Ad un secolo preciso di distanza dalla morte del Cristo la società religiosa venutasi faticosamente costituendo di su la disseminazione rapida e intensa del suo messaggio, rivelava molteplici atteggiamenti e composite fogge. Il messaggio del Regno di Dio, come consegna della piú radicale metamorfosi interiore e del piú violento rovesciamento dei valori disciplinanti la vita del singolo nella collettività, si era, si potrebbe dire, rifratto in una molteplicità di forme spirituali, ciascuna delle quali concepiva quel Regno a suo modo.
Una rapida rassegna dell'insegnamento paolino prima, dell'esperienza. post-apostolica poi, ci ha permesso di constatare come il messaggio del Cristo, messaggio di radicale ed integrale palingenesi in vista dell'imminente ritorno del Signore trionfante, fosse stato già variamente atteggiato, secondo le predisposizioni e le predilezioni culturali e spirituali dei vari ambienti nei quali quel messaggio stesso si propagava.
La cosa è perfettamente comprensibile. Gesù, attingendo le regioni piú profonde e piú intime della coscienza umana, aveva dischiuso le porte della trascendente salvezza a chiunque, in un'adesione al Padre, capace di annullare tutte le forme della pratica consuetudinaria della vita morale, avesse trovato il modo di vivere, in anticipo, nella gioia, nella pace e nell'amore, quella vita beata che avrebbe poi trovato nel Regno la sua realizzazione perfetta e la sua garanzia indefettibile. Le specificazioni possibili dell'esperienza cristiana non potevano che coinvolgere l'aspetto del Regno e l'accertamento razionale del suo reale accadere.
Spiriti come quello di Papia di Gerapoli, portati a identificare la giustizia con la perfetta eguaglianza nella distribuzione delle gioie sensibili della vita, erano naturalmente e automaticamente indotti a raffigurarsi il Regno annunciato da Cristo come l'attuazione sulla terra di un grande ideale comunista.
Spiriti come quelli di un Valentino e di un Basilide, educati a tutte le raffinatezze della speculazione alessandrina, erano indotti piuttosto a raffigurarsi il Regno come un ricongiungimento noetico ad un mondo di realtà trascendenti, sul tipo delle idee platoniche, mercè l'adesione alla rivelazione del Cristo, Egli stesso essere pleromatico, sceso sulla terra per espiare la colpa mitica di Sofia.
Il diverso modo di raffigurarsi il Regno importava di per sé una parallela differenza nel modo di raffigurarsi il Cristo. Per i comunisti millenaristi il Cristo non era che un grande profeta inviato da Dio come messaggero preliminare della instaurazione sovrana della giustizia nel mondo. Per la gnosi, il Cristo è un eone astrale, la cui comparsa sulla terra non è che un simbolo e un mistero, suscettibili soltanto di conoscenza iniziatica.
Per una scuola mediana come quella rappresentata dal IV Vangelo platonico, il Cristo non era che la concreta individuazione storica di quella figura mistica del Logos, che già Filone dal canto suo aveva concepito come l'essere medio indispensabile, di cui Dio aveva bisogno per venire a contatto col mondo della natura sensibile e col mondo umano.
La propaganda del messaggio cristiano in un mondo fatto di elementi eterogenei, avvinti alla medesima costituzione imperiale, come il mondo romano, non poteva non essere accompagnata da un'elaborazione sostanziale del messaggio cristiano a norma dei vari indirizzi culturali e delle varie esigenze spirituali. E ciascuna peculiare configurazione del messaggio cristiano nei vari ambienti a cui esso perveniva era istintivamente portata a raccomandare la propria interpretazione del cristianesimo ad una propedeutica razionale e storica, che fosse mezzo e tutela dell'ulteriore propagazione ed elaborazione.
Nasce cosí quella letteratura apologetica, che nel suo insieme costituisce l'espressione letteraria piú organica e piú insigne del cristianesimo nel secondo secolo.
È strano osservare che mentre questa letteratura apologetica obbedisce principalmente al proposito di difendere la comunità cristiana dagli attacchi dell'autorità politica e della cultura laica, in realtà questa letteratura finisce col servire soprattutto gli interessi interiori della vita e del pensiero cristiani, i quali in tanto possono piú validamente imporsi all'attenzione ed al rispetto del mondo circostante, in quanto si vengono piú intensamente agguerrendo, cosí dal punto di vista concettuale come dal punto di vista pratico.
Al cospetto dell'odio e del disprezzo che il mondo pagano ostenta verso le comunità cristiane, gli apologisti greci che si assunsero il còmpito di illuminare gli avversari sulla insospettabile innocenza dei seguaci del vero Dio, tennero i loro scritti su un livello di mirabile dignità. C'è in loro veramente la coscienza spontanea di rappresentare una forza religiosa, contro cui è vana la resistenza come è sterile la persecuzione.
Bramosi innanzi tutto del bene spirituale dei loro avversari, questi apologisti cristiani cercano di cogliere ogni occasione per riversare nelle loro coscienze, annebbiate dai pregiudizi e intorpidite dalle consuetudini, sprazzi di luce e di verità che le stimolino verso una piú propinqua e scrupolosa conoscenza delle vie della salvezza.
I loro scritti sono nel medesimo tempo elaborate esposizioni dottrinali e descrizioni colorite della incontaminata illibatezza dei costumi cristiani.
Ma c'è nelle loro apologie molto piú che una difesa e un'esortazione. C'è soprattutto, trepidante e prezioso, lo sforzo di una coscienza credente, che cerca faticosamente di dare organicità alle proprie idee e indirizzo alle proprie aspirazioni.
Non è da credere che questa pleiade di scrittori, tutti intenti a purgare la figura morale dei cristiani dalle accuse invereconde che il mondo pagano circostante scagliava contro la loro professione di fede, e tratti da un istinto quasi inconsapevole a rivestire il messaggio cristiano di una patina filosofica che lo facesse accetto alle classi colte dell'Impero, si uniformi tutta al medesimo indirizzo di pensiero e al medesimo metodo di difesa e di offesa. Questi scrittori che la tradizione ecclesiastica ha conglobato sotto la comune denominazione di «apologisti» sono profondamente difformi l'uno dall'altro. La loro esperienza religiosa non è sempre del medesimo tipo. Gli stessi elementi costitutivi dell'insegnamento uscito dalla predicazione di Gesù e dalla interpretazione di Paolo e dal travaglio diffuso della generazione sub-apostolica, l'elemento cioè dottrinale da una parte, messianico ed apocalittico dall'altra, si riflettono in misura difforme nell'uno e nell'altro apologista. Quel che li tiene uniti, a prescindere anche dalla consuetudine presto invalsa nella comunità di considerarli genericamente come ugualmente tutti ispirati dal proposito della difesa cristiana, è lo sforzo istintivo della fede che essi rappresentano, di trovare al messaggio di cui sono nel medesimo tempo di già gli eredi e i trasmettitori, un rivestimento concettuale ed una giustificazione storica, che valgano a garantirgli un piú vasto raggio d'azione ed una piú solida struttura culturale.
In verità, non tutti gli scrittori che vanno sotto il nome di apologisti redassero vere e proprie apologie del cristianesimo. Da questo punto di vista li possiamo ripartire in due categorie. Una prima categoria, rappresentata veramente da avvocati del cristianesimo che hanno effettivamente presentato le loro arringhe defensionali alle autorità costituite, comprende il martire Giustino che tra il 150 e il 160 indirizzò direttamente uno scritto in difesa dei cristiani all'imperatore Antonino Pio, con una appendice diretta al Senato Romano; Aristide, che fra il 138 e il 157 diresse al medesimo Antonino Pio anch'egli un'apologia dei cristiani; e l'ateniese Atenagora, che tra il 177 e il 188 indirizzò una supplica per i cristiani agli imperatori Marco Aurelio e Lucio Aurelio Commodo. Di fronte ad essi possiamo comprendere, sotto una unica seconda categoria, i difensori del cristianesimo che non si rivolgono tanto alle autorità costituite, quanto alla massa pagana ed al mondo della cultura profana presso i quali cercano di accreditare in una forma o nell'altra il messaggio cristiano. A questa categoria appartengono Taziano col suo Discorso ai greci e Teofilo Antiocheno coi suoi tre libri sul cristianesimo diretti al pagano Autolico. Non è detto che questi scrittori si limitino all'atteggiamento difensivo. A volte prendono il tono sarcastico dell'aggressione polemica per rovesciare le parti e ritorcere contro i costumi pagani e contro la tradizione culturale del paganesimo le armi che il paganesimo adoperava contro la propaganda cristiana. Da questo punto di vista scritti come quello di Ermia: «I filosofi pagani alla sbarra» meritano di essere annoverati nel fascio della letteratura apologetica, come manifestazioni tipiche di quella capacità conquistatrice e sovvertitrice che il messaggio cristiano portava con sé, attraverso il suo cammino nel mondo.
All'apice di questa letteratura apologetica, che ha foggiato nel secondo secolo le linee maestre di tutta la posteriore tradizione ecclesiastica, va posto Tertulliano, l'apologista africano, in virtú del quale l'apologia cristiana ha cominciato effettivamente a trasformarsi in un pieno ed organico sistema di idee.
Abbiamo detto che i due elementi centrali dell'insegnamento cristiano alla metà del II secolo, l'elemento teoretico e l'elemento messianico-escatologico, dominano in diversa misura nell'uno e nell'altro degli apologisti. Non si deve però pensare per questo che i due elementi fossero assolutamente incompatibili. Le forme estreme dell'escatologia realistica come il millenarismo noi le troviamo in maestri come Giustino, che pure soggiacciono ad una ispirazione culturale armonistica e che soprattutto cercano di mostrare che la rivelazione cristiana non è un prodotto abnorme ed una esplosione subitanea, nel piano di sviluppo della spiritualità precristiana.
È, si potrebbe dire, sulla dottrina del Logos, che una cernita si può fare fra i due gruppi di apologisti. Gli uni persuasi che il cristianesimo sia il coronamento definitivo della preparazione razionale e delle aspettative religiose del mondo precristiano, gli altri al contrario disposti ad esaltare oltre ogni limite concepibile l'originalità del messaggio cristiano e la sua abissale difformità e insurrezione di contro a tutte le precedenti manifestazioni della cultura e dello spirito nel mondo.
Una piena filosofia della storia noi la troviamo in Giustino. Per lui il Logos non è soltanto la ragione divina considerata nella sua interezza, figlio di Dio e immanente a Dio. In pari tempo Giustino riconosce che un riflesso di questo Logos divino è nella ragione degli uomini e che disseminato parzialmente, come un germe, nelle viscere dell'umanità in sviluppo, ha guidato per vie misteriose l'umanità alla luce piena e non valicabile del Vangelo. Giustino non esita ad ammettere che anche coloro i quali vissero prima della venuta di Cristo sulla terra poterono, con una grande virtú personale, raggiungere la salvezza. Nel novero di questi predestinati alla salvezza nel mondo precristiano in virtú della luce parziale del Verbo accesa nelle loro anime Giustino pone, oltre ai profeti, le Sibille ed i filosofi Socrate, Eraclito ed altri pochi minori con loro. Naturalmente Giustino si guarda molto bene dallo spingere troppo oltre un principio di questo genere che, applicato indiscriminatamente, indurrebbe a negare la necessità della nascita e della morte del Cristo, quali mezzi necessari alla salvezza degli uomini. Si potrebbe dire che per Giustino le possibilità di salvezza dell'umanità precristiana sono di natura teoretica. Possedendo una ragione soltanto parziale, esposti ai continui assalti dei demoni, circondati da abbominevoli esempi di colpa, solo in una esigua minoranza gli spiriti delle età precristiane furono capaci di assurgere a quella dignità, che garantisce la partecipazione alla beatitudine di Dio. Nessuno di quei maestri che disseminarono la luce del Verbo nel mondo precristiano fu capace di raccogliere veri seguaci dopo la morte. C'è ad ogni modo e vive in una parte dell'apologia cristiana del secondo secolo una certa fede nelle capacità salutifere della ragione. Ma queste capacità sono fragili, insufficienti, precarie. La rivelazione e la redenzione operate dal Cristo appaiono ugualmente come un dato indispensabile alla trasformazione spirituale dell'umanità.
Se noi però vogliamo valutare l'apporto recato da maestri come Giustino alla solidificazione del pensiero cristiano e al suo inserirsi in una organica e totalitaria visione della storia, siamo probabilmente autorizzati a pensare che il cardine del suo sistema apologetico è rappresentato dallo sforzo di collegare direttamente il cristianesimo, non solamente con la tradizione biblica, nel che egli si diversifica recisamente da Marcione, ma anche con la tradizione del pensiero classico. Giustino è il primo vero umanista nella storia del cristianesimo. Il primo che ha cercato di fare del cristianesimo il risultato di tutto lo sviluppo millenario dell'umanità, sí da avvincere indissolubilmente il cristianesimo stesso a tutto il travaglio morale della storia umana, dalle origini adamitiche alla pienezza dei tempi.
Partendo cosí dal presupposto piú o meno consapevolmente avvertito che la verità è una ed eterna, Giustino ha offerto per la prima volta al cristianesimo la coscienza delle sue origini nel piú lontano orizzonte storico, cosí biblico come extra-biblico. Giustino narra di avere lungamente errato attraverso le numerose scuole filosofiche sparse nel mondo ellenico e romano, prima di essersi imbattuto nella conoscenza dei libri profetici, che gli hanno rivelato la verità. Ma Giustino non è affatto disposto per questo a ripudiare il viatico prezioso raccolto lungo il suo pellegrinaggio attraverso le scuole filosofiche e il cristianesimo appare a lui come la filosofia unica vera, in quanto ha portato a conclusione quel che nelle scuole filosofiche era crepuscolare ed embrionale. «La filosofia, egli dice, è realmente il tesoro piú inestimabile ed il piú meritevole omaggio che noi possiamo prestare a Dio. A Dio la filosofia ci guida e ci congiunge e Santi veramente sono coloro che le dedicano tutto il loro pensiero» (Dialogo con Trifone, Capo III).
E poiché la filosofia è già l'esplicazione piú alta delle capacità dello spirito, filosofia e cristianesimo non possono essere per Giustino che una cosa sola. È da questa posizione di spirito che nascono in Giustino le speculazioni a proposito del Logos. Il dogma trinitario si va cosí delineando nella elaborazione concettuale della letteratura apologetica sotto la pressione di una visione storica che vuole dare ragione dei progressi spirituali dell'umanità e del suo provvidenziale avviamento alla piena rivelazione del Cristo.
I profeti, secondo Giustino, hanno preannunciato i fatti che si sono avverati con la discesa del Cristo, ed hanno cosí apprestato in anticipo una dimostrazione concreta ed inappellabile del cristianesimo veniente. Il valore del Nuovo Testamento, ed in generale di tutti gli scritti che, non ancora canonizzati all'epoca di Giustino, erano attribuiti agli apostoli, è precisamente quello di aver dato la controprova delle verità profetiche, tramandando i fatti e i detti della vita di Gesù Cristo, che altrimenti ci sarebbero ignoti, e dandoci cosí il modo di interpretare le leggi morali e religiose nel loro autentico significato. E cosí pure se il Figlio di Dio si fece uomo, se soffrí la maledizione della croce, ciò fu essenzialmente perché occorreva confermare in modo visibile le rivelazioni profetiche ispirate dal Logos stesso. In tal modo la ragione parziale ha toccato il suo completamento nella rivelazione integrale del Logos divino. I cristiani l'hanno ormai come loro inalienabile retaggio. Forti di questa loro conquista, essi hanno ormai la sicurezza contro gli esterni spiriti malvagi, che non desistono ancora, si intende, dalla loro guerra accanita e spietata contro i buoni. Ma gli uomini in cui abita lo Spirito sono di natura superiore ai demoni, e sono quindi capaci di dominarli. Tutto impregnato di sensazioni e di scrupoli magici, Giustino considera la croce come un'arma irresistibile, al cui solo nome i tentatori debbono fuggire atterriti.
La cristologia di Giustino obbedisce cosí ad un duplice ordine di considerazioni. Da una parte la sua visione storica di una rivelazione progressiva nel genere umano e di una preparazione dell'umanità al messaggio del Cristo operata dal Logos comunicato da Dio alla ragione umana in cammino, lo sospinge ad una identificazione sempre piú concreta e realistica del Cristo storico col Logos preesistente nella mente di Dio. D'altra parte la sua profonda fede escatologica nel Regno di Dio veniente lo sospinge energicamente a dare risalto all'opera storica e messianica del Figlio di Dio. Il Logos, potenza razionale, è stato, in qualche maniera, latente fin dall'eternità nel grembo del Padre, riassumente in sé tutte le forme delle cose create. Ad un certo momento questo ineffabile Logos che è nel medesimo tempo pensiero e parola, ragione e discorso, fu misteriosamente pronunciato ed emesso dal Padre, come primogenita di tutte le creature. I rapporti tra il Verbo immanente e il verbo emesso e pronunciato non riescono a farsi molto chiari nella speculazione teologica degli apologisti. La loro teologia trinitaria ha qualcosa di nebuloso e di indefinibile. In Giustino, come in Taziano, il Figlio e lo Spirito sono identificati, e soltanto Atenagora parla, ad esempio, dello Spirito come di una emanazione del Padre e del Logos. Attingendo da quelle tradizioni platoniche che erano diffuse nel mondo colto del tempo, gli apologisti vedono essenzialmente il Logos come il demiurgo, come cioè il diretto artefice del mondo, lo strumento di cui il Padre si serví per la generazione di tutte le cose.
Non c'è da pensare però che la posizione di Giustino, posizione di simpatia e di fiducia nelle possibilità della speculazione umana e nell'opera provvidenziale compiuta dalla filosofia quale preparazione alla rivelazione cristiana, sia condivisa da tutti gli altri apologisti. Il piú insigne discepolo di Giustino, Taziano, è su questo punto nettamente discorde dal suo maestro.
Per lui la ragione è assolutamente inadatta ed impari a raggiungere la verità nel mondo delle realtà spirituali. Quanto Giustino è indulgente nel giudicare la filosofia, altrettanto Taziano è aspro, severo, intransigente. Se la filosofia ha raggiunto qualche verità intorno alla nozione di Dio, intorno alla sua natura ed intorno alla sua azione nel mondo, questo si deve unicamente alla dipendenza della filosofia greca dalla rivelazione biblica. Una tesi di questo genere ha imposto a Taziano una lunga dissertazione storico-cronologica, intesa a dimostrare la priorità di Mosè su tutta la civiltà greca. Indirizzandosi ai greci, agli antesignani cioè della civiltà di contro ai barbari, Taziano prende arditamente l'offensiva: «Conviene bene che io vi mostri che la nostra filosofia è piú antica della civiltà greca e per dimostrare ciò noi assumeremo come punti di riferimento Mosè ed Omero, poichè ciascuno dei due è la figura piú antica del proprio mondo. Essendo l'uno il primo dei poeti e degli storici, l'altro l'iniziatore di tutta la sapienza barbarica, è perfettamente logico che noi li scegliamo come termini di comparazione. Noi vedremo cosí che le nostre tradizioni risalgono piú indietro nel tempo, e che vanno riportate ad un'epoca anteriore, non solamente alla scienza greca, bensí anche alla stessa invenzione della scrittura. E per dimostrare questo io non farò appello alla testimonianza dei nostri: preferisco farmi forte della testimonianza dei greci. Poiché evidentemente il primo metodo sarebbe assurdo, visto e considerato che voi greci non accettereste mai la nostra testimonianza. Il secondo metodo, invece, se io riuscirò a mantenerlo in tutta la mia dimostrazione, sarà infallibile, poiché combattendo con le vostre armi, io metto in campo argomenti di fronte ai quali voi non potete mostrare alcuna diffidenza. Sulla poesia di Omero, sulla sua famiglia, sul tempo in cui egli è fiorito, le prime ricerche sono dovute a Teagene di Region, contemporaneo di Cambise, a Stesimbroto di Tasos, ad Antimaco di Colofone, ad Eraclito di Alicarnasso, a Dionigi di Olinto e dopo di loro a Eforo di Cimea, a Filocoro di Atene, a Megaclide ed a Camaleonte, peripatetici; dopo sono venuti i grammatici Zenodoto, Aristofane, Callistrato, Cratete, Eratostene, Aristarco, Apollodoro. Tra loro i discepoli di Cratete dicono che egli, Omero, è vissuto prima del ritorno degli Eraclidi, 80 anni dopo la guerra di Troia al piú tardi. I discepoli di Eratostene dicono che Omero è fiorito 100 anni dopo la presa di Troia. Quelli di Aristarco lo collocano all'epoca della colonizzazione ionica, che è posteriore di 140 anni alla guerra troiana. Filocoro dopo la colonizzazione ionica, essendo arconte ad Atene Archippo, 180 anni dopo la guerra troiana. I discepoli di Apollodoro lo pongono 100 anni dopo la colonizzazione ionica, vale a dire 240 anni dopo la guerra troiana». E Taziano continua ancora a lungo a raccogliere le reminiscenze della sua erudizione scolastica per dimostrare quanta incoerenza domini nelle cose fondamentali della cultura storica ellenica, qual è l'epoca in cui Omero era vissuto e aveva cantato. E dalla rassegna delle incoerenze e delle disparità nel dominio della cultura omerica, Taziano trae vittoriosamente argomento per pensare che questa cultura greca non merita di essere presa in nessuna maniera sul serio, perché non è che esibizione di vanagloria. Di fronte a questa cultura vanitosa e inconcludente, sta la saldezza della fede biblica cristiana: «In noi, nessun prurito di vanagloria e per questo nessuna divergenza nelle dottrine. Separati da tutte le dottrine comuni e terrestri, unicamente obbedienti ai precetti di Dio, sottoposti docilmente alla legge del Padre e della incorruttibilità, noi respingiamo recisamente quanto poggia sulla fragile opinione umana. Fra noi non sono soltanto i ricchi a coltivare la filosofia. I pezzenti godono gratuitamente dell'insegnamento. O che forse, perché viene da Dio, può essere compensato con i doni e i vantaggi di questo mondo? Noi accogliamo a braccia aperte tutti coloro che vogliono ascoltare, vecchi come fanciulli; tutte le età sono ugualmente onorate da noi e noi non pronunciamo menzogne. E voi fareste molto bene a staccarvi dalla vostra empietà. Noi facciamo le medesime accoglienze a tutti coloro che vogliono far professione di filosofia, poiché la forza della ragione può essere in tutti, e non è raccomandata alle forze del corpo».
In questa invettiva finale noi cogliamo probabilmente una delle forze piú impetuose della propaganda cristiana: il senso che la rivelazione religiosa, risalente alle origini dell'umanità storica con Mosè, è retaggio universale degli uomini, indipendente dalla loro condizione sociale e dalla loro appartenenza etnica. Questo Siro, erede di quella barbarie, che Grecia e Roma avevano avuto ugualmente a dispregio, non ha assimilato la cultura ellenica che per ripudiarla col gesto piú sprezzante. È una cultura d'accatto, è una cultura di un piano inferiore e di qualità derivata. È retaggio di pochi ed è satura di albagia e di menzogna. Solo nella tradizione biblica, nella sua realizzazione neo-testamentaria, solo nella visione dell'imminente Regno, è la piena vita dello spirito e la vittoria suprema della ragione. Il cristianesimo è la luce del mondo; è anche il modo per acquistare l'immortalità. Perché inserendo la sua antropologia nella sua escatologia e ripudiando anche in questo nettamente la tradizione culturale dell'ellenismo, per aderire in maniera che si direbbe feroce alla tradizionale antropologia della Bibbia e soprattutto dei profeti, Taziano nega assolutamente una immortalità naturale dell'uomo, per proclamare una immortalità beata che è condizionata e che si conquista soltanto mercè l'adesione al Cristo e l'adesione al suo evangelo.
Ma il disprezzo per la filosofia ellenica raggiunge in un altro scritto, che noi possiamo benissimo comprendere nel novero delle opere apologetiche del secondo secolo, la sua forma piú virulenta: è la beffa dei filosofi pagani, del filosofo Ermia. Si tratta di una rapida e schematica requisitoria contro i piú celebrati maestri della speculazione greca precristiana. L'autore di questa sardonica e intransigente invettiva contro la filosofia non vede affatto negli insigni maestri del pensiero greco allievi inconsapevoli o precursori crepuscolari del Logos. Secondo lui, intorno ai problemi centrali dell'umana riflessione, l'anima, Dio, il mondo, la speculazione razionale degli uomini non ha saputo fare altro che ammassare contraddizioni e sciocchezze. Solo il Vangelo ha dato la piena enunciazione della verità. Meno agguerrita della diatriba di Taziano, questa invettiva, che piú di una volta ha l'andatura di un sermone, sta a rappresentare nella maniera piú aperta il disdegno di una parte della riflessione cristiana del secondo secolo, contro la speculazione filosofica del mondo precristiano. All'epilogo della rassegna che egli fa delle varie scuole filosofiche greche (la sua conoscenza dei sistemi filosofici è piuttosto circoscritta e non comprende alcun neoplatonico, nel che si potrebbe anche riconoscere un termine cronologico) lo scrittore conclude con queste parole desolate: «Ho passato in rassegna questa congerie di opinioni, onde mostrare la loro intima contraddizione, onde far vedere come si sperde nel vago e nel vuoto la loro indagine delle cose, come il termine loro sia la vanità e l'inutilità, termine povero di qualsiasi conferma che scaturisca dalla realtà evidente e dal ragionamento perspicuo».
Questa molteplicità di indirizzi nella soluzione del problema centrale che doveva offrirsi ai difensori del messaggio cristiano nel secondo secolo ci permette di cogliere di scorcio le ragioni e gli impulsi che sollecitavano il messaggio stesso verso una sistemazione teoretica e pratica dei propri elementi costitutivi.
Là dove l'elemento sociale del messaggio cristiano, la visione cioè del veniente Regno di Dio trionfo assoluto della giustizia, della pace e dell'eguaglianza fra gli uomini, aveva nettamente il sopravvento, i problemi culturali e filosofici apparivano come un dato di secondaria e trascurabile importanza. I rapporti del messaggio cristiano con la precedente evoluzione della spiritualità nel mondo ellenistico-romano non destavano un interesse prevalente. Si poteva anche lasciare andare alla malora tutto quel che rappresentava l'eredità delle tradizioni culturali precristiane pur di affermare e proclamare solennemente l'originale rivelazione del Cristo e la sua prossima trionfale attuazione nel Regno di Dio. Là dove invece il problema della continuità di quelle tradizioni e del loro integrale completamento nella rivelazione del Cristo si presentava come un problema indeclinabile e cogente, l'elemento escatologico della rivelazione evangelica correva rischio di svaporare in una visione solamente idealistica della vita e di rimbalzo le preoccupazioni storico-culturali tendevano ad assumere una posizione di preminente rilievo. Naturalmente, lo ripetiamo, il taglio non è netto come si può presentare alla nostra tarda riflessione storica. Si potrebbe dire anzi che la simultaneità dei vari indirizzi e la compenetrazione scambievole dei vari orientamenti erano maggiormente possibili là dove la forza dell'intelligenza e l'ampiezza della cultura e l'elasticità della sensibilità religiosa consentivano a coloro che, nella schiera degli apologisti cristiani, ne avevano capacità, di emergere a piú largo volo.
L'ultimo e il piú grande nella schiera degli apologisti cristiani del secondo secolo, quegli che assimilando e rielaborando tutti i dati della precedente apologia in lingua greca ha creato il pensiero e la lingua del cristianesimo agli inizi del terzo secolo scrivendo per primo in latino in difesa dell'Evangelo, Tertulliano, ci è appunto prova del come attraverso l'apologia il cristianesimo non ha creato soltanto le armi aggressive della sua difesa e della sua offesa, ma ha anche offerto, all'ancora informe e fluido insegnamento cristiano, la forgiatura sistematica da cui doveva balzar fuori il dogma della tradizione ecclesiastica. E con questo stesso Tertulliano ci è documento vivo della complessità sorprendente dei coefficienti che animano la Cristianità del secondo secolo.
Tutte le forme possibili dell'apologetica cristiana sono state vittoriosamente tentate dal forte scrittore africano. L'Ad nationes, l'Apologeticum, il De testimonio animae christianae costituiscono una trilogia in cui si può dire che Tertulliano ha portato a perfetto compimento tutte le risorse possibili di una dialettica difensiva, cui possa e debba raccomandarsi una innovazione religiosa.
L'Ad nationes ha tutto l'andamento di un manifesto lanciato al pubblico, che conviene investire non con ricercate disquisizioni dottrinali ma con la flagellante invettiva della argomentazione ad hominem.
L'Apologeticum invece è specificamente ed espressamente indirizzato «ai magistrati dell'Impero romano, costituiti per pronunciare i loro verdetti in luogo scoperto ed elevato, quasi al vertice della città». L'inciso allude in foggia graficamente corretta alla giacitura della residenza proconsolare sulle pendici di Birsa a Cartagine. Si era nel fitto della persecuzione di Settimio Severo.
Nell'Ad nationes Tertulliano attacca alle radici il politeismo, mostrandone con dati largamente attinti dalla teologia varroniana e dalla interpretazione evemeristica la fondamentale inconsistenza. Il procedimento dialettico e defensionale a cui si attiene l'apologista cristiano è dal principio alla fine una sottile e abile ritorsione. Quelle nefandezze che i pagani sospettano nei cristiani e imputano loro, sono invece l'accompagnamento normale della loro vita e delle loro credenze. Le superstizioni che i pagani attribuiscono al tertium genus – come i cristiani son designati – sono invece le superstizioni di cui è intessuta la teologia ufficiale. Di questa religiosità ufficiale corrente Tertulliano ricerca le fonti, per mostrarne l'incoerente arbitrarietà, e studia lo spiegamento, per coglierne la riconoscibile fatuità.
Rivolgendosi nell'Apologeticum alle autorità costituite, Tertulliano istituisce, della religione proscritta, una difesa dalle proporzioni vaste e dalla coesione piú organica. Addestrato alla conoscenza dell'apologetica greca; perfettamente consapevole di quel che si poteva obbiettare giuridicamente e moralmente alle persecuzioni delle autorità imperiali ed alla sorda ostilità della massa, Tertulliano non si limita piú a ritorcere contro i pagani le accuse obbrobriose che la loro fantasia depravata accampa contro le comunità credenti nel Vangelo. Non si limita neppure a smantellare le loro favolose e invereconde mitologie. Ma proclama con coraggiosa alterigia la fede vilipesa e disvela senza sottintesi dinanzi al pubblico la vita liturgica e l'organizzazione interna degli iniziati.
L'Apologeticum è veramente una completa arringa defensionale, nella quale il Vangelo e la Chiesa sono difesi per ordine sul terreno giuridico, su quello politico, su quello morale e su quello religioso.
Tertulliano dimostra innanzi tutto come la procedura dello Stato romano contro il cristianesimo nasconda pregiudizialmente un palmare controsenso. I cristiani sono universalmente invisi e duramente perseguitati come responsabili dei piú atroci misfatti. Ma poi in realtà il trattamento che viene ad essi imposto nulla ha di comune col trattamento al quale sono individualmente sottoposti i veri delinquenti. Infatti non si inquisisce direttamente e spontaneamente contro di loro, ma si aspetta la denuncia. Non si chiede ai cristiani una confessione dei loro delitti; al contrario, si chiede ad essi di rinnegare la loro fede, proprio con quella medesima tortura che è abitualmente applicata per estorcere al delinquente il riconoscimento del misfatto. Di fronte a simili anomalie di procedura, che espongono i cristiani ad una iniqua contraffazione della loro qualità e della loro professione, i cristiani hanno bene il diritto di esigere che, se debbono sottostare a condanna, la condanna non sia sinonimo di infamia.
Ebbene, quel che i singoli cristiani, denunciati, catturati, torturati, non possono proclamare alla luce del sole, Tertulliano lo bandirà per tutti, dinanzi al mondo.
Egli si sbarazza innanzi tutto di una pregiudiziale che potrebbe essere sollevata contro il tentativo di giustificare pubblicamente la nuova religione. Si potrebbe cioè fare appello alla prassi consacrata dal regime legale romano. Quel che è conforme alla legge non è per definizione giustificato in se stesso? Le leggi dello Stato non hanno qualche cosa di sacro, di inviolabile, di legittimo in se stesse? Tertulliano infirma in radice questa presupposizione della convertibilità fra il legale e il legittimo, fra la legge empirica e la legge eterna, fra la storicità di un accadimento e di una istituzione e la loro teoretica validità. «Voi sentenziate a norma di diritto: non è permesso ai cristiani di esistere. Voi credete cosí di sollevare un'abbiezione preliminare contro la liceità della nostra esistenza. Voi sopprimete e soffocate cosí qualsiasi esigenza della coscienza umana. Voi fate ricorso ad una violenza indebita e ad una tirannide iniqua, in quanto ci negate il diritto di esistere unicamente perché non lo volete. Non ce lo negate perché questo diritto di esistere non ci debba essere consentito». Tertulliano osserva come nulla ci sia al mondo di piú variabile delle umane legislazioni. Vano è pertanto cercare in esse una giustificazione qualsiasi ai violenti procedimenti dello Stato. Non c'è legge empirica che non soggiaccia ad una superiore norma di bene.
Sbarazzato cosí con un colpo polemico violento e reciso il terreno dalla consuetudinaria opposizione sollevata dalle tradizioni costituite contro ogni novità spirituale, Tertulliano passa a confutare, non senza disdegno, le accuse che i pagani insinuavano intorno, per coprire di onta e di discredito le riunioni delle comunità cristiane. Erano le accuse di infanticidio, di pasti cannibaleschi, di orgie incestuose.
Quindi Tertulliano passa a difendere i credenti nel Vangelo dal duplice rimprovero di sacrilegio e di lesa maestà. Ribattere il primo rimprovero è agevole. Per farlo, Tertulliano non ha che da riprendere le argomentazioni svolte nell'Ad nationes, mostrando diffusamente chi sono, alle loro origini prime, i presunti dèi del paganesimo.
Abbattere il secondo rimprovero era piú arduo e piú rischioso. La monarchia che Cesare aveva voluto costituire, e verso la realizzazione della quale l'Impero si era automaticamente avviato, conduceva, per logica conseguenza, alla rappresentazione divina del sovrano, alla maniera dell'Oriente. Cesare dittatore si era fatto prestare ancor da vivo un culto religioso. Le sue statue erano state collocate fra quelle degli dèi. Uno speciale flamine era stato designato per il suo culto.
Augusto aveva seguìto l'esempio di Cesare per l'Oriente, o, meglio, per tutto l'Impero, tranne che a Roma. D'altra parte, avendo fatto collocare il Genius Augusti fra i lari dei crocicchi, aveva anche qui preteso una situazione quasi divina, a cui il titolo di Augustus era venuto a portare la sanzione senatoriale.
Se il titolo di dio fu ufficialmente assunto dagli imperatori soltanto dall'epoca di Aureliano, autentici omaggi religiosi erano stati offerti ai simulacri imperiali, dalle origini stesse dell'Impero. Sottrarsi pertanto all'uso corrente costituiva una pericolosa ostentazione di sovversivismo. Tertulliano, per cercare di giustificare un rifiuto di tal genere, è logicamente indotto, non solamente a mostrare quanto sia cosa risibile un ossequio divino prestato ad un uomo, ma anche a mostrare che se i cristiani si rifiutano di prestarlo, per tutto il resto della loro attività e del loro pensiero nulla hanno che li possa costituire sudditi sleali e oppositori insidiosi. Forte di questa pregiudiziale convinzione, Tertulliano non ha alcuna difficoltà a svolgere, al cospetto del mondo e senza sottintesi, la fede del cristianesimo e a scoprire alla luce del sole la liturgia fraterna e periodica delle comunità cristiane.
E qui, nella sua organica e lucida professione di fede, Tertulliano si riporta fedelmente alla teologia che attraverso l'apologetica greca si era venuta costituendo come la teologia ufficiale della Chiesa cristiana nell'Impero.
«Quello che noi adoriamo è l'Iddio unico il quale, al comando della sua parola, con la distribuzione della sua ragione, con la potenza della sua virtú, trasse dal nulla, adornamento della sua maestà, questa mole immensa, con la suppellettile dei suoi elementi, dei suoi corpi, dei suoi spiriti. Onde i greci applicarono al mondo il qualificativo di Cosmo... È ben risaputo che anche presso i vostri saggi il Logos, vale a dire la parola e la ragione, è l'autore dell'universo. Zenone lo designa come l'artefice che tutto ha foggiato ordinatamente, riconoscendolo sotto i vari nomi di fato, Dio, anima di Giove, necessità delle cose universe. Cleante raduna tutto ciò nello Spirito, che riconosce come avvivatore del tutto. Anche noi la parola, la ragione e la virtú, per cui mezzo Dio, l'abbiamo detto; creò tutte le cose, reputiamo sostanza spirituale, che è parola quando parla, ragione quando dispone, potenza quando opera. La diciamo scaturita da Dio e nella sua esteriore collocazione, generata, onde anche la diciamo Figlio di Dio e Dio da Dio, per unità di sostanza, poiché anche Dio è spirito. Non diversamente il raggio è lanciato dal sole, parte dal tutto, pur rimanendo il sole nel raggio, perché del sole è il raggio e la sostanza non si scinde, quando si stende, come face appresa a face. Onde la sostanza primordiale rimane integra e piena, pur se ne trai diramazioni molteplici, per cui quel che è partito da Dio è Dio, figlio di Dio, un solo Dio entrambi. Cosí spirito da Dio e Dio da Dio, diverso in misura, venne a costituire un numero per rango, non già per condizione, e non si staccò dalla fonte, ma ne uscí. Tale raggio di Dio sceso su una vergine, incarnatosi nel suo grembo, nasce uomo disposato a Dio. La carne impastata di spirito si nutre, si sviluppa, parla, insegna, opera: è Cristo. Attraverso lui noi saliamo a Dio».
Questa professione di fede nella quale non soltanto sono ricapitolate le posizioni della precedente apologetica cristiana greca, ma si potrebbe dire tutti i risultati sostanziali del travaglio della speculazione ellenica, partita dai lontani tempi dei milesi alla ricerca di una logica e di un principio ordinatore nel mondo, si può affermare che serve a Tertulliano come sfondo per la sua fede apocalittica nel veniente Regno di Dio, in cui tutti gli uomini saranno affratellati nella pace e nella giustizia. La professione cristiana è per lui la trasposizione di tutti i valori concettuali e culturali in un mondo di realtà trascendenti, a cui si viene ad appartenere in virtú della iniziazione battesimale. Cristo, che è il medesimo Logos eracliteo e stoico ordinatore del mondo, è anche Colui che ha rivelato a gli uomini la comune abbiezione nelle tenebre del mondo empirico e la comune solidarietà trasfigurata nel mondo dei carismi e delle speranze. Per questo i cristiani hanno ben diritto di esistere al mondo: secondo la solenne parola del Vangelo, ne sono la luce e il sale.
Tertulliano si rivela soprattutto quell'avvocato ricco di risorse qual è, nella difesa giuridica dei collegia cristiani.
Mostrarne gli intenti, spiegarne ampiamente al cospetto del pubblico le piú segrete pratiche significa, né piú né meno, mostrare quanto sia antiumano, antigiuridico, arbitrario, annoverarli tra le fazioni illecite, capaci di turbare e di insidiare la pubblica «modestia». «Noi costituiamo un solo organismo, che si nutre della consapevolezza della comune fede, della unità nella disciplina, della solidarietà nella speranza. Se le fazioni sono condannate a ragione dall'ordine pubblico, dal momento in cui gli uomini cominciarono a porre all'incanto, tra i concorrenti al potere, il concorso della loro servile violenza, noi, indifferenti ad ogni prurito di gloria, nessun bisogno abbiamo di costituirci in partito. Nulla ci è piú indifferente della cosa pubblica e un solo Stato riconosciamo per tutti gli uomini: l'universo. Ed a buon diritto ci possiamo chiamare tutti fratelli, perché riconosciamo un solo padre: Dio; ci siamo dissetati ad un solo Spirito; e usciti dalla matrice della medesima ignoranza, abbiamo tutti dischiuso gli occhi stupiti alla luce sfolgorante della medesima verità».
Tertulliano, data la condizione della società cristiana ai suoi tempi, ha buon gioco nel dimostrare alle autorità diffidenti ed al pubblico sospettoso che le comunità cristiane non hanno altri intenti che quelli della pura pratica religiosa e dell'amorevole assistenza fraterna. Il loro periodico rito associato porta un nome eccelso che è esso solo tutto uno sconfinato programma: agape, amore. L'Impero e l'imperatore vadano dunque a cercare altrove i loro veri e pericolosi nemici.
Tertulliano del resto ha un ultimo argomento pragmatistico da lanciare e nel momento di ricapitolare la sua serrata difesa lo getta in faccia ai detrattori del cristianesimo. Quando anche le convinzioni che questa religione professa fossero tutte documentate superstizioni – e l'apologista si è dilungato invece a mostrare con sottile capacità argomentativa quanto esse abbiano di comune con le opinioni professate dai filosofi – non conviene condannarle e ripudiarle. Perché è impossibile contestare che esse racchiudano una eccezionale virtú pedagogica. «Le ritenete forse inette? Ma sono straordinariamente utili. E a nessun titolo è lecito condannare quel che giova».
Dopo di che, avendo cosí egregiamente assolto il suo compito di legale della religione cristiana, lo scrittore può lanciare una fiera e beffarda sfida al paganesimo, conclamando che la repressione del Vangelo ottiene precisamente l'effetto contrario a quello che lo Stato se ne ripromette. «Noi trionfiamo quando cadiamo e siamo uccisi. Conquistiamo la libertà quando siamo imprigionati e diventiamo tanto piú numerosi ogni volta che siamo falciati!».
Cosí Tertulliano ha offerto la parola d'ordine ad ogni movimento spirituale che insorgendo contro la barbara repressione di qualsiasi inquisizione confessionale o statale affermi il diritto alla vita delle nuove rivelazioni dello Spirito.
Ma c'è un argomento nell'apologetica tertullianea che non trova adeguato riscontro nel precedente sviluppo dell'apologetica cristiana greca. Ed è l'argomento ricavato dal fondo stesso primordiale dell'umana coscienza, in cui Tertulliano va ad esplorare e a raccogliere la garanzia piú valida in favore della verità cristiana. Già nel suo grande Apologeticum Tertulliano, accingendosi a formulare senza sottintesi al cospetto degli avversari la fede monoteistica e soteriologica del cristianesimo, aveva interpellato gli avversari della sua fede perché volessero rivolgersi anche loro a chiedere il piú autorevole suffragio a chi unico poteva darlo: «Volete che dimostriamo la nostra fede di su l'argomento spontaneo dell'anima stessa? Ascoltatela dunque. Pur costretta nella prigione del corpo, paralizzata sotto l'influsso delle perverse consuetudini, svigorita dalle passioni e dalle cupidigie, asservita a iddii menzogneri, non appena abbia agio di venire a resipiscenza, quasi ridestandosi da una ubriacatura o dal sonno o da un morbo, e sia ricostituita nello stato di sanità, immediatamente nomina Dio con questo solo nome che propriamente gli compete. Oh, verdetto dell'anima, tratta per forza di natura al cristianesimo!».
Ma se nel piano generale dell'Apologeticum questo motivo non doveva costituire che una parentesi aperta ed uno spunto appena sfiorato, il motivo era troppo suggestivo per un animo come Tertulliano, perché egli non lo riprendesse, e non lo innalzasse anzi alla dignità di argomento tipico della verità cristiana.
Tertulliano scrisse cosí il suo trattatello intorno alla testimonianza dell'anima. Il trattatello è strettamente collegato cosí per il suo contenuto come per la sua forma all'Apologeticum grande. Ma ne è un po' lontano per lo spirito informatore. Nella sua vasta e multiforme arringa defensionale del cristianesimo, Tertulliano, pur ostentando un certo sdegnoso disinteresse per la speculazione astratta, aveva ben voluto mostrare di saperla maneggiare e dominare a suo libito. Non aveva esitato un istante, per amor di polemica, ad invocare i parallelismi piú appariscenti fra le posizioni teoriche del cristianesimo ed i postulati centrali delle scuole filosofiche. Si trattava di rivendicare al cristianesimo quel diritto di pubblica cittadinanza che non era negato alle conventicole dei filosofi. Facendo sfoggio delle sue virtú dialettiche, veramente eccezionali, e ricorrendo all'esempio dei suoi predecessori greci, Tertulliano non si era rifiutato di cercare tutte le prefigurazioni, che le concezioni caratteristiche della nuova fede potevano additare nelle migliori tradizioni della speculazione ellenica ed in modo particolare nel pensiero stoico.
Ma nell'esuberante pluralità dei suoi orientamenti spirituali, Tertulliano avverte che la speculazione razionale non è tutto nella vita dello spirito e che sopra ogni altra considerazione deve prevalere, nell'anima del credente evangelico, l'appello a quelle forze recondite della spiritualità, su cui soltanto può ergersi l'edificio della solidarietà umana e della fraternità nella grazia. E quando nel suo istinto di credente nella ecumenicità dei valori spirituali Tertulliano pensa alla massa degli uomini che han trovato in Cristo la fonte della loro elevazione e l'arra della loro salvezza, egli fa un fascio unico di paganesimo e di speculazione razionale, e va a cercare la prova apodittica e non valicabile della verità cristiana nelle esigenze primordiali e negli istinti originali dell'anima umana.
Il trattato sulla testimonianza dell'anima si apre precisamente – e la cosa può sorprendere solo chi non abbia il sentore della pluralità degli aspetti della vita spirituale e delle intime contraddizioni delle grandi rivelazioni religiose – con una dichiarazione aperta di biasimo contro coloro che credono di affidare la verità evangelica alle argomentazioni e alle conclusioni della cultura precristiana. Non si potrebbe dire che questa sia una documentazione di gratitudine, al cospetto dei precedenti apologisti cristiani, di alcuni almeno di essi, dai quali pure Tertulliano non aveva mancato di apprendere qualche cosa! Si direbbe che in un momento di resipiscenza Tertulliano sdegni quei metodi apologetici che sono essenzialmente affidati ad un paziente tirocinio e a un diuturno lavoro di erudizione e di raccolta nel campo della speculazione filosofica. D'ora in poi, proclama Tertulliano, la fonte delle sue informazioni e delle sue riprove dovrà essere una sola: l'anima. E l'anima per se stessa, semplice e rude, incolta e primitiva, quale la posseggono coloro che null'altro posseggono al mondo al di fuori di essa. Dalle sue postulazioni implicite, dalle sue espressioni spontanee, Tertulliano vorrà ricavare vittoriosamente il suffragio inappellabile in favore delle due idee basilari della propaganda cristiana: l'unità di Dio, coronamento e in pari tempo fondamento ideologico dell'universale fraternità umana, e la sopravvivenza responsabile degli uomini, presupposto indispensabile alla fede nel Regno veniente di Dio.
In realtà Tertulliano non fu fedele alla consegna che gli sembrava cosí avere imposto a se stesso. Anche nelle numerose opere successive, l'infaticabile scrittore tornerà a fare appello alle dottrine filosofiche per corroborare ed inquadrare le sue convinzioni religiose. Ma c'era qualcosa che lo induceva fatalmente a diffidare della utilizzabilità del pensiero pagano ed era la minaccia permanente che la speculazione intellettuale levava contro il dato centrale della fede evangelica dello scrittore: il veniente Regno di Dio.
La fede in questo veniente Regno di Dio, questa fede che Tertulliano ed il cristianesimo con lui avevano ereditato dalla tradizione profetica e piú genericamente dalle vecchie tradizioni dualistiche del mondo iranico-cananeo, non aveva bisogno per sostenersi di sillogismi aristotelici e di speculazioni cosmogoniche. Per questo l'apologetica cristiana, ma soprattutto l'apologetica di Tertulliano, col suo atteggiamento ambivalente, si potrebbe dire, positivo e negativo, al cospetto della tradizione culturale della società precristiana sta a rappresentare quel che probabilmente è alla base della originalità di tutta la tradizione ecclesiastica: la necessità di mantenersi in perpetuo equilibrio instabile fra le trascrizioni concettuali della universale fraternità umana nella Redenzione e nei carismi, e la visione finalistica e a-concettuale del Regno, instaurato da Dio per l'unica sicurezza possibile della pace, della giustizia e della gioia fra gli uomini.