III LA CONQUISTA ISLAMICA

Mentre con la grandiosa figura del Pontefice della gente Anicia l'Occidente cristiano realizzava cosí un'applicazione profonda dei principi cristiani che valgono a reggere e a costituire le fortune terrene solo in virtú del piú assillante senso del precario e del transitorio; mentre l'Oriente bizantino si logorava attraverso le estenuanti polemiche teologali e l'assorbimento progressivo dei poteri carismatici da parte dei poteri politici; dal fondo dell'Arabia si preparava un'insurrezione religiosa che avrebbe impresso a tutta la civiltà mediterranea una palingenesi integrale e una rivoluzione senza precedenti.

Era una nuova reviviscenza di religiosità biblica che maturava in quel medesimo mondo desertico ai confini marginali dell'Impero romano, da cui nei lontanissimi millenni era zampillata la fede monoteistica intransigente dei patriarchi d'Israele.

Ernesto Renan, come si sa, ha detto una volta che il deserto è monoteista. È un aforisma sensazionale come tanti usciti dalla penna del magico scrittore.

In realtà il deserto è altrettanto monoteista che politeista. Diciamo piuttosto che il deserto è il semenzaio delle rivoluzioni religiose.

Da una steppa iranica era venuta la predicazione messianica di Zarathustra, dal deserto arabico venne la riforma di Mosè. Nel deserto andò a cercare ispirazione ed entusiasmo quel preannunciatore del messaggio di Cristo che battezzava sulle rive del Giordano.

Narra il mito beduino: «Quando l'Onnipotente creò il mondo, strinse nelle mani il vento e gli disse: – fatti uomo, – e dal vento Dio creò il beduino. Di poi l'Onnipotente prese in mano una freccia e le disse: – che tu sia il corsiero del deserto. – Fu fatto cosí il puledro indomito che vola sulla sabbia. Dopo di che l'Onnipotente prese una manata di fango e ne fece l'asino. Dal primo sterco dell'asino l'Onnipotente, il padrone del mondo, nella sua grazia sconfinata, creò e l'abitante sedentario delle città e il contadino altrettanto sedentario sulla sua zolla di terreno».

Il deserto è stato pertanto sempre il nemico della città. E siccome la religiosità umana è sensazione dell'umano nomadismo di fronte alla stabilità dell'Eterno, ogni volta che la vita sedentaria della città ha minacciato di paralizzare l'anelito randagio dell'uomo verso la patria eterna del Regno di Dio, dal deserto è corsa la parola d'ordine del rinnovamento e della insurrezione.

Dal punto di vista della storia del cristianesimo, la predicazione di Maometto offre tre aspetti di particolare e non trascurabile importanza.

Innanzi tutto si tratta di vedere qual è il carattere primigenio di questa predicazione del deserto che scompagina la struttura dell'Impero bizantino, rompe l'unità romana del Mediterraneo, imprime al corso degli avvenimenti un'orientazione nuova e impreveduta.

In secondo luogo si tratta di individuare, se possibile, gli influssi che dal mondo cristiano esagitato dalle sue implacabili controversie teologiche si sono ripercossi sull'esperienza del profeta abituato alle lunghe peregrinazioni carovaniere tra il mondo siriaco e le oasi arabiche.

Infine occorre segnalare l'influenza profonda che la comparsa degli eserciti islamici sui margini mediterranei del Vicino Oriente e dell'Africa settentrionale ha esercitato sulla costituzione progressiva della Cristianità occidentale.

È stato osservato che il cristianesimo, nato nella terra di Giuda, ha preso come linee dei suoi itinerari, la grande trafila delle comunità ebraiche della Diaspora, disseminate lungo quei territori rivieraschi del Mediterraneo contrassegnati dalla cultura di quell'ulivo che per le sue misteriose capacità di spremere luce ed alimento dal sasso appare da natura indicato come il simbolo sacramentale di ogni alta esperienza religiosa.

Ma come ogni pinguedine, anche la pinguedine dell'olivo può essere fomite di corrompimento e di diserzione.

Il cristianesimo del settimo secolo incipiente, con tutto il carico delle sue inestinguibili discussioni teologiche (e ogni discussione teologica è sempre principio di contaminazione politeistica) non postulava un ritorno alle origini che imponesse revisioni contrite e resipiscenze violente?

Molto tempo prima dell'era cristiana gli Arabi, popolo di origine semitica, avevano occupato la penisola arabica e il deserto di Siria che ne rappresenta la continuazione a nord stendendosi fino all'Eufrate.

La penisola arabica, la cui superficie equivale press'a poco a quella di una quarta parte dell'Europa, è circondata ad est dal Golfo Persico, a sud dall'Oceano Indiano, che è anch'esso un Mediterraneo, ad ovest dal Mar Rosso. A nord si insinua senza transizione nel deserto siriaco.

Le provincie meglio conosciute della penisola erano: il Neged, sull'altopiano centrale; lo Jemen o Arabia Felice a sud della penisola, l'Heggiaz, stretta fascia che si stende lungo il Mar Rosso dal Nord della penisola allo Jemen.

Anche sull'origine del territorio arabico il mito beduino aveva fantasticato. «Quando», esso raccontava, «l'Onnipotente creò la terra, ripartí equamente tra tutte le regioni le rocce e le acque, i prati e le valli. Ad ogni paese toccò in sorte una frazione di questi incommensurabili tesori dell'Altissimo. E l'Arabia ottenne anch'essa la sua parte. Di poi il Signore dei mondi volle elargire ugualmente a tutte le contrade della terra un po' di sabbia che anch'essa poteva essere utile agli uomini. Ne prese dunque, la chiuse in un sacco, ed affidò all'Arcangelo Gabriele il còmpito di ripartirla in misura conveniente. Ma Satana, il Maligno, era invido e geloso della sorte degli uomini. E mentre Gabriele volteggiava sull'Arabia, Satana riuscí a insinuarsi segretamente vicino a lui e lacerò il sacco. La sabbia, cadendo giú in tutta la sua massa, coprí il paese, disseccò i laghi, annientò i pozzi d'acqua. Tale l'origine del deserto. Il Signore dei mondi ne provò un violento corruccio e si propose di rivestire l'Arabia di oro. Creò cosí una gigantesca cupola d'oro scintillante. Era destinata a illuminare il deserto durante la notte. Ma il Maligno volle anche di questo privare gli abitanti del deserto. Incaricò pertanto gli spiriti suoi compagni di ricoprire l'oro celeste di velari densi e neri. Il padrone dei mondi non si volle per questo dichiarare vinto e inviò i suoi angeli perché con le loro lance perforassero, con tante piccole aperture, le opache tende stese da Satana.

«Fu data cosí luce a quelle stelle del deserto che sorridono ad ogni arabo quando nelle notti mirabili, steso all'entrata della sua tenda, contempla il cielo».

Anche l'esperienza di Maometto nacque da questa contemplazione del cielo stellato durante le monotone peregrinazioni delle sue spedizioni carovaniere?

Qualche altra cosa dovette parlare al suo spirito negli anni della sua preparazione.

Era fatale che l'Impero romano entrasse in conflitto con le tribú arabe della frontiera orientale siriaca.

Fu costretto pertanto ad adottare misure militari per proteggere tale frontiera con un limes analogo, per quanto su scala piú modesta, al limes della frontiera danubiana.

Già fin dal secolo secondo avanti Cristo, Stati indipendenti si erano cominciati a formare in mezzo agli Arabi della Siria. Essi subirono sensibilmente l'azione della civiltà aramaica ed ebrea. Tra le loro città, Petra assurse ad una floridezza rigogliosa, in virtú della sua situazione privilegiata all'incrocio delle grandi vie commerciali. Le magnifiche rovine di Petra sono ancora lí ad attestare la importanza cospicua di questo centro del traffico del vicino Oriente.

Dal punto di vista della civiltà e dal punto di vista politico, il piú importante di tutti i regni arabo-siriaci dell'epoca imperiale romana fu quello di Palmira. Esso ebbe come piú eminente sovrana quella che gli autori romani e greci chiamano Zenobia. Di cultura ellenistica, questa regina coraggiosa fondò nella seconda metà del terzo secolo dopo Cristo un grande Stato, conquistando l'Egitto e la maggior parte dell'Asia Minore.

Roma dovette fare i conti con lei, che volle che l'Oriente mediterraneo si sciogliesse dai vincoli imperiali romani.

L'imperatore Aureliano menò pertanto una energica campagna contro Zenobia nel 273 e la regina, fatta prigioniera, dovette seguire il carro dell'imperatore trionfante al suo ritorno a Roma. Palmira, la ribelle, fu distrutta. Le sue rovine imponenti sono ancora là ad attestare l'opulenza della capitale.

Durante l'epoca bizantina due dinastie arabe avevano acquistato una preminenza in quegli agglomerati arabici spinti sulle linee confinali del mondo siriaco.

La prima, la dinastia dei Gassanidi di Siria, vassalla in qualche modo degli imperatori bizantini, con nette tendenze monofisitiche, era divenuta particolarmente potente nel sesto secolo all'epoca di Giustiniano, quando si costituí ausiliaria di Bisanzio nelle sue imprese orientali. La conquista persiana della Siria e della Palestina doveva abbatterla agli inizi del settimo secolo.

La seconda dinastia araba, quella dei Lakmiti, ebbe per centro la città di Hira sull'Eufrate. Era una dinastia che contrariamente a quella dei Gassanidi, pencolava verso i Persiani della dinastia sassanida.

Ad Hira predominava la professione cristiana nestoriana.

In questa duplice polarizzazione religiosa, monofisitica l'una, nestoriana l'altra, è da riconoscere una circostanza di fatto non priva di azione sul determinarsi dell'intransigente atteggiamento monoteistico della rivoluzione religiosa islamica.

Quale misteriosa e sorprendente dialettica presiede all'incrocio dell'accavallarsi delle correnti religiose? Nestorio era stato solennemente condannato al Concilio efesino del 431. La sua rigida rivendicazione della integrale natura umana del Cristo, nel timore che calcando la mano sulla sua natura divina se ne vulnerasse la funzionalità terrena e la colleganza con il rimanente della famiglia umana, chissà non fosse nell'intimo determinata da un senso trepidante della inviolabilità assoluta della fede monoteistica?

Anche San Paolo, in un movimento irresistibile del suo intransigente monoteismo biblico, aveva annunciato che alla ricapitolazione finale della storia del mondo, quando il Cristo avrebbe ridotto le forze dell'universo ai piedi del Padre, anche Lui, il Cristo, si sarebbe prostrato dinanzi all'Eterno, in atto di finale sottomissione. Anche San Paolo dunque aveva avuto cura, nell'atto stesso in cui esaltava il Cristo, di rivendicare il finale monoteismo da qualsiasi diminuzione e da qualsiasi annebbiamento.

Non era la stessa preoccupazione che aveva ispirato l'insegnamento di Nestorio? La gnosticizzante eresia monofisitica non aveva mostrato quanto giuste e tempestive fossero le preoccupazioni del patriarca condannato ad Efeso il 431?

La Cristianità orientale non doveva piú riaversi dalla lacerazione inferta alla sua unità dalla condanna pubblica e solenne di Nestorio.

Non doveva piú riaversi, non soltanto dal punto di vista religioso, bensí anche dal punto di vista politico e diremo quasi etnico.

I nestoriani della Siria, condannati all'ostracismo, si dispersero per tutte le vie commerciali dell'Impero di Oriente, costituendosi missionari e propagandisti del piú intransigente monoteismo.

Lo zelo proselitistico dei nestoriani mise capo ad una vera disseminazione di vescovadi non solamente in Siria, in Armenia, nell'Arabia, in Persia, ma perfino su nella Media, nel Corassan, a Samarcanda, con propaggini fino in Cina e in India.

I quattrocentomila cristiani siriaci del Malabar dovettero senza dubbio la loro origine a missionari nestoriani.

Chissà se Maometto nella sua vita randagia di carovaniere non fu istruito nei principi cristiani da un seguace di Nestorio, il quale certamente non dovette istillargli sentimenti di devozione per quella Bisanzio che aveva voluto la condanna del 431, e su cui gli eredi di Maometto avrebbero riportato cosí imponenti vittorie?

L'organizzazione arabica nell'età premaomettana era tutta basata sul regime tribunizio. Soltanto i vincoli di sangue tra gli Arabi potevano creare una comunità di interessi. La tribú non è altro che una famiglia ampliata, i membri della quale non sono piú capaci di separarsi. Essa possiede le sue leggi che conviene osservare con spirito di cieca e servile fedeltà, e determina, in maniera imperativa, la funzione di ciascuno nella comunità. Impone ai suoi membri la marcia o l'arresto, la distribuzione o la privazione degli elementi. È proprietaria dei cammelli, delle pecore, dei figli, delle donne di ciascuno dei suoi membri. L'arabo non si concepisce fuori della sua tribú.

Le concezioni religiose delle vecchie tribú arabe erano, all'epoca di Maometto, del tutto primitive. Ciascuna tribú aveva i propri dèi, i propri oggetti sacri, pietre, alberi, sorgenti. In alcune parti dell'Arabia, il culto delle stelle aveva la prevalenza sopra tutti gli altri. Credevano all'esistenza di forze amiche e di forze nemiche, i demoni. La loro concezione di un potere superiore invisibile, quello di Allah, era contrassegnata da una vaghissima imprecisione. La preghiera, in quanto forma culturale, era probabilmente sconosciuta. Quando si indirizzavano alla divinità, la loro invocazione di solito non era altro che una invocazione di soccorso in vista di una vendetta da esercitare su un nemico per qualche offesa o ingiustizia ricevuta. I poemi pre-islamici che ci sono pervenuti non tradiscono alcuna allusione ad uno slancio verso il divino neppure nelle anime piú alte e non ci dànno che poverissime indicazioni sull'atteggiamento concreto di queste anime di fronte alle tradizioni religiose del popolo.

La vita nomade dei Beduini non favoriva di certo la costituzione e lo sviluppo di determinate località riserbate al culto religioso, neppur nella forma piú embrionale e primitiva.

Ma di fianco ai Beduini l'Arabia aveva gli abitanti sedentari delle città e dei villaggi, nati e sviluppatisi lungo le grandi vie del traffico, soprattutto lungo l'itinerario delle carovane che risalivano da sud verso nord, dallo Jemen verso la Palestina, la Siria e la penisola del Sinai

Le tappe obbligate dei grandi itinerari primitivi dell'umanità, cosí per mare come per terra, attraverso le montagne come lungo il deserto, sono state tutte e sempre rivestite dall'istintiva pietà collettiva di una «numinosità» che le rende ansiosamente ricercate e nel medesimo tempo temute. Sono le insegne del riposo, ma sono anche il risultato di rischi avventurosi.

Ancora oggi una quantità di santuari cristiani, attraverso tutti gli itinerari europei, stanno a segnare, spesso nei luoghi piú impervi e nel medesimo tempo piú sensibili dei lunghi tragitti e dei piú preziosi traffici, il luogo d'incrocio di antiche emigrazioni e di antichi spostamenti di masse.

Da tempo immemorabile la Mecca rappresentava una tappa sacra degli itinerari carovanieri dell'Arabia occidentale.

Posta a 360 metri sul livello del mare a occidente dell'orlo rialzato dell'altopiano arabico, tra brulle colline di roccia cristallina e ampie distese sabbiose, la Mecca era sorta sul letto di un Uadi le cui acque si disperdono poi nelle sabbie.

Una leggenda, probabilmente anteriore all'islamismo, ma che da questo ricevette ampia diffusione, mette in rapporto le origini storiche della Mecca e del culto della Kaaba, cubo in pietra nera le cui facce esterne sono ricoperte oggi ancora da un tappeto nero a iscrizioni ricamate, con il personaggio biblico di Abramo. Questa leggenda raccontava che Abramo percorresse un giorno il deserto arabico lungo le vallate rocciose dell'Heggiaz. La strada era fiancheggiata da monti, da rocce nude, da dirupi paurosi, da precipizi senza fondo. Dietro ogni roccia, testimoniava la leggenda, si nascondeva un demonio, che a forza di urli e di singhiozzi, si ostinava a voler ottenere che il patriarca subisse anche lui il proprio destino di maledetto. Abramo invece continuava a percorrere coraggiosamente il suo cammino in mezzo all'aridità rabbrividente del panorama.

Quando i demoni raggiunsero il massimo del loro assedio insidioso, Abramo dié di mano ad una pietra e la lanciò violentemente contro il Maligno.

Da millenni e millenni le creature umane che hanno attraversato a milioni il deserto dell'Heggiaz, hanno ripetuto il gesto di Abramo gettando piccole pietre sulle cosiddette tre Colonne del Diavolo, dietro cui gli emissari maledetti di Satana sogliano darsi convegno.

Durò a lungo la traversata dell'Heggiaz intrapresa dal patriarca Abramo. Alfine egli raggiunse una spianata della valle profondamente incassata tra rocce aspre, calve e nude. Fu là, nella piú squallida e selvaggia solitudine, che il Signore gli manifestò la sua grazia, inviandogli dal cielo una pietra, bianca quanto l'ala di un arcangelo. Abramo innalzò allora al Signore nell'aspra vallata dell'Heggiaz un monumento cubico, e cosí, secondo la leggenda, nacque la Kaaba, il santuario dell'Arabia. Incassata nel suo muro dalla mano di Abramo, la pietra di Dio brillò, rilucente dinanzi agli occhi abbacinati di milioni di viandanti, destinati a moltiplicarsi in un esercito sterminato di pellegrini. Abramo si allontanò lodando il Signore, ma il santuario rimase in mezzo alla vallata solitaria e brulla.

I Beduini del paese ne conobbero l'esistenza, perché il vento e la sabbia del deserto sono rapidissimi ed infallibili messaggeri. Ben presto nessuno la ignorò, e tutti seppero che, baciando la pietra bianca della Kaaba, ci si può presentare senza piú alcun timore al cospetto dell'Onnipotente. La pietra assorbe e disperde tutte le innumerevoli colpe degli uomini.

Allora i Beduini dell'Arabia cominciarono a visitare la pietra prodigiosa in interminabili carovane. Ciascuno baciava la pietra bianca e ciascuno le affidava i propri peccati. Ma piú il numero di questi cresceva e piú la pietra anneriva. La luminosa pietra dell'Onnipotente ha finito col diventare nera come la notte, nera come il peccato. Ma quando sorgerà il giorno del giudizio, quando l'Onnipotente chiamerà al suo cospetto i giusti e gli ingiusti, allora due grandi pupille saranno date alla pietra, la quale riprenderà il suo candore lucente e posta sulla mano dell'Onnipotente renderà propizia testimonianza a chiunque, fiducioso nell'onnipotenza di Dio, verrà a confidarle le proprie colpe.

È difficile dire se l'importanza commerciale della Mecca creò il suo prestigio religioso o se questo la fece tappa commerciale di rilevantissima importanza. Alle origini della civiltà umana la vita non soffre soluzioni di continuità, e tutto è tuffato in un'atmosfera satura e impregnata di sacralità.

Ciò che continuò permanentemente a distinguere la Mecca da tutti gli altri empori commerciali del mondo, fu che i mercanti arabi che la popolavano rimasero sempre invariabilmente dei Beduini. Si capisce come una città assurta a tale importanza dovesse costituire posta di avidità, di intrigo e di lotta per le tribú accaparranti del deserto.

Verso il quinto secolo dopo Cristo la Mecca era caduta nelle mani di Benu Koreisch. Vecchie leggende romanzesche abbondano in particolari sul coraggio e l'astuzia, la sapienza e la forza del grande eroe Kussai, fondatore della potenza dei Coreisciti nella Città Santa. Nel secolo seguente la grande tribú si era scissa in una serie di gruppi minori e di famiglie che non avevano piú fra di loro se non un vincolo fragile e rilasciato. Anche la potenza sulla città ne era risultata divisa. La piú ricca e nobile di queste famiglie era quella di Omaya.

La Mecca trovava la principale fonte delle sue ricchezze nell'allestimento delle carovane per mezzo delle quali si compiva il commercio di transito tra l'Arabia meridionale, la Siria e la Mesopotamia.

La tradizione storiografica parla di minacce all'indipendenza meccana da parte degli Abissini stanziatisi nell'Arabia meridionale, delle quali celebre specialmente la cosiddetta spedizione dell'elefante, che avrebbe avuto luogo nel 570 dopo Cristo. Senza dubbio relazioni ora ostili, ora pacifiche, col regno etiopico di Aksum non mancarono. Ecco un'altra prova dell'importanza a cui la Mecca era assurta nel sesto secolo.

La città, avvolta in un alone di fascino religioso, era veramente la regina del deserto. Essa doveva riservare allo straniero di passaggio ogni ristoro ed ogni allettamento.

Attraverso le sue piccole vie, le carovane interminabili dovevano circolare dal principio dell'anno alla sua fine. I cammelli, senza rumore, dal passo prudente, le traversavano impregnati della polvere del deserto di cui i loro occhi malinconici tradivano la nostalgia. Ai loro fianchi, con l'andatura diffidente, procedevano i cammellieri, altrettanto calmi, fieri e muti che le loro bestie. I loro grandi occhi ammirativi sembravano dire: «È la Mecca, la regina del deserto». Nella folla si trovavano l'uno a fianco all'altro etiopi e negri africani, cristiani ed ebrei, mercanti di schiavi, indovini e avventurieri, incettatori e accaparratori. Vi si parlavano tutte le lingue. Vi si incontravano adoratori di tutti gli dèi.

Alla Mecca, città rumorosa ed animata, gioiosa e barbara, ricca e intraprendente, città del deserto e del commercio, nasceva il 29 agosto 580, nel 40° anno del regno del grande imperatore Cosroe, Maometto, il profeta di Dio.

Usciva da una famiglia di non grande importanza e precisamente dalla gente dei Banu Hashim, frazione a sua volta dei Coreisciti.

I suoi genitori morirono quando egli era ancora in tenera età e dovette guadagnarsi la vita. Fu conduttore di cammelli per le carovane commerciali della ricca vedova Khadigiah, appartenente alla categoria dei grandi commercianti coreisciti. Il matrimonio con la vedova proprietaria dei cammelli carovanieri lo trasferí bruscamente in una posizione di florida agiatezza.

Non è da escludere che gli agi cosí fortunosamente conseguiti e assaporati gli abbiano permesso riflessioni e meditazioni spirituali da cui doveva uscire la sua improvvisa e portentosa vocazione religiosa.

Nulla ci dice però in quale maniera, nello spirito di questo uomo incolto e randagio, che aveva professato sempre il tradizionale culto pagano politeistico dei suoi concittadini, si facesse improvvisamente la luce, che lo portava alla intransigente fede monoteistica, lo riscaldava di un ebbro entusiasmo per essa, gli dava la persuasione di ricevere rivelazioni da Dio per mezzo di un essere soprannaturale, che a Medina sarebbe stato da lui identificato con l'Arcangelo Gabriele, lo spingeva sulla via del suo impetuoso proselitismo.

I ricordi delle conoscenze religiose acquisite lungo le tappe dei suoi itinerari carovanieri nelle oasi abitate da ebrei e visitate da commercianti nestoriani; le meditazioni solitarie dei suoi riposi e delle sue fermate ai margini del mondo siriaco, debbono avere lungamente fermentato nell'anima di Maometto. Ogni trasformazione religiosa del resto è un mistero ineffabile di cui la coscienza si porta l'inviolabile segreto.

Noi possiamo solamente constatare come alle sue origini la metamorfosi dell'ex-carovaniere non sia sostanzialmente diversa da quella di altre conversioni religiose del mondo biblico e, possiamo anche aggiungere, cristiano primitivo.

Una sete assoluta di monoteismo purissimo e incontaminato; uno sdegno incontenibile contro le profanazioni politeistiche e sensibilmente, antropomorficamente culturali del Divino; un grande senso umano di compartecipazione alla vita associata sacralmente intesa, al di là e al di sopra di tutte le fittizie divisioni di clan e di tribú; e infine, ultimo e primo, l'istinto irresistibile verso la raffigurazione di una non lontana metamorfosi cosmica, che, come abbiamo visto per l'esperienza neo-testamentaria, è l'elemento «numinoso» delle religioni messianiche: ecco i tratti differenziali che accompagnano agli inizi anche la riforma islamica.

Durante il periodo di vita alla Mecca si può anzi riconoscere che Maometto non ha avuto affatto in animo il proposito di fondare una religione nuova. Le riforme religiose destinate ai piú strepitosi successi e alle piú vittoriose sopravvivenze sono precisamente quelle che partono dal presupposto di essere soltanto un anello di una lunga catena, di non portare altro al mondo che la attuazione integrale di preesistenti tradizioni.

Negli anni precedenti all'Egira, Maometto ha pensato puramente e semplicemente che molti popoli stranieri, tra cui i cristiani e gli ebrei, e popoli arabi estinti, avessero periodicamente ricevuto da Dio, per mezzo di «profeti», testi sacri e rivelazioni soprannaturali intesi ad abbattere la idolatria, a predicare la vera religione e la morale e ad insegnare le pratiche del culto.

Maometto pertanto, nel periodo meccano, si atteggia a profeta delle popolazioni arabe esistenti al suo tempo, alle quali non era mai giunto né il messaggio ebraico né il messaggio cristiano né alcun altro particolare messaggio monoteista. Egli era stato suscitato per essere il profeta della sua gente. In questo stesso periodo meccano, la parola Islam, destinata a diventare la parola segnalatrice del nuovo movimento, che vale incondizionata sottomissione ai voleri divini, è termine applicabile ad ognuna delle grandi religioni monoteistiche rivelate, come l'epiteto di Muslim, designante colui che si rimette ciecamente a Dio, viene dato nel Corano a tutti i profeti anteriori, da Abramo a Gesù, e a tutti i nuovi credenti, a tutti i professanti sinceramente il monoteismo rivelato mediante testi sacri.

Soltanto piú tardi, quando Maometto la romperà con il giudaismo e con il cristianesimo, il vocabolo Islam passerà a designare unicamente la religione predicata da Maometto in opposizione a quella dei degeneri ebrei e cristiani, e Muslim si restringerà a designare i seguaci di Maometto, i quali del resto, data la ormai invalsa assoluta identificazione della missione religiosa con la sovranità temporale limitata in Maometto, erano anche automaticamente suoi sudditi.

Se l'edificio dell'Islam, dal punto di vista ideale e dottrinale, era già potenzialmente costruito alla Mecca come religione autonoma diretta a tutta la umanità, come movimento di conquista basato sul concetto della guerra santa nasce soltanto a Medina.

Quell'edificio riposava su quattro proclamazioni dogmatiche e sulla formulazione di cinque doveri umani verso Dio. Le quattro proposizioni dogmatiche sono: la fede in Dio, la credenza nel profeta, il riconoscimento dell'uguaglianza degli uomini, l'aspettativa della trasfigurante vita futura. I doveri sono: la preghiera, il digiuno, l'elemosina, il dovere di credere all'unità di Dio, a cui si aggiungerà piú tardi il pellegrinaggio alla Mecca.

Quarantenne, Maometto si decise ad annunciare pubblicamente le sue idee, a cominciare dal cerchio della sua famiglia dove raccolse le prime reclute. Quindi cominciò a predicare dinanzi a un piccolo gruppo di popolani, per affrontare poi la discussione con cittadini di piú alta levatura.

I capi dei Coreisciti si dichiararono nettamente contro di lui, facendogli adagio adagio la vita impossibile nella sua città natale.

Maometto dovette pensare ad esulare, e le sue speranze allora si rivolsero sulla città di Yathrib, grande centro agricolo a nord della Mecca, abitata per oltre un terzo da una florida comunità ebraica, e per il rimanente da due gruppi arabi, in sterile rivalità fra loro ormai da molti anni.

Nel giugno del 622, Maometto, sull'altura di al-Aqabah presso la Mecca, stringeva con delegati arabi di Yathrib un accordo segreto, con il quale essi lo riconoscevano loro capo e si impegnavano a difendere lui e i musulmani, che avessero emigrato dalla Mecca, con lo stesso zelo e con la stessa perseveranza, con cui erano pronti a difendere sé e i membri della loro tribú.

A quell'accordo, seguiva, dopo la fuga alla spicciolata dalla Mecca della sessantina di famiglie che s'erano convertite all'islamismo, la fuga di Maometto col fido Abu Bekr. Giungeva a Yathrib probabilmente nel settembre del 622.

È da quella fuga e da quell'arrivo a Yathrib che la città prese il nome di Medina en Nabi, la città del Profeta. E dal 622 gli Arabi e tutti gli altri popoli musulmani fecero decorrere gli inizi della loro era: Egira, deformazione europea dell'arabo higjra, fuga.

Data di capitale importanza in tutto lo sviluppo della civiltà europea e quindi mondiale.

Senza l'Egira molti secoli di storia dell'Europa meridionale avrebbero un aspetto assai diverso e molti attuali problemi di politica orientale e coloniale o non si sarebbero presentati o avrebbero assunto una forma del tutto diversa.

Il trapiantamento di Maometto con i suoi piú fedeli seguaci a Yathrib, salvava l'islamismo. Ma questo, proprio in virtú di quel trapiantamento e sotto la pressione delle nuove circostanze in cui venne a svolgersi l'attività del profeta, subí una radicale trasformazione.

Se Maometto fosse rimasto alla Mecca accompagnato e favorito dal consenso cittadino, anziché osteggiato dalla circostante insidia, l'Islam, probabilmente, avrebbe mantenuto il suo carattere strettamente religioso, e non avrebbe mai cessato di essere un puro movimento di riforma locale, incapace di valicare i confini dell'Arabia e di sconvolgere, come di fatto sconvolse, tutta la economia e tutta la struttura morale e sociale del mondo mediterraneo, su cui Roma aveva gettato il prestigio del suo nome e della sua forza unitaria. A Medina invece, sotto l'assillo di elementi che Maometto non aveva affatto preveduto, si trasformò in un vasto e complesso sistema che veniva ad abbracciare ogni aspetto della vita individuale e sociale, come una guaina avvolge tutta una spada.

L'Islam, implicato in lotte locali che imposero a Maometto l'uso della forza in una maniera travalicante tutte le primitive intenzioni, assumeva carattere di universalità le cui conseguenze immediate furono le aspirazioni al dominio spirituale e materiale del mondo.

C'era qualche cosa di profetico e di arcaico nella primitiva predicazione di Maometto in quel ricinto sospettato e insidiato della Mecca.

La quinta surah del Corano, questa multiforme ed enciclopedica raccolta di tutte le sentenze cadute, genuinamente o no, dalle labbra di Maometto, nelle piú varie e drammatiche circostanze della sua vita, aveva proclamato: «In verità i Musulmani, gli Ebrei, i Cristiani, i Sabei, tutti coloro che credono in Dio e nella resurrezione, che compiono buone opere, sono giusti. Tutti costoro avranno parte ugualmente alla ricompensa data da Dio. Nessuno di loro conoscerà paura o sofferenza».

L'accettazione dell'Islam è pertanto alle prime origini del movimento cosa facile ed accessibile a tutti.

Si direbbe a prima vista che tale sistema religioso si riveli come una forma di espressione spirituale attagliata alle piú modeste possibilità umane.

Goethe disse una volta di fronte alle elementari consegne dell'islamismo: «Se questo è l'Islam, non siamo noi tutti musulmani?».

Qua e là compaiono nel Corano versetti incisivi che arieggiano molto da presso i precetti cristiani.

Quando nella surah undecima Maometto scrive: «Vinci il male col bene», egli non fa che ripetere una notissima consegna paolina.

Quando in un altro punto, alla surah quattordici, proclama: «Vuoi tu avvicinarti a Dio? Vivi nella purità e sii giusto», egli sembra riecheggiare la parola evangelica secondo cui la perfezione della vita religiosa consiste tutta nell'essere generosi e longanimi come quel Dio che fa piovere sopra giusti e sopra peccatori.

La mistica musulmana, in alcune delle sue forme piú alte, non fa altro che portare, si potrebbe dire, all'ultimo limite possibile, le prescrizioni piú alte della mistica e dell'ascesi, cosí pitagorica come cristiana.

Il grande mistico dell'Islam, Gelaleddin Rumi, ha condensato in un comandamento la sostanza della abnegazione spirituale: «Tu hai ricevuto nel medesimo tempo l'anima di una bestia e l'anima di un angelo. Rigetta da te l'anima della bestia e attua in te l'anima dell'angelo».

A Medina l'esperienza e l'orientamento di Maometto subiscono la piú radicale delle metamorfosi.

Qui egli si accinse a creare uno Stato.

La grande conquista del cristianesimo era stata quella di separare nettamente i valori politici dai valori religiosi. Cresciuto sotto la ferula della persecuzione romana, non aveva avuto ragione per tre secoli di occuparsi di politica terrena. E quando l'Impero romano si convertí con Costantino al cristianesimo, fu per il cristianesimo provvidenziale che Costantino trasportasse la sede a Bisanzio.

Il cristianesimo poté accingersi ad attuare la sua prodigiosa metodica sociale, ponendo la base dei suoi còmpiti nella tutela dei valori spirituali, e lasciando che altri si impegnasse nelle banali e logoranti preoccupazioni della costituzione empirica degli uomini.

La separazione dei poteri continuò ad essere automaticamente la divisa e lo spirito della sua metodica disciplinare in mezzo agli uomini.

A Bisanzio frattanto l'Impero, erede del programma totalitario della Roma pagana, veniva cercando di amalgamare e di coagulare intorno ai suoi poteri politici l'influenza docile e cedevole dell'episcopato orientale.

Quando dal deserto venne la riscossa islamica, la reviviscenza impetuosa di monoteismo biblico impersonata e guidata dalla figura di Maometto degenerò rapidissimamente dal suo iniziale programma profetico per divenire, sotto l'azione delle circostanze esteriori politiche, una contaminazione di religiosità e di politica di cui avrebbero sentito le funeste conseguenze tutti i valori della conquista cristiana.

A Medina, Maometto svolge opera fruttuosa di conciliazione fra i due gruppi arabi rivali della città.

Progressivamente Maometto si viene emancipando dal giudaismo e dal cristianesimo. L'emancipazione diventa poi opposizione.

Date le idee iniziali del profeta sui rapporti del suo messaggio con il cristianesimo e con il giudaismo, non è da supporre che egli pensasse ad una conversione in massa di quelle che egli riteneva altrettanto legittime rivelazioni dell'unico Iddio. Ma quelle idee appunto lo portarono logicamente ad aspettarsi che ebrei e cristiani l'avrebbero accolto come un fratello di fede, come il nuovo inviato di Dio al popolo arabo.

La rottura però era inevitabile. Gli ebrei di Medina, per le loro dottrine, non potevano riconoscere un inviato di Dio in chi non apparteneva al popolo eletto, né potevano ammettere come vero l'insegnamento di chi cadeva in grossolani abbagli in fatto di materia biblica e credeva in Gesù Cristo quale profeta nato miracolosamente da Maria Vergine per virtú dello Spirito Santo e proclamava l'equipollenza e la pari origine divina di tutte le religioni monoteistiche.

Constatato che, nonostante le sue esteriori concessioni, gli ebrei rimanevano refrattari al suo prestigio di profeta, Maometto passò ad una brutale offensiva.

Tutti gli eventi verificatisi nel decennio che Maometto visse ancora dopo la sua fuga a Medina nel 622, ebbero conseguenze di capitale importanza nello sviluppo esteriore dell'islamismo.

Le generazioni successive assunsero la condotta di Maometto nei singoli momenti di quel decennio, anche se ispirata da circostanze puramente transitorie e retta da un momentaneo capriccio, come fonte canonica di direttive universali e invariabili cosí nel campo religioso e politico come in quello giuridico e civile.

Quando nel 625 un esercito allestito dai Coreisciti e partito dalla Mecca, giunto all'oasi medinese, inflisse un serio scacco alle truppe di Maometto ma non osò attaccare la città, il profeta ne trasse occasione per ravvivare la fede dei suoi seguaci, proclamando che i caduti nella guerra contro gli infedeli, ossia per la causa di Dio, non sono morti, ma vivi e felici in cielo.

Quando pochi mesi dopo sbaragliò un gruppo ebraico dell'oasi medinese, Maometto, accampando una rivelazione celeste, ne confiscò i beni a vantaggio dello Stato. Il diritto pubblico islamico posteriore ricavò da questa confisca il carattere demaniale delle terre conquistate agli infedeli. E quando due anni dopo, in séguito ad un nuovo fallito attacco dei Coreisciti, Maometto abbatté l'ultimo gruppo ebraico rimasto nell'oasi, fece decapitare tutti gli uomini e vender come schiavi le donne e i fanciulli.

Il futuro diritto musulmano di guerra ne avrebbe tratto il principio che il sovrano possa fare legittimamente uccidere, quando lo stimi opportuno, i prigionieri di guerra non musulmani maschi, e possa vendere come schiavi le donne e i fanciulli.

Si comprende facilmente quale larga atmosfera di terrore dovesse determinare intorno alla crescente fortuna di Maometto questa politica militare selvaggia e razziatrice. È il medesimo terrore che avrebbe accompagnato nei decenni successivi l'irruzione fulminea dell'Islam fuori della penisola arabica nel mondo mediterraneo occidentale e orientale.

Consapevole di questa sua prepotente forza, Maometto dovette ben presto concepire il proposito di vincere quella Mecca che gli era stata cosí insidiosa ed infida. La sua riconciliazione con i Coreisciti prima, la sua entrata trionfale poi alla Mecca, nei primi del gennaio 630, furono un capolavoro di abilità e di sagacia.

Con in mano ormai il suo pieno successo, Maometto procedeva alla purificazione del vecchio centro arabico da ogni apparenza esteriore di paganesimo, concedeva un'amnistia quasi generale, vietava ogni bottino, ma sopprimeva in pari tempo il secolare regime oligarchico che aveva da generazioni e generazioni governato la città.

Nel marzo del 631 proclamava che per quel pellegrinaggio i politeisti avrebbero potuto per l'ultima volta avvicinarsi al territorio meccano. Il Corano dichiara, in questo epilogo della attività del profeta, che i politeisti sono sozzura e che con loro è impossibile stringere d'ora innanzi qualsiasi patto.

Era la diana di guerra contro i pagani, non piú perché aggressori e fedifraghi, ma perché sterminabili infedeli. Era il bando della guerra santa senza piú limiti e senza piú indugi.

Ormai Maometto aveva conchiuso la sua opera. Nel marzo del 632 compiva i complicati riti del pellegrinaggio ormai islamizzato.

Sull'altura di Arafah pronunciava il discorso del commiato. Tornato a Medina per preparare una spedizione contro la Palestina bizantina, si ammalava e moriva l'8 giugno 632.

L'epopea militare islamica cominciava.

Le tappe di questa epopea sono altrettante fulminee e sorprendenti vittorie. Intiere parti dell'Impero bizantino crollano dinanzi alla travolgente avanzata araba. Come nei vecchissimi tempi biblici tribú del deserto avevano, a mano armata, aperto il varco della loro avanzata verso le sedi della loro trasformata vita sedentaria, ora, nel nome di Allah e del suo profeta Maometto, questa nuova irruzione partita dal deserto travolge sul suo cammino, nel nome di un Dio bellicoso e vendicativo, ogni resistenza di istituti e di armate.

La civiltà raffinata è sempre destinata a precipitare dinanzi alla esplosione dello spirito militaresco, quando questo sia avvivato da un mito e da una idea-forza fatta promiscuamente di rassegnazione alla volontà di una potenza trascendente e di affascinato entusiasmo dinanzi ad un mitico guiderdone ultraterreno?

Nel 634 le forze armate dell'Islam si impadroniscono della fortezza bizantina di Bosra al di là del Giordano. Un anno dopo cade Damasco e un anno ancora piú tardi la fortunata battaglia dello Yarmuk dà ai musulmani tutta la Siria. Ancora un anno e Gerusalemme aprirà ad essi le porte, mentre altri eserciti islamici conquistano la Mesopotamia e la Persia.

Ancora un paio d'anni e l'Egitto sarà attaccato a sua volta. Un quinquennio piú tardi la spinta islamica si espande verso l'Africa settentrionale. Sebbene i Berberi, dimenticando ogni loro vecchia ostilità verso i Romani e i romanizzati, dessero tutta la loro cooperazione per resistere all'invasore, e sebbene si comprendesse appieno l'importanza dell'Africa, la conquista della quale, compiuta dai Vandali, aveva già determinato il tramonto dell'Impero occidentale, anche qui l'irruzione islamica ebbe ragione di qualsiasi resistenza.

A meno di cinquant'anni di distanza dal primo sciamare delle forze islamiche fuori dell'Arabia, Ogba, con uno slancio impetuoso, riusciva a toccare le rive dell'Atlantico. E sebbene la reazione dei Berberi e dei Romani facesse precaria la sua occupazione, oramai il gran passo era stato compiuto.

Al tramonto del secolo settimo Cartagine era definitivamente in mano musulmana.

Nel 713 Musa, il governatore dell'Africa del Nord, proclamava nella capitale di Toledo la sovranità del califfo di Damasco. Lo stretto di Gibilterra non era stato tale da arrestare i conquistatori e come sempre la conquista della Spagna era la conseguenza naturale dell'occupazione dell'Africa settentrionale.

E ancora, occupata la Spagna, come non continuare la marcia verso la Gallia Narbonese? Ed ecco che, completata appena la sottomissione della penisola spagnola, i musulmani nel 720 si impadronivano di Narbona passando poi all'assedio di Tolosa.

Questa trionfale marcia, che ha qualche cosa di leggendario e di fantastico, doveva sortire le conseguenze piú profonde e le ripercussioni piú vaste in tutti i tessuti della vita europea e in tutte le ramificazioni della vecchia vita romana e bizantina.

Il mondo mediterraneo veniva spezzato e lacerato per la prima volta dall'epoca della costituzione imperiale augustea.

Roma aveva vittoriosamente disseminato il sincretismo felice della civiltà in mezzo a tutti i popoli rivieraschi del suo mare. Aveva costituito una saldissima unità morale, politica, culturale, istituzionale. Gli scrittori cristiani dell'epoca di Agostino avevano parlato correntemente di una Romània, il cui volto era uguale cosí sul Tevere come sul Nilo, cosí sull'Ebro come sulle rive dell'Ellesponto.

Lo spostamento della capitale imperiale, effettuato con mossa gravida di conseguenze dal primo imperatore cristiano, Costantino, aveva certamente fatto deviare correnti di traffico e spostato tradizioni burocratiche.

Ma Roma non aveva ancora perduto per questo il suo prestigio soggiogatore, e su tutte le vie del mondo gravitante verso il Mediterraneo Roma conservava la sua virtú dominatrice. Le stesse popolazioni barbariche, entrando nella Romània, si romanizzavano automaticamente e irresistibilmente.

Con la irruzione islamica qualcosa di completamente nuovo entrava nell'economia del mondo romanizzato.

L'islamita non si romanizza toccando territori della Romània: al contrario, arabizza i paesi ed i popoli su cui stende la sua totalitaria conquista.

Avendo alle spalle un messaggio religioso originale che identificava il problema della salvezza individuale col programma della conquista militare armata, l'Islam faceva delle sue orde masse incandescenti che bruciavano e svellevano tutto sul loro cammino.

La Romània mediterranea subiva cosí una lacerazione e un rovesciamento che dovevano avere conseguenze incalcolabili, durate si può dire fino agli albori dell'età moderna.

Sulle sponde di quello che i Romani chiamarono «mare nostrum» vennero ora a installarsi l'una di fronte all'altra due civiltà nettamente diverse e irriducibilmente ostili. La grande unità mediterranea si rompeva, e il mare che aveva fino allora rappresentato il luogo di raccolta di tutta la vasta famiglia di popoli romano-cristiani, veniva a costituire una frontiera fra due civiltà e due spiritualità.

Bisanzio se ne rifaceva cercando di propagare la sua influenza cosí politica come religiosa al Nord. Roma se ne rifaceva a sua volta cercando di gettare verso il territorio settentrionale del continente europeo i ponti di una ricostituzione politica unitaria che avrebbe dovuto, meglio ancora che Bisanzio, attingere da lei il prestigio e la disciplina.

Se la Romània era sopravvissuta alle irruzioni barbariche, non poté sopravvivere alla espansione dell'Islam, che, propagandosi fulmineamente per tutto il bacino del Mediterraneo, determina rivolgimenti sostanziali cosí ad oriente come ad occidente dell'Europa.

Pur non riuscendo a conglobare tutto il Mediterraneo, l'espansione islamica lo accerchiò ad est, a sud e ad ovest. Non riuscí a penetrare al Nord, per cui veramente l'antico mare romano segnò l'abissale limite confinale fra cristianesimo e islamismo. Tutte le antiche provincie mediterranee conquistate dai musulmani gravitarono verso Bagdad. In pari tempo l'Occidente venne bruscamente separato dall'Oriente.

Le conseguenze economiche e morali di questo fatto furono imponderabilmente serie.

Mentre, finché il Mediterraneo fu mondo romano-cristiano, il commercio occidentale fu tutto avvivato dalla libera navigazione in quello che è stato definito un grandissimo lago con centri principali nella Siria e nell'Egitto, ora, rarefacendosi le comunicazioni marittime, si intensificano gli scambi con il Settentrione e le comunicazioni dei paesi rivieraschi del Nord del Mediterraneo con il loro retroterra continentale.

Noi possiamo osservare le conseguenze di questo stato di fatto in tutte le manifestazioni della vita collettiva europea. Tipica a questo riguardo l'evoluzione monetaria. Il vecchio sistema monetario romano e mediterraneo sopravvive per poco alla irruzione islamica. Con l'avvento dei Carolingi si ebbero due sistemi monetari in Europa corrispondenti ciascuno ad un campo economico particolare, il bizantino e il carolingio, occidentale e orientale.

L'Islam si insinua come un cuneo tra le due parti del vecchio Impero romano, e ne determina cosí indirettamente quella costituzione autonoma e quella separazione radicale che dovevano avere nello scoppio dell'iconoclastia e delle sue conseguenze l'espressione tangibile.

Bisanzio porta fino alla suprema consumazione quelle tendenze cesaro-papistiche che si era portate in grembo fin da quando Costantino, facendola capitale dell'Impero, aveva asservito a sé l'episcopato, proclamandosi egli stesso vescovo per gli affari esteriori.

Roma, provvedendo al proprio autonomo destino e realizzando fino alle forme definitive del nuovo Impero occidentale la sua dialettica disciplinatrice consistente nel fare azione sociale pure circoscrivendo i suoi interessi piú vivi alle realtà dello spirito e alle visuali del Regno trascendente di Dio, apriva all'Occidente europeo tutta una nuova storia.

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