne di Gesù Cristo, disceso dal seme di David, e voglio, bevanda, il suo sangue, che è amore incorruttibile».

Nello spirito del confessore il martirio è già ormai una realtà presente, che suggerisce alla sua penna immagini di una crudezza impressionante: «Che io mi giovi delle belve che mi sono preparate. Io prego che esse si gettino subito su di me. Le accarezzerò perché mi divorino all'istante. Siatemi dunque indulgenti. Io so bene quel che mi giova. Ora solo comincio ad essere discepolo di Cristo. E che nessuno degli esseri visibili od invisibili mi impedisca di incontrarlo».

Questa passione divorante del testimone antiocheno per il martirio, fece fin dall'antichità una cosí profonda e patetica impressione nelle file della società cristiana, che passi della lettera ignaziana ai Romani furono a gara citati dagli scrittori del II secolo. Un passo specialmente ricorre come tessera solenne di fede: «Permettete che io divenga pasto per le belve, mercè cui mi è concesso di incontrarmi col mio Dio. Io sono frumento di Dio, destinato ad essere maciullato dalle fiere, per divenire puro pane del Cristo. Accarezzate piuttosto le belve, perché siano mia tomba e non lascino neppure un frammento del mio corpo, cosí che io non sia di peso ad alcuno. Allora sarò vero discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà piú il mio corpo. Innalzate dunque preghiere al Cristo per me, affinché io divenga tra le fauci delle belve vittima ed olocausto santo di Dio».

Ma se l'epistolario ignaziano ci fosse soltanto espressione e testimone di un senso estasiato di beatitudine, nella confessione cruenta della fede cristiana sarebbe documento indubbiamente privilegiato ed elettissimo di una privilegiata coscienza di martire. Sarebbe cioè un documento agiografico di primissimo ordine, prezioso per la valutazione dell'entusiasmo che avvivava le prime comunità sorte dalla disseminazione del Vangelo. Ma non avrebbe una importanza di grande rilievo per la determinazione del processo di sviluppo di queste comunità, verso la loro organizzazione dottrinale e disciplinare. Quello che conferisce invece una nuova importanza all'epistolario del vescovo antiocheno è la calda difesa che esso fa dell'organizzazione gerarchica del cristianesimo e la difesa strenua, su cui insiste, della realtà concreta della salvezza operata dal Cristo nella carne e del suo futuro trionfo. Ignazio è il banditore e l'Apostolo dell'unità comunitaria cristiana sotto il governo del vescovo. L'epistolario ignaziano ci offre il quadro di una organizzazione gerarchica pienamente stabilita: un vescovo, un collegio di presbiteri, i diaconi. A tutti costoro la comunità deve ossequio e obbedienza. Colui però che, quale genuino rappresentante di Dio, riveste l'autorità suprema su tutto che riguarda la disciplina, il culto, l'istruzione dogmatica e morale, è il vescovo. Egli, mediante la costante unione del suo pensiero con Dio, è il migliore interprete della sua volontà. Insignito di speciali doni carismatici, ottiene anche rivelazioni celesti. I fedeli, per essere sicuri che le loro azioni sono accette a Dio, debbono agire concordemente col vescovo. E al vescovo la comunità deve aderire, come le corde sono strette alla lira, perché è solo attraverso il concorde amore e la armonica unione, che Cristo scioglie al Padre l'inno della sua riconoscenza e del suo amore. Attraverso questa voce concorde e sinfonica, Dio riconosce nei fedeli le membra sante del suo unigenito figliuolo. E non ci può essere validità degli atti dell'iniziazione e del culto, quali il battesimo, l'agape e l'eucaristia, se la presenza del vescovo non avviva il rito con l'affiato dello spirito che passa per lui.

Nella valutazione di Ignazio, il vescovo simboleggia l'unità personale e mistica dell'intiera comunità. Il vescovo è il mezzo necessario per tramutare questa comunità da pura associazione empirica di credenti in un unico corpo mistico, nutrito di fede e di speranza. Lo stesso misticismo ardente che accompagna le invocazioni ignaziane al martirio, fa dell'ecclesiologia d'Ignazio un poema di misticità associata. Dopo Paolo, nessuno scrittore cristiano dei primi secoli ha sentito con altrettanta vivezza la concreta palpabilità del corpo mistico di Cristo e la indispensabilità dell'unione nella convivenza cristiana, per la reale e salutare partecipazione ai carismi ed alla gloria.

Due tendenze leggermente antitetiche costituiscono l'orientamento dell'epistolario ignaziano dal punto di vista dottrinale. Il senso della novità cristiana gli fa, sulle orme di Paolo, definire il giudaismo come un vecchio fermento inacidito che occorre espellere e come un vecchio mito spogliato ormai di ogni valore normativa e di ogni applicabilità pratica. Per la prima volta nella letteratura cristiana, Ignazio parla del cristianesimo come grande fatto e grande messaggio, difformi e superiori al giudaismo. D'altro canto Ignazio si oppone recisamente e irriducibilmente ad ogni forma di dottrina docetica, che insegnando la non realtà della carne del Cristo, veniva ad infirmare in radice tutto il valore della sua passione redentrice, e ad annullare di rimbalzo la fede nella resurrezione. Con una insistenza, che tradisce la forte preoccupazione, Ignazio formula dichiarazioni esplicite sulla incarnazione, la vita terrena, le sofferenze, la morte e la risurrezione di Gesù: «Siate sordi a chi non vi fa parola di Gesù Cristo, della stirpe di David, figlio di Maria, che in realtà fu generato, mangiò e bevve. Siate sordi a chi non vi fa parola di Gesù Cristo, che fu in realtà perseguitato sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso e morí sotto gli occhi delle creature celesti, terrene ed infernali e che veramente fu fatto risorgere di tra i morti dal Padre, che allo stesso modo risusciterà un giorno tutti noi, quanti crediamo in lui e nel Cristo, senza cui noi non saremmo stati mai capaci di possedere la vera vita».

La rivendicazione appassionata della concretezza palpabile dell'azione redentrice del Cristo non si disgiunge in Ignazio dalla consapevolezza costante del carattere mistico della società nata dal sangue del Salvatore. In questa fusione di realismo soteriologico e di misticismo ecclesiologico è il tratto differenziale dell'insegnamento ignaziano. Possiamo dire meglio: è il connotato distintivo della Cristianità, di cui il vescovo antiocheno è nel medesimo tempo l'interprete ed il maestro. La società cristiana che affiora su dalle enunciazioni fervide del vescovo e martire ci appare come una società che riportandosi a dati di fatto incontrovertibili, quali l'apparizione del figlio di Dio nella carne e la oggettività del sacrificio salvifero, nel medesimo tempo percepisce fino in fondo il carattere trascendente dei vincoli associativi, che l'effusione del sangue di Cristo ha creato nel mondo. Altri, attingendo soprattutto dagli schemi ideali della speculazione filoniana, potrà proiettare la figura del Cristo storico sullo schermo trascendentale delle categorie escogitate da Platone e dai neoplatonici per la spiegazione della dipendenza del mondo sensibile dal mondo ideale di Dio. Ignazio vede soprattutto il nuovo tipo di organizzazione spirituale che è germogliato dal mistero della redenzione e la Chiesa, forma di organizzazione sociale tutta intessuta di rapporti carismatici, equiparabili ad altrettanti motivi musicali, è, come in San Paolo, al centro dei suoi interessi e della sua visione dei valori umani. Documenti come la lettera di Policarpo ai Filippesi o il racconto del martirio sofferto da Policarpo nella lettera inviata dalla comunità di Smirne a quella di Filomelia, sono documenti che possono logicamente figurare come appendici all'epistolario ignaziano, perché rispecchiano il medesimo orientamento spirituale e il medesimo entusiasmo mistico. I cristiani che hanno trovato in questi documenti il loro pascolo spirituale e la loro pedagogia normativa sentivano effettivamente il messaggio evangelico come una rigida consegna militare, che imponeva di marciare nel nome di Cristo verso una lotta, il cui epilogo poteva essere il martirio. Essi hanno marciato con imperturbabile serenità, quasi sentendosi fin da ora, pur nella vita sensibile, cittadini di una città superiore.

A questi documenti noi possiamo mettere vicina la lettera che va sotto il nome di Paolo, come diretta agli Ebrei, e figurante all'ultimo posto nell'epistolario paolino quale è incluso nel canone neo-testamentario. L'autore di questa lettera, che vede Cristo in un sembiante del tutto difforme da quello nel quale lo vedono le genuine lettere dell'Apostolo, sente che la grande originalità dell'esperienza cristiana è nell'avere nettamente eliminato gli àmbiti rispettivi di due diritti di cittadinanza, che gli uomini possono accampare nel loro passaggio sulla terra. C'è un'anagrafe empirica ed è la registrazione dei cittadini nel novero di quelli che hanno la pienezza dei diritti in una città terrena. Non è il diritto di cittadinanza a cui il cristiano dia la preminente importanza. Il cristiano subisce la cittadinanza terrena; quella che egli cerca come cosa sua e come frutto di una elezione che è una dedizione, è la cittadinanza della città superiore, verso cui va l'aspettativa anelante del credente. Il poeta che ha scritto l'Apocalissi canonica vede questa città celeste come una sposa che nel fulgore della sua bellezza e dei suoi indumenti nuziali scende dal cielo per concedersi all'amplesso dell'amante che attende.

Ma questa visione beatifica della città scendente dal cielo si polarizza nell'esperienza entusiasta della Cristianità primitiva su due tipi e su due raffigurazioni in contrasto, nella cui eterogeneità si potrebbe dire che è non solamente il dramma della Cristianità primitiva ma il dramma permanente della spiritualità umana. Se Dio dovrà un giorno instaurare nel mondo il Regno della giustizia e della pace, lo farà introducendo un'uguaglianza e una solidarietà puramente empiriche, consistenti soprattutto nella eguale compartecipazione ai beni della terra e lo farà piuttosto instaurando l'assoluta legge dell'amore e della fraternità, che tiene in non cale le differenze di casta e di classe, come indegne di pesare sul destino spirituale degli uomini? Le due correnti signoreggiano la storia del cristianesimo nel secondo secolo. Ma è soltanto la nostra miope incapacità di ricostruire nella sua pienezza il dramma dell'antica propaganda cristiana, miopia favorita ed in certo modo giustificata dalla selezione non equa che la tradizione letteraria cristiana ha fatto dei piú antichi documenti cristiani, che ci induce di solito a trascurare l'apporto grandioso che ha offerto al successo cristiano quella visione socialistica del Regno di Dio che è nel secondo secolo il millenarismo.

Per una associazione a prima vista indebita e paradossale, ma che pure, si direbbe per un istintivo fiuto infallibile, aderisce perfettamente alla complessa eterogeneità di indirizzi che vige nella società cristiana del II secolo, nel novero dei Padri subapostolici Papia sta di fianco ad Ignazio antiocheno.

Sarebbe difficile immaginare una difformità piú radicale di temperamenti spirituali e di attitudini religiose. Ignazio è il celebratore della solidarietà mistica fra gli uomini nella comune coscienza dell'appartenenza al corpo mistico di quel Cristo che ha bisogno dei fedeli come di altrettanti strumenti per sciogliere l'inno gaudioso della sua lode fiammante al Padre. Papia è l'ingenuo sognatore dell'età dell'oro, che vede già scendere il Cristo trionfante dal Cielo per apportare sulla terra la pienezza della gioia sensibile e la perfetta comunanza e sovrabbondanza dei beni. Eppure Ignazio e Papia sono entrambi rappresentanti di due forze formidabili, nessuna delle quali potrebbe essere sottratta all'impeto trionfale della propaganda cristiana. A distanza di secoli, in una temperie religiosa che ha quasi completamente smarrito il senso della portata sociale del cristianesimo, noi siamo automaticamente portati a dare la prevalenza al messaggio ignaziano, sul messaggio fantasmagorico del sognante vescovo di Gerapoli. È un nostro torto. Tutta la tradizione ecclesiastica, si può dire, è, da 16 secoli, sotto l'impressione funesta lasciata dal giudizio sdegnoso che Eusebio di Cesarea, il vescovo cortigiano di Costantino, ha lasciato cadere contro la memoria di Papia: «un corto di cervello». Ma l'aulico biografo costantiniano aveva le sue buone ragioni per deprezzare il millenarismo, egli che era capace di scoprire una pregustazione del Regno di Dio in un banchetto offerto a Corte ai vescovi di Nicea. E chissà in quale misura le parole sprezzanti di Eusebio hanno pesato sul naufragio della grande opera esegetica in cui Papia aveva cordialmente commentato le parole del Signore! Ma oggi, mentre le preoccupazioni sociali ed economiche sono cosí al primo piano in ogni nostra visione del processo e dell'idealità umani, noi non possiamo fare a meno di riportare al suo vero posto l'importanza del millenarismo nello sviluppo del cristianesimo antico. È stato già detto che nel millenarismo è una delle ragioni capitali del grande entusiasmo che ha assicurato al cristianesimo antico il suo successo proselitistico nel mondo. Noi oggi dobbiamo dire anche di piú: senza il millenarismo non si capisce il travaglio della società cristiana nel secondo secolo. Il cristianesimo non è venuto nel mondo con un programma economico e con un manifesto sociale. Ma questo non vuole affatto dire che il cristianesimo fosse fuori dall'àmbito delle forze ascendenti della società e delle competizioni che preparavano la trasformazione della civiltà mediterranea. Se noi oggi siamo poco in grado di riconoscere la capacità costruttrice, dal punto di vista sociale, del cristianesimo, è semplicemente a causa di una nostra abnorme deficienza. Noi ci siamo troppo abituati a pensare che i progressi sociali nella collettività umana possano essere soltanto il risultato di una risoluzione aritmetica dei problemi della produzione e della distribuzione. Ma noi cosí abbiamo reso straordinariamente anguste e le capacità spirituali degli uomini e la dialettica dei progressi sociali. Il cristianesimo è là ad insegnarci che le piú grandi trasformazioni sociali sono quelle invece che nascono dalle fedi piú trascendenti e dagli ideali apparentemente piú lontani dalla tecnica empirica dei sistemi economici.

Papia è il rappresentante coerente e intransigente di quella corrente conosciuta nel cristianesimo primitivo col nome di millenarismo. La credenza millenaristica, originata principalmente dal capitolo XX dell'Apocalissi canonica, e alimentata da una folla di idee collaterali intorno alla venuta del Cristo Trionfatore ed alla instaurazione del suo Regno glorioso, nutriva una particolare visione del Regno di Dio. Pensava cioè che un imminente ritorno del Cristo (parusia) avrebbe portato la sconfitta totale delle forze sataniche e la inaugurazione di un Regno millenario. Questo Regno millenario, a cui i giusti del Signore avrebbero partecipato con corpi che, seppure diversi dai corpi mortali, sarebbero stati però sempre dotati di facoltà sensibili, al chiudersi del millennio sarebbe stato concluso col giudizio universale e con la trasformazione totale degli esseri. Trattandosi di un movimento che la tradizione ecclesiastica posteriore ha considerato come eretico e che di conseguenza ha proscritto, si capisce che le fonti al riguardo abbiano subito un quasi completo naufragio e come i giudizi degli storici appartenenti alla Chiesa ortodossa in proposito siano giudizi non spassionati. Noi siamo quindi costretti a dare un valore superiore alle proporzioni che potrebbero essere suggerite dalla esiguità del materiale e della documentazione superstiti, alle sporadiche testimonianze che ci permettono di penetrare, come attraverso limitati spiragli, nel fondo spirituale di questo movimento, che dové essere cosí cospicuo e cosí efficace nella propagazione del cristianesimo antico.

In fondo, il millenarismo rappresenta un po' la saldatura tra l'esperienza cristiana e alcune forme salienti e tipiche della esperienza sacrale e sociale del giudaismo nell'epoca neo-testamentaria.

Tanto è vero che esiste un millenarismo ebraico su cui il millenarismo cristiano non fece altro che inserire la figura del Cristo, quale messia restauratore e rivendicatore dei credenti oppressi e malmenati. Tutta la letteratura apocrifa giudaica fiorita fra il I secolo avanti Cristo e il I dopo Cristo nutriva infatti una visione essenzialmente materialistica e comunistica del Regno messianico, di cui si attendeva l'instaurazione sulla terra. Questo Regno è concepito come destinato a durare eternamente nel maggior numero di documenti appartenenti alla letteratura apocalittica del giudaismo dell'epoca neotestamentaria. A questo Regno alcuni dei testi apocalittici cui ci riferiamo assegnano invece una durata circoscritta: di quattrocento anni ad esempio nel IV libro di Esdra, di mille anni nell'Enoch slavo e in Baruch.

A questi ultimi documenti vanno direttamente ricongiunti l'apocalissi canonica e i testi millenaristi cristiani.

È con l'Apocalissi canonica che il millenarisrno fa il suo ingresso trionfale nel mondo delle esperienze e delle speranze cristiane. Dopo avere descritto con linguaggio immaginoso e con simboli ricavati da preesistenti fonti apocalittiche la lotta finale dei fedeli contro la bestia che chiede adorazione (Capo XI II); dopo aver dipinto in una visione terrificante il lugubre destino di Babilonia la Grande e il suo abbruciamento (Capo XVII); il Veggente descrive il trionfo dei martiri chiamati a regnare con Cristo trionfatore per mille anni:

«E io vidi un angelo che calava dal Cielo recando nella sua mano la chiave dell'abisso e una grande catena. E si impadroní del dragone, il serpente, l'antico, che è il Diavolo e il Satana, e lo incatenò per un millennio, e lo precipitò nell'abisso, e l'abisso chiuse e sigillò sopra di lui, onde non seducesse piú i popoli finché il millennio non fosse trascorso. Dopo il quale millennio, il dragone dovrà essere sciolto per poco tempo. E vidi troni, e si assisero sopra di essi, e il potere di giudicare fu dato a costoro, e vidi le anime di coloro che erano stati decapitati a causa della testimonianza di Gesù e a causa della parola di Dio, e coloro che non avevano adorato la bestia né la sua immagine e non ne portavano il marchio sulla loro fronte e sulla loro mano. E vissero e regnarono col Cristo mille anni. Gli altri morti non ebbero vita finché i mille anni furono compiuti. Questa la prima resurrezione. Felice e santo colui che partecipa alla prima resurrezione: su costoro la seconda morte non ha potere, ma saranno sacerdoti del Dio e del Cristo e regneranno con lui mille anni. E quando saranno trascorsi mille anni, il Satana sarà svincolato dalla sua prigione e uscirà per sedurre i popoli che sono nelle quattro estremità della terra, Gag e Magog, e raccoglierli per la guerra: dei quali il numero è come la sabbia del mare. Ed essi salirono sulla superficie della terra e accerchiarono l'accampamento dei santi e la città amata e cadde fuoco dal cielo e li divorò. E il diavolo, il loro seduttore, fu gettato nello stagno del fuoco e zolfo, dove si trovano anche la bestia e il falso profeta, e saranno tormentati notte e giorno nei secoli dei secoli. E vidi un trono ampio e luminoso, e il sedente sopra di esso, dinanzi alla faccia del quale dileguarono il cielo e la terra. E non si trovò posto per loro. E vidi i morti, i grandi e i piccoli, prostrati dinanzi al trono e libri furono aperti. E un altro libro fu aperto che è il libro della vita. E furono giudicati i morti secondo quel che era scritto sui libri in relazione alle loro opere. E il mare diede i morti in esso e la morte e l'inferno diedero i morti che sono in essi, e fu giudicato ciascuno secondo le proprie opere. E la morte e l'inferno furono precipitati nello stagno del fuoco. Questa è la seconda morte: lo stagno del fuoco. E chi non fu trovato nel libro della vita fu piombato nello stagno del fuoco» (XX, 1-16).

Muovendosi sul medesimo terreno delle Apocalissi apocrife; profondamente nutrito di reminiscenze bibliche; ricco egli stesso di fantasia e tutto sfavillante di odio mal represso contro la Roma persecutrice dei santi, e i suoi Cesari divinizzati, il redattore finale dell'Apocalissi canonica deve avere lanciato il suo composito scritto in un momento di grave angoscia spirituale. La persecuzione cruenta e spietata, che sembra propagarsi di regione in regione come una epidemia, ha gettato lo scompiglio nelle giovani comunità cristiane dell'Asia Minore. Il veggente le ha volute riconfortare con l'annunzio della implacabile vendetta che l'Agnello è per trarre sulla Babilonia intrisa di sangue. Le ha volute riconfortare con la pittura del trionfo che attende i coraggiosi confessori.

Siamo all'epoca di Domiziano. Lo scrittore ha nella sua prospettiva del passato una prima esplosione persecutrice. Ma egli stesso vive mentre la persecuzione infierisce; e un'altra, anche piú funesta, ne prevede.

Poiché la prima persecuzione può supporsi con tutta ragionevolezza che sia la persecuzione neroniana, si può senz'altro dire che il Veggente vive nel fitto della persecuzione domizianea. Delle sette Chiese a cui sono mandati messaggi ammonitori (I, 9 – III, 22) tre hanno sperimentato già la prova del martirio e i martiri costituiscono ormai una categoria a parte nella società globale dei fedeli. Il Veggente predice una lotta anche piú aspra non lontana, con la quale il predestinato numero di martiri sarà completato (VI, 9-11). Essa trarrà origine dal culto della Bestia nel quale, comunque si voglia interpretare i minuti particolari, deve pure riconoscersi simboleggiato l'Impero di Roma. Parallelismi eloquenti tra le figure allegoriche dello scritto e i caratteri religiosi dell'Impero domizianeo, non lasciano del resto dubbi al riguardo.

Il poeta, il quale in una indeterminata città dell'Asia Minore, al cadere del primo secolo, spigolava nel campo della letteratura apocalittica e ne trasportava cosí arditamente i motivi sul terreno delle speranze cristiane, non solo possedeva una fantasia fervida, e un coraggio adamantino, ma creava realmente una sintesi spirituale ricca di significato per lo sviluppo successivo della recente dottrina religiosa. L'apocalittista sembra esser sicuro che la riconoscibilità dei materiali presi a prestito, senza artificio e senza dissimulazione, non toglierà alcun merito all'ispirazione personale che avviva le sue intuizioni luminose e i suoi moniti potenti. Di fatto tutto quel materiale preso a prestito poté essere senza inconveniente abbandonato per via. Rimase purtuttavia nell'annuncio apocalittico un residuo originale, da cui per parecchi secoli numerose comunità cristiane attinsero lo spunto o la conferma alle loro piú care speranze. Per giudizio concorde dei critici della Apocalissi canonica, il capo XX costituisce una sintesi propria e caratteristica del Veggente. Gli elementi della visione che in questo capitolo è con cosí forte vivezza coloristica descritta, potevano esistere antecedentemente. Ma l'autore del poema apocalittico li ha rielaborati in maniera personale. Egli non ha voluto affatto ingolfarsi in descrizioni minute del Regno beato, verso cui si leva la aspettativa dei confessori del Cristo. Egli attinge direttamente dai documenti dell'apocalittica giudaica la concezione della duplice risurrezione e del millennio, interposto fra l'una e l'altra. Intrecciando tale concezione all'annuncio simbolico degli avvenimenti politici che gli si svolgono intorno o che egli intravede imminenti, il poeta e profeta ne trae un annuncio di palingenesi restauratrice, che dovette far trasalire di commozione e di gaudio fiducioso i credenti, esposti a tutte le umilianti insolenze e a tutte le dure rappresaglie della bestia divinizzata.

Le anime dei martiri erano già state scorte dal Veggente, dopo l'apertura del quinto sigillo, sotto l'altare, in atto di gridare a gran voce: «Fino a quando, o Signore santo e vero, attenderai per chiedere ragione del nostro sangue agli abitanti della terra?» (VI, 9). Ma ora è stata alfine emanata la grande sentenza e i martiri ricompaiono vivi e trionfanti con Cristo.

Lo scrittore dell'Apocalissi li aveva già designati con l'espressivo vocabolo trucidati, immolati (VI, 9; XVIII, 24), quasi ad associarne la figura a quella dell'agnello sacrificale (V, 6, 9, 12; XIII, 8). Ora invece li chiama sottoposti alla scure, decapitati con la «securis», lo strumento tradizionale di morte nella Roma repubblicana, che seppure sopraffatto sotto l'Impero dalla spada, campeggiava ancora nei ricordi lugubri degli abitanti delle province.

Pure avendo in maniera particolare dinanzi agli occhi i martiri della sua età, il Veggente intravede il trionfo millenario di tutti coloro che sotto il mal governo della Bestia e dello pseudo-profeta incontrarono rimbrotti, boicottaggi, prigione, perdita di beni, soffrirono comunque nella resistenza indomabile al culto blasfemo di Cesare (cfr. XIII, 15; XIV, 9; XVI, 2; XI, 20). In premio del loro santo coraggio vivono ora integralmente con tutte le loro facoltà sensibili e spirituali di piena vita e regnano con Cristo mille anni, in un lembo beato di terra, con Gerusalemme quale centro del fortunato e prospero regno (cfr. V, 10; XX, 9; XXI, 10).

Le previsioni realistiche dell'Apocalissi caddero evidentemente in un ambiente tutto pervaso di entusiasmo irriflesso e sognante, preparato quindi a raccoglierle e a precisarle. Noi ritroviamo accenni millenaristici frequenti ed espliciti in tutta questa letteratura superstite del cristianesimo, agli inizi del secondo secolo. Si potrebbe anzi dire che le correnti piú o meno confessatamente millenaristiche son quelle che dànno una certa connotazione unitaria a questa letteratura che noi chiamiamo post-apostolica e che altrimenti potrebbe apparire straordinariamente eterogenea e disperata.

Naturalmente non bisogna vedere dappertutto millenarismo. Non crediamo ad esempio che sia conforme alla esattezza storica dire con l'Harnack che il millenarismo o chiliasmo si ritrova dovunque il cristianesimo delle prime generazioni non è stato ancora raggiunto dal processo della trasformazione ellenistica. Non si può neppure sbrigativamente asserire che la speranza nella risurrezione della carne rientri originariamente nella speranza della partecipazione al Regno trionfale di Cristo, con cosí netti caratteri millenari, da potere indicare come testimonianza chiliastica ogni passo della letteratura cristiana primitiva in cui affiori l'attesa di una non lontana parusia e della ammissione ad un glorioso Regno del Signore.

Come tutti i fenomeni dello spirito umano, anche la esperienza degli ultimi eventi è un fatto di coscienza non suscettibile di analisi troppo schematiche. In realtà, par meglio si debbano distinguere diverse forme di esperienza escatologica, ciascuna contrassegnata dalla sua maniera particolare di concepire l'attuazione, lo svolgimento del Regno beato ed il modo di parteciparvi. Il millenarismo ha i suoi tratti differenziali in queste idee fondamentali: imminente parusia del Cristo preceduta da una suprema lotta; inaugurazione di un Regno sensibile che durerà mille anni e alla gioia del quale i giusti parteciperanno nella pienezza delle loro facoltà sensibili e spirituali. Tale presupposto metodico ci impone di fare una cernita tra le testimonianze dell'antica letteratura cristiana. Volendo segnalare e registrare i documenti testimonianti una vera e genuina fede millenaristica, noi naturalmente non possiamo che accennare di volo alla fede nell'imminente venuta del Regno quale noi vediamo trapelare cosí nella Didaché come nella lettera di Barnaba, come nella lettera di Policarpo ai Filippesi, o nella Apocalissi di Pietro. Di fronte a queste allusioni vaghe e fluttuanti, sta la testimonianza solenne di Papia di Gerapoli, che noi possiamo definire il primo teorico del millenarismo e che deve aver subìto da vicino l'azione didattica e spirituale del redattore finale dell'Apocalissi canonica.

Se Eusebio agli inizi del IV secolo l'ha definito uomo di mediocrissime capacità intellettuali, facile a scambiare favole e fantasie per dottrine e parabole del Salvatore, Ireneo, al tramonto del II, ha attinto con venerazione al suo commento ai detti del Signore ed ha posto la sua parola sotto la garanzia di due autorità indiscutibili: Giovanni e Policarpo.

I circoli millenaristi di cui Papia è l'interprete si riportavano evidentemente anch'essi, come tutte le altre correnti della cristianità del II secolo incipiente, all'insegnamento diretto e personale di Gesù. Il loro sogno appariva ad Eusebio come il parto di spiriti ingenui e puerili. Sarebbe puerile ed ingenuo prendere la testimonianza di Eusebio come un verdetto inappellabile. Il vescovo cortigiano, che ha scritto la vita di Costantino e in questa ha una volta definito quale immagine del Regno di Dio un banchetto offerto dall'Imperatore all'episcopato di Nicea, non era in grado di misurare coscienziosamente le descrizioni iridescenti del Regno di Dio, tracciate dal vescovo frigio agli albori del II secolo. La verità è che in seno alla società cristiana dei primi due secoli è un fermentare continuo di idee etico-teologiche, i patrocinatori delle quali si sforzano tutti concordemente di accampare l'autorità di presunti insegnamenti esoterici del Salvatore. In questo largo processo di fermentazione spirituale il millenarismo ha la sua parte rilevante.

La scomparsa dei Cinque libri di commento ai detti del Signore di Papia, che si conservavano ancora nei secoli XIII e XIV in alcune Chiese di Occidente, è senza dubbio una delle piú considerevoli iatture che abbia colpito la storia del cristianesimo primitivo. La loro mancanza non solamente ci vieta di definire i lineamenti della incerta figura di Papia e di riconoscere gli stadi di formazione e di sviluppo della dottrina millenaristica nel cristianesimo primitivo, ma ci impedisce anche di fissare con approssimazione, il che avrebbe una straordinaria importanza, l'insegnamento di quel gruppo misterioso di «anziani» dell'Asia Minore, al quale Ireneo rimanda con tanta frequenza e con cosí caldi segni di venerazione. Un frammento edito dal De Boor, che questi ha dimostrato appartenente ad una epitome ricavata fra il 600 e l'800 dalla storia ecclesiastica di Filippo Sidete (scritta verso il 430), ci ha conservato alcune parole di Papia, dalle quali appar chiaro che il suo commento alle parole del Signore non fu dettato prima del regno di Adriano (117-138). E poiché il vescovo di Gerapoli è presentato da Eusebio come amico dell'Apostolo Filippo e delle sue figlie e da Ireneo come coetaneo e amico di Policarpo, di cui però non sembra aver toccato l'estrema vecchiezza, non andremo molto lungi dal vero circoscrivendo la vita del corifeo del millenarismo fra il 70 e il 150.

I pochi frammenti superstiti della Explanatio sermonum Domini dimostrano nettamente che il buon vescovo aveva in quest'opera raccolto pazientemente quanto di miracoloso e di grandioso, circa l'insegnamento e l'azione di Gesù, gli era giunto attraverso la tradizione diretta o indiretta degli Apostoli e degli anziani. Il succo della sua fede millenaristica è condensato in una testimonianza di Ireneo. Questi condivideva compiutamente le convinzioni sociali e le aspettative comunistiche del vescovo frigio. Scrive infatti nel V libro della sua grande confutazione delle eresie (33, 3-4): «Quando la creazione universa sarà rinnovellata ed affrancata, fruttificherà, mediante la rugiada del cielo e la fecondità della terra, una copia immensa di ogni genere di vettovaglie. Gli anziani infatti che conobbero Giovanni il discepolo del Signore, ricordavano di avere appreso da lui la descrizione che il Signore faceva di quei tempi, dicendo testualmente cosí: – Verranno giorni nei quali nasceranno vigne cosí mirabili che ciascuna di esse porterà diecimila viti, ed ogni vite diecimila tralci, ogni tralcio diecimila pampini, ogni pampino diecimila grappoli, ogni grappolo diecimila acini: ad ogni acino d'uva premuto darà dieci ettolitri di vino. E quando uno dei santi coglierà un grappolo, un grappolo vicino griderà: io sono piú saporito, prendimi, benedici in me il Signore. Similmente un grano di frumento darà diecimila spighe, ogni spiga diecimila chicchi, ogni chicco circa tre chilogrammi di candida farina. Tutti gli altri vegetali utili possiederanno una fecondità in proporzione a questa. E tutti gli animali nella pace piú perfetta saranno soggetti agli uomini. – Tutto ciò anche Papia ascoltatore di Giovanni, compagno di Policarpo e suo coetaneo, testimonia e garantisce per iscritto nel quarto dei suoi cinque libri. Il quale aggiunge: «Ciò appare ben credibile ai credenti. Giuda anzi, dice, traditore incredulo, domandando in qual modo il Signore produrrà simili moltiplicazioni, si sentí rispondere dal Signore: lo vedranno coloro che vi parteciperanno».

Per aver chiara dinanzi agli occhi la visione della fede millenaristica di Papia, occorre, alla testimonianza di Ireneo, abbinare l'accenno sintetico di Eusebio, che riepilogando il contenuto della Explanatio dice: «Papia assevera che dopo la risurrezione dei corpi vi sarà uno spazio di mille anni, durante il quale il Regno di Cristo splenderà sensibilmente su questa terra» (H. E. III, 39 12).

Il pensiero di Papia sulla durata del Regno di Cristo fra la prima e la seconda risurrezione, sulla natura delle gioie che i giusti sono destinati a godere in esso, appare cosí nella sua sostanziale interezza. Si tratta forse di un pensiero isolato o non piuttosto l'insegnamento di Papia si riannoda ad una ricca e autorevole tradizione cristiana antecedente?

La testimonianza di Ireneo è al riguardo inappellabile. Lo scritto di Papia è perfettamente conforme alla tradizione orale di quegli anziani asiatici, con la quale Ireneo stesso doveva avere qualche personale dimestichezza.

Su tale conformità del resto possediamo l'esplicita assicurazione di Papia stesso, il quale ci tiene a far sapere che quanto egli proclama ed insegna, è frutto di inchieste premurose e coscienziose presso tutti coloro che erano in grado di fornire informazioni garantite. «Non esiterò ad affidare allo scritto, con le opportune delucidazioni e garantendone la verità, quelle cose che dalle labbra degli anziani bene appresi e fedelmente ricordai. Poiché io non pigliavo gusto come accade a molti in ascoltare uomini ciarlieri. Mi dilettavo piuttosto di ascoltare coloro che insegnano la verità, coloro che ricordano i precetti imposti dal Signore alla fede e provenienti dalla verità stessa. E quando capitava in qualche modo alcuno che avesse seguìto gli anziani, cercavo di investigare i detti degli anziani: che cosa avesse detto Andrea o Pietro o che cosa Filippo o che cosa Tommaso o Giacomo o che cosa Giovanni o Matteo o chiunque altro fra i discepoli del Signore. E in secondo luogo che cosa dicono Aristione e l'anziano Giovanni, discepoli del Signore. Poiché io supponevo che le cose desunte dai libri non mi fossero di profitto pari a quello datomi dalle cose desunte dalla voce viva e superstite».

Papia stabilisce cosí una gerarchia di testimoni attraverso i quali è giunta fino a lui la tradizione cristiana. Gli Apostoli, gli anziani (tra cui un Giovanni), i compagni degli anziani, con i quali Papia stesso ebbe molteplici rapporti: ecco il triplice anello della catena che congiunge la predicazione di Papia alla tradizione cristiana preesistente. E poiché Papia si rivela uomo fedele al passato, noi siamo indotti a pensare che l'eredità del pensiero millenarista gli è stata trasmessa integra e viva da quei circoli presbiteriali dell'Asia Minore da cui era già partito, un trentennio circa prima della Explanatio, l'annuncio energico e vibrante della Apocalissi canonica. L'idea forza del Regno di Dio si rivelava nell'insegnamento del cristianesimo primitivo di cosí multiforme e incandescente vitalità da potere atteggiarsi diversamente, secondo le variabili preoccupazioni dei singoli ambienti a cui il messaggio cristiano perveniva.

Per constatare gli atteggiamenti difformi che questo messaggio cristiano viene assumendo nei vari ambienti in cui per tutto il territorio dell'Impero il cristianesimo si viene propagando e organizzando, è sufficiente porre a confronto l'insegnamento apocalittico di Papia con le preoccupazioni etico-disciplinari di un libro come il Pastore del romano Erma. Si tratta probabilmente dello scritto piú singolare di tutta la letteratura post-apostolica. Non ha forma narrativa, non ha forma epistolare. È un apologo rivestito di forma profetico-apocalittica, in cui l'autore, probabilmente il fratello del vescovo Pio, reggente la comunità romana sulla metà del secondo secolo, impartisce una serie di ammaestramenti morali che mirano a richiamare la società dei fedeli, decaduta dal suo primitivo stato di purezza, ad una piú rigorosa osservanza della legge etica e ad una pratica piú sincera e piú fervente della consegna evangelica.

Il quadro che il Pastore di Erma ci presenta della società cristiana del tempo non è veramente dei piú attraenti. Vescovi, presbiteri, diaconi e fedeli si dipartono scandalosamente dalla via del dovere, e antepongono gli interessi terreni a quelli sacri dello spirito. Sono ignominiosamente inclini a rinnegare in tutto e per tutto il Signore. Donde il problema che l'autore prospetta con tremante titubanza. Questi fedifraghi e questi transfughi, che già hanno ricevuto il battesimo, quale possibilità mai hanno di ottenere la remissione delle loro colpe, la salvezza?

Erma prova il bisogno di prospettare dinanzi agli occhi dei caduti moralmente, tra i quali egli sente di dover annoverare anche se stesso, una nuova via di scampo. Si tratta della penitenza, della seconda grande chiamata, mediante la quale i già battezzati possono riacquistare il perduto stato di grazia. Condizione essenziale per la riconquista e la rinascita è innanzi tutto il rimorso delle colpe commesse, accompagnato dal serio proposito di non cadere di nuovo, perché la penitenza non potrà essere nuovamente iterata, e chi dopo averla ricevuta peccherà ancora, difficilmente si salverà.

Qui il nucleo di tutta la predicazione morale di Erma. Ma il dato è di una straordinaria importanza in quanto che, in un tempo nel quale la Chiesa non aveva ancora fissato una vera e propria disciplina penitenziale, il libro di Erma rappresenta la tendenza degli indulgenti di fronte a quella dei rigoristi che, ritenendo il battezzato, in virtú della sua stessa iniziazione a Cristo, nella assoluta impossibilità di peccare, consideravano definitivamente esclusi dalla società religiosa quanti si mostravano usciti da quello stato di grazia.

L'opera di Erma ha un ciclo irregolare e composito. Essa si svolge in tre forme di esposizione: cinque Visioni, dodici Mandati, dieci Similitudini. Ma da un punto di vista logico, l'opera può considerarsi molto piú convenientemente divisa in due parti, di lunghezza assai diversa: le prime quattro Visioni da una parte e poi la Visione quinta, che fa corpo con i Mandati e le Similitudini. Nella prima parte appare ad Erma, sotto molteplici aspetti, la Chiesa. Essa compare ora nella persona di una vecchia, poi nella figura di una torre quadrangolare edificata sulle acque, simbolo naturalmente del battesimo. La torre raffigura la società dei fedeli vivi e morti, rappresentati da altrettante pietre di diversa forma e di diversa condizione, a seconda della fisionomia morale e delle qualità religiose di ciascuno. Tutti concorrono però ugualmente a costituire il simbolico edificio, da cui sono temporaneamente esclusi quelli che sono caduti in colpe. Essi potranno esservi riammessi soltanto dopo che la penitenza avrà attuato la loro purificazione.

Nella quinta Visione non è piú la Chiesa che impartisce i suoi simbolici insegnamenti, ma è lo stesso angelo della penitenza che si presenta ad Erma, annunciandogli che d'ora innanzi egli fisserà nella casa di lui la propria dimora. L'Angelo della penitenza ha l'aspetto di pastore. Ha i fianchi ricinti di una bianca pelle caprina, reca una bisaccia sulle spalle ed un bastone in mano. Dietro suo comando, Erma scrive i Mandati e le Similitudini. I primi riguardano i vizi e le virtú. Essi tradiscono nel loro autore un intuito fine di moralista e di psicologo. Precede una concisa formulazione di fede monoteistica. Seguono raccomandazioni calorose alla semplicità dello spirito, all'amore della verità, alla purezza dei costumi e dei pensieri, alla longanimità. Consigliano di guardarsi dall'ira, di evitare il dubbio, che è un grave impaccio alla fede, di fuggire animosamente la tristezza, che impedisce alla preghiera di salire liberamente fino al Trono di Dio. Vi è disegnata infine la figura dello pseudo-profeta, del ciarlatano cioè che vuole sfruttare l'ingenua credulità dei fedeli, in contrasto con la veneranda figura del vero uomo della profezia, ispirato da Dio.

Tra le Similitudini vanno segnalate la quinta, la quale insegna il vero digiuno cristiano, che non è esteriore e farisaica astensione da cibi, ma pratica di opere buone ed esercizio della elemosina. E la ottava, la quale consiste in una esposizione allegorica della dottrina della penitenza. Sotto un immenso salice, che simboleggia la legge di Dio, sono raccolti tutti i chiamati dal Signore. Per ciascuno di essi l'arcangelo Michele taglia un ramoscello dal pingue albero, simbolo della fede da tradursi nelle opere della giustizia. Dopo un certo tempo, tutti son chiamati a restituire il ramoscello ricevuto e l'Angelo ne verifica lo stato di conservazione. Ve n'ha di deteriorati. Altri invece sono tuttora verdi e frondosi. Altri hanno perfino prodotto frutti. Questi ultimi sono i martiri, gli apostoli, i confessori coraggiosi della fede. Sono pertanto inviati, in bianca veste, col capo cinto di corone, dall'Angelo, verso la torre, che appare come l'immagine simbolica della Chiesa ideale dei perfetti. Gli altri, suddivisi in categorie secondo il diverso grado di perfezione morale rappresentato dallo stato di conservazione dei rami, attendono tutti la loro sorte. La quale dipende da una nuova prova cui l'Angelo sottomette i loro simbolici rami, piantandoli nuovamente e innaffiandoli quasi a scrutarne le capacità viventi. Questo trapiantamento è la penitenza. Coloro, i ramoscelli dei quali rinverdiscono, dimostrano di aver praticato la penitenza in vera contrizione di cuore e con propositi sinceri. Saranno salvati e troveran posto anch'essi nella torre, in quella torre che si ritrova nella Similitudine nona, dove le pietre subiscono un processo di riattazione, perché possano essere convenientemente inquadrate nel grande edificio.

Anche qui la visione escatologica anima l'esperienza, la dottrina e le previsioni dello scrittore. Nulla di eudemonistico, nulla di realistico, nulla di sensibile. Il perfetto cristiano appartiene in certo modo di già alla Chiesa celeste. Gli elementi dottrinali dell'esperienza cristiana di Erma ci si rivelano ancora allo stato amorfo o rudimentale. L'unico articolo preciso di fede nel credo di Erma è la credenza in un Dio unico. Il resto è piuttosto caotico ed evanescente. Erma non riesce a scorgere una distinzione ben chiara tra il Figlio e lo Spirito Santo. Sembra a volte insinuare una concezione puramente adozionistica della dipendenza del Figlio da Dio. Quando l'autore parla della incarnazione sembra piuttosto attribuirla allo Spirito Santo, di cui non si vede in alcun modo la distinzione precisa dal Figlio. Cristo viene spesso confuso con l'Arcangelo Michele ed è considerato come il primo dei sette angeli superiori. Le nozioni disciplinari sono piú chiare e il battesimo è designato dallo scrittore con una parola largamente usata dalla Cristianità del secondo secolo, ortodossa od extra-ortodossa: il sigillo. In complesso, proprio per queste indistinte scorrettezze teologali, il Pastore di Erma assume uno straordinario rilievo nel coro di voci che ci aiutano a individuare la fisionomia del cristianesimo post-apostolico. I problemi pratici hanno in queste comunità del secondo secolo un valore e una significazione infinitamente superiori al valore delle possibili dissertazioni teologali. Il cristianesimo vive ancora di speranza e di moralità carismatica, molto piú che di disciplina intellettuale e di elaborazione teoretica. Di fianco a queste comunità semplici ed entusiastiche, che si preoccupano di vita morale e di perdono, molto piú che di speculazioni metafisiche, la gnosi cristiana viene già copiosamente elaborando le sue elucubrazioni. Ma la continuità dell'esperienza cristiana si realizza probabilmente molto piú nella continuità della fede ingenua e della aspettativa fiduciosa, che non attraverso la faticosa creazione delle tavole genealogiche degli eoni, care ad un Valentino e ad un Basilide.

Di fronte alla posizione di Erma, tutto dominato dal problema della perfezione morale nello sviluppo della vita cristiana, la letteratura post-apostolica ci permette di porre posizioni dominate unicamente dal bisogno di definire l'originalità del messaggio e della pratica cristiani, al cospetto delle forme normali della vita associata e della costituzione politica. La cosiddetta Lettera a Diogneto, la perla dell'antica letteratura cristiana, vuole essere un piccolo manuale catechetico di istruzione, per chi ha vaghezza di conoscere le posizioni centrali della nuova forma religiosa. Qual Dio è mai quegli cui va l'adorazione dei cristiani, che per Lui la rompono bruscamente cosí con la tradizione religiosa ellenica, come con la prassi rituale giudaica, giungendo per Lui a sfidare impassibili il mondo e ad affrontare impavidi la morte? Qual genere mai di comunione affettuosa è quella che stringe e affratella i cristiani fra loro? Infine, se v'è del bene e del bello nella attitudine religiosa dei cristiani, perché mai questa nuova razza di uomini non è apparsa prima nel mondo? L'autore del documento risponde per ordine alle interrogazioni, vere o ipotetiche, del suo presunto corrispondente. Ma, spirito mistico molto piú che dialettico, portavoce di una comunità credente, nella quale l'annuncio evangelico vive e vibra ancora molto piú nell'attitudine pratica che in una qualsiasi sistemazione astratta di concetti metafisici, egli non si indugia in una confutazione sistematica del politeismo o in una interpretazione dello sviluppo spirituale degli uomini nella storia. Egli si rivela propagatore di esperienze, molto piú che apologeta filosofico del messaggio cristiano. Il cristianesimo che egli vive non aspira affatto a tradursi in una spiegazione scientifica del mondo e della vita. Egli vuole piuttosto additare la posizione eccezionale del cristianesimo nel programma universale della Divina salvezza. Per questo, dopo avere rapidamente e con argomenti che possono anche far l'impressione di essere lievemente banali, mostrato in pari tempo l'assurdità del politeismo e la vanità delle consuetudini giudaiche, si solleva ad esaltare, con improvviso colpo d'ala, la bellezza singolarissima, paradossale anzi, della vita cristiana, che non si diversifica dalla comune forma di esistenza degli uomini a causa di eccentriche foggie esteriori, bensí in virtú di una radicale inversione dei valori correnti e di una completa palingenesi psichica, del tutto interiore.

«I cristiani non appaiono distinti dagli altri uomini per il territorio che abitano, per la lingua che parlano, per le consuetudini che seguono. Non hanno città proprie; non usano un idioma particolare; non menano una vita eccentrica. La loro disciplina non è il risultato di uno sforzo dialettico o di una vagabonda inquietudine sentimentale. Essi non si atteggiano come tanti e tanti a patrocinatori di un fallibile dogma umano. Disseminati per città elleniche o barbariche, secondo che a ciascuno è toccato in sorte, e uniformandosi senza difficoltà ai costumi circostanti, nel vestito, nel regime alimentare, in tutte le espressioni esteriori dell'esistenza, tradiscono ciò nonostante, a confessione di tutti, la meravigliosa e paradossale foggia della loro vita associata. Dimorano, è vero, nelle loro rispettive nazioni: ma vi sono unicamente pellegrini. Cittadini non dissimili dagli altri, partecipano ai doveri e agli oneri di tutti. Ma tutto riguardano e subiscono come stranieri. Qualsiasi terra straniera è patria per loro, ogni patria è terra straniera. Vanno a nozze come tutti gli altri e generano figliuoli, ma non li espongono appena nati. Hanno comune la mensa, non il talamo. Procedono nella carne, ma non vivono secondo i suoi istinti. Sembrano indugiarsi sulla terra, ma in realtà sono cittadini del cielo. Si uniformano alle leggi costituite, ma con la loro foggia di vita oltrepassano le leggi. Portano amore a tutti, pure essendo da tutti perseguitati. Sono disconosciuti e bistrattati. Sono condannati a morte, e in questa stessa condanna trovano alimento di vita. Sono poveri e spargono ricchezze su molti. Di tutto sembrano aver penuria e di tutto invece sovrabbondano. Sono dispregiati e nel dispregio trovano gloria. Sono diffamati e nella stessa diffamazione si tributa omaggio alla loro eccezionale giustizia. Sono malmenati e rispondono con benedizioni. Sono saturati di obbrobrio e dànno in cambio rispetto. Disseminatori di bene, sono perseguitati come delinquenti. Colpiti, tripudiano come fossero impinguati di vita. Bistrattati dagli israeliti quali rinnegati, sono ferocemente perseguitati dai greci. Ma chi li odia stenterebbe a formulare un motivo conveniente della propria ostilità e del proprio rancore. Diciamolo in una parola: quel che è l'anima nel corpo, questo sono i cristiani nel mondo. Disseminata, l'anima, per tutte le membra del corpo. Disseminati, i cristiani, per tutte le città del mondo. Inquilina nel corpo, ma non derivata dal corpo, l'anima; inquilini nel mondo, ma non appartenenti al mondo, i cristiani. Invisibile l'anima custodita in un visibile corpo. E si sa che i cristiani sono nel mondo, sebbene impalpabile sia la forma della loro vita religiosa. Odia la carne l'anima, e insorge contro di questa, pur non avendone ricevuto alcun oltraggio. Odia il mondo i cristiani, pur non risentendo da loro alcuna lesione ai propri diritti. L'anima ama la carne e le membra che l'odiano: amano i cristiani i loro nemici. Chiusa nel corpo, l'anima è quella che sostiene il corpo. I cristiani sono sostegno del mondo, e pure son trattenuti nel mondo come in una prigione. Immortale l'anima dimora in una tenda mortale. I cristiani passano, viandanti fra le realtà periture, tutti protesi verso la incorruttibilità dei cieli. Mortificata nel cibo e nella bevanda, l'anima ininterrottamente si affina. Quotidianamente malmenati, i cristiani si moltiplicano. È Dio che li ha chiamati e destinati a cosí ardua e paradossale consegna: non è piú loro consentito scansarla e sottrarsi alla loro chiamata».

Cosí un anonimo maestro cristiano del secondo secolo formulava in termini di una potenza veramente irraggiungibile il posto dei cristiani nella vita associata.

Questa sparsa, frammentaria, disparata letteratura postapostolica finisce veramente col darci una raffigurazione esauriente delle orientazioni possibili del messaggio cristiano nel processo della sua piú antica disseminazione.

Sono raffigurazioni all'apparenza difformi l'una dall'altra. Ma uno è lo spirito che tutte le collega e tutte le riavvicina.

Alla costituzione di questo spirito presiedono postulati che noi possiamo agevolmente individuare e definire. Innanzi tutto, senso acuto delle forze in conflitto nel mondo. Visione quindi tendenzialmente dualistica dell'universo. Concezione realistica del male come opposizione permanente alla legge ed alla disciplina del bene. Dovere dei chiamati da Dio alla iniziazione cristiana, di costituirsi militi di un principio superiore di bene che chiede e vuole per l'attuazione del suo Regno la sofferenza, l'abnegazione e la bontà. Convinzione intima che nell'attuazione del bene, lo stesso principio del bene soffre e agonizza. Cristo banditore e realizzatore perfetto di una società spirituale, attraverso la quale e in virtú della quale Dio porta a compimento il disegno della sua piena rivelazione. Attuazione di un Regno trascendente che sarà in pari tempo il risultato di un intervento miracoloso di Dio e lo sbocco di una aspettativa fiduciosa dei predestinati.

Principî di questo genere assumono colorazioni speciali nell'uno o nell'altro gruppo di credenti. Ma si potrebbe dire che tutte le forme speciali di vivere e di praticare il messaggio del Cristo tendono spontaneamente a introdurre nel mondo una ripartizione di gruppi associati che troverà un giorno la sua traduzione teoretica nella filosofia della storia di Sant'Agostino. Due amori operano costantemente nel mondo: l'amore di Dio fino all'abbandono di sé e l'amore di sé fino all'abbandono di Dio. I due amori creano due città e le due città marciano mescolate verso la luce eterna del Padre. Ogni uomo deve optare nel mondo. Interroghi pertanto la sua coscienza e sappia che cosa egli ama. Potrà facilmente dedurre di quale città egli sia cittadino.

Con questo programma iniziale il cristianesimo si accingeva nel mondo a creare la sua caratteristica civiltà.

Quali ne sarebbero stati gli strumenti?

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