Quanto, muovendosi fra le due correnti estreme, millenaristica da una parte, gnostica dall'altra, la corrente mediana della ortodossia fosse incapace di avvertire e di cogliere i caratteri specifici dei singoli movimenti che si andavano delineando nella propaganda cristiana a mezzo il secondo secolo, è mostrato tipicamente dal fallace modo in cui è valutata da tutte le parti una delle posizioni piú singolari e insieme piú alte dell'esperienza cristiana in quel torno di tempo. Alludiamo al marcionismo. Marcione è senza dubbio la figura piú eminente del cristianesimo nel secondo secolo. La tradizione ecclesiologica ne ha fatto uno gnostico senz'altro. Ma in verità la posizione di Marcione è squisitamente antignostica. Perché, mentre nello gnosticismo la salvezza cristiana è affidata ad una iniziazione mistico-speculativa che mette il credente in rapporto con le potenze del mondo pleromatico e lo fa partecipare ad una vicenda cosmica di caduta e di reintegrazione, Marcione fa del Vangelo una pura e semplice opzione nel mondo, una pura rinuncia a tutto quello che è empirico e mondano, per l'accettazione di una pratica eroica della bontà e del disinteresse, che non ha altro termine di confronto possibile nella storia del cristianesimo se non lo spirito francescano agli inizi del secolo XIII.
Come per lo gnosticismo e per il millenarismo, cosí anche per il marcionismo, le nostre fonti di informazioni sono tarde e inquinate. È Tertulliano in particolare che ci offre gli elementi per la ricostruzione dell'insegnamento e dell'organizzazione marcionitici. Ma se la testimonianza di Tertulliano polemista, sempre passionale e personale, è soggetta a cauzione, per il marcionismo soprattutto la sua parola va presa con la piú scrupolosa cautela e interpretata con la piú circospetta acribia.
Noi possediamo la grande confutazione di Marcione, fatta dall'apologista africano. Ma noi sappiamo che egli pose mano all'opera successivamente tre volte. Nel prologo della terza edizione, quella superstite – che è nel medesimo tempo la piú ampia di tutte le opere sue, la chiave di volta di ogni qualsiasi ricostruzione della propaganda marcionitica, e la base di ogni apprezzamento dello sviluppo disciplinare e soteriologico cristiano fra il II ed il III secolo – egli stesso ci ha dato un ragguaglio prezioso sulle strane fortune del libro. La prima edizione aveva dovuto essere una confutazione sbrigativa e sommaria, poggiante su una documentazione frettolosa e non accompagnata da eccessivi scrupoli. Tertulliano stesso, evidentemente stretto dal sarcasmo degli avversari che non avevano dovuto durar fatica a mostrare quanto il loro pensiero fosse stato infedelmente raffigurato da lui, dovette vergognarsi del suo aborto e si accinse a rifondere e a rimpinguare il lavoro. Non pare che neppure questa volta riuscisse a fare cosa degna e apprezzata. Evidentemente il marcionismo non era cosa da potersi disinvoltamente confondere con gli altri sistemi ereticali. Facendo troppo a fidanza con la versatile rapidità del suo intuito e con le risorse inesauribili del suo virtuosismo polemico, Tertulliano anche questa volta non aveva fatto evidentemente un uso corretto delle fonti e non aveva seguìto una leale linea di condotta nella impugnazione. Un fratello di fede, che pencolava però verso il marcionismo, cui doveva poco dopo fare apertamente adesione, mise in circolazione prima del tempo la seconda edizione dell'opera tertullianea. Anch'essa suscitò critiche e allusioni. Tertulliano piú tardi senti il bisogno di scusarsene, dicendo che il lavoro gli era stato sottratto mentre ancora non aveva ricevuto l'ultima mano. Per il suo decoro e per il suo buon nome, Tertulliano dovette nella terza edizione applicarsi alla piú scrupolosa consultazione dei testi originali e alla confutazione pedissequa delle dottrine marcionitiche. Con le opere di Marcione dinanzi agli occhi, le Antitesi, il Vangelo cioè e il Paolo da lui riveduto, il polemista, frenando le sue indocili e istintive impazienze, mandò innanzi lentamente, faticosamente si direbbe, quei suoi cinque libri Adversus Marcionem che in tanto rappresentano la sua controversia piú poderosa, in quanto pongono a fronte due concezioni della religiosità in genere e del messaggio cristiano in ispecie, nel conflitto delle quali erano i destini stessi della spiritualità mediterranea.
Quando del resto Tertulliano ingaggiava la sua polemica contro il marcionismo, questo aveva già avuto, dall'altra parte del mare, i suoi agguerriti impugnatori. Tra i grandi eretici del II secolo Marcione è l'unico di cui risultino notoriamente i rapporti personali con un discepolo degli Apostoli: Policarpo. Ecco già un titolo che accreditava la propaganda del maestro venuto dal Ponto, dopo avere abbandonato la sua redditizia professione di armatore e la sua comunità madre, per andare, come i maestri alessandrini, a conquistare il mercato spirituale ed intellettuale di Roma.
E la sua propaganda aveva trovato larga eco. La maniera con la quale Ireneo nella sua grande confutazione della falsa gnosi accenna a Marcione ed al suo proselitismo (Ireneo è il primo responsabile della indebita confusione tra marcionismo e gnosticismo) dimostra a chiare note quale preoccupato sgomento questo proselitismo avesse destato nelle file della comunità, che si andava ormai avviando ad una raffigurazione ufficiale e canonizzata del messaggio cristiano. Giustino aveva aperto la serie delle polemiche antimarcionite. Due volte, nella sua prima apologia, fa menzione di Marcione che egli colloca nel novero di quegli individui che i demoni hanno suscitato ad ostacolo della rivelazione del Cristo. Secondo la testimonianza di Ireneo, un suo maestro, un illustre presbitero asiatico, aveva veementemente predicato contro i capisaldi dell'insegnamento marcionita. Su testimonianza di Eusebio poi noi sappiamo che a rintuzzare l'insegnamento marcionita erano stati consacrati una lettera di Dionigi di Corinto alla comunità cristiana di Nicomedia, un trattato accuratissimo di Filippo di Gortina e, piú efficace e popolare di tutti, un trattato di Modesto. Anche Rodone, vissuto a Roma alla sequela di Taziano durante l'Impero di Commodo, aveva preso, con gli altri, posizione di battaglia contro l'eresia di Marcione. Ma tutti questi scritti polemici scompaiono al cospetto della grande confutazione tertullianea.
C'è nella stessa differenza fra gli scritti antignostici e la grande opera antimarcionitica di Tertulliano la prova palese che è un vero controsenso storico accomunare Marcione alla speculazione mitico-teologale di un Valentino, di un Basilide o di un Eracleone. Qui siamo in pieno esoterismo. Invece i libri ufficiali della scuola di Marcione sono alla portata di tutti. Marcione ha bandito il suo messaggio alla piena luce del sole e la comunità costituitasi sul solco della sua propaganda nulla ha di comune con le conventicole degli iniziati gnostici. Tertulliano fu pertanto costretto a seguire da presso i testi del maestro pontico. Se ne rifece rinveendo piú che mai violentemente contro quegli che era senza dubbio il nemico piú coraggioso, piú coerente e piú perspicace della costituzione di quella mediana ortodossia ecclesiastica, che veniva a svuotare il messaggio cristiano di tutto il suo contenuto eroico e intransigente.
La stessa terra d'origine dell'eretico offre lo spunto a Tertulliano per una invettiva grossolana, ma non priva di efficacia polemica. Tutto quello che le nozioni leggendarie circolanti sul Ponto Eusino avevano di repellente e di ostico, è scaraventato da Tertulliano sul capo dell'eretico, unicamente colpevole di esservi nato. «Ponto, che è per natura il meno Eusino, vuole gabellarsi per tale col suo nome. Ma che non lo sia di fatto lo puoi arguire dalla stessa situazione. Se ne è andato lontano dai nostri stretti, per la vergogna della sua barbarie. Vi abitano popolazioni ferocissime, se pure è il caso di parlare di abitazioni, quando si vive sui carri. La sede è là mobile. La foggia di esistenza è primitiva. L'amore è promiscuo e inverecondo. I cadaveri dei genitori sono fatti a pezzi e, mescolati a quelli degli animali, sono consumati nei conviti. Le stesse condizioni climatiche sono dure ed inclementi. Ma nulla può ascriversi al Ponto di piú barbarico e di piú triste, del fatto che vi abbia avuto i natali Marcione, piú fosco dello Scita, piú instabile dell'Amassobio, piú inumano del Massageta, piú audace dell'Amazzone, piú tetro del turbine, piú rigido dell'inverno, piú precario del ghiaccio, piú ingannevole dell'Istro, piú impervio del Caucaso. Chi è mai costui? Quegli sui fianchi del quale l'autentico Prometeo, l'Iddio onnipotente, è corroso dalle bestemmie: ché veramente piú implacabile delle belve di quella barbarie è Marcione, poiché qual castoro altrettanto castratore della carne che colui il quale soppresse le nozze? Quale sorcio Pontico piú pericoloso roditore di colui che corrose i Vangeli? Tu, Eusino, hai offerto ai filosofi una fiera di certo non piú raccomandabile di quella donata ai cristiani. Poiché quel canino Diogene andava cercando l'uomo portando in giro a mezzodi la sua lucerna. Marcione invece, quel Dio che aveva trovato, volle perdere, estinguendo la lucerna della fede».
Tertulliano, lo sappiamo, è un polemista senza garbo, senza riguardi, senza finezze. I suoi metodi sono i metodi della lotta a oltranza, burbera, intransigente. Lo sapranno alla fine della sua vita anche gli ortodossi, che avevano probabilmente applaudito e inneggiato alle battute violente e ineducate contro i valentiniani e contro i marcioniti. Ma nella disputa contro Marcione le sregolatezze della sua polemica raggiungono un livello inconsueto. Ragione sufficiente per pensare, cotesta, che nel marcionismo piú che in qualsiasi altra delle molteplici correnti che cominciavano a mezzo il secolo secondo ad apparire incompatibili con la predominante corrente della maggioranza ecclesiastica, Tertulliano scorgeva una certa superiorità spirituale e religiosa, che non sarebbe stato possibile vincere in altro modo se non con la beffa impertinente e col sarcasmo volgare.
Gli stessi caratteri dei metodi che Marcione aveva adoperato nella propagazione delle sue idee stavano lí a dimostrare che Marcione non era avversario da prendersi a gabbo: non era soprattutto uno di quei maestri raffinati di cultura speculativa, capaci solo di far presa su un pubblico circoscritto di cerebrali e di intellettuali.
La produzione religiosa di Marcione rivelava una sagoma singolarissima. Egli non si era dato affatto a sottili speculazioni mistico-teosofiche, come i maestri della gnosi, suoi contemporanei. Non si era perduto in complicate elucubrazioni cosmogoniche, analoghe a quelle di cui sembravano essersi nutrite con avidità le successive generazioni gnostiche. Di suo, Marcione non aveva composto che una sola opera strana ed originale, cosí per il contenuto come per la forma, ed a questa opera aveva imposto un titolo inconsueto, che sebbene desunto dalla nomenclatura retorica, nulla aveva di letterario e di retorico. L'aveva battezzata: Antitesi. Ed essa non era altro che la segnalazione nuda, arida, impressionante, dei contrasti che scavano un abisso incolmabile fra l'economia del Vecchio Testamento e quella del Nuovo. Ma, in realtà, l'antinomia fra il Vecchio e il Nuovo Testamento non era per Marcione che uno spunto felice per la segnalazione di antinomie piú profonde di quelle che possono essere individuate fra i documenti ufficiali di due forme religiose. Marcione scavava piú a fondo e andava a esplorare nelle pieghe piú intime della vita morale, individuale e collettiva, le antinomie paradossali che sussistono fra la legge tariffata e sanzionata della giustizia onerosa e quella extra-giuridica dell'amore volenteroso ed entusiasta. Possiamo dire ancor meglio. Scavando abissalmente nelle latebre piú riposte di questo paradosso vivente che è la psicologia umana, Marcione mirava ad individuare il conflitto tragico che la natura umana porta in se stessa tra le cupidigie della sua sensualità inappagabile e le aspirazioni risorgenti della sua spiritualità conculcata.
Ma le Antitesi, nell'intenzione di Marcione, non dovevano essere un'opera per sé stante. Aveva le sue pezze. d'appoggio, e queste erano costituite dal testo canonico e genuino e primordiale che egli pazientemente aveva cercato di ricavare dalla tradizione evangelica, qual era giunta alla comunità cristiana del secondo secolo, e dall'insieme dell'epistolario paolino, sottoposto a revisione.
Profondamente persuaso che il messaggio del Cristo costituisse una novità inconguagliabile e sconcertante nello sviluppo della religiosità umana, ma in pari tempo che esso avesse subìto immediatamente nello stesso gruppo dei suoi primi seguaci una deformazione sostanziale, Marcione si era posto come còmpito preliminare la restituzione dell'originaria essenza cristiana. Egli non avrebbe potuto raggiungere questo scopo se non ricostituendo il testo ufficiale del messaggio cristiano, isolandolo da tutte le contaminazioni degli adattamenti e dei rifacimenti giudaizzanti. Aveva cosí creato un «Vangelo», il Vangelo per eccellenza, e questo non poteva essere per lui altro che il Vangelo di Luca, spogliato dai rivestimenti e dalle parafrasi intenzionali. Parallelamente alla restituzione di questo Vangelo genuino, Marcione si era dato a ricostituire il testo di un «Apostolico», un testo cioè dell'epistolario paolino, che presentasse anch'esso nella sua struttura autentica la predicazione di Paolo. In questo «Apostolico» marcionita entrarono dieci lettere paoline, liberate dagli apporti che vi aveva affastellato su lo spirito della vecchia e superata religiosità legalistica, riuscita a incunearsi pur in grembo alla giovane comunità credente.
Le Antitesi dovevano costituire l'apparato esegetico e il controllo dimostrativo di questo testo ufficiale, di cui Marcione redigeva il canone, aprendo cosí il varco e preparando la via alla canonizzazione del Nuovo Testamento. Questa però sarebbe stata fatta con maggiore docilità alla tradizione fino allora ricevuta, e senza preoccupazioni di intransigenza dottrinale, dalla comunità ortodossa.
Queste manipolazioni marcionite dei testi evangelico e paolino e questa accumulazione di contrasti fra la rivelazione del Nuovo Testamento e la tradizione del Vecchio noi non possiamo che ricavarle dalla pesante e farraginosa confutazione tertullianea. Primo dovere pertanto dello studioso è di porsi in guardia dalle contraffazioni che il pensiero di Marcione deve aver subìto attraverso la confutazione tertullianea.
Indubbiamente una posizione dualistica è alla base di quel pensiero. Ma qual è il dualismo professato da Marcione? Il suo stesso paolinismo a oltranza ci permette di rispondere. Se Marcione è puramente e semplicemente un paolino integrale e conseguente, che il dualismo dell'Apostolo tra la legge e la grazia ha ipostatizzato in un dualismo storico fra due mentalità e fra due economie religiose, quella del Vecchio Testamento basata sulla violenza e quella del Nuovo basata sulla bontà, ogni riduzione del dualismo marcionita a dualismo cosmogonico anziché antropologico e storico è una vera contraffazione. Ora è questo precisamente quel che fa Tertulliano.
Una polemica imparziale contro Marcione avrebbe dovuto affrontare in pieno, prima di ogni altro postulato, il dualismo antropologico, la raffigurazione cioè del composto umano come la commistione eterogenea di due principî di azione nettamente antitetici, che lottano nella personalità umana e che si riportano ciascuno a una sua peculiare e specifica fonte di operazione. Tertulliano trova naturalmente piú semplice e piú comodo impegnare subito una prolissa discussione sulla unicità di Dio e sulla impossibilità logica e storica di distinguere, come faceva Marcione, il Dio buono e paterno, completamente ignoto e straniero fino al di della prima enunciazione evangelica, dal Dio creatore, che ha formato l'universo sensibile ed ha instaurato nel Vecchio Testamento l'economia religiosa della nuda e pura giustizia.
In verità, ponendosi da questo angolo visuale Tertulliano si uniformava alla testimonianza concorde della precedente produzione ecclesiastica, la quale aveva di un subito, fraintendendo completamente l'insegnamento marcionita, trasportato i presupposti morali e storici del maestro pontico nel dominio della speculazione e della metafisica astratta.
È sempre questo il rischio fatale contro cui vanno a urtare insegnamenti religiosi che pongano i valori della moralità associata al disopra di quelli della schematizzazione concettuale.
Marcione dava inizio alle sue Antitesi con queste eloquenti e calde parole: «O meraviglia delle meraviglie, e cosa da far restare stupefatti ed allibiti, che intorno all'Evangelo nulla, assolutamente nulla, sia possibile dire, nulla pensare, nulla dovunque trovare, come conveniente e adeguato termine di comparazione e di interpretazione».
Non si potrebbe desiderare indizio piú chiaro e decisivo della zona sulla quale il maestro pontico intendeva di raccogliere e di isolare l'essenza intima della religiosità cristiana. Per lui con Cristo aveva avuto inizio una inaudita ed affatto eccentrica rivelazione spirituale senza precedenti e senza paralleli. Il messaggio cristiano non rappresentava una rivelazione fra molte: era senza possibilità di contestazione la rivelazione per eccellenza. Al cospetto del suo contenuto originale che cosa mai potevano valere le altre economie e gli altri regimi religiosi? Che cosa potevan valere mai la stessa tradizione e la stessa economia a cui il cristianesimo ufficiale si ricongiungeva direttamente, la tradizione cioè e l'economia del Vecchio Testamento? Queste erano tutte nella manifestazione cosmogonica e storica di un Dio creatore e giudice, potente e irascibile.
Vien fatto di pensare che per lo spirito di Marcione, in cui sembravano ripullulare vecchie professioni dualistiche iraniche, rielaborate e circoscritte sotto la pressione delle dottrine antropologiche greche, gli atteggiamenti morali imposti da una determinata esperienza del Sacro valessero molto prima e molto meglio delle formulazioni astratte, a cui quelle esperienze credevano di doversi raccomandare, per la loro consistenza e per la loro virtú normativa. Comunque, se una forma qualsiasi di regime religioso doveva per necessità trascriversi in termini teologali e aderire ad una determinata raffigurazione ipostatica di sostanze divine, si doveva pure riconoscere che il Dio del Vecchio Testamento era un Dio radicalmente difforme da quello del Nuovo. Di questo Dio insolito e ignorato e della sua assoluta e incontaminata bontà, Gesù, apparso improvvisamente sulla terra nel XV anno di Tiberio, si era costituito araldo e testimone.
È vero, gli avversari di Marcione additavano a prova della sapienza benevola di Dio creatore lo spiegamento meraviglioso dell'universo sensibile e del mondo umano. Marcione ne storceva il viso infastidito e nauseato. Bell'affare in verità il mondo della creazione materiale con tutte le sue brutture, con tutte le sue deformità, con tutte le sue putredini, con tutte le sue basse fermentazioni! Lo spettacolo del male e del dolore nell'universo suggeriva ai marcioniti una formidabile iscrizione in falso contro l'autore della creazione. Chi, dopo il Vangelo, conosce l'economia della bontà, ha qualcosa altro da ammirare che non le innumerevoli creature materiali, di cui non si scopre la ragione e non si individua lo scopo. Il vero problema che tormenta e attanaglia la vita associata dell'umanità è il problema inevitabile del male. Questo problema non potrebbe avere altra soluzione che la soluzione paradossale del Vangelo. Il quale ha discoperto i valori che appartengono alla genuina economia dello spirito, che è il Signore: i valori della bontà, della longanimità, del perdono, della non resistenza al male. Dopo tale strepitosa scoperta ogni utilizzazione della precedente economia è una contaminazione e un corrompimento.
Veramente nuova, originale, senza possibilità di confronti, era la parola suprema del Vangelo e di Paolo: la parola dell'amore che non conosce rivalità, la parola del perdono che non conosce rappresaglie, la parola dell'unica violenza possibile, quella violenza disarmata e condiscendente, che vince perdendo, e placa non combattendo. Marcione, ad un secolo di distanza da Paolo, ne avvertiva di nuovo tutta la sorprendente e sconfinata capacità normativa. Egli aveva constatato che in un solo secolo di esistenza questa parola aveva già smarrito, per la stessa tragica difficoltà di praticarla, la sua lucentezza incomparabile e la sua validità intransigente. La Chiesa ufficiale era troppo proclive a dimenticarne la consegna infallibile, per venire ad accomodamenti col mondo e lasciarsi andare quindi ad una imperdonabile complicità con le scissioni e le violenze, onde si intesse la vita associata. Occorreva restituire il messaggio evangelico alla sua purezza primordiale. E l'unico mezzo per questa restituzione in integro era la separazione assoluta del messaggio cristiano da qualsiasi continuità con l'economia del Vecchio Testamento, l'economia del merito umano, della giustizia calcolabile, dei codici tariffati, delle discipline canoniche, dei regimi gerarchici. Se il Vangelo è l'annuncio mirabile del perdono, della dolcezza e dell'universale carità, non ci possono essere contatti e rapporti di successione fra l'Iddio potente e bellicoso della vecchia alleanza e l'Iddio amabile e condiscendente, del quale Gesù è l'interprete e il messaggero. Si tratta di due visioni antitetiche ed irriducibili della vita. Gli aderenti al Vangelo debbono sentire in profondità la inconfondibile spiritualità della loro rinascita e la dura responsabilità della loro consegna e della loro vocazione.
Quel che toglie all'audace e coerente posizione religiosa di Marcione un po' del suo fascino romantico e della sua bellezza ideale è la circostanza che egli è comparso in un momento politicamente sfavorevole per il giudaismo. Sicché, ai suoi inizi, la predicazione di Marcione può essere apparsa a qualcuno come una cooperazione ideale offerta alla campagna di sterminio che Roma, con l'imperatore Adriano, aveva risolutamente ingaggiato contro la razza d'Israele. Marcione giunge allora col suo Vangelo proprio nel momento in cui la terribile repressione antigiudaica adrianea era pervenuta al suo epilogo fatale. Sicché, al cospetto dello storico, l'insegnamento marcionita, col suo rinnegamento spietato di tutta la tradizione giudaica, col suo disconoscimento radicale di ogni qualsiasi apporto israelitico alla rivelazione senza precedenti e senza paralleli della buona novella, presenta l'aspetto piuttosto sorprendente di un colpo ingeneroso, inferto, nel momento del piú grave repentaglio, ad una tradizione che soggiace alla persecuzione dei poteri pubblici. Ma di questa coincidenza Marcione non è responsabile. Quel che gli lacera l'anima è la incomprensione della comunità cristiana di fronte alla originalità della parola buona del Vangelo. E per combattere questa incomprensione, per arrestare la comunità credente sul cammino della sua degenerazione, Marcione percorre l'ecumenicità cristiana gettando il suo monito alla resipiscenza ed al ritorno al Vangelo.
I polemisti ecclesiastici, Tertulliano innanzi tutto, hanno reagito in maniera da facilitare il proprio còmpito. Hanno cioè trasportato sul terreno della speculazione teologica un dualismo che era per Marcione un semplice dualismo di concezioni antropologiche e di economie storiche. Non due dèi Marcione distingueva. Egli distingueva piuttosto due reami nel tormentato mondo cui noi apparteniamo, due reami che si congiungono per lottare drammaticamente in noi stessi. Sono il reame della materia e quello dello spirito. Il primo contrassegnato dall'avidità, dalla sopraffazione, dalla irruzione della violenza. Il secondo guidato dagli ideali della rinuncia ascetica e della bontà illimitata. Il primo ha avuto la sua manifestazione integrale nel Vecchio Testamento: il secondo ha atteso la rivelazione arrecata dal Cristo per essere instaurato sulla terra.
Che i capisaldi dell'insegnamento marcionita fossero i principî ricavati direttamente dall'esperienza della piú elementare vita spirituale e dalla valutazione esatta del rovesciamento di criteri etici operato dal Vangelo e non fossero invece postulati di speculazione metafisica, appare da alcune tipiche circostanze. Appare ad esempio dal fatto che Marcione esprime e comprova fondamentalmente il suo originale dualismo mercè due detti evangelici che investono propriamente, non già le categorie antologiche dell'universo cosmico, bensí le connotazioni morali dell'operare umano e dei cicli storici. Le due immagini evangeliche che Marcione invoca piú decisamente a sostegno della sua posizione sono quella dell'albero buono o cattivo che dà frutti secondo la sua qualità e quella della impossibilità per l'otre vecchio di accogliere vino nuovo.
Purtroppo, secondo Marcione, all'indomani stesso della scomparsa dalla terra del messaggero del Dio buono, i giudaizzanti avevano tentato di riguadagnare terreno e di ricacciare nell'otre vecchio il vino della nuova e originale vendemmia. I primi stessi seguaci di Gesù, secondo Marcione, incapaci di realizzare appieno la consegna e l'ideale del loro Maestro, avevano adulterato la sua parola ed i suoi precetti, frammischiandovi i comandamenti e le sanzioni della economia superata. I Vangeli recavano infatti l'impronta di simili adulterazioni. Paolo era stato l'unico degli Apostoli che avesse vissuto e ribadito la completa e inconfondibile originalità del messaggio cristiano. Anche il suo epistolario però era stato rimanipolato dallo spirito giudaizzante, che seguiva e spiava alle calcagna il Vangelo, per neutralizzarne l'azione e frustrarne il programma.
Prendendo il coraggio a due mani, Marcione si accingeva a reintegrare in teoria e in fatto l'autentica tradizione cristiana, con tanto piú alacre zelo in quanto nell'assimilazione della vera parola di Gesù il quale ha discoperto il mistero della spiritualità e dell'amore, è, secondo lui, il veicolo infallibile dell'unica salvezza.
Marcione pertanto isola nella storia dell'umanità il miracolo della redenzione, e lo colloca al centro della spiritualità e del suo destino. L'apparizione del Cristo, il suo messaggio, la sua paziente abnegazione al cospetto delle forze materiali da cui è retto il mondo ed al cospetto del loro Signore, costituiscono un fatto cosí strepitoso che occorre ormai dividere il corso del tempo in due cicli nettamente distinti, prendendo le mosse da quella data solenne. È naturale che quando il contrasto dei valori nella vita è sentito con violenza irresistibile esso si traduca, in virtú di una trascrizione automatica e prammaticamente indispensabile, in una visione teologica dualistica.
Ma non bisogna confonder mai le necessarie trascrizioni concettuali degli stati d'animo e degli orientamenti spirituali con la loro intima essenza e con la loro pratica significazione. Solo a causa di una insensibile miopia i polemisti non imparziali scambiano l'una cosa con l'altra e si illudono di battere le intime posizioni spirituali, attaccando le loro superficiali ed effimere traduzioni concettuali. Marcione non è un teorico. È piuttosto uno storico, perché è soprattutto un maestro spirituale che trae dalla esperienza del passato la norma per l'avvenire. La nuova età è cominciata per lui. Ed è cominciata precisamente dal momento in cui il Cristo ha bandito le tavole del suo «Editto»: il discorso della montagna. In comparazione con la novità trascendente di questa mai pensata e umanamente non pensabile visione dei rapporti morali fra gli uomini, qual valore possono mai avere e quale significato possono mai rivestire i racconti miracolosi dell'infanzia di Gesù e le dichiarazioni armonistiche e accomodanti dei testi evangelici correnti? Là si tendeva a conguagliare l'economia nuovissima della religiosità instaurata dal Cristo alle tradizioni superate ed evanescenti del popolo che era stato tanto piú violento ed iniquo quanto piú si era ritenuto orgogliosamente fedele ad una giustizia legale, la quale era farisaicamente vincolata ad una mercede sensibile. Di tutti quei racconti, di tutte quelle enunciazioni, Marcione faceva spietatamente man bassa, dovunque non fosse possibile dare ai particolari aneddotici ed alle dichiarazioni messianiche una interpretazione puramente mistica.
Gli scrittori ecclesiastici rimproverano a Marcione, con acerba uniformità, di essere stato doceta al modo di alcuni gnostici. Lo rimproverano cioè di avere negato la realtà storica dell'umanità assunta dal Cristo, messaggero del Dio buono. Probabilmente si tratta puramente e semplicemente di una riduzione stilizzata del suo disinteresse completo all'esistenza corporea del Cristo, in confronto con la sopravalutazione esclusivistica che egli faceva dell'opera morale e didattica spiegata dal Cristo nel mondo.
Per Marcione, tutto nel Vangelo è destinato a trovar valore e significato nel programma di una spiritualità eroica e intransigente. Tutto deve trasfigurarsi in un ciclo di concezioni e di visuali, da cui la materialità sia radicalmente esclusa. I mezzi e i segni di simile trasfigurazione sono dati dall'etica eccezionale bandita dal Cristo, la quale deve costituire il retaggio di ogni aderente a lui, pur sapendosi in anticipo che come essa aveva portato il Cristo alla croce, avrebbe esposto i proseliti all'odio del mondo e all'ignominia. La morale marcionitica era di una austerità superlativa. Coinvolgendo in un unico verdetto di nausea e di condanna l'universo sensibile, Marcione assegnava al credente un'esistenza di pura abnegazione per il bene nello Spirito, vietando ed inibendo tutto quello che potesse rappresentare una concessione vile alla materia ed una complicità vergognosa col Sovrano di questa.
Nell'esegesi sottile di Marcione le parabole del Cristo divengono simboli raffinati dell'azione spirituale del messaggio cristiano fra gli uomini, divengono metafore pregne di significato per indicare la posizione dell'uomo nel contrasto incessante delle forze antitetiche operanti nel mondo. Il ladro che entra di soppiatto di notte, da cui prende lo spunto la parabola registrata nel Vangelo di Luca al Capo XII, è il Signore della materialità e della violenza pronto sempre all'insidia contro i redenti dal Dio buono. Il grano di senape a cui il Regno di Dio è paragonato nel Capo XIII di Luca, simboleggia la nuova predicazione della bontà, che ogni illuminato da Cristo depone nella clausura gelosa della propria anima.
Una posizione di tale elevatezza e di tale disinteresse scavava un abisso tra Marcione e gli interpreti della comunità ortodossa. Ma nel medesimo tempo questa riduzione angusta e unilaterale, se si vuole, di tutta l'esperienza cristiana ad una sensazione acuta ma circoscritta del dissidio che è nel mondo tra materialità e spiritualità, staccava nettamente Marcione da tutte le nebulose speculazioni della gnosi cristiana.
Marcione è nel cristianesimo antico quegli che piú intransigentemente ha visto l'identità fra il Vangelo e la supermorale dell'amore e della non resistenza. Per questo la sua figura domina il cristianesimo antico e rappresenta uno sforzo di purificazione cristiana di cui altre volte nella storia si sarebbe sentito il bisogno. Egli non è, come l'ha veduto Harnack, un fondatore autonomo di religioni. È un interprete genuino che riprende intransigentemente il cammino di Paolo. Secondo la testimonianza degli scrittori eresiologici ortodossi egli ha proclamato che l'Iddio annunciato dalla Legge e dai profeti non era affatto il padre del nostro Signore Gesù Cristo: «Quello, ben noto, questo, fino alla rivelazione di Gesù, completamente sconosciuto: quello puramente giusto, questo buono». Se l'avversione ad ogni visione materialistica della beatitudine del Regno porta Marcione a recidere troppo brutalmente e bruscamente i nodi di collegamento tra la predicazione apocalittica di Gesù e la tradizione profetica del Vecchio Testamento, questo può essere spiegato dalla ripugnanza che suscitavano in lui le pitture realistiche del Regno di Dio, come quelle di Papia di Gerapoli. In un momento nel quale la lotta cruenta fra giudaismo e Impero aveva toccato il suo parossismo, Marcione proclama che il Vangelo non ha nulla di comune con le lotte politiche, ma è solo pace, amore, purezza e abnegazione.
Si comprende molto bene l'imbarazzo degli apologisti ufficiali al cospetto di una spiritualità cosí alta e di una predicazione cosí intransigente. Si comprende come l'arduità della polemica li costringesse a deformazioni grossolane e ad obliterazioni imperdonabili. Si comprende soprattutto come Tertulliano dovesse insorgere contro una visione del messaggio di Cristo che toglieva alle prescrizioni dell'etica la visuale delle sanzioni apocalittiche.
Marcione teneva fisso lo sguardo sull'assoluto della perfezione morale, bollava di infamia ogni deviazione, rifiutava sdegnosamente una qualsiasi egoistica ricompensa. Per lui la «benignitas» del Nuovo Testamento, se nulla aveva di comune con la morale legalistica del Vecchio, nulla neppure esigeva di compensi realistici in un Regno di Dio da instaurarsi sulla terra. Il vecchio Dio della Legge poteva essere temuto. Il nuovo Dio non poteva essere che amato.
Tertulliano avrebbe cercato di prenderlo in parola e avrebbe domandato ironicamente perché mai, avendo rinunciato ad una sanzione sensibile, i marcionisti non operavano il male. Quante volte nel corso dei secoli si sarebbe proclamato che senza l'inferno non ci sarebbe moralità fra i credenti!
Marcione aveva già prospettato una simile abbiezione ed aveva dato una risposta perentoria. «Giammai, giammai». Questo grande giammai sarebbe stato un pruno negli occhi per Tertulliano e per gli altri polemisti della sua risma. Si poteva dare al mondo gente che si rassegnasse a tutte le rinuncie sensibili, che si sobbarcasse a tutte le mortificazioni della carne, senza chiedere il guiderdone del Regno beato, e senza compiacersi innanzi tempo della vendetta stupefacente che l'Iddio giudice si sarebbe preso dei recalcitranti al suo volere nel giorno della sua parusia? I marcionisti rappresentavano questo strano ed abnorme genere di uomini. Apologisti come Tertulliano, tutti infervorati nel sogno della loro apocalissi millenaristica, non avrebbero potuto acconciarsi all'idea. Non soltanto il suo temperamento si sarebbe ribellato ad una sublimazione cosí impalpabile e cosí disinteressata della morale evangelica, tutta contesta di bontà, di misericordia, di tolleranza, di perdono. Attraverso la parola di Tertulliano avrebbe parlato tutta la mediocrità della Chiesa ortodossa, in cui erano indispensabili una morale sanzionata e quindi farisaicamente definibile, ed una escatologia realistica, come insieme di rappresaglie e di stipendi.
Per Marcione il Regno di Dio è Cristo stesso. In questa formula è tutta l'escatologia marcionitica. Il maestro pontico lascia al materialismo giudaico l'aspettativa di un Regno eudemonistico sensibile. Nessuna immortalità naturale quindi e nessuna risurrezione della carne. Solo la pratica del bene introduce nell'eredità del Dio buono. Dei sudditi della carne Marcione non sembra preoccuparsi.
Appar dunque chiaro che nel conflitto tra la visione cristiana di Marcione e quella di un suo avversario quale Tertulliano, si concretava per la prima volta un conflitto che non avrebbe mai piú lasciato di lacerare drammaticamente le viscere della società cristiana. È il conflitto fra l'aspirazione idealistica al bene sognato e attuato come una consegna che scaturisce dalla rivelazione entusiasmante del Dio dell'amore, e la concezione del bene quale duro travaglio quotidiano, da registrarsi metodicamente in un libro mastro, per il giorno in cui un giudice impassibile avrebbe tirato le somme del dare e dell'avere.
Era la legge del taglione contro la libera e spensierata pratica della abnegazione e della dedizione.
Il giudizio della storia non è il giudizio di Dio.
Noi possiamo dire che solamente le circostanze storiche, arbitre sovrane del destino degli uomini, segnavano il marchio infamante dell'eresia su quel Marcione predicatore della moralità assoluta, della bontà e della rinuncia, che in altri momenti storici avrebbe potuto incontrare sorte del tutto diversa.
Vi sono figure che hanno reincarnato nella storia lo spirito di Marcione e che la Chiesa ha collocato sugli altari.
Cosí paradossale e strano è il destino delle vocazioni spirituali nel mondo!