VII L'ACCENTRAMENTO ROMANO

La storia del costituirsi e dell'evolversi della Chiesa romana e dei suoi poteri primaziali è senza dubbio uno degli aspetti piú romanzeschi e piú sorprendenti nella storia del cristianesimo. In questo campo piú che negli altri di tale storia, la leggenda ha cosí profondamente investito i dati primordiali che vorrebbero essere il fondamento e la giustificazione di tali poteri, che gli storici piú accorti e piú scrupolosamente preoccupati della perfetta oggettività, riescono a fatica a svincolare la realtà dai rivestimenti che le hanno imposto la capacità fabulatrice della massa credente e l'interesse apologetico della autorità costituita.

Quanto questo processo di elaborazione leggendaria fosse sollecito ad attuarsi nello sviluppo dell'antica organizzazione cristiana appare eloquentemente dal fatto che già all'alba del quarto secolo noi vediamo, nel mo­mento del trapasso dell'Impero dalla professione pagana al riconoscimento pubblico del cristianesimo, profilarsi una concezione delle origini cristiane tutta avvivata da presupposti favolosi e mitici che ne fanno un processo stilizzato e difforme da qualsiasi concreta verisimiglianza.

Il padre della storia ecclesiastica, Eusebio di Cesarea, è quegli che piú validamente ha contribuito alla divulgazione della deformata visione delle origini cristiane. Quando egli nel 311, all'indomani dell'editto di libertà religiosa, con cui Galerio, imponendo un termine al regime persecutorio iniziato otto anni prima, gettava le prime basi della trasformazione religiosa dell'Impero, poneva mano alla sua grande storia del cristianesimo, questa grande storia aveva già un suo piano ideale. Il piano ideale che Eusebio si accingeva a svolgere doveva essere chiaro e coerente nella sua mente. Noi infatti lo vediamo tracciato per filo e per segno nel prologo del primo libro. Può darsi che egli l'abbia dettato a lavoro compiuto. In tal caso non era altro che la enunciazione schematica delle idee che fin dal primo momento lo avevano guidato nella laboriosa compilazione dell'opera.

È un prologo piuttosto pesante e prolisso. Eusebio vi ha voluto cacciare a forza dentro tutti i punti di riferimento sotto i quali dovevano essere raggruppati gli eventi cosí esteriori come spirituali dei tre secoli trascorsi già di vita cristiana. Ma proprio perché è cosí pesante e prolisso il prologo riveste un eccezionale valore. Innanzi tutto, perché ci consente di controllare continuamente la linea narrativa dello scrittore. In secondo luogo perché ci dà di colpo una idea precisa dei valori ideali e normativi, sotto i quali una mentalità rappresentativa come quella di Eusebio credeva di poter raccogliere i fatti della primitiva storia cristiana.

Non è male tener presente nel suo testo originale questo prologo, per avere di scorcio una idea approssimativa dell'imponente lavorìo mitico che si era operato in tre secoli sui dati centrali del messaggio cristiano e sulla dialettica profonda e invisibile che aveva disciplinato il loro sviluppo nella esperienza collettiva.

«Mi accingo a consegnare allo scritto le successioni dei santi Apostoli, attraverso i tempi intercorsi dalla venuta del nostro Salvatore fino a noi. Mi accingo a consegnare allo scritto tutte le cose grandi che si raccontano accadute nell'àmbito della storia ecclesiastica. Il mio racconto comprenderà quei che in tale storia governarono e presiedettero con decoro alle comunità piú insigni. Cosí comprenderà quanti nel giro di ogni generazione offrirono testimonianza scritta o non scritta al Verbo Divino; i nomi, la qualità, il tempo di quei che, fuorviati dalla seduzione dell'errore innovatore, si presentarono come patrocinatori di una pseudo-conoscenza e pari a lupi rapaci misero a soqquadro il gregge di Cristo; di piu, quanto sopravvenne a tutto il popolo ebraico, subito dopo il complotto contro il nostro Salvatore; quanto in varia natura e nei successivi momenti il Verbo Divino operò lottando contro i pagani; di qual tempra furono coloro che di momento in momento sostennero per il Verbo la lotta, a prezzo di supplizi ed a prezzo della loro vita. La mia storia comprenderà oltre ciò le scene di martirio verificatesi ai tempi nostri e, all'epilogo, tutto quel che abbiamo ricevuto in cambio dalla misericordia e dalla bontà del nostro Salvatore».

Questo piano di lavoro, tracciato con quella minuta e leggermente banale preoccupazione di ordine che è caratteristica del sagace e accorto vescovo di Cesarea, racchiude veramente tutta una filosofia della primitiva storia cristiana. Innanzi tutto è degna di particolare rilievo l'attitudine mistica con la quale Eusebio si accinge a evocare tre secoli di storia evangelica, considerandola come una permanente rivelazione del Logos in mezzo agli uomini. Dai lontanissimi tempi nei quali i filosofi ionici avevano scorto nel Logos il principio dell'ordine nell'universo e della dialettica nella storia, la nozione del verbo o parola, della ragione o dialettica, aveva percorso un immenso cammino. Se da una parte si era incamminata verso una sistemazione puramente razionalistica ed illuministica dell'universo cosí sensibile come umano, dall'altra si era spinta verso una concezione sempre piú mistica dell'azione provvidenziale del Logos eterno nel tempo. Eusebio, agli inizi del quarto secolo, è piuttosto il rappresentante di questa seconda tendenza. Il cristianesimo è stato la culminante manifestazione del Logos e tutta la storia della comunità cristiana porta ininterrottamente la traccia della sua azione misteriosa. Ma questa rivelazione del Logos è incarnata nella realtà degli istituti e delle tradizioni. Si direbbe che la prima idea la quale attraversa il cervello dello scrittore, nel momento in cui egli pone mano alla sua monumentale ricostruzione storica, è quella delle «successioni-diadochai» dei santi Apostoli. Noi misuriamo qui immediatamente di colpo la difformità abissale tra la realtà cristiana e primitiva e la raffigurazione eusebiana. Il cristianesimo primitivo non aveva conosciuto affatto alcuno di quei paradigmi pregiudiziali che Eusebio pone a cardine della sua storia. Il piú insigne documento extra-canonico che ci reca ancor oggi l'eco della vita comunitaria cristiana all'indomani della scomparsa dei Dodici, non li chiama santi, e non conosce alcuna loro «successione», ma si presenta unicamente come la «dottrina (Didaché) del Signore attraverso i dodici Apostoli». Quando mai la Diadoché, cioè la successione, ha preso il posto della Didaché, cioè della dottrina? In altri termini, quando mai il cristianesimo carismatico è divenuto una gerarchia burocratica? A questa radicale trasformazione non ha offerto un contributo efficientissimo la formazione di quella filosofia della storia, di cui Eusebio stesso si costituisce testimone e patrocinatore eminente, la filosofia cioè che vede nella storia la manifestazione ininterrotta di un immanente Verbo divino, di un Logos astratto, di cui il cristianesimo è la suprema incarnazione? Ed una trasformazione di questo genere non rappresentava una attenuazione sensibilissima dell'atmosfera messianico-apocalittica nella quale erano vissute le prime generazioni cristiane? E di pari passo con questa trasformazione di natura concettuale e culturale, come è andata innanzi la trasformazione istituzionale della comunità credente? E quale parte ha svolto Roma in questa metamorfosi di orientamenti e di ideali?

Le prime manifestazioni del potere romano sulla Chiesa cristiana ecumenica sono incerte e titubanti. La lettera di Clemente Romano alla comunità di Corinto al tramonto del I secolo non è un documento che rispecchi una autorità di magistero e di governo palesemente consapevole di sé e nettamente basata su una inappellabile investitura sovrannaturale. Non si può dire neppure, sul terreno dei fatti e della chiara e spontanea significazione dei termini, che questa lettera possa validamente invocarsi come testimonianza aperta di una sicurezza della venuta di San Pietro a Roma e di una autorità primaziale, costituita da lui attraverso la sua venuta ed il suo martirio. Le raccomandazioni del documento romano sono tutte raccomandazioni esortatorie e l'appello alla paziente sofferenza degli Apostoli è un appello generico ai personaggi piú insigni, che nel primo momento della disseminazione evangelica hanno portato alla loro fede nel Cristo il contributo della loro devozione, della loro sofferenza e del loro amore di pace.

Nella prima metà del secondo secolo la Cristianità romana ci si presenta come la palestra in cui i maestri delle varie interpretazioni cristiane cercano di esercitare il loro magistero, di guadagnare proseliti e di instaurare una certa egemonia intellettuale. Roma è la capitale di un immenso Impero ed anche dal punto di vista della spiritualità colta rappresenta il mercato centrale in cui tutti ambiscono di mettere a prova le loro virtú di proselitismo e di conquista. I maestri gnostici come i maestri dell'apologetica, Marcione come i rappresentanti dell'ispirazione profetica, che pretende tuttora di rappresentare l'unica continuazione logica, valida e accreditata del primitivo messaggio evangelico, tutti, dalle piú lontane plaghe dell'Impero, affluiscono a Roma, non diversamente dai retori, come Elio Aristide e dai rappresentanti della cultura misteriosofica. come quel Filostrato che cercherà di accreditare alla corte sincretistica dei Severi la figura ambigua e leggendaria di Apollonia di Tiana. Una grande capitale politica è sempre una sede ambita ed una meta sognata da chi cerchi di trovare l'ambiente piú acconcio e piú fruttifero alla proprie ambizioni di maestro e di missionario.

Ma si direbbe che è proprio in virtú della complessità eterogenea di queste correnti, quali si profilano nel seno della comunità cristiana del II secolo, che si viene avvertendo istintivamente la necessità di un governo e di un magistero, che tra le varie correnti stesse istituiscano una cernita, che garantiscano l'autorevole e ufficiale interpretazione di un messaggio, che si è mostrato suscettibile delle piú antitetiche interpretazioni. E questo magistero non uscirà dal travaglio puramente intellettuale delle scuole e delle conventicole colte; non sarà neppure il risultato di una valutazione comparativa dei differenti atteggiamenti concettuali e dogmatici; ma sarà piuttosto il trionfo delle esigenze della massa credente, sulle speculazioni avventurose e sugli orientamenti ultra-spirituali. Sarà in altri termini la vittoria di quei bisogni concreti della massa associata, che, per la disciplina collettiva, ha bisogno di un magistero infallibile e di una gerarchia canonizzata.

La propaganda antibiblica e antimosaica, paolinista a oltranza, di Marcione, era caduta in un momento di straordinaria tensione etnica nell'Impero romano. Da piú che mezzo secolo Roma aveva ingaggiato una lotta all'ultimo sangue contro l'ebraismo, perfettamente consapevole della difformità irreconciliabile che esiste fra ogni organizzazione politica assolutistica e lo spirito profetico, che la razza d'Israele si porta indistruttibilmente nel cuore.

La Gerusalemme sacerdotale era morta nel 70. Adriano aveva annientato drasticamente, con un eccidio dalle vastissime proporzioni, le superstiti velleità insurrezionali della razza di Giuda. Partendo da un tutt'altro punto di vista che quello politico, Marcione aveva voluto ricacciare l'Iddio d'Israele nel novero dei demiurgi inferiori. Noi non sappiamo in quale misura le condizioni ambientali hanno favorito la disseminazione del messaggio marcionita e la costituzione di comunità marcionitiche su tutto il territorio dell'Impero. La coincidenza tra la rapida fortuna della propaganda dell'eresiarca pontico e l'orientamento tendenzialmente antisemita dell'Impero dall'epoca di Tito a quella di Adriano potrebbe benissimo indurre ad un avvicinamento, che avrebbe tutta l'aria di essere un sofisma. L'antilegalismo paolino, portato fino alle sue ultime conseguenze, giustificava di per sé il dualismo cosmico-storico di Marcione, senza che si debba pensare per questo ad una ripercussione della situazione politica sul marcionismo.

Ma non sarebbe d'altra parte storicamente logico prescindere del tutto, nella valutazione del successo marcionita e nel tentativo di inserire il marcionismo nell'albero genealogico dell'eresia cristiana del II secolo, da quel che poteva essere il quadro sociale in cui la Cristianità romana di questa epoca viene a collocare la propria azione e la propria volontà di organizzazione.

L'albero genealogico dell'eresia cristiana quale si viene costituendo nella letteratura apologetica e polemica del secondo e del terzo secolo è pieno di eloquente significato a questo riguardo.

Nel passo della prima Apologia di Giustino, che Eusebio si fa dovere di riportare nella sua Storia Ecclesiastica (IV, 11, 9), l'apologista, con la sua semplicistica mentalità tutta dominata da una visione mitica e demonica della storia, si limita a numerare fra gli eretici, dopo i samaritani Simone e Menandro, Marcione il pontico, il quale, egli dice, andava ancora propagando a suo tempo la credenza in un Dio che sarebbe stato superiore e del tutto estraneo al creatore demiurgico dell'universo sensibile.

«Costui, in virtú dell'assistenza soccorrevole dei demoni, fece sí che molti andassero pronunciando bestemmie in mezzo a tutti gli uomini, negando l'Iddio costruttore dell'universo e confessandone piuttosto un altro come piú grande del demiurgo, facitore di cose straordinariamente piú eccelse del mondo materiale».

In pochi lustri la leggenda eresiologica compie un cospicuo cammino. Ireneo ne sa molto di piú di Giustino. Anche egli registra una tavola genealogica ereticale. Ma lo fa in maniera molto piú minuta e circonstanziata di quanto non avesse fatto Giustino. E anche qui Eusebio, nella sua grande enciclopedia storica (IV, 11, 2), si compiace di riportarne i dati essenziali. In Giustino mancava un qualsiasi collegamento diretto e personale tra Simone e Menandro, samaritani, e Marcione pontico. Le due connotazioni hanno palesemente una diversa risonanza. Samaritani vuol dire una connotazione etnica che per gli ebrei era anche una connotazione religiosa. Pontico invece è una pura e semplice connotazione geografica. In Ireneo il samaritano Simone e il pontico Marcione hanno già trovato un punto di collegamento tra loro e questo minimo particolare è straordinariamente eloquente. Il punto di collegamento fra loro non è soltanto quello di appartenere solidamente ad una generica tavola genealogica di insegnamenti ereticali. Ireneo ne sa molto di piú. Secondo Ireneo, Marcione è un successore di Cerdone, il quale, per primo, aveva insegnato che «l'Iddio annunciato dalla legge e dai profeti non era affatto il Padre del nostro Signore Gesù Cristo. L'Iddio annunciato dalla legge e dai profeti era già ben noto attraverso tutta la tradizione biblica; il Padre invece del nostro Signore Gesù Cristo era stato completamente sconosciuto fino alla rivelazione di Gesù. L'Iddio della legge e dei profeti era un Dio puramente giusto; l'Iddio di Gesù è puramente e semplicemente buono». Cerdone appare pertanto nella descrizione di Ireneo come il maestro e il precursore di Marcione. Ma egli a sua volta da chi mai ha attinto l'ispirazione del suo messaggio? Ed ecco un pregnante inciso di Ireneo: «Cerdone aveva preso le mosse dall'insegnamento di coloro che erano intorno a Simon Mago». La sutura ideale fra i samaritani, gli odiati samaritani contro cui gli ebrei non cessavano di scaricare il loro spregio e Marcione, era cosí compiuta.

Ma chi ne è veramente responsabile? Ireneo stesso, o Ireneo l'ha attinta da qualche altro scrittore cristiano?

Ricordiamo. Ireneo scrive la sua grande confutazione della falsa gnosi, dalla quale Eusebio prende i suoi particolari eresiologici, dopo la visita fatta a Roma ai tempi del vescovo Eleutero, fra il 177 e il 178. Tale visita dovette essere straordinariamente istruttiva per il vescovo di Lione, immigrato dall'Oriente. Non solamente il contatto con l'ambiente romano gli dovette fornire una larga visione delle correnti dottrinali e disciplinari che traversavano in quel momento le comunità cristiane dell'Impero, ma dovette procurargli anche, e la cosa fu ricca di conseguenze, una conoscenza diretta delle memorie locali e ufficiali della multiforme comunità romana.

Proprio nel passo stesso in cui Ireneo accenna a Marcione e a quell'ipotetico suo maestro che è «il simoniano Cerdone», Ireneo è in grado ormai, dopo la visita a Roma, di indicare il momento esatto in cui questo tal Cerdone ha esercitato a Roma quell'opera, che al vescovo lionese appare scandalosamente sovvertitrice. «Cerdone insegnò a Roma sotto Igino, nono erede della successione (Diadoché) episcopale a cominciare dagli Apostoli». Ecco un riferimento cronologico e ideale insieme, che illumina di una luce veramente singolare la trasformazione profonda che si è effettuata nella Cristianità occidentale del secondo secolo, sotto la pressione dei movimenti speculativi della gnosi e della corrente marcionitica.

Quello che sarà il primo numero nel programma storico-apologetico di Eusebio, redigere cioè «le successioni dei santi Apostoli attraverso i tempi intercorsi dalla venuta del Salvatore a lui», rappresenta già il criterio centrale per Ireneo, per distribuire cronologicamente gli avvenimenti ecclesiastici: quegli avvenimenti ecclesiastici che non sono per lui però argomento di evocazione erudita e apologetica ma realtà viva e palpitante della sua passione polemica. Quel criterio centrale, Ireneo lo porta con sé dalla sua visita alla comunità romana. Conosciamo questa comunità in modo da potere individuare gli informatori diretti o indiretti di Ireneo?

Roma, abbiamo visto, è nel secondo secolo la palestra di tutti gli orientamenti spirituali che fermentano nella mole immensa dell'Impero. Quando Tacito, volendo vilipendere il cristianesimo, dice che nella metropoli affluisce quanto di obbrobrioso e di repellente pullula negli angoli piú eccentrici del dominio di Roma, egli esprime da buon vecchio arcaico quiritario il disdegno verso tutto quello che Roma aveva dovuto raccogliere nell'atto stesso di disseminare la sua potenza nel mondo. I primi rappresentanti di quella che sarà l'ortodossia ufficiale del cristianesimo cattolico usano già a lor modo il linguaggio di Tacito. E lo applicano alle correnti eterodosse e alle interpretazioni del cristianesimo, difformi da quelle che sono le esigenze della classe media cristiana.

Lo gnosticismo rappresentava l'interpretazione del cristianesimo cara ai ceti colti della comunità; il marcionismo rappresentava un paolinismo portato alle sue ultime conseguenze. Tra poco, di contro all'uno e di contro all'altro, il montanismo cercherà di ripristinare l'effervescenza della primitiva esperienza messianica cristiana annunciando la prossima palingenesi e l'inaugurazione dell'età dello Spirito.

Una funzione di mediazione tra queste varie correnti e di eliminazione di tutto quello che poteva rappresentare uno sgretolamento della disciplina associata non poteva che costituire una mansione romana, una mansione cioè della comunità che, per il fatto stesso di vivere nella capitale dell'Impero, era automaticamente tratta ed autorizzata ad esercitare un ministero di preminenza.

A quale dei vari elementi etnici che costituivano la comunità romana sarebbe in particolare caduta in sorte questa opera di preminenza e di governo? Col tramonto del secondo secolo noi assistiamo allo sbocciare improvviso della letteratura cristiana latina. L'alba del primato romano coincide con la preponderanza del gruppo latino africano nella comunità cristiana di Roma.

Ma c'è stato qualcuno che ha offerto al costituirsi di questa autorità primaziale il sostegno di una sanzione giuridica? C'è stato forse qualcuno che a questa nascente organizzazione unitaria della Chiesa sotto il potere di Roma ha apprestato il titolo legale di una eredità di giurisdizione, risalente fino agli Apostoli? E se c'è stato chi potrebbe essere? C'è in Eusebio nel medesimo tratto dove egli attinge da Ireneo i ragguagli piú o meno mitici sulle presunte relazioni tra Cerdone e Marcione (Storia Ecclesiastica, IV, 11) una pista oscura e misteriosa che vale la pena di seguire. «A Roma, morto Pio, dopo un episcopato di quindici anni, Aniceto presiedette ai fedeli che erano colà: sotto di lui Egesippo racconta di essere andato a Roma e di esservi rimasto fino all'episcopato di Eleutero». Quando Ireneo giunse a Roma quale ambasciatore dei «confessori» di Lione, Egesippo doveva ancora occupare in mezzo alla comunità romana una posizione preminente. Quanto meno doveva avervi lasciato una eredità delle piú cospicue, se Ireneo si riporta a lui come ad una autorità indiscutibile, largamente riconosciuta. Quale era di preciso questa eredità?

Noi sappiamo da Eusebio che Egesippo aveva scritto certe Memorie, la perdita delle quali rappresenta per l'antica storia cristiana una perdita altrettanto grave che quella dei libri esegetici di Papia. I frammenti superstiti di queste Memorie, disseminati soprattutto nella grande opera storica eusebiana, sono ad ogni modo tali da rivelare una struttura logica ed una finalità di cui bisogna tenere il massimo conto nel definire il processo che portò alla costituzione della gerarchia episcopale e del primato romano nella seconda metà del secondo secolo.

Questo Egesippo era un convertito dal giudaismo. Eusebio stesso ce lo attesta nell'atto stesso in cui raccoglie dall'opera del convertito, che egli aveva dinanzi agli occhi, i particolari autobiografici dell'autore. «Egesippo – cosí ci dice Eusebio (IV, 22, 8) – cita il Vangelo secondo gli ebrei e il Vangelo siriaco, e trae osservazioni e dati dalla lingua aramaica, documentando come egli sia venuto alla fede dall'ebraismo ed altre cose ricorda come provenienti dalla tradizione orale giudaica». Eusebio ci dà anche dei ragguagli cronologici che appaiono molto significativi sulla carriera del convertito, prima e dopo la conversione. Ci dice dunque come «dopo avere raccontato in cinque libri, con una esposizione semplicissima, l'infallibile tradizione della predicazione apostolica (vale la pena di registrare queste formule linguistiche che anticipano di secoli quello che sarà il linguaggio del Concilio Vaticano), Egesippo indica il tempo in cui visse, scrivendo a questo modo di coloro che per primi eressero idoli: – ad essi eressero cenotafi e templi come si fa ancora oggi. Di cotali è Antinoo schiavo di Adriano Cesare per il quale si celebrano i giochi antinoiani, vissuto ai tempi nostri. Poiché costruí una città che porta precisamente il nome di Antinoo e le diede profeti».

L'ebreo superstite della persecuzione adrianea, passato al cristianesimo, si vendicava cosí dell'imperatore nemico del suo popolo, bollandone per l'eternità la vita privata, con ragguagli passati vittoriosamente nella letteratura cristiana. Giustino, del resto, dal canto suo, non aveva mancato di fare altrettanto nella prima sua Apologia di poco anteriore alla conversione ed al lavoro di Egesippo.

Possiamo facilmente immaginarci come, arrivando a Roma, Egesippo, neo-convertito dal giudaismo al cristianesimo, dovesse aver trovato l'ambiente ancor tutto sossopra per la propaganda marcionitica. Doveva essere stato un fatto sbalorditivo quello che si era svolto in quella comunità cristiana un trentennio prima! Un ricco armatore, passato al Vangelo, era venuto dal lontano Ponto per aggregarsi alla fraternità cristiana della metropoli e come primo suo gesto si era spogliato di tutto il suo avere per donarlo alla comunità. Marcione però non aveva voluto donare alla Chiesa soltanto i suoi beni, aveva voluto donarle anche il suo paolinismo a oltranza. E questo era molto meno assimilabile del pingue donativo in moneta sonante. Marcione era apparso come un disseminatore di scandalo e la comunità lo aveva respinto.

Egesippo non dovette però conoscere il marcionismo soltanto a Roma. Attraverso tutto il suo itinerario da una comunità cristiana dell'Impero all'altra, egli aveva potuto dovunque constatare lo sconvolgimento portato dal messaggio marcionita. Il marcionismo, che aveva l'aria di volere super-esaltare il Vangelo come la rivelazione sorprendente e inattesa di un Dio fino allora sconosciuto, in realtà, al connaturale borghesismo umano, che ha bisogno di idee teoricamente assolute e di verità cronologicamente eterne, doveva apparire come un avversario del cristianesimo, di cui faceva una verità provvisoria e di cui recideva ogni collegamento col passato. Egesippo aveva potuto constatare che se la propaganda del marcionismo si era effettuata sollecitamente, altrettanto sollecite e vaste erano le opposizioni. Non era un'impertinente audacia bistrattare la tradizione di Israele, antefatto profetico del cristianesimo, e portare la mano iconoclastica contro quei Vangeli ecclesiastici e contro quel testo corrente dell'epistolario paolino che erano ormai ufficialmente riconosciuti e, quasi si sarebbe detto, canonicamente fissati? E non era un costituirsi correi della campagna antiebraica scatenata da decenni dall'Impero, insorgere contro il testo canonico dei Vangeli e di Paolo, in nome di presunte interpolazioni giudaizzanti?

Sebbene convertito al cristianesimo, Egesippo doveva sentirsi l'anima lacerata ed umiliata. E quaranta anni prima di Tertulliano egli avvertiva la necessità di contrapporre al dilagare delle novità marcionitiche la diga infallibile ed invalicabile di una prescrizione salutare. Meno dottrinario però del Tertulliano della Praescriptio, egli non si abbandona affatto alle astrazioni vaporose di una comparazione teoretica tra il possesso dogmatico della Chiesa e le abusive scorribande dell'inquietudine ereticale. Nella sua fantasia di giudeo palestinese, tutto saturo di reminiscenze nazionali, anche dopo l'eccidio di Gerusalemme e anche dopo la conversione al cristianesimo, è vivo e presente il fantasma del sacerdozio e del pontificato gerosolimitani, che Roma ha decisamente distrutto. Le eresie non sono una novità. Il giudaismo le ha conosciute anche nel tempo del suo massimo splendore. E le ha vinte appunto col suo sacerdozio e col suo pontificato. La Chiesa cristiana dovrà raccoglierne l'esempio e procedere, facendo ricorso ai medesimi sistemi ed ai medesimi metodi.

Un frammento delle sue memorie conservatoci da Eusebio (Storia Ecclesiastica, IV, 22, 7) lascia chiaramente supporre che Egesippo si compiacesse straordinariamente di riscontrare nella tradizione religiosa del suo popolo i precedenti dei movimenti ereticali che si vedevano ora delinearsi e pullulare nel cristianesimo. «Vi furono – egli aveva scritto – nel mondo della circoncisione, in mezzo ai figli di Israele, varie correnti contro la tribu di Giuda e contro il Cristo (Egesippo tradisce con questo inciso la sua personale visione della continuità delle rivelazioni del Logos divino nel giudaismo da una parte, nel cristianesimo dall'altra). Queste varie correnti furono: quelle degli esseni e dei galilei, degli emerobattisti e dei masbotei, dei samaritani, dei sadducei e dei farisei». Se dunque, secondo Egesippo, la pulviscolare secessione delle eresie si rinnova nel seno del cristianesimo, come già aveva imperversato in seno al giudaismo, il cristianesimo, continuazione del giudaismo, doveva, per difendersi, seguire la prassi del giudaismo stesso, e fare ricorso ad un sacerdozio organizzato e ad un pontificato legittimamente legiferante e amministrante le realtà sacre.

Egesippo era andato anche piú in là. E in un passo che Eusebio cita prima che il precedente e che quindi doveva essere collegato ad esso anche nel testo originale dello scrittore giudeo-cristiano, non si peritava di stabilire il piano e il quadro genealogico delle eresie cristiane, che facevano di queste eresie cristiane un contrapposto ed un parallelo perfetti alle eresie del giudaismo.

E lo faceva con parole che tradiscono in maniera indubbia il suo particolare modo di concepire il cristianesimo come rampollo di una ispirazione che esso aveva in comune col giudaismo. «Dopo che Giacomo il giusto ebbe data la sua testimonianza, non diversamente dal Signore, in favore del medesimo Verbo, di nuovo, in virtú del medesimo Verbo Divino, era costituito secondo vescovo Simeone, figlio di Clopas, alla unanimità, perché cugino del Signore. Vergine chiamavano allora la Chiesa, per il fatto che mai fino allora essa era stata contaminata da dottrine fallaci. Ma sopraggiunge Tebutis a fare opera di corruzione in mezzo al popolo, per non essere egli stato designato quale vescovo, appoggiandosi alle sette eresie (e sono le sette eresie di cui Egesippo stesso dà il nome) alle quali egli apparteneva: donde Simone capo scuola dei simoniani, e Cleobio capo scuola dei cleobiani, e Dositeo capo scuola dei dositeani, e Gorteo capo scuola dei gorateni, e i masbotei. Da questi vennero i menandriani e i marcionisti, i carpocraziani e i valentiniani, i basilidiani e i saturniliani, ciascuno introducendo e patrocinando la propria opinione».

Questi frammenti dell'ebreo battezzato Egesippo son sufficienti a farci pensare che, ai suoi occhi, l'organizzazione cristiana riproduce fedelmente i lineamenti della organizzazione e della vita del giudaismo. Riproduce cioè i lineamenti di quell'organismo ecclesiastico che aveva avuto a Gerusalemme i suoi vescovi-pontefici, precisamente come mezzo per fronteggiare i movimenti ereticali nascenti da personali rivalità di giurisdizione. Sicché la scomparsa materiale del Tempio e del pontificato ebraici di Gerusalemme non ha affatto portato una soluzione di continuità nelle manifestazioni del Verbo divino, perché di quel tempio e di quel pontificato la Chiesa cristiana e l'episcopato monarchico rappresentano la successione e la continuazione sostanzialmente inalterate.

Come fare ora per resistere efficacemente e universalmente agli pseudo-cristi, agli «pseudo-profeti, agli pseudo-apostoli che hanno lacerato l'unità ecclesiastica, con discorsi dissolvitori contro Dio ed il suo Cristo?». Sono anche queste parole di Egesippo che Eusebio riproduce (Storia ecclesiastica, IV, 22, 6) e non ci vuol molto a comprendere che i nomignoli dispregiativi adoperati da Egesippo vogliono andare a colpire Marcione che aveva cosí violentemente bistrattato il Dio giusto e bellicoso del Vecchio Testamento. Secondo Egesippo non c'era che un mezzo valido e bene sperimentato. E questo mezzo era di cercare dovunque la trasmissione apostolica nella successione vescovile. Ed ecco dunque scoperto il metodo infallibile per la conservazione e la tutela fedele della trasmissione cristiana: la Diadoché costituirà la difesa invulnerabile della purezza e della immutabilità della Didaché. Ne sarà anzi senz'altro il surrogato equivalente.

Se noi ci indugiamo su questo apporto di Egesippo alla costituzione ed alla continuità dottrinale cristiana, è unicamente per l'enorme importanza che questo apporto ha avuto nello sviluppo della cristianità occidentale. Riferendosi alle memorie di Egesippo, Eusebio ci dice che il loro autore, nel suo viaggio verso Roma, aveva assiduamente tentato di stringere rapporti con numerosi vescovi, cercando di constatare presso di loro la incorrotta unità della dottrina. Roma però rappresentava la piú assillante preoccupazione del suo spirito. Qual mai successo sarebbe stato quello di Israele se nella capitale dell'Impero che aveva abbattuto la città santa, che aveva innalzato nel Foro un arco di trionfo a chi aveva sovvertito il Tempio, e che con Adriano aveva ignominiosamente profanato il santo dei santi, fosse sorta una organizzazione religiosa analoga e conforme a quella che aveva avuto nel Tempio il suo centro e il suo palladio!

Bisogna riconoscere che Egesippo non era uomo dai propositi timidi e dalle capacità circoscritte. Un frammento delle sue memorie ci mostra come, tornato in Palestina, egli si potesse vantare di quel che aveva fatto a Roma. Dice infatti: "Giunto a Roma redassi la tavola della successione apostolica fino ad Aniceto, di cui Eleutero era diacono. Dopo Aniceto, successore Sotero, dopo il quale Eleutero. In ciascuna delle successioni apostoliche e in ciascuna città, tutto si svolge come la legge insegna e come insegnano i profeti e il Signore». La Diadoché nella concezione di Egesippo è dunque una catena che risale alla legge di Mosè e scende fino ai continuatori del Signore.

In nome di Paolo, Marcione aveva segnalato spietatamente tutte quelle che gli apparivano antitesi inconciliabili fra la legge di Mosè e il Vangelo del Cristo. Egesippo, ebreo convertito, aveva anche egli, come Marcione, traversato l'Impero col proposito inverso: reintegrare la perfetta continuità e l'assoluta coerenza tra la legge di Mosè e il messaggio del Dio buono. Questa continuità e questa coerenza erano raccomandate alla successione episcopale e dalla successione apostolica erano garantite. Ma su quali argomenti Egesippo fondava questa sua armonistica visione dell'opera del Verbo nel mondo?

Eccoci dinanzi al punto piú oscuro ed alla zona piú delicata in tutto il processo di sviluppo dell'organizzazione cristiana nel secondo secolo. Ma non è azzardato tentare una soluzione dell'enigma, mercè una plausibile ipotesi di lavoro.

Marcione aveva fatto fulcro per la sua propaganda del pensiero paolino. Al Paolo marcionita non poteva contrapporsi che Pietro. I due nomi erano già da lunga pezza abbinati nelle memorie romane. Egesippo, che si era fermato a Corinto, doveva ben conoscere la lettera che non molto meno di un secolo prima Clemente aveva diretto in nome della comunità romana alla comunità di colà. Venuto a Roma, Egesippo doveva avere raccolto tutte le tradizioni locali che legavano leggendariamente il passaggio di Pietro e Paolo, avviati verso Roma, con una lussuosa villa dell'Appia antica e individuavano al Vaticano e sulla via Ostiense il luogo del loro martirio e del loro sepolcro. Se nel pensiero di Egesippo la successione vescovile nelle grandi città dell'Impero costituiva la salvaguardia e la garanzia della immutabile integrità dottrinale, qualcosa veramente si sarebbe dovuto dire che mancasse alla riproduzione perfetta dell'organismo pontificate del Tempio gerosolimitano nell'àmbito del cristianesimo, se la ecumenicità episcopale della nuova diaspora non avesse avuto anche essa un centro unico di irradiazione e di disciplina.

Marcione aveva fatto di Paolo l'unico interprete genuino del Cristo, in quanto questi aveva abbattuto in radice la vecchia legge e le morte tradizioni mosaiche. A Marcione non importava affatto che il cristianesimo avesse degli antecedenti: quel che a lui premeva era piuttosto l'inconguagliabile originalità del messaggio della bontà e dell'amore. Paolo aveva detto qualcosa di simile: Marcione lo ripeteva a suo modo.

Trattandosi di salvare invece la continuità sostanziale tra «la Legge, i Profeti, il Signore», non c'era a portata di mano che un mezzo: riabilitare e celebrare quel Pietro, col quale Paolo si era trovato cosí aspramente a conflitto. La bisogna era straordinariamente facile. O che forse non era stato Pietro quegli che, secondo i Vangeli cosí di Matteo come di Marco e di Luca, aveva riconosciuto per primo nei paraggi di Cesarea di Filippo che Gesù era il Cristo? (Mt. XVI, 16; Mc. VIII, 29; Lc. IX, 20).

Qui veramente Egesippo capitava in buon punto. Egli era privilegiatamente agguerrito per fare di quell'episodio la chiave di volta del sistema gerarchico dogmatico, quale egli lo sognava, sul modello del sistema gerosolimitano, argine efficace al dilagare anarchico dello spiritualismo marcionita.

Nella sua redazione primitiva quale è quella conservataci intatta nei Vangeli di Marco e di Luca, l'episodio di Cesarea di Filippo tradiva uno schematismo semplice e lineare. Pietro vi professava apertamente, in nome di tutti i suoi compagni nella sequela di Gesù, la messianità del Maestro. Gesù accoglieva la confessione solenne imponendo il segreto in argomento e contrapponendo al riconoscimento esplicito della sua messianità l'annuncio dell'imminente tragico epilogo a Gerusalemme. Questo, puro e semplice, l'episodio nelle sue linee embrionali.

Ma nello spirito di credenti avviati verso la costituzione organica della società uscita dalla delusa fede nell'imminente inaugurazione del Regno, quel riconoscimento solenne di Pietro non era cosa da lasciarsi passare senza un adeguato corrispettivo. Oramai che Marcione aveva con cosí impertinente irriverenza scalzato in radice l'autorità dei Dodici, per fare di Paolo l'unico vero Apostolo e di quegli che era stato amico e medico di Paolo l'unico evangelista degno di fede, occorreva assolutamente ristabilire lo spezzato equilibrio, non solamente assicurando alla successione apostolica l'integro deposito della fede, ma ponendo anche Pietro al vertice della gerarchia e immaginandolo investito da Gesù di un imperituro potere primaziale.

Sulla base della testimonianza di Papia, il Vescovo millenarista di Gerapoli in Frigia, si sapeva nella comunità cristiana che Matteo aveva originariamente dettato il suo Vangelo in aramaico: ebraidi dialecto. Ma Egesippo era maestro in aramaico. Eusebio ci attesta questa perizia in aramaico di Egesippo con una frase straordinariamente significativa: «In particolare trae parecchie cose dalla lingua aramaica».

Saremmo legittimamente curiosi di sapere con esattezza quali sono queste parecchie cose che Egesippo trae «dalla lingua aramaica». E siamo naturalmente tentati di pensare che tra quelle parecchie cose debba essere compreso il giuoco di parole perfettamente aramaico che il Vangelo di Matteo suppone istituito da Gesù sul nome Cefas, al momento della confessione messianica nei paraggi di Cesarea di Filippo. Facendosi forte della sua grande maestria in fatto di lingua aramaica, forse subcoscientemente travagliato e sedotto dal fantasma della successione apostolica, Egesippo può avere egli stesso introdotto nel racconto matteano dell'episodio di Cesarea questo giuoco di parole che, con uno scambio di termini suggerito dal nome dell'Apostolo piú rumoroso, finisce con l'investire Pietro di un potere di cui si sarebbero sempre piú allargati e rafforzati i confini.

A Roma, in un momento criticissimo dello sviluppo disciplinare ecclesiastico, ai primi sentori della crisi montanistica, dovettero essere ben felici di scoprire il fondamento giuridico del potere di Pietro e dei suoi successori.

I latino-africani, che dovevano costituire allora il nucleo piú imponente e piú accreditato della comunità romana, dovettero essere ben grati alla sapienza aramaistica di Egesippo che con le sue sottigliezze linguistiche riusciva a dare ad uno degli episodi salienti della narrazione evangelica una portata nuova ed una significazione preziosa.

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